Saturnus – Saturn In Ascension

“Saturn In Ascension” è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic

E’ passato ormai circa un anno e mezzo ma ho ancora negli occhi, nella mente e nel cuore, come fosse ieri, la magnifica esibizione dei Saturnus al Carlito’s Way nella loro prima data italiana di sempre: pur di fronte a pochi ma entusiasti fan, la band danese, rimessasi in pista dopo un lungo silenzio con un line-up rinnovata, sciorinò, oltre a tutti i propri cavalli di battaglia (tra i quali un’epocale versione di “I Long”) anche due nuove tracce il cui valore intrinseco, ravvisabile già ad un primo ascolto, faceva intuire lo spessore di quello che sarebbe stato il sospirato ritorno discografico intitolato Saturn In Ascension.

Risolti i problemi di carattere contrattuale e accasatisi con la Cyclone Empire, i nostri hanno così mantenuto la loro media di un album ogni cinque-sei anni ma, alla luce dei risultati ottenuti nel passato e nel presente, tali lunghe attese sono sempre state ripagate con gli interessi.
Dopo l’uscita di un disco dal livello apparentemente irripetibile come “Veronika Decides To Die”, datato 2006, Thomas Jensen ha fortunatamente deciso di ridare impulso alla sua band, che si trovava in una fase di stand-by, richiamando a sé due musicisti che erano già stati presenti in formazione nel passato, il bassista Brian Hansen e il batterista Henrik Glass, e individuando una nuova coppia di chitarristi in Rune Stiassny e in Mattias Svensson (quest’ultimo ha abbandonato la band poco dopo la fine delle registrazioni). Dopo un lungo tour, che come detto, ha per la prima volta toccato anche il suolo italico, il combo danese quindi pone fine a un lungo silenzio discografico con un album che, come era facile intuire dalle premesse, non delude affatto andandosi a collocare sui livelli del suo predecessore.
Per chi non conoscesse sufficientemente la musica dei Saturnus, si può provare a sintetizzarne le caratteristiche come una sorta di evoluzione in senso melodico dei My Dying Bride epoca “The Angel And The Dark River” e “Like Gods Of The Sun”; infatti, laddove la poetica della band di Aaron Stainthorpe si ammanta di una decadente morbosità, Thomas e co. portano alle estreme conseguenze l’aspetto malinconico arrivando a toccare costantemente i tasti giusti per indurre alla commozione l’ascoltatore.
Non c’è dubbio che, per amare i Saturnus, sia necessario essere dotati di una particolare predisposizione che consenta di assaporare in maniera assoluta le emozioni che vengono evocate da ogni loro brano, ed è proprio grazie a queste peculiarità che l’ascolto di “Saturn In Ascension” si rivelerà un’esperienza irrinunciabile.
Se “Veronika …” disarmava qualsiasi difesa già con l’opener-capolavoro “I Long”, Saturn … non è da meno grazie alla fantastica accoppiata iniziale Litany Of Rain – Wind Torn, venti minuti complessivi che fanno da ideale ponte tra i due lavori tramite le dolenti pennellate chitarristiche di Rune, alternate al massiccio e caratteristico growl di Thomas; A Lonely Passage e Call Of The Raven Moon costituiscono, all’interno del disco, due parentesi intimistiche nelle quali il vocalist recita i propri testi melanconici adagiandoli su un delicato tessuto di arpeggi chitarristici.
A Father’s Providence appartiene alla categoria dei brani più movimentati dei maestri danesi, in questo simile a “Pretend” e “Murky Waters” del precedente disco, mentre Mourning Sun costituisce il picco qualitativo dell’album, con le sue atmosfere leggermente più cupe rispetto al contesto complessivo, graziate da una chitarra solista che ricama melodie di mesta bellezza e con un Thomas che sfodera un’interpretazione di rara intensità.
Forest Of Insomnia e Between chiudono il disco così com’era cominciato e l’ultimo minuto di Saturn In Ascension vede Rune ergersi per l’ultima volta sul proscenio con una linea melodica che commuoverebbe anche il più efferato dei serial killer …
Dopo settanta minuti di poesia allo stato puro, bisogna però dire che appare piuttosto opinabile la scelta di inserire come bonus track “Limbs Of Crystal Clear”, primo brano in ordine temporale pubblicato dai Saturnus e presente sul demo d’esordio datato 1994: un’operazione alla quale possiamo assegnare un significato quasi “archeologico” considerando la distanza, non solo temporale, tra questa vecchia traccia e quelle attuali.
A chi dovesse possedere, quindi, questa versione dell’album, consiglio vivamente di staccare il lettore dopo l’ultima nota di Between per conservare il più a lungo possibile la magia indotta dall’ascolto degli otto brani inediti, riservandosi magari di prestare orecchio in un secondo tempo a questa tangibile testimonianza di quella che è stata l’evoluzione stilistica della band.
Saturn In Ascension è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic; un altro lavoro superbo per una band straordinaria alla quale chiediamo solo, cortesemente, di non farci attendere fino al 2018 per un nuovo disco …

Tracklist :
1. Litany of Rain
2. Wind Torn
3. A Lonely Passage
4. A Father’s Providence
5. Mourning Sun
6. Call of the Raven Moon
7. Forest of Insomnia
8. Between

Line-up :
Brian Hansen – Bass
Thomas Jensen – Vocals
Henrik Glass – Drums
Rune Stiassny – Guitars, Keyboard
Mattias Svensson – Guitars

Secret Sphere – Portrait of a Dying Heart

I Secret Sphere, con Portrait Of A Dying Heart, giungono al disco che, qualora non li porti alla meritata consacrazione, sarà giusto allora che la nefasta profezia dei Maya si avveri facendo piazza pulita di questa piccola porzione di universo …

Con una storia ultradecennale alle spalle e ben sei full length pubblicati in precedenza, gli alessandrini Secret Sphere, con Portrait Of A Dying Heart, giungono al disco che, qualora non li porti alla meritata consacrazione, sarà giusto allora che la nefasta profezia dei Maya si avveri facendo piazza pulita di questa piccola porzione di universo …

Dopo un buon album come “Alchemist”, rimpiazzare lo storico cantante della band, Roberto Messina, poteva costituire un problema non da poco, brillantemente superato reclutando quella che forse è la migliore voce in circolazione sul suolo italico. Infatti, senza voler nulla togliere a chi l’ha preceduto, Michele Luppi costituisce un valore aggiunto per qualsiasi band e in qualsiasi genere si cimenti. Nonostante egli stesso si consideri un vocalist più orientato verso un hard rock di stampo classico, a mio avviso invece è proprio quando la sua timbrica si intreccia con partiture più robuste, come in questo caso o nel recente passato con i Vision Divine, che il cantante emiliano offre il meglio di se stesso. Se a tutto questo aggiungiamo una band fatta di musicisti dalla tecnica ineccepibile, in grado di passare con disinvoltura da uno strumentale come la title track posta in apertura, degna dei Dream Theater più ispirati, a un brano dalle melodie sognanti come Eternity, che chiude l’album in maniera superlativa, ecco spiegati i motivi della perfetta riuscita dell’album. Ma anche tutto ciò che è racchiuso tra queste due tracce si pone allo stesso livello, a partire da X, che appare quasi un prolungamento del brano precedente prima di evolversi in un power prog vario e trascinante e con un Luppi autore di un crescendo vocale impressionante o The Kill, una vera mazzata nella quale la melodia però resta sempre e comunque un punto di riferimento imprescindibile. Healing possiede armonie irresistibili e sembra essere il classico brano sul quale costruire un video mentre Lie To Me è breve ma dalla grande intensità, che va ulteriormente a crescere nelle conclusive The Rising Of Love ed Eternity, brano quest’ultimo, nel quale tutta la band si esprime ancora una volta a un livello stellare assecondando una prestazione vocale di Luppi da brividi. Dopo anni di impegno contraddistinti da ottima musica, rimasta purtroppo un po’ lontana dai riflettori, si può tranquillamente affermare che Aldo Lonobile e Andrea Buratto hanno trovato la quadratura del cerchio per la band che hanno contribuito a far nascere: questo disco ancor prima della sua uscita ha già raccolto consensi unanimi, non solo in Italia, e questo non può che rallegrarci. Poi, sicuramente ci sarà ancora, come sempre accade e sempre accadrà, qualcuno che non ascolterà neppure una nota di questo disco salvo precipitarsi a fare proprio l’ultimo lavoro di una delle tante band di grido che, ormai da anni, non fanno altro che replicare se stesse, timbrando il cartellino con la stessa puntualità ed entusiasmo dell’ultimo dei “travet” … Un errore nel quale non cadrà, invece, chi nella musica ricerca autentiche emozioni e non una mera esibizione di tecnica fine a se stessa.

Tracklist :
1. Portrait of a Dying Heart
2. X
3. Wish & Steadiness
4. Union
5. The Fall
6. Healing
7. Lie to Me
8. Secrets Fear
9. The Rising of Love
10. Eternity

Line-up :
Andrea Buratto – Bass
Aldo Lonobile – Guitars (lead)
Federico Pennazzato – Drums
Marco Pastorino – Guitars
Gabriele Ciaccia – Keyboards
Michele Luppi – Vocals

SECRET SPHERE – Facebook

Worship – Terranean Wake

I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile

I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile; i tedeschi fanno propria la lezione dei padri Thergothon (sentitevi la loro versione di “Evoken” nello splendido album tributo alla seminale band finlandese) portandone alle estreme conseguenze il rallentamento dei suoni, aspetto, questo, che potrebbe apparire paradossale se pensiamo che la caratteristica peculiare del funeral è proprio la dilatazione ossessiva delle note.

In attività ormai da oltre un decennio, i Worship con Terranean Wake sarebbero in teoria solo al loro secondo full-length, dopo l’ormai lontano “Dooom” del 2007, ma di fatto, il demo d’esordio “ Last Tape Before Doomsday” (1999) viene considerato alla stregua di un album vero e proprio, essendo stato unanimemente individuato come l’autentico manifesto musicale del combo bavarese.
Probabilmente la storia di questa magnifica realtà musicale sarebbe stata diversa se nel 2001 uno dei due membri fondatori, Max Varnier, non si fosse tragicamente tolto la vita. Rimasto senza il suo compagno d’avventura, Daniel “The Doommonger” Pharos ha atteso ben sei anni prima di dare alle stampe il magnifico “Dooom”, che presentava anche le versioni ultimate di alcuni brani incompiuti composti da Max. Dopo aver ricostituito una line-up completa, Daniel in questo Terranean Wake propone materiale del tutto inedito e, soprattutto, di produzione recente.
Nonostante questo, il particolare trademark della band tedesca non viene certamente meno e, a mio avviso, voler paragonare questa uscita a quelle precedenti appare un’operazione tutto sommato superflua: del resto il funeral dei Worship resta, come in passato, quanto di più simile possa esistere in campo musicale alla rappresentazione degli ultimi ansiti vitali di un organismo morente. Note dilatate all’inverosimile paiono essere ogni volta il preludio della fine, offrendo un senso di autentico soffocamento salvo poi arrancare anelando l’ultima particella d’ossigeno nel ripartire per l’ennesimo ciclo di questa interminabile agonia. Personalmente ritengo la creatura di Daniel Pharos qualcosa di unico, non solo nel variegato panorama metal, ma anche in quello più ristretto del doom estremo: chi si cimenta nell’ascolto dovrà percorrere una strada lunga, tortuosa e lastricata di sofferenza; ogni volta si proveranno sensazioni diverse rispetto all’occasione precedente, non sempre in senso positivo, giacché la diversa predisposizione d’animo con la quale ci si approccia ai Worship può determinare indifferentemente una dipendenza assoluta o un rifiuto totale e incondizionato.
Resta comunque, come punto fermo, l’elevato valore di un disco suonato e composto da musicisti perfettamente consci di presentare un lavoro dal target quanto mai ristretto e dedicato a pochi ma devoti appassionati.
Tide of Terminus, The Second Coming Apart, Fear Is My Temple e End of an Aeviturne sono solo i diversi titoli che separano in quattro parti un monolite di dolore rappresentato in maniera impietosa, senza alcun intento né effetto catartico: una fine ineluttabile, lenta e spaventosa, attende prima o poi ciascun essere pensante e (apparentemente) vivente su questo pianeta, e i Worship ce lo ricordano utilizzando per i loro testi ben tre lingue diverse (inglese, francese e tedesco) nel corso di Terranean Wake , quasi a voler essere certi che il loro messaggio di desolante rassegnazione giunga più efficacemente a destinazione …

Trackist :
1. Terranean Wake I – Tide of Terminus
2. Terranean Wake II – The Second Coming Apart
3. Terranean Wake III – Fear Is My Temple
4. Terranean Wake IV – End of an Aeviturne

Line-up :
The Doommonger – Guitars (lead), Vocals
Satachrist –  Guitars (rhythm)
Gravedrummer – Drums
Doomnike – Bass

Zombified – Carnage Slaughter And Death

Dal punto di vista dei contenuti, come diceva un compianto allenatore di calcio, qui non si fanno né voli pindarici né poesia, l’intero lavoro è una terrificante mazzata che si abbatte tra capo e collo dell’ascoltatore

Ancora death metal di matrice svedese per la Cyclone Empire: questa volta tocca agli Zombified provare a ritagliarsi uno spazio nell’affollato ambiente del metal estremo.

La band di Vastervik, al secondo full-length, dopo l’esordio risalente a due anni fa, si rende protagonista di un feroce assalto sonoro all’insegna di un death-grindcore di buonissimo livello; le bordate del quartetto si rivelano impietosamente prive di compromessi, senza mai perdere un’oncia di intensità nel corso della dozzina di brani presenti in Carnage Slaughter And Death.
Nonostante, come detto, gli Zombified siano solo alla seconda prova su lunga distanza, i componenti della band sono tutt’altro che inesperti, trattandosi di musicisti già coinvolti da tempo in altre band della scena svedese; tra questi il più noto è forse Roberth Karlsson, cantante anche nei ben più melodici Scar Symmetry, che qui può sfogare, in un ambito che maggiormente gli si addice, il proprio efferato growl.
Patrik Myren e Par Fransson, chitarristi e membri fondatori, assieme al drummer Matthias Fiebig (successivamente alla fine delle registrazioni rimpiazzato da Jacob Johansson) fanno dannatamente bene il loro lavoro, alzando di rado il piede dall’acceleratore senza per questo sacrificare l’aspetto tecnico e la nitidezza del suono.
Dal punto di vista dei contenuti, come diceva un compianto allenatore di calcio, qui non si fanno né voli pindarici né poesia, l’intero lavoro è una terrificante mazzata che si abbatte tra capo e collo dell’ascoltatore e, pur non brillando certo per varietà o spunti innovativi, si rivela di un’intensità mostruosa nonché un’autentica goduria per gli appassionati di queste sonorità.
Insomma, se avete avuto una brutta giornata, al rientro a casa l’ascolto di Carnage Slaughter And Death con volume a undici può contribuire efficacemente a scaricare la rabbia o la tensione accumulata, oltretutto in maniera più rapida e divertente di qualsiasi seduta di yoga, reiki o altre pur nobilissime discipline orientali.

Tracklist :
1. Carnage Slaughter and Death
2. Pull the Trigger
3. Withering Souls
4. Suffering Ascends
5. Endless Days of Wrath
6. Clenched Fist Vengeance
7. Reborn in Sin
8. Corrosive Spiral
9. The Flesh of the Living
10. The Last Stand
11. Slayer Fashion
12. Reign of Terror

Line-up :
Patrik Myrén Guitars
Par Fransson Guitars
Roberth Karlsson Vocals, Bass
Jacob Johansson Drums

Abbas Taeter – Oblio

Mancan sfrutta quest’occasione per sfogare in maniera più immediata e senza alcuna mediazione il suo retaggio black metal e la sua passione e conoscenza delle tematiche occulte ed esoteriche.

Mancan non è certo tipo che ami stare con le mani in mano: a meno di un anno dall’uscita di “Inferno”, per chi scrive uno dei migliori album incisi in Italia negli ultimi anni, e a pochi mesi dalla pubblicazione della raccolta retrospettiva “Cold Winds From Beyond”, recupera il suo progetto Abbas Taeter dopo averlo accantonato per qualche tempo.

A differenza di quanto avviene nella sua band principale, il musicista lucano sfrutta quest’occasione per sfogare in maniera più immediata e senza alcuna mediazione il suo retaggio black metal e la sua passione e conoscenza delle tematiche occulte ed esoteriche.
Abbas Taeter è in pratica una one-man band, in particolare se prendiamo in considerazione il materiale inedito presente su Oblio che, infatti, oltre ai primi sei brani di nuova realizzazione, comprende anche la riproposizione di gran parte delle tracce presenti sul precedente “Infernalia”, album contraddistinto invece dalla presenza di diversi ospiti; va detto che queste due parti si amalgamano in maniera naturale e spontanea, nonostante la composizione dei brani risalga a periodi diversi, consentendo al lavoro di conservare nel suo complesso una sufficiente omogeneità stilistica.
Dal punto di vista musicale il black espresso da Abbas Taeter si riallaccia alla tradizione con suoni diretti, non troppo elaborati, ma sempre di grande efficacia; Mancan riesce nell’intento di interpretare il genere nella sua espressione più genuina, affidandosi ad una produzione essenziale senza cadere nella tentazione di sfruttare al massimo le attuali tecnologie, col rischio di rendere il suono artefatto e plastificato. Dal punto di vista lirico, invece, il musicista potentino esprime in maniera credibile la propria concezione filosofica esaltando la spiritualità e i valori del passato, elementi che contribuiscono alla raffigurazione di quest’opera come (da sua stessa definizione) “l’Antimodernità contro il Nulla che avanza”
Oblio inizia con Inverno Eterno che introduce uno degli episodi migliori, Tetro Lamento, dalle linee melodiche coinvolgenti e dalle ritmiche trascinanti. Preda, invece, esula parzialmente dal contesto del lavoro, perlomeno dal punto di vista lirico, trattandosi di una vera e propria invettiva nei confronti di quelle persone che un po’ in tutti i settori praticano una fastidiosa forma di parassitismo esistenziale: non solo rabbia ma anche molto sarcasmo, nel solco della “Chiesa Nera” di “Inferno”.
Rito dei Fuochi Pagani è un altro magnifico brano che ci riporta alla raffigurazione di riti esoterici e blasfemi ambientati sulle gelide pendici del nostro Appennino, mentre Dannati Dall’Oblio è un’avvincente traccia dai ritmi maggiormente cadenzati; la parte costituita dagli inediti è chiusa degnamente dall’acustica poesia di Antico Sentiero.
Vetusta Abbazia inaugura i brani provenienti da “Infernalia” riportandoci alla descrizione di riti occulti e profanatori, che questa volta vengono officiati all’interno di un luogo normalmente destinato a culti più “tradizionali”; la successiva Sanctus In Tenebris rappresenta la quintessenza del black metal: grandi melodie chitarristiche e una voce abrasiva poggiate su una base ritmica martellante.
In questa seconda parte le altre due tracce da rimarcare sono La Notte del Culto e Vitriol, ulteriori conferme della bontà di un’operazione che sarebbe riduttivo considerare un semplice diversivo per Mancan: Abbas Taeter è un progetto importante, che rappresenta una sorta di riaffermazione delle proprie radici musicali, storiche e filosofiche da parte di un’artista tra i più brillanti del nostro panorama musicale.
Oblio, collocandosi su un differente terreno musicale e lirico, potrebbe anche non fare breccia su chi, invece, ha apprezzato “Inferno”; l’errore più grave però sarebbe quello di un approccio superficiale nei confronti di un album che, al contrario, va assaporato con particolare dedizione rivelando così, ascolto dopo ascolto, tutto il suo valore.

Tracklist :
1. Inverno Eterno (Intro)
2. Tetro Lamento
3. Preda
4. Rito dei Fuochi Pagani
5. Dannati dall’Oblio
6. Antico Sentiero
7. Vetusta Abbazia
8. Sanctus in Tenebris
9. Hiemis Sevitia
10. La Notte del Culto
11. La Camera delle Torture
12. Vitriol
13. Obedimus

Line-up :
Mancan – voce, cori, chitarra, basso, tastiere

Ospiti :
Atlos – batteria in “Infernalia”
Ramgval – basso in “Infernalia”
Sicarius – Pianoforte in “Oblio” e tastiere in “V.i.t.r.i.o.l.”
Cabal Dark Moon – voci aggiunte in “Infernalia” e “La camera delle torture”

Gloria Morti – Lateral Constraint

Una prova di grande maturità per una band in costante crescita e un disco che non deluderà chi vorrà provare a dargli un ascolto.

Lateral Constraint è il quarto album per i Gloria Morti, band finlandese attiva da oltre un decennio ma che solo in questi ultimi anni sembra aver intensificato le proprie uscite discografiche; con questo lavoro approda a un solido black death che, pur non apportando novità sostanziali ai consueti schemi compositivi, si dimostra di pregevole fattura in ogni suo frangente.

Le coordinate stilistiche vanno ricercate in primis nei Behemoth, stemperandone però gli aspetti maggiormente brutali attraverso ben dosati momenti dal flavour epicheggiante, sulla falsariga delle migliori uscite dei connazionali Catamenia. Il risultato è una serie di brani potenti e grintosi ma ben memorizzabili proprio grazie alla capacità della band di amalgamare l’impatto della componente death con le linee melodiche tipiche del black, senza dover ricorrere, come invece accade sovente, a un massiccio uso delle tastiere. Così brani come The First Act, HalluciNations e Non-Believer si rivelano gli episodi migliori di un album che si dimostra comunque efficace nel suo insieme, riuscendo a gratificare sia chi predilige sonorità corpose, arricchite dal growl spietato di Psycho, sia chi ricerca le tipiche melodie adagiate su un tappeto fatto di furiosi blast beat . Decisamente una prova di grande maturità per una band in costante crescita e un disco che non deluderà chi vorrà provare a dargli un ascolto.

Tracklist :
1. Lex Parsimoniae
2. The First Act
3. Our God Is War
4. Aesthetics of Self-Hyperbole
5. Sleep, Kill, Regress, Follow
6. HalluciNations
7. Slaves
8. Non-Believer
9. The Divine Is a Fraud
10. Conclusion

Line-up :
Aki Salonen – Bass
Juho Räihä – Guitars
Psycho – Vocals
Kauko Kuusisalo – Drums
Eero Silvonen – Guitars

Narrow House – A Key To Panngrieb

“A Key To Panngrieb” si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza

I Narrow House appartengono alla nutrita schiera di band dedite a sonorità funeral doom che, in questi ultimi anni, stanno emergendo dai territori dell’ex-Unione Sovietica.

I nostri, nello specifico, arrivano dalla capitale dell’Ucraina, Kiev, e con A Key To Panngrieb pubblicano il loro esordio assoluto; in casi come questi non è infrequente imbattersi in lavori a dir poco minimali oppure suonati in maniera approssimativa e prodotti ancora peggio.
Per fortuna tutto ciò non accade ai Narrow House, che propongono un buonissimo disco ricco di atmosfere tetre quanto eleganti, andandosi a collocare non troppo lontano dalle quanto già fatto dagli ex-connazionali Comatose Vigil e, quindi, mostrando tutta loro devozione verso gli Skepticism, autentici numi tutelari di questa variante atmosferica del funeral.
Nell’esaminare l’album, si nota che i primi tre brani (i titoli in inglese sono frutto di una libera traduzione dal cirillico, quindi non è detto che siano corretti al 100%), nell’arco di mezz’ora abbondante di musica si mantengono abbondantemente all’interno dei binari tracciati da molte altre band, ma non per questo il lavoro del quartetto ucraino deve essere trascurato, tutt’altro: il suono mantiene costantemente un preciso disegno melodico grazie ad atmosfere struggenti sulle quali troneggia il growl maligno di Yegor.
Un discorso a parte va fatto per il quarto e ultimo brano che, in effetti, mostrerebbe interessanti elementi di discontinuità rispetto al resto delle tracce, se non si trattasse della cover (ben camuffata inizialmente dal solito titolo in cirillico) di “Beneath This Face” degli Esoteric.
Complessivamente A Key To Panngrieb si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza; inoltre, considerando che il contenuto di questo lavoro è frutto di una gestazione durata circa due anni e che, nel frattempo, la band ucraina può e deve essere ulteriormente maturata, mi sento di scommettere qualche euro su un prossimo full-length in grado davvero di lasciare il segno.

Tracklist :
1. The Last Refuge
2. Psevdoryatunok
3. The Glass God
4. Beneath This Face

Line-up :
Atya – Keyboards
Yegor Bewitched – Vocals, Bass
Oleg Merethir – Guitars
Petro Arhe – Drums
Alexander – Cello

NARROW HOUSE – Facebook

Dawn Of Winter – The Skull Of The Sorcerer

Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.

I Dawn Of Winter appartengono alla categoria delle band di culto, ovvero sconosciute ai più ma con uno zoccolo duro di sostenitori, caratteristica accentuata da una produzione piuttosto avara considerando i due soli full-length pubblicati in oltre un ventennio di attività.

Proprio in occasione del ventiduesimo anno di fondazione della band, i doomsters tedeschi hanno dato alle stampe questo Ep che ne conferma lo status offrendo una ventina di minuti di musica del destino di ottima qualità. L’elemento di spicco della band è il vocalist Gerrit Mutz, più conosciuto nell’ambiente per le sue performance con i Sacred Steel, anche se a mio avviso è proprio con i Dawn Of Winter che offre il meglio delle proprie capacità, forse perché un genere come il doom lo costringe in qualche modo a una prestazione più sobria e controllata rispetto a quanto abituato a fare allorchè si trova alle prese con il power metal. Infatti Gerrit riesce a conferire al suo operato, senza strafare, una discreta varietà vocale, passando dalle timbriche evocative e stentoree di stampo Marcolin o Lowe a quelle più rabbiose che gli sono abituali in altri contesti, spesso facendolo all’interno della medesima strofa: l’effetto si rivela davvero interessante e fornisce un piccolo elemento di novità in un lavoro che, al contrario, è perfettamente in linea con i dettami del genere. Candlemass, Solitude Aeturnus e Pentagram sono i termini di paragone più calzanti per il contenuto musicale di questi quattro brani, neppure troppo lunghi per gli standard tipici del doom; mentre le due tracce più brevi Dagon’s Blood e By the Blessing of Death si rivelano maggiormente dinamiche e ritmate, la title track e In Servitude to Destiny mostrano il lato più tormentato e malinconico del quartetto tedesco e ci fanno rimpiangere che questo sia solo un breve Ep e non un album completo. Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.

Tracklist :
1. Dagon’s Blood
2. The Skull of the Sorcerer
3. By the Blessing of Death
4. In Servitude to Destiny

Line-up :
Gerrit P. Mutz – Vocals, Guitars
Joachim “Bolle” Schmalzried – Bass
Jörg M. Knittel – Guitars
Dennis Schediwy – Drums

Ragnarok – Malediction

I Ragnarok rappresentano l’integrità e l’essenza primaria del black metal: suoni diretti e penetranti, testi improntati al livore anti religioso e al paganesimo, nessuna concessione a contaminazioni o sperimentazioni stilistiche, tutto questo, tra l’altro, esibendo una tecnica di prim’ordine.

Chiariamo subito che poco ci importa dell’annoso dibattito incentrato su quale sia il black metal vero e quale quello finto: le progressioni verso suoni talvolta lontani dai canoni definiti negli anni’90 sono gradite e apprezzate quanto lo è la riproposizione coerente e competente di un sound che, in questo caso specifico, mantiene intatto il suo carico di malvagità e il suo colore nero pece come impone la sua “ragione sociale”.
Tre quarti d’ora di musica dalla grande intensità che risollevano le sorti dell’asfittico black norvegese di questi tempi, tanto da dover cedere progressivamente la supremazia scandinava ai vicini svedesi: questa è la fotografia di Malediction, che fin dalla copertina blasfema al punto giusto, fa capire che Jontho e co. non sono disposti a fare alcuno sconto.
Non aspettatevi però una sequela di brani brutali ai limiti del parossismo: non di rado le chitarre di DezeptiCunt e Bolverk si librano in brevi ma efficaci passaggi di matrice classica o in riff che seguono linee melodiche ben distinguibili, pur se incuneate tra il blast beat furioso di Jontho e lo screaming abrasivo di HansFyrste; Demon in My View, Necromantic Summoning Ritual e Dystocratic sono solo alcuni dei brani che sono esplicativi del tipo di sonorità che bisogna attendersi dai Ragnarok.
Prova maiuscola, quindi, per una band che, nonostante il livello costantemente alto delle proprie uscite discografiche in una carriera quasi ventennale, ha forse sofferto in passato in termini di popolarità della presenza ingombrante di nomi più reclamizzati. Oggi, invece, tra split, produzioni non entusiasmanti e approdi a sonorità avanguardistiche da parte di tutte queste band, i nostri si issano allo status di portabandiera del movimento,
Se qualcuno pensa che il black metal, nella sua accezione originaria, sia morto e sepolto provi ad ascoltare con attenzione questo disco: non è mai troppo tardi per rivedere le proprie convinzioni ….

Tracklist :
1. Blood of Saints
2. Demon in My View
3. Necromantic Summoning Ritual
4. Divide et Impera
5. (Dolce et Decorum est) Pro Patria Mori
6. Dystocratic
7. Iron Cross – Posthumous
8. The Elevenfold Seal
9. Fade into Obscurity
10. Sword of Damocles

Line-up :
Jontho – Drums, Vocals (backing)
DezeptiCunt – Bass, Vocals (backing)
HansFyrste – Vocals
Bolverk – Guitars

WildeStarr – Tell Tale Heart

I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di “Tell Tale Heart”.

Uno dei lati positivi dello scrivere recensioni é quello d’essere “costretti” ad ascoltare dischi che altrimenti si sarebbero bellamente ignorati: questo lavoro dei WildeStarr appartiene per l’appunto alla categoria di quelli che, indipendentemente dai gusti personali, sarebbe delittuoso snobbare.

Nonostante sia solo al secondo full-length, la band californiana non è certo composta da musicisti di primo pelo (non me ne voglia la bravissima ed affascinante London Wilde) sebbene l’unico realmente noto al grande pubblico sia il chitarrista e bassista Dave Starr.
Detto della vocalist e tastierista, dal consistente passato di tecnico del suono e di turnista in studio, Dave è stato per circa vent’anni il bassista dei Vicious Rumours e credo che tanto basti per definirne il curriculum musicale, mentre il drummer Josh Foster è, almeno per me, un nome relativamente nuovo.
La proposta del gruppo è inevitabilmente orientata a un power metal melodico ma ugualmente robusto, caratterizzato dalla pazzesca voce di London, una sorta di versione femminile del primo Rob Halford, tanto per capirci: anche chi è meno avvezzo a questa timbrica piuttosto acuta, superata una prima fase di ambientamento, non potrà fare a meno d’apprezzare la tecnica esibita dalla bionda cantante.
Così, pur restando nei canoni tipici del power d’oltreoceano (Crimson Glory e, ovviamente, Vicious Rumours), il sound dei WildeStarr non può che trarre linfa dai Judas Priest, senza tralasciare i primi Queensryche.
L’opener Immortal vale come manifesto dell’album, trattandosi di un brano che resta impresso in maniera immediata per le sue azzeccate linee melodiche e una prestazione d’assieme di assoluta eccellenza.
Transformis Ligeia conferma che il livello qualitativo del primo brano non è stato un evento sporadico e lo stesso avviene per tutte le tracce successive con menzione d’obbligo per la splendida The Pit Or The Pendulum (uno dei titoli che mostrano la dedizione di London per l’opera di E.A.Poe).
I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di Tell Tale Heart. Ottimo disco, che gli appassionati del power più genuino non dovrebbero farsi sfuggire.

Tracklist :
1. Immortal
2. Transformis Ligeia
3. A Perfect Storm
4. Valkyrie Cry
5. Last Holy King
6. In Staccata
7. Not Sane
8. Seven Shades of Winter
9. The Pit or the Pendulum
10. Usher in the Twilight

Line-up :
Dave Starr – Bass, Guitars
London Wilde – Keyboards, Vocals
Josh Foster – Drums

Whyzdom – Blind?

I Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico

L’ennesimo gruppo symphonic gothic metal con voce femminile ? I francesi Whyzdom sono senz’altro molto di più: in attività dal 2008 la band parigina ha al suo attivo un disco d’esordio come “From The Brink Of Infinity” che li ha portati all’attenzione di pubblico e critica; questo Blind? conferma tali impressioni positive anche se, forse, per il salto definitivo nell’empireo del genere manca ancora qualcosina.

In effetti, i Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico; altro elemento di distinzione è la voce di Elvyn, che, pur non possedendo doti superiori alla media, si rivela una gradita alternativa alle velleità liriche, spesso fuori registro, di molte sue colleghe.
Il resto della band non si limita a svolgere il semplice ruolo di “supporting cast” nei confronti della protagonista femminile, come avviene sovente quando ci si limita a copiare senza correre alcun rischio e addirittura, in certi casi, i ragazzi francesi osano qualcosa in più di quanto dovrebbero, intento più che lodevole che dimostra la voglia di non accontentarsi dell’esecuzione del classico compitino.
Proprio per questo, però, qualche passaggio talvolta non convince sia perché forse troppo intricato sia in buona parte per una produzione non sempre limpidissima, specie nei momenti in cui dovrebbe venire esaltata la coralità del suono: succede, per esempio, che un brano come Paper Princess finisca per soffrire di certi passaggi nei quali l’assieme degli strumenti invece di enfatizzare il sound finisce per affossarne il pathos nonostante un ritornello coinvolgente, e lo stesso difetto si manifesta anche nella successiva The Spider.
Inoltre, la decisione di presentare ben undici brani della durata media di circa sette minuti ciascuno si rivela alla lunga controproducente, quando una maggiore sintesi avrebbe sicuramente giovato alla causa: brani di grande efficacia come The Lighthous, Cassandra’s Mirror, On the Road to Babylon e The Foreseer, se inseriti in un contesto meno dispersivo, avrebbero potuto portare Blind? a una valutazione ben più elevata.
Ma già così l’operato dei Whyzdom dovrebbe convincere anche i meno predisposti all’ascolto di questo genere, facendo compiere ai nostri un altro importante passo verso quell’eccellenza che, oggi, non appare davvero un miraggio irraggiungibile.

Tracklist :
1. The Lighthouse
2. Dancing With Lucifer
3. Cassandra’s Mirror
4. On the Road to Babylon
5. Paper Princess
6. The Spider
7. The Wolves
8. Venom And Frustration
9. Lonely Roads
10. The Foreseer
11. Cathedral of the Damned

Line-up :
Elvyne Lorient – Vocals
Regis Morin – Guitars
Vynce Leff – Guitars, Orchestration
Marc Ruhlmann – Keyboards
Xavier Corrientes – Bass
Nico Chaumeaux – Drums

Anamnesi – Descending the Ruins of Aura

Anamnesi è il progetto solista dell’omonimo musicista di Oristano, già attivo come batterista in diverse band isolane; “Descending The Ruins Of Aura” ne costituisce la seconda prova su lunga distanza dopo l’esordio autointitolato risalente a due anni fa.

Sgombrando subito il campo dai pregiudizi che spesso accompagnano l’operato delle one-man band, il lavoro del quale mi accingo a parlare si è rivelato sin dalle prime note una graditissima sorpresa: Emanuele (questo è il suo vero nome) riesce dove molti altri nomi, ben più considerati dalla stampa specializzata, hanno fallito.
“Descending …” è un disco che riesce mirabilmente a coniugare l’asprezza delle partiture black con il mood malinconico del miglior depressive, esibendo una serie di brani nei quali non viene mai meno il coinvolgimento emotivo: ecco, la dote principale di questo lavoro è la sua intensità, la capacità di penetrare nel cuore dell’ascoltatore, anche nei momenti in cui le sonorità di stampo ambient divengono predominanti.
Una gamma di sentimenti contrastanti, sebbene complementari, viene esibita nel corso di questi tre quarti d’ora di ottima musica, spaziando dalla rabbia alla desolazione, dall’angoscia alla malinconia, tramite una resa sonora piuttosto buona per gli standard del genere.
Condivisibile, come sempre, la scelta di utilizzare prevalentemente la nostra lingua per veicolare con maggiore efficacia il contenuto dei testi; purtroppo anche in questo caso, come in molti altri già affrontati, la produzione tende un po’ a sotterrare la voce rendendone difficile la comprensione in determinati passaggi.
“Litany of Suffering and Reaction” e “Julia Carta” sono I brani che personalmente prediligo ma, davvero, l’intero album è meritevole di attenzione da parte di chi ama queste sonorità che, proprio in occasioni come questa, sono realmente in grado di trasmettere quelle sensazioni che spesso si cercano invano in prodotti ben più reclamizzati.
Una menzione d’obbligo va anche alla Naturmacht Productions, piccola label tedesca che si occupa meritoriamente di promuovere musica lontana anni luce dal mainstream e che, tanto per mettere subito in chiaro le cose, nella propria homepage dichiara di non ammettere nel proprio roster band coinvolte in forme di estremismo politico o di esaltazione della razza, privilegiando invece chi tratta, in particolare, tematiche che vedono come protagonista incontrastata “madre natura”.

Track-list :
1. Intro (First descent)
2. Litany of Suffering and Reaction
3. La Quiete Del Silenzio
4. Nocturnal Path
5. Toward Rebirth
6. Annega La Coscienza
7. Julia Carta
8. Ciò Che Una Volta Era (Burzum Tribute)

Line-up :
Anamnesi All Instruments

anamnesi-descending the ruins of aura

Forgotten Tomb – And Don’t Deliver Us From Evil

“… And Don’t Deliver Us From Evil” è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore

I Forgotten Tomb del 2012 non sono più quelli di “Springtime Depression” e “Love’s Burial Ground” e, messa giù così, quest’affermazione appare terribilmente scontata, se non corrispondesse al pensiero ricorrente di chi ritiene che lo spirito originario della creatura di Herr Morbid sia andato irrimediabilmente perduto.

La realtà è che quest’ultimo lavoro rappresenta la naturale evoluzione di “Negative Megalomania” e trae il meglio anche da un disco controverso come “Under Saturn Retrograde”, offrendo come risultato un’opera matura e coinvolgente. Se vogliamo trovare un parallelismo, la parabola artistica dei Forgotten Tomb può essere tranquillamente accostata a quella degli Shining: partendo da un depressive black intriso di doloroso rancore verso l’umanità, Marchisio e Kvarforth sono approdati a una forma musicale dall’approccio meno estremo che i fan più intransigenti hanno interpretato come una sorta di tradimento, ma che in realtà è frutto della naturale evoluzione artistica dei due musicisti. Non necessariamente l’approdo a sonorità in apparenza più fruibili equivale a un decadimento qualitativo della proposta, chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo ottimo disco degli Swallow The Sun, tanto per citare un esempio, capirà bene ciò che intendo. … And Don’t Deliver Us From Evil, si apre con Deprived, brano tipico degli ultimi Forgotten Tomb, decisamente piacevole pur senza entusiasmare; ben diversa è la title-track, un prototipo di black metal ammantato di atmosfere oscure e del tutto privo di qualsiasi apertura a sonorità più orecchiabili. Cold Summer è un altro brano nel quale le tenebre prevalgono sulla luce, assecondate da pesanti riff di stampo doom; Let’s Torture Each Other è un altro brano “normale”, sulla falsariga dell’opener, ma con Love Me Like You’d Love The Death e le sue atmosfere cariche di tensione emotiva, con un finale affidato a una chitarra in grado di tessere passaggi ricchi di pathos, la qualità dell’album si impenna nuovamente restando di elevato livello fino alla sua conclusione. Parlando di Adrift è facile pronosticare che si tratterà del brano destinato a destare le maggiori perplessità nei puristi: la voce pulita conduce un ritornello decisamente “catchy”, contrapponendosi alle consuete, ruvide, vocals di Herr Morbid e a un tessuto musicale tutt’altro che rassicurante. Nullifying Tomorrow chiude il lavoro nel suo formato classico (la versione digipack include la cover di Transmission, superfluo dire di quale band, mentre Sore dei Buzzov’en è la bonus track nel vinile) incarnando, di fatto, il trademark del suono attuale dei Forgotten Tomb. … And Don’t Deliver Us From Evil è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore: se ciò consentirà ai Forgotten Tomb di accedere a nuovi fans, pur perdendone per strada qualcuno tra i vecchi, lo vedremo nei prossimi mesi, di sicuro questo è un disco che tende a crescere ad ogni ascolto nonostante un’apparente maggiore fruibilità rispetto alle produzioni più datate.

Tracklist :
1. Deprived
2. …And Don’t Deliver Us from Evil…
3. Cold Summer
4. Let’s Torture Each Other
5. Love Me Like You’d Love the Death
6. Adrift
7. Nullifying Tomorrow

Line-up :
Herr Morbid -Guitars, Vocals
Algol – Bass
A. – Guitars
Asher – Drums

Antiquus Infestus – Order Of The Star Of Bethlehem

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

In ventiquattro minuti Order Of The Star Of Bethlehem racchiude non solo un concept incentrato sulle ultime, drammatiche, fasi della vita di Friedrich Nietzsche ma, anche e soprattutto, un potente concentrato di aggressione sonora, prodotto e suonato in maniera più che soddisfacente, considerando l’assenza di una label alle spalle, e privo di alcun compromesso o di ammiccamenti di stampo commerciale. Il trio si era già fatto notare, nell’ultimo periodo, con due interessanti demo ma questo Ep schiude prospettive diverse, alla luce di una chiarezza d’intenti invidiabile; il sound che ne scaturisce è un’intrigante mix tra il black di scuola svedese e il death dalle tonalità più oscure sulla falsariga dei Nile, soprattutto per quanto riguarda l’attitudine e la comune passione per l’egittologia. Tutto abbastanza bene dunque, se non fosse per un particolare, a suo modo inquietante, che esula dalla musica contenuta nell’Ep: Sverkel e Malphas, per trovare le condizioni utili alla progressione della loro carriera, si sono da poco trasferiti in Danimarca. Nell’augurare le migliori fortune agli Antiquus Infestus, non si può che constatare con amarezza la persistenza, se non addirittura un incremento, delle difficoltà logistico-organizzative che tarpano le ali a chiunque voglia cimentarsi, nel nostro paese, con forme artistiche non omologate al mainstream.

Tracklist :
1. Intro
2. St. Mary of Bethlehem
3. Bishopsgate
4. 55
5. Moorfields
6. Order of the Star of Bethlehem
7. The Signs of Future Threat (Outro)

Line-up :
Sverkel – Vocals
Malphas – Guitars, Drum progamming
Asmodeus – Bass

The Howling Void – The Womb Beyond The World

Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto

I The Howling Void, progetto funeral doom del musicista statunitense Ryan, apparvero sulle scene nel 2009 con lo splendido “Megaliths Of The Abyss” sorprendendo per la capacità di amalgamare alla perfezione le sonorità plumbee che il genere richiede con eccellenti aperture melodiche.

Il successivo “Shadows Over the Cosmos” segnò una stagnazione nel processo creativo della one-man band americana, un po’ perché, dopo un esordio di tale livello, le aspettative erano decisamente alte ma, soprattutto, lo sviluppo dei brani denotava una certa staticità, quasi come se la progressione sonora fosse stata inibita dalla volontà di creare un suono affidato ad atmosfere maggiormente oppressive e allo stesso tempo più ponderate.
Nel frattempo Ryan è ulteriormente migliorato nell’esecuzione strumentale e l’attuale produzione rende i suoni decisamente più puliti; questa premessa farebbe presagire, per questo full-length, quel definitivo salto di qualità che ci si attendeva: purtroppo ciò non avviene, nonostante The Womb Beyond The World si riveli comunque di maggior spessore rispetto alla precedente uscita.
La sensazione è che la freschezza dell’esordio sia andata definitivamente perduta, a scapito di una scelta compositiva che ha portato i The Howling Void a focalizzare l’attenzione su partiture di tastiera ripetute in maniera quasi ossessiva, con frequenti sconfinamenti nell’ambient (ne sia prova il brano di chiusura Eleleth).
Le tre lunghe tracce che costituiscono l’ossatura del disco presentano un andamento in fotocopia: un’affascinante parte iniziale, che si protrae per diversi minuti, lasciandoci sospesi fino all’epilogo nella vana attesa della scintilla, di un qualcosa che renda il brano memorabile.
Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto; a conti fatti finisce per collocarsi in una sorta di terra di nessuno privo com’è, da un lato, del dolente senso melodico degli Ea e, dall’altro, troppo atmosferico per avvicinarsi al tetro incedere dei Krief De Soli, tanto per citare due maniere diametralmente opposte di ma ugualmente efficaci di interpretare il funeral doom.
A Ryan sembra essere venuto meno ciò che gli era riuscito con “Megaliths …” ovvero la realizzazione di una comunicazione empatica con l’ascoltatore; è probabile, temo, che la strada intrapresa con The Womb Beyond The World sia quella definitiva ma, il fatto che il musicista texano sia stato capace di produrre un disco intenso e del tutto convincente solo tre anni fa, consente di sperare che quanto mostrato nelle due uscite successive sia riconducibile a un momentaneo calo di ispirazione e che i The Howling Void siano, in futuro, nuovamente in grado di stupire.

Tracklist :
1. The Womb Beyond the World
2. The Silence of Centuries End
3. Lightless Depths
4. Eleleth

Line-up :
Ryan

Forgotten Thought – Grey Aura

La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, aspettiamo con fiducia i Forgotten Thought alla prima prova su lunga distanza.

Interessante Ep d’esordio per i Forgotten Thought, realtà nostrana dedita a un cupo depressive black dalle sfumature funeral.

La band è, di fatto, un duo composto da Rodolfo e Nephastal: questi due giovani musicisti, brillantemente sfuggiti alla lobotomizzazione musicale alla quale sono state sottoposte le ultime generazioni nel nostro “bel” paese, hanno deciso di abbracciare un genere che definire di nicchia è forse persino generoso, e questo non fa che aumentare il mio apprezzamento nei loro confronti.
Grey Aura si rivela un frutto forse ancora un po’ acerbo ma ugualmente piacevole; i due ragazzi romani evitano di avvitarsi in passaggi eccessivamente complessi mantenendo un ritmo sempre piuttosto moderato, riuscendo in tal modo a valorizzare sia il piano che la chitarra, che si alternano nell’imprimere ai brani quel mood dolente e malinconico che il genere richiede.
La traccia strumentale, autointitolata, si rivela emblematica in tal senso, mettendo sul piatto melodie davvero efficaci e dal notevole impatto emotivo, ma bisogna dire che tutti i brani non sono da meno sotto questo aspetto.
A far da contraltare a questi aspetti positivi vanno presi in considerazione alcuni difetti che il tempo contribuirà senza’altro a limare, se non ad eliminare del tutto: sia pure con tutte le giustificazioni del caso, se la produzione ha in particolare il difetto di affossare, rendendole ancora più inintelligibili, le scream vocals, e in qualche passaggio strumentale l’esecuzione appare ancora un po’ scolastica.
Ma, tenendo ben presente che nel DSBM, l’aspetto che maggiormente importa è la capacità da parte dei musicisti di trasportare l’ascoltatore alla condivisione delle proprie emozioni, quantunque impregnate di negatività, bisogna ammettere che questo obiettivo viene sicuramente centrato dai Forgotten Thought.
La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, li aspettiamo con fiducia alla prima prova su lunga distanza.

Tracklist :
1. Grey Aura
2. The Endless Path
3. Forgotten Thought
4. Black Ink Soaked Page
5. Just For a Moment… (Austere cover)

Line-up :
Rodolfo Ciuffo – Vocals, Bass, Guitars
Nephastal – Vocals, Piano, Guitars, Drum programming

Southern Drinkstruction – Drunk Till Death

Non c’è nemmeno bisogno di una reunion dei Pantera, ce li abbiamo noi.

Immaginate i caduti della battaglia di Gettysburg che, posseduti dai Pantera, dai Texas Hippie Coalition e dal demonio del thrash metal, invadono il mondo, una bandiera sudista garrisce al vento e il sangue scorre..

Tutto questo e molto di più sono i Southern Drinkstruction di Roma, una banda di alcolisti sonori che mischiano southern metal, thrash, heavy e death metal in un blend unico, potentissimo e molto ma molto piacevole.
I ragazzi sono al terzo episodio su supporto fonografico, dopo l’Ep “Southern Drinkstruction” del 2007, il full-length “Drink With Us” del 2009, di cui sono fiero possessore, e l’attuale Drunk Till Death.
Il disco è una botta sonora notevole, metal fatto con una freschezza ed una passione davvero invidiabile, la potenza non viene mai meno e il tutto è davvero molto coinvolgente.
Io ascolto molto metal e spesso mi capitano ottimi dischi, a volte mediocri, a volte pessimi, nonostante il grande impegno, ma questo è un disco che sento in macchina la mattina, quando mi bevo delle birre la sera, e mi fa tornare in mente i tempi dei Pantera, dei racconti di Valerio Evangelisti, il gusto del metallo e della sabbia.
I Southern Drinkstruction sono uno dei migliori gruppi italiani del genere e hanno una grande autoironia, cosa che a volte nel metal difetta; dalle paludi cajun, dai vicoli di New Orleans, dalle sabbie dell’Arizona, ecco spuntare i Southern Drinkstruction.
Non c’è nemmeno bisogno di una reunion dei Pantera, ce li abbiamo noi.
In beer we trust.

Tracklist:
1. Drunk Till Death
2. On Your Knees
3. 6-Strings Skull
4. Dirty Sanchez
5. Evil Skies
6. Nasty Jackass
7. Redneck Zombie Distillery
8. Motor 666
9. Cumming in Socks
10. Drink Whiskey, Make Justice!
11. The Man With No Name
12. Slide Or Die!
13. Death Bells

Line-up:
Eddie Vagenius – Drums
Pinuccio “Ordnal” Landro – Guitars
Southern Bastard – Vocals
Zorro – Bass

SOUTHERN DRINKSTRUCTION – Facebook

Obscura Amentia – Ritual

Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Gli Obscura Amentia sono un duo composto da Black Charm (che si occupa di tutti gli strumenti ad eccezione delle percussioni, affidate a una drum-machine) e da Hel (female scream): attivi dal 2010, con “Ritual” giungono al secondo full-length.

La loro musica, tanto per fornire un’idea di massima, ci riporta alle sonorità dei Dark Funeral, quindi si parla di black metal devoto alla tradizione ma senza che, per questo, venga trascurato il senso della melodia, sempre ben presente grazie ad efficaci linee di chitarra.
La band novarese propone un lavoro di buon livello, anche se qualche lieve pecca, per lo più addebitabile alla produzione, finisce per inficiarne parzialmente la resa finale: per esempio la voce di Hel, sia per una registrazione che la relega quasi in secondo piano, sia per una minore incisività che spesso accomuna le cantanti alle prese con scream e growl, non sempre si rivela in tutta la sua possibile efficacia.
Tutto sommato, invece, non ritengo così deprecabile l’uso della drum machine, pur essendo evidente che una batteria “umana” sia pur sempre preferibile, mentre il super lavoro strumentale al quale si sottopone Black Charm si rivela assolutamente appropriato.
Ritual è un disco che non delude, per la sua integrità stilistica e per il suo proporsi monolitico, cosa che a mio avviso più che un difetto ne costituisce la forza: se si eccettua la bellissima title track, che si staglia sul resto dell’album, marchiata a fuoco com’è da un riff ossessivo quanto coinvolgente, gli altri brani si sviluppano su coordinate piuttosto simili, creando però un impatto d’insieme nient’affatto trascurabile.
Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Tracklist :
1. The Citadel Of Beleth
2. Mirror Of Sorrow
3. Ritual
4. Lost In The Reflection Of Moon
5. Mater Hiemalium
6. Descend The Chaos
7. Ominous Herald
8. Silence (A Reminder Of Death)
9. Last Rite

Line-up :
Black Charm – Guitars, Keyboards, Bass
Hel – Vocals

Blut Aus Nord – 777:Cosmosophy

Per alcuni “777 Cosmosophy” costituirà un passo indietro se riferito alla discografia recente, per chi scrive, al contrario, è la conferma dello status di eccellenza raggiunto da una band che, in questo momento, è in grado di intraprendere qualsiasi direzione stilistica risultando ugualmente efficace e, soprattutto, credibile.

In poco meno di due anni i Blut Aus Nord portano a compimento la trilogia 777 iniziata con “Sect(s)” e proseguita con “The Desanctification”.

Questo terzo episodio sta già facendo discutere in quanto, dal punto di vita stilistico, si discosta di molto da quanto fatto in passato dalla band francese: crediamo che, al riguardo, per analizzare in maniera obiettiva questo lavoro sia fondamentale l’approccio con il quale ci si accosta. Infatti, se considerassimo Cosmosophy come un album a sé stante ciò potrebbe provocare un certo disorientamento, specialmente se paragonato ai due precedenti tasselli della trilogia ma, pur rispettando i diversi pareri già espressi, improntati ad un certo scetticismo, ritengo che l’ascolto e la comprensione del disco non possano prescindere dal considerare 777 nel suo insieme. Del resto, l’approdo alle sonorità di Cosmosophy era stato preannunciato da Vindsval successivamente all’uscita del secondo atto “The Desanctification”, quando aveva dichiarato che l’epilogo della trilogia sarebbe stato improntato a sonorità più eteree e inevitabilmente più melodiche, intendendo rappresentare la chiusura di un percorso tramite il manifestarsi di un’apparente quiete successiva alla tempesta. Così, quello che colpisce in prima battuta di questo lavoro non è tanto ciò che vi è racchiuso quanto, invece, ciò che non ne fa parte, come la componente aggressiva da parte di una band che, di fatto, il black nella sua concezione più canonica non lo suona più da anni, o l’ossessività di stampo industriale del precedente capitolo. Qui le atmosfere si potrebbero definire sognanti, se non fosse per quel sottile senso di inquietudine che le pervadono e che impedisce alle melodie create dai Blut Aus Nord di apparire persino rasserenanti. Se escludiamo il sottofondo sonoro al recitato in francese nella prima parte di Epitome XV, dove rifanno capolino turbolenze di stampo industrial, il resto di Cosmosophy si dipana all’insegna di chitarre liquide e voci pulite, offrendo l’ingannevole sensazione di un facile ascolto; in realtà solo dopo numerosi tentativi si riesce a raggiungere la vera essenza di brani splendidi, paradossalmente penalizzati solo dal nome della band stampato sulla copertina. Perché, pur essendo comunque e inevitabilmente quest’album inferiore a quel formidabile monolite sonoro che è stato “The Desanctification”, non si può evitare di farsi coinvolgere dalle atmosfere dark ambient con sconfinamenti nel post metal delle cinque lunghe epitomi, tra le quali spicca la XVII, autentica perla di melodica magnificenza. Che non si pensi che Vindsval sia finalmente giunto a patti con i demoni che lo ossessionano: le dissonanze elettroniche che, dopo un tema ripetuto a oltranza, chiudono il sipario sull’Epitome XVIII e sulla trilogia appaiono tutt’altro che rassicuranti. Per alcuni 777 Cosmosophy costituirà un passo indietro se riferito alla discografia recente, per chi scrive, al contrario, è la conferma dello status di eccellenza raggiunto da una band che, in questo momento, è in grado di intraprendere qualsiasi direzione stilistica risultando ugualmente efficace e, soprattutto, credibile.

Tracklist :
1. Epitome XIV
2. Epitome XV
3. Epitome XVI
4. Epitome XVII
5. Epitome XVIII

Line-up :
W.D. Feld – Drums, Keyboards, Electronics
Vindsval – Vocals, Guitars
GhÖst – Bass

General Lee – Raiders Of The Evil Eye

I General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di “Raiders Of The Evil Eye”

Quando si cita il Generale Lee i più colti penseranno subito al comandante delle forze confederate durante la guerra di secessione, mentre i meno colti e meno giovani (come il sottoscritto) andranno con la mente alla mitica auto usata dai protagonisti del telefilm anni ’80 Hazzard; quale che sia la derivazione del monicker, i General Lee sorprendentemente non arrivano dal profondo sud degli States ma da Bethune, cittadina di provincia situata nel nord della Francia.

Dopo questa amena digressione storico geografica, arriviamo al dunque dicendo subito che questo disco è semplicemente favoloso e il fatto che, nonostante questo, nessuna etichetta si sia presa la briga di produrlo è uno degli ennesimi misteri da affidare a “Kazzenger” …
I sei ragazzi transalpini si muovono nei vasti territori, dai confini piuttosto labili, del post-metal ma il tutto avviene in maniera così fresca, spontanea ed intensa che i brani finiscono per sgorgare con un’immediatezza rara per le abitudini del genere .
Prendendo come termine di paragone un altro dei dischi più riusciti negli ultimi tempi in tale ambito, “Faemin” dei Process Of Guilt, risalta subito la diversa matrice delle due band: mentre i portoghesi affondano le proprie radici nel death doom, i francesi inglobano nella loro proposta evidenti influssi hardcore.
Dato che l’esito finale è eccellente in entrambi i casi, si può tranquillamente affermare che le vie per arrivare all’eccellenza possono essere sì differenti, ma sempre accomunate dal talento e dalla costante voglia di evolversi.
I General Lee esprimono tutto il loro livore nei confronti del mondo che li circonda in sette tracce di media durata tre le quali risplende come una supernova l’anthemica The End Of Bravery, da cantare a squarciagola come del resto fa il bravo Arnaud. Non che il resto del disco sia da meno, basta ascoltare l’opener The Witching Hour dove l’aggressione vocale e sonora viene bilanciata da una chitarra solista che traccia linee melodiche da brividi, Medusa Howls With Wolves prosegue sulle medesime coordinate, mentre sia Alone With Everybody sia la strumentale Overwhelming Truth rallentano decisamente l’andatura, collocandosi su terreni meno abrasivi. Già detto di The End Of Bravery, anche LVCRFT presenta atmosfere più introspettive pur mantenendo sempre elevata l’intensità emotiva, mentre Running With Sharp Scissors, dopo una sparata iniziale chiude l’album con un bel finale intriso di malinconia.
Francamente questo lavoro è una vera sorpresa, oltre che un’autentica ventata d’aria fresca, in un genere che vede troppe band esprimere un sound che implode al proprio interno, senza riuscire a rappresentare in maniera compiuta il malessere che ne costituisce le fondamenta.
Cosa che non succede ai General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di Raiders Of The Evil Eye, confermando che il dono della sintesi è un valore aggiunto in qualsiasi attività, artistica e non.
Da ascoltare e supportare, assolutamente !

Tracklist :
1. The Witching Hour
2. Medusa Howls With Wolves
3. Alone With Everybody
4. Overwhelming Truth
5. The End of Bravery
6. LVCRFT
7. Running With Sharp Scissors

Line-up :
Arnaud – vocals
Vincent – bass
Paul – drums
Fabien – guitar
Martin – guitar
Alex – guitar