Devil – To The Gallows

Riffoni pesanti, ritmiche che si mantengono robuste e regolate su mid tempo grondanti lava vulcanica ed almeno la metà dei brani di altissima qualità, fanno di To The Gallows un lavoro imperdibile per i fans dell’heavy doom tradizionale.

Chi ama l’heavy doom difficilmente potrà privarsi di un album come To The Gallows, monumento hard rock/heavy metal dalle influenze doom settantiane.

Certo, la proposta dei norvegesi Devil abbraccia un genere che di questi tempi sta tornando ad infiammare cuori e spiattellare cervelli, sotto il bombardamento di watts con gli strumenti che, ribassati, intonano danze e rituali forieri di magia occulta.
Non solo, quindi, musica per rockers nostalgici e magari avanti con gli anni, ma giovani kids con la mania per i jeans a zampa di elefante e sacchetti di pelle a tracolla dove si costudiscono i pochi averi sotto forma di tabacco ed erbe medicinali.
Il quintetto scandinavo, attivo dal 2009, arriva al terzo album sotto l’ala della Soulseller e riporta gli amanti del genere indietro nel tempo partendo come già fatto nei precedenti (Time To Repent, debutto sulla lunga distanza del 2011 e Gather The Sinner, precedente opera targata 2013), dai primi anni del periodo settantiano con l’imronta dei Black Sabbath, per avvicinarsi al nuovo millennio con influenze che vanno dai Pentagram ai Trouble, passando per gli anni ottanta e facendosi stregare dalla New Wave Of British Heavy Metal.
Un gruppo di nicchia, né più né meno, quindi da amare incondizionatamente e a prescindere dall’anno in cui lo si ascolta: per i Devil, come per molte band del genere, non credo possa valere un giudizio condizionato dal tipo di musica suonata che, ricordo, è assolutamente old school.
Ed il bello sta proprio nel loro talento per un genere che, come dovrebbe essere per tutta la musica metal, si trova al di fuori del tempo e dello spazio, una rito metallico che prende vita dalle note della title track, posta all’inizio dell’album, mettendo subito le cose in chiaro sulla qualità della musica prodotta dal gruppo.
Riffoni pesanti, ma solo a tratti ciondolanti, ritmiche che si mantengono robuste e regolate su mid tempo grondanti lava vulcanica ed almeno la metà dei brani di altissima qualità (Trenches, Reaper’s Shadows e David & Golitah, oltre alla già citata title track), fanno di To The Gallows un lavoro imperdibile per i fans dell’heavy doom tradizionale.

TRACKLIST
1. To The Gallows
2. Trenches
3. Dead Body Arise
4. Regulators
5. Reaper’s Shadow
6. Peasants & Pitchforks
7. Jumping Off The Edge Of Time
8. David & Goliath
9. Cemetary Still

LINE-UP
Stian Fossum – guitar
Ronny Østli – drums
Thomas Ljosaak – bass
Kai Wanderås – guitar
Joakim Trangsrud – vocals

DEVIL – Facebook

http://www.facebook.com/Devilband

Morast – Ancestral Void

Ancestral Void conferma quanto di buono esibito precedentemente dai Morast, senza che però avvenga il salto di qualità sensibile che forse era lecito attendersi.

Come preannunciato in occasione dell’articolo scritto per commentare la riedizione in vinile del primo demo dei Morast, è arrivato il momento dell’uscita del primo full length per la band tedesca.

Ancestral Void conferma le sensazioni avute qualche mese fa, ovvero quelle di trovarci al cospetto di una band dal sound solido e compatto, con il solo neo d’essere poco vario, pur nel suo apparire ugualmente incisivo.
Il death doom sporcato di sludge del gruppo teutonico è l’emblema di un approccio molto lineare, che non si perde in preamboli e non disperde energie nella ricerca di particolari divagazioni, puntando essenzialmente su un impatto granitico.
Crescent, brano d’apertura del lavoro, è il manifesto ideale delle caratteristiche sopra descritte, con il suo riffing oscuro, dai ritmi non eccessivamente rallentati ed una voce aspra che rifugge ogni tentazione melodica: è la rabbia, per lo più, a prevalere sulla tristezza, rappresentando una forma di reazione al passivo ripiegarsi su stesso di chi è schiacciato dal peso dell’esistenza.
Così, mentre in Sakkryfyced appaiono parvenze melodiche che rendono il brano quello relativamente più accessibile del lotto, Loss spinge maggiormente sul versante dell’incomunicabilità, con un andamento dalla lentezza molto più accentuata.
Ancestral Void è un’opera breve che si dimostra efficace per quasi tutta la sua durata, con Compulsion e la citata Loss forse meno incisive e dirette rispetto alle altre quattro tracce, e l’ossessiva title track a suggellare una prova di buon spessore ma dall’aspetto monotematico, specie per chi ha meno familiarità con il genere: viene confermato, pertanto, quanto di buono esibito precedentemente dai Morast, senza che però avvenga il salto di qualità sensibile che forse era lecito attendersi. Detto ciò, Ancestral Void è un album il cui monolitico incedere esprime ugualmente un suo certo fascino.

Tracklist:
1. Crescent
2. Forlorn
3. Sakkryfyced
4. Compulsion
5. Loss
6. Ancestral Void

Line-up:
L. – drums
F. – vocals
R. – bass
J. – guitar

MORAST – Facebook

Vitja – Digital Love

Digital Love si compone di undici brani per soli quaranta minuti di musica diretta, melodica, potentissima e sapientemente elettronica

La domanda è: cosa hanno i Vitja che le altre band che suonano metalcore non hanno?

Beh, intanto incidono per Century Media e se la potentissima label ha deciso di puntare sul gruppo di Colonia un motivo ci sarà.
E allora andiamo a scoprire il segreto di questo quartetto tedesco, nato nel 2013, anno in cui esce il primo full length (Echoes), tornato nel 2015 con l’ep Your Kingdom, ed ora pronto per fare sfracelli nei locali del centro Europa con il nuovo Digital Love, in uscita appunto per Century Media.
L’album si compone di undici brani per soli quaranta minuti di musica diretta, melodica, potentissima e sapientemente elettronica, il giusto per entrare nella track list dei dj sparsi nelle metropoli in giro per il vecchio continente, anche se giurerei che un pensierino anche agli Stati Uniti band ed etichetta lo hanno fatto.
Un metal che ha nell’urgenza del core, nelle atmosfere nu metal conferite dalla parte elettronica e l’appeal fornito da melodie sempre azzeccate, la ricetta per sfondare e davanti a mazzate violentissime come l’opener Scum o la seguente D(e)ad non si può che ripararsi da tanto fervore aspettando che melodie dal piglio dark e note di tappeti elettronici invitino l’ascoltatore a far sue le molteplici sfumature di questo lavoro, dove ha la sua importanza il cantato, vario e per niente scontato di David Beule, che non risparmia toni cangianti, dallo scream al rabbioso urlo hardcore, per finire con una clean che spalanca cuori femminei come farebbe una tempesta con le porte di un cascinale.
Roses, la devastante title track, la potenza melodica e l’appeal di Six Six Sick, l’ enorme lavoro sulla darkcore Heavy Rain sono mattoni di un muro sonoro difficile da scalfire ma clamorosamente pregno di melodie tragiche, mature al confronto con le facili altalene atmosferiche di tanti gruppi del genere.
Le ritmiche solo a tratti si contraggono parti sincopate, la parte nu metal della musica dei Vitja esce allo scoperto e fa male (Find What You Love And Kill It), mentre la sei corde mantiene un atteggiamento metallico alla Disturbed ,se mi si lascia passare il paragone scomodo.
Album che farà parlare, gruppo pronto per il salto che da promessa lo porterà ad una sufficiente notorietà per regalare ancora buone soddisfazioni.

TRACKLIST
1. SCUM
2. D(e)ad
3. No One As Master No One As Slave
4. Roses
5. Digital Love
6. Six Six Sick
7. The Golden Shot
8. Heavy Rain
9. Find What You Love And Kill It
10. In Pieces
11. The Flood
Additional tracks on Special Edition CD Digipak, LP+CD, Digital Album:
12. I’m Sorry
13. New Breed

LINE-UP
David Beule – vocals
Mario Metzler – bass
Vladimir Dontschenko – guitar
Daniel Pampuch – drums

VITJA – Facebook

Alessio Secondini Morelli’s – Hyper-Urania

Se con questo lavoro il chitarrista voleva ribadire l’immortalità della musica heavy metal e la sua ottima salute anche nel nuovo millennio, direi che la missione è andata decisamente a buon fine.

Nuovo progetto per il chitarrista Alessio Secondini Morelli (Anno Mundi, Freddy & The Kruegers) volto a reinterpretare a suo modo le sonorità classiche dell’heavy metal.

Hyper-Urania è un ep di sei brani dove il chitarrista nostrano, aiutato da numerosi ospiti tra cui Francesco Lattes (New Disorder), Freddy Rising (Acting Out, Martiria, Bible Black) e Federica Garenna (Sailing To Nowhere, She Devil) alla voce, Daniele Zangara alla batteria, Emiliano Laglia (Aibhill Striga, Invaders, Blackened, Youthanasia) al basso, rivisita il metal classico e lo consegna ai giovani ascoltatori del nuovo millennio.
Sonorità ottantiane dunque, prendendo ispirazione sia dalla corrente britannica dei primissimi anni del decennio d’oro per la musica hard & heavy, sia da quella statunitense, con i primi Savatage, ad irrobustire un sound che pesca tanto dai Saxon quanto dai Judas Priest, lasciando in disparte, almeno per una volta, gli Iron Maiden.
Ottima prova dei cantanti, a loro agio anche con brani sicuramente più classici di quelli proposti con le loro band, e grande apertura con il riff di Arkam, notevole brano dove, oltre ad un’ottima performance di Federica Garenna al microfono, si evince la bravura tecnica di Alessio Secondini Morelli e la sanguigna passione che trabocca dall’assolo graffiante a metà brano.
Da segnalare anche la bellissima cover dal taglio progressivo di Veteran Of The Psychic Wars dei Blue Blue Öyster Cult; se con questo lavoro il chitarrista voleva ribadire l’immortalità della musica heavy metal e la sua ottima salute anche nel nuovo millennio, direi che la missione è andata a buon fine.

TRACKLIST
1.Arkam
2.Lord Of The Flies
3.Fuga In Mi Minore “Del Canto Delle Valchirie”
4.Scarlet Queen
5.Veteran Of The Psychic Wars
6.Steven Shark

LINE-UP
Alessio Secondini Morelli – Guitars
Daniele Zangara – Drums
Emiliano Laglia – Bass
Freddy Rising – Vocals
Federica Garenna – Vocals
Francesco Lattes – Vocals

ALESSIO SECONDINI MORELLI – Facebook

Pallbearer – Heartless

Ascoltare Heartless è un’esperienza che ti fa essere grato di non essere morto prima di poter sentire un disco così.

Heartless è talmente bello che a volte fa paura ascoltarlo, si rimane intimoriti da cotanta grazia.

Il terzo disco dei Pallberear è qualcosa di magnifico e stordente. Questo disco contiene tutto, dal post metal al rock, dall’heavy metal più illuminato alla canzone epica, dal dark al non cosa, ma qui dentro c’è. Probabilmente i Pallbearer sono un medium attraverso i quali chissà quale entità fa scorrere la propria musica da un altro punto dell’universo. Ascoltare Lie Of Survival è un’esperienza che ti fa essere grato di non essere morto prima di poter sentire una canzone così. Heartless è ciò che è illustrato in copertina, una montagna antropomorfa che riposa inquieta. I Pallbearer prima di questa prova erano un gran gruppo, molto promettente e fautore di un’ottima musica pesante virata al doom, e di grande efficacia dal vivo. Dimenticatevi di tutto ciò. Certamente qualcosa è rimasto, sicuramente i pregi di quanto fatto prima, ma qui è un altro piano cosmico, è l’iperuranio. Questo disco lo sentirete con le orecchie ma va dritto verso i ventuno grammi che forse compongono la nostra anima. Il tempo si dilata, e i Pallbearer ci sussurrano all’orecchio di incredibili mondi che sono dentro e fuori di noi, e mentre lo fanno scorrono le vite di quello che siamo stati prima e di quello che saremo dopo, in una maliconia fatta del contrario di ciò di cui è fatta la carne. Heartless è forse un sogno, forse non esiste, ma almeno lo avremo sentito. Gli oltre undici minuti di Dancing In Madness si vorrebbe che non finissero mai, tanta è la dolcezza. Si potrebbero nominare molti riferimenti, ma non avrebbe senso, bisogna tornare a sentire la musica per amarla senza etichette, Questo disco non ha confini, si espande come l’aria fresca, dolcezza e durezza, chitarre che completano l’etere e confini abbattuti. Tra Cure, Pink Floyd, qualcosa dei Black Sabbath, e tantissimo Pallberear. Cambi di melodia, superamento di mondi lontani, abbracci fra demoni diversamente divini, tutto.
Uno dei miei dischi preferiti di sempre, immenso.

TRACKLIST
1. I Saw The End
2. Thorns
3. Lie Of Survival
4. Dancing In Madness
5. Cruel Road
6. Heartless
7. A Plea For Understanding

LINE-UP
Joseph D. Rowland – Bass
Devin Holt – Guitars
Brett Campbell – Guitars, Vocals
Mark Lierly – Drums

PALLBEARER -Facebook

MANTAR

Il lyric video di The Spell, tratto dall’ep omonimo (Nuclear Blast).

Il lyric video di The Spell, tratto dall’ep omonimo (Nuclear Blast).

I MANTAR, la mostruosa chimera black/doom/punk, pubblica oggi il nuovo EP 10” intitolato »The Spell«! La band ha inoltre iniziato ieri da Bielefeld, Germania, il nuovo tour Europeo da headliner.

»The Spell« include 3 nuovi brani. La title track vede la partecipazione alla voce di Okoi Jones del duo extreme metal svizzero BÖLZER. Creatore dell’inquietante copertina è il famoso artista Aaron Wiesenfeld (www.aronwiesenfeld.com) che ha curato anche l’artwork dell’album debutto dei MANTAR.

Clicca qui per dare uno sguardo a ‘Age Of The Vril’: https://youtu.be/MDT0NFVJfdM

Guarda un estratto di ‘Pest Crusade’ qui: https://youtu.be/tn9P89AFGsw

»The Spell« viene pubblicato come 10” (nero e argento -quest’ultimo già sold out, sono rimaste pochissime copie solo della versione black! – in versione limitata 500 copie) e in digitale. L’EP in versione limitata è disponibile qui: http://nblast.de/MantarTheSpellNB

Il cantante e chitarrista Hanno dei MANTAR commenta: “Dopo aver registrato »Ode To The Flame« abbiamo avuto difficoltà a decidere quali delle 12 canzoni scegliere per il disco finale. Siccome entrambi non amiamo gli album troppo lunghi, dopo esserci completamente persi in questo processo decisionale, abbiamo alla fine concordato quali 10 pezzi pubblicare. Sono così rimasti due brani e abbiamo pensato fosse arrivato il momento giusto di farli uscire prima di dimenticarcene. Due tracce vecchio stile, aggressive e groovy. ‘The Spell’ in realtà è una prima registrazione avvenuta nel 2013 durante le sessioni del nostro debutto »Death By Burning«. Ascoltandola si può infatti notare come il sound si avvicini più a quello di una jam; suonando non avevamo idea di dove la canzone ci avrebbe portato. Ma ci sono sempre piaciute queste grezze ma eleganti atmosfere, così in pochi mesi abbiamo deciso di chiedere al nostro amico Okoi Jones dei BÖLZER di aggiungere la sua voce e trasformare il pezzo in una sorta di duetto tra me e lui. Le parti vocali sono state registrate in Svizzera e a Tampa, Florida: il mondo è piccolo oggigiorno…”

Ghost Season – Like Stars In The Neon Sky

Debutto per i greci Ghost Season, band alternative sulla scia degli dei americani Alter Bridge, con Like Stars In The Neon Sky che risulta un buon ascolto in grado di ritagliarsi uno spazio nei cuori dei fans dell’hard rock moderno.

I Ghost Season sono un quartetto greco nato solo tre anni fa, autore del classico ep di rodaggio che ha portato il gruppo alla firma con Pavement Entertainment ed alla realizzazione di Like Stars In The Neon Sky, full length che darà sicuramente ottimi riscontri al gruppo ateniese, vista l’ottimo amalgama tra alternative metal e rock, un buon uso di groove nelle ritmiche e tanta ispirazione presa dagli dei del genere, gli Alter Bridge.

Da qui si parte con la consapevolezza che la band non ha nulla di originale, il loro rock/metal americano è figlio del post grunge con le chitarre che tagliano l’aria intorno a noi a colpi di solos metallici, le voci che non si spostano di un millimetro dallo stile di Myles Kennedy e, in generale, l’atmosfera che rimane melanconicamente ribelle, triste ed intimista come il grunge ha insegnato per tutti gli anni novanta.
Detto questo, l’album ha dalla sua una serie di buone canzoni, che poi è quello che a noi interessa, e la band sa dove andare a parare per piacere, facendolo con una buona dose di furbizia.
Il singolo Fade Away, Break My Chains e Vampire, brano che sembra uscito dalla colonna sonora di Twilight (la famosa trilogia sui vampiri adolescenti tratta dai romanzi di Stephenie Meyer) entrano nella testa al primo passaggio, tutto è perfettamente studiato per provare a mettere un piede più avanti rispetto alla scena underground e non è detto che il gruppo di Atene non ci riesca, con queste premesse.

TRACKLIST
1. The Reckoning
2. Sons Of Yesterday
3. Fade Away
4. Break My Chains
5. War Of Voices
6. The Highway Part I
7. The Highway Part II
8. Just A Lie
9. The Vampire
10. The Mirror
11. Of Hearts And Shadows
12. Break Me Shake Me (Bonus Track)

LINE-UP
Hercules Zotos – Vocals
Nick Christolis – Guitars/vocals
Dorian Gates – Bass/vocals
Helen Nota – Drums

GHOST SEASON – Facebook

PAIN OF SALVATION + PORT NOIR – 6/4/17 Circolo Magnolia

Il racconto del concerto del 6 aprile al Magnolia.

Cinque anni sono trascorsi da quando vidi per l’ultima volta dal vivo i Pain Of Salvation: quel concerto, tenutosi al Live di Trezzo sull’Adda, mi aveva soddisfatto solo parzialmente perché incentrato fondamentalmente sui due Road Salt, dischi senza dubbio di buon livello, ma a mio avviso inferiori per impatto ed intensità alla produzione precedente .

Dopo le varie vicissitudini, di cui tutti sappiamo, che hanno afflitto per un lungo periodo Daniel Gildenlöw, è arrivato il recente In The Passing Light Of Day a risistemare le cose e, soprattutto, a ricollocare la band svedese al posto che le compete tra le più esaltanti espressioni musicali dell’ultimo ventennio.
Il buon pubblico accorso al Circolo Magnolia di Segrate testimonia l’approvazione dei fans nei confronti dell’ultima svolta stilistica, nonché l’attesa per rivedere all’opera Daniel con una band quasi del tutto rinnovata rispetto a quella che incise l’ultimo album di inediti (fa eccezione solo il batterista francese Leo Margarit).

Ad aprire la serata sono stati chiamati i Port Noir, giovane band svedese che accompagna i più famosi connazionali per l’intero tour europeo, della quale ammetto colpevolmente d’aver sentito parlare per la prima volta in questa occasione. Come spesso accade, quindi, si spera essenzialmente che il tempo a disposizione della band di supporto non sia troppo e che, soprattutto, passi più o meno piacevolmente.
E, invece, avviene l’inaspettato … questi tre ragazzi di Södertälje sono una vera folgorazione: il loro alternative metal, che sicuramente prende diversi spunti dagli altri famosi conterranei Katatonia, ammantandoli di una vena più moderna e meno malinconica, rifulge per intensità e compattezza, grazie ad un affiatamento perfetto tra i vari membri e l’ottimo utilizzo delle voci, con quella del chitarrista Andreas Hollstrand a supportare con continuità quella principale e più suadente di Love Andersson. I Port Noir riescono a rendere magicamente fresco ed avvincente un genere che troppo spesso viene afflitto dal manierismo, anche da parte dei suoi più famosi interpreti: così il loro set scorre via tra l’approvazione di un pubblico per lo più entusiasta e probabilmente sorpreso quanto il sottoscritto e chi lo accompagna .
Tutti sanno quanto sia difficile la vita per le band di supporto, specialmente in Italia e soprattutto quando c’è un’attesa fremente nei confronti degli headliner: ebbene, la possibile insofferenza è stata del tutto cancellata da una totale approvazione, tanto che se i Port Noir fossero rimasti sul palco per proporre altri due o tre brani nessuno avrebbe avuto alcunché da ridire, anzi … Questi ragazzi sono da tenere monitorati con estrema attenzione, perché in un futuro prossimo lo stesso numeroso pubblico che accompagna le tappe di questo tour potrebbe ritrovarsi lì solo per loro.

Dopo questo graditissimo antipasto, è con un piccolo ritardo sull’orario previsto che si presenta in scena il solo Daniel Gildenlöw in abiti ancora “borghesi”, per annunciare che la serata sarà dedicata ad Alberto Granucci, fondatore del fan club italiano dei Pain of Salvation, scomparso tragicamente pochi giorni fa e per la cui sorte non possiamo che unirci al cordoglio di parenti ed amici.
Una breve pausa ed ecco i nostri presentarsi al gran completo mettendo da subito a ferro e fuoco il palco con Full Throttle Tribe, uno degli episodi più duri dell’ultimo album: le bordate metalliche condotte dalle chitarre di Daniel e di Ragnar Zolberg e dal basso di Gustaf Hielm (uno che ha grande familiarità con suoni estremi avendo militato nei Meshuggah e ricoprendo il ruolo di bassista live nei Dark Funeral), sono sferzate di energia per un pubblico che può così testare la bontà dell’impianto sonoro del Magnolia e dell’ottimo lavoro dei fonici.
E’ la volta poi di Reasons e Meaningless, le due canzoni scelte per essere abbinate ad un video, diverse tra loro ma indubbiamente complementari, mentre è poi Linoleum, con il suo chorus killer, a rappresentare il primo passo indietro nella ricca discografia dei Pain Of Salvation.
Il trittico tratto da Remedy Lane eleva ad dismisura il pathos dell’esibizione, perché non si può nascondere che quell’album incarna, assieme al duo predecessore The Perfect Element I, uno dei momenti creativi più elevati della band, almeno fino all’uscita di In The Passing Light Of Day, che ne insidia il valore molto da vicino: A Trace Of Blood, Rope Ends e Beyond The Pale, un po’ come per tutta la restante scaletta, dal vivo si accendono di una luce diversa e ancora più vivida, capace di accentuare sia la robustezza delle basi ritmiche, sia le ampie ed incancellabili aperture melodiche.

Ashes, che segue subito dopopuò essere considerato il classico cavallo di battaglia per i Pain Of Salvation: forse non è il brano più bello che abbiano mai inciso, ma sicuramente il più noto, quello che li ha portati all’attenzione di un pubblico più vasto dopo due dischi magnifici ma passati un po’ sottotraccia; con questa canzone si tocca il punto più datato tra quelli toccati dalla scaletta, ed è un peccato, perché sia dallo stesso The Perfect Element I che da EntropiaOne Hour By The Concret Lake ci sarebbe stato molto da cui attingere.
Finita questa entusiasmante parentesi retrospettiva si ritorna all’ultimo album e, dopo aver sviscerato i momenti più metallici, è la volta dei brani caratterizzati da passaggi intimisti, quelli che fanno svoltare l’audience dall’headbanging alla commozione: la carezza di Silent Gold e la drammaticità di On a Tuesday, dove le violente accelerazioni sono i soprassalti vitali di un organismo che non vuole arrendersi all’ineluttabile, conducono alla parte conclusiva del concerto, che viene affidata a The Physics of Gridlock, traccia emblematica con il suo chorus dai rimandi western di quell’anima alternative rock che era stato il tratto comune di Road Salt Two.
L’uscita dal palco, dopo circa un’ora e tre quarti di concerto, chiama ovviamente un bis che non può essere che la title track dell’ultimo album: The Passing Light of Day è una splendida, sentita e commovente canzone d’amore che Daniel interpreta per buona parte da solo, per poi essere raggiunto dall’intera band nell’ideale chiusura di una serata pressoché perfetta.

Certo, quando ci si trova dinnanzi ad una band che, come i Pain Of Salvation, ha alle spalle una discografia cosi ricca, qualitativa e soprattutto stilisticamente sfaccettata, a seconda di quale sia la fase della loro carriera che si predilige, ognuno può essere più o meno soddisfatto della scelta della scaletta.
Così, chi ha amato la band nei due Road Salt forse avrebbe sperato in qualcosa di diverso, mentre chi invece considera In The Passing Light Of Day un nuovo apice della carriera della band svedese avrà senz’altro approvato, considerando che poi l’altro album più rappresentato, Remedy Lane, è uno di quelli che mette d’accordo tutti.
C’è anche il fan più di vecchia data, come il sottoscritto, che come detto avrebbe apprezzato il recupero di qualche brano dai primi lavori, o chi dall’ultimo nato avrebbe voluto ascoltare dal vivo uno dei suoi momenti più intensi dal punto di vista emotivo, come If This Is The End e chi, infine, pensa che nel complesso tre brani in più ci sarebbero potuti stare, accontentando così tutte queste istanze.
Ma questi sono ovviamente i discorsi che si possono fare solo se si vuole cercare il pelo nell’uovo ad un concerto magnifico, una delle rare occasioni in cui la compenetrazione tra band e pubblico si rivela massimale, e questo è ciò che conta maggiormente, assieme al fatto d’aver ritrovato Daniel Gildenlöw in una forma smagliante, e per questo ognuno di noi deve ringraziare una divinità a sua scelta, o semplicemente il fato, per avercelo riconsegnato intatto in tutto il suo talento artistico ed umano.

Althea – Memories Have No Name

Il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.

I buoni riscontri che Memories Have No Name ha ottenuto qualche mese fa da varie webzine, tra le quali la nostra, ha consentito agli Althea di destare l’interesse di diverse label, tra le quali la più lesta ad accaparrarsene le prestazioni è stata la Sliptrick Records, che ha licenziato la versione fisica dell’album proprio in questi giorni.
Ci sembra opportuno, quindi, rinfrescare la memoria degli ascoltatori riproponendo la nostra recensione risalente allo scorso dicembre.

E’ durissima la vita per chi decide (spronato da una passione infinita per il mondo delle sette note), di dedicare gran parte del suo tempo ad alimentare un webzine come la nostra.

Sempre a rincorrere le tonnellate di materiale che puntualmente (e fortunatamente) arrivano alla base, con poche persone che hanno voglia di mettersi in gioco e dare una mano (anche e soprattutto nell’ambiente) e sempre i soliti che tra famiglia, l’odiato lavoro, gli scazzi di una vita sempre più difficile e gli anni che cominciano ed essere tanti sul groppone, portano inevitabilmente a quei momenti no dove tutto quello che si fa appare inutile e la voglia di mollare fa capolino nella testa.
Poi d’incanto tutto torna ad avere un senso, le dita scorrono sulla tastiera più fluide che mai mentre le note di un bellissimo album che, probabilmente, non sarebbe entrato mai nella propria sfera musicale se non fosse giunta una richiesta di ascolto da parte del gruppo protagonista di cotanta maestria musicale.
E allora pronti e via per questo viaggio in musica sulle note progressive dei nostrani Althea, quintetto lombardo fondato dal chitarrista Dario Bortot e dal bassista Fabrizio Zilio, al primo full length ma con un ep alle spalle (Eleven) risalente ad un paio di anni fa .
Memories Have No Name è un bellissimo concept di un solo brano diviso in sedici capitoli, incentrati sui ricordi e sull’impatto che questi hanno su due diversi personaggi, raccontato con il supporto della musica totale per antonomasia, il progressive.
Il sound di questo lavoro, pur mantenendo un approccio metallico alla musica progressiva, è molto più rock di quello che ad un primo ascolto si può recepire, il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.
Hard rock, AOR, metal prog ed un pizzico di rock moderno sono gli ingredienti principali di Memories Have No Name, album che sotto l’aspetto dell’emozionalità tocca vette sorprendenti.
La bravura dei musicisti coinvolti non si discute, ma sono appunto il calore e le emozioni che sprigionano dai vari capitoli a rendere l’opera un piccolo gioiello progressivo, con Paralyzed che, subito dopo l’intro, mostra la parte più metallica del sound, avvicinando il gruppo alla musica dei Dream Theater.
E allora direte voi?
Basta saper aspettare e la musica degli Althea saprà sorprendervi con un continuo ed entusiasmante cambio di atmosfere, dove i momenti topici sono quelli in cui l’anima intimista e sperimentale prende il comando dello spartito regalando momenti di ottima musica progressiva, con i vari intermezzi che non risultano riempitivi ma fondamentali momenti acustici ed atmosferici (A New Beginning, Drag Me Down e la title track) e tracce capolavoro come Halfway Of Me, Leave It For Tonight (brano progressivo dai rimandi beatlesiani), con la ballad Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E.), dallo smisurato impatto emotivo.
Parlare di influenze è riduttivo, ma il paragone a mio parere più calzante (e con le dovute differenze) è con gli Active Heed di Umberto Pagnini, specialmente nel talento innato per le melodie e per le emozioni che suscita la musica prodotta: Memories Have No Name è un lavoro imperdibile per gli amanti delle sonorità progressive.

TRACKLIST
1.Regression From Regrets
2.Paralyzed
3.A New Beginning
4.Revenge
5.Drag Me Down
6.Halfway Of Me
7.Intermediated pt. 1
8.I Can’t Control My Mind
9.Intermediated pt. 2
10.Leave it for Tonight
11.Memories Have No Name
12.The Game
13.Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E)
14.Take Me As I Am
15.Anything We’ll ever be
16.A Final Reflection

LINE-UP
Dario Bortot – Guitar
Fabrizio Zilio – Bass
Marco Zambardi – Key and Loops
Sergio Sampietro – Drums
Alessio Accardo – Vocal

ALTHEA – Facebook

Methane – The Devil’s Own

Southern metal ad alto volume, alcool e perdizione, cosa volere di più ?

Esordio sulla lunga distanza al fulmicotone per questo gruppo svedese devoto al southern metal e al metallo pulsante in generale.

Devil’s Own è un trionfo di chitarre distorte alla Pantera, incedere metallico e gran divertimento. Non parlo di Black Label Society ma di cose molto più divertenti e coinvolgenti. Nulla è statico in questo disco e tutto gira intorno al suono del diavolo. La voce è abrasiva e ci introduce in un girone infernale di sbronze cattive e sonno discinte che ci portano ancora più in basso nella scala della nostra perdizione. Il metal dei Methane è davvero notevole, con un groove dall’uncino notevole e il disco resiste molto bene ad ascolti ripetuti, anzi più lo si ascolta e maggiore è il piacere. Era da tempo che non usciva un disco così bello e ben prodotto di southern metal. Questo sottogenere del metal è una bestia che è sempre più difficile da gustare selvatica, ci sono alcuni esemplari in cattività ma non valgono nulla. Invece i Methane sono selvatici e vanno ad alta velocità senza risparmiare nulla, e la loro intensità e passione metallica è di gran livello. Gli svedesi riescono a creare un disco potente e mai ripetitivo, giocando molto bene con i codici e gli stilemi del southern metal. Alto volume, alcool e perdizione, cosa volere di più ?

TRACKLIST
1. The Devil’s Own
2. Scars and Bars
3. Blood Sweat and Beer
4. Pray for Death
5. Stone Garden
6. Spit on Your Grave
7. 72
8. Peel Off the Skin
9. Hang Me High

LINE-UP
Tim Scott – Bass, Vocals
Jimi Masterbo – Lead Guitar
Dylan Campbell – Guitar
Andreas Strom – Drums

http://www.facebook.com/methaneband

Roommates – Fake

Il viaggio nella frontiera americana è appena iniziato per i Roommates, partite insieme a loro con Fake

Quelle che sono sempre state le sonorità americane per antonomasia, negli ultimi anni hanno sempre preso più campo sia nell’hard rock che nel metal, tanto che è sempre diventato più facile parlare di southern metal o southern hard rock, riguardo a molte uscite discografiche degli ultimi tempi.

Una moda o qualcosa di più?
Vero è che il post grunge e lo stoner ben si adattano ad essere amalgamati con le note, molte volte malinconiche,  del southern rock puro, mentre nel metal già i Pantera avevano a loro modo giocato con il genere, poi approfondito con i vari progetti che hanno visto coinvolto Phil Anselmo.
Una premessa per presentare questo gruppo ligure, prima trio acustico, poi con l’entrata di Alessio Spallarossa degli storici deathsters genovesi Sadist, trasformatosi in una southern rock band elettrica, ma dal talento innato per le armonie semiacustiche e le atmosfere poetiche di un viaggio sulle highway americane.
L’esordio dei Roommates riesce a toccare vette emotive altissime e, per chi ama il genere e le opere dei maestri americani, risulta un piccolo gioiellino di rock americano perso tra la tradizione sudista ed accenni alle band che del genere hanno preso l’attitudine e quel tocco blues nascosto dall’elettricità del grunge o dello stoner (Kyuss/Pearl Jam), oppure ben evidenziato dalle scorribande di quella che è stata l’ultima grande rock blues band, i Black Crowes.
Così tra bellissime atmosfere di quel rock a stelle e strisce sinonimo di una libertà cercata, trovata e vissuta su strade bruciate dal sole, l’odore di pneumatici consumati in chilometri di deserto, ed una chitarra che lancia le sue note al cielo stellato, Fake trova la sua dimensione brani che non contengono appunto elettricità, ma anche delicata poesia western, come ben evidenziato dalle prime note della splendida Light.
Blow Away torna con il suo umore post grunge (mi ha ricordato non poco il southern hard rock dei napoletani Hangarvain), mentre le delicate armonie di Fakin’ Good Manners portano al rock blues dell’irresistibile Black Man Guardian, con le moto che ruggiscono di primo mattino e l’adrenalina del viaggio che sta per iniziare è alle stelle.
Le ultime tre tracce tornano a riempire la stanza di armonie delicate, con una Empty Love che è una rock ballad da antologia e On Water Wings e I Smile che sembrano dare il benvenuto alla notte e al meritato riposo.
Il viaggio nella frontiera americana è appena iniziato per i Roommates, partite insieme a loro con Fake, vi faranno sognare.

TRACKLIST
1.Light
2.Blow Away
3.Fakin’ Good Manners
4.Black Man Guardian
5.Empty Love
6.On Water Wings
7.I Smile

LINE-UP
Davide Brezzo – Guitar & Voice;
Danilo Bergamo – Guitar & Voice;
Marco Quattrocorde – Bass & Voice;
Alessio Spallarossa – Drum

ROOMMATES – Facebook

VODUN

Il video di Bloodstones, tratto dall’album Possession (Riff Rock Records).

Il video di Bloodstones, tratto dall’album Possession (Riff Rock Records).

Dopo il successo del loro primi mini tour italiano, gli inglesi VODUN tornano in Italia per altri tre imperdibili show nel mese di giugno.

Un mix incredibile di rock, musica tribale, psichedelia, riff potenti e batterie martellanti. Oya, The Marassa e Ogun sono pronti per farvi ascoltare il loro sound primordiale.

La band sarà in Italia pochi giorni dopo l’importante partecipazione all’Hellfest, tra i maggiori metal festival mondiali; più precisamente dal 20 al 22 giugno per tre show incredibili. Si parte dal Circolo Arci Svolta di Rozzano (MI) il 20 giugno, passando per il Rock Town di Cordenons (PN) fino al Blah-Blah di Torino.

Online il trailer del tour -> http://bit.ly/2nGHhN9

La band promuoverà il suo ultimo album “Possession” uscito pochi mesi fa per Riff Rock Records, da cui è tratto il video di “Bloodstones” che da il nome al nuovo tour dei VODUN che toccherà anche Germania, Olanda, Spagna oltre alla già citata Francia.

VODUN – BLOODSTONES EUROPE TOUR – Italian Shows

Martedì 20.06 @ Circolo Arci-Svolta, Rozzano (MI)
Evento FB -> https://www.facebook.com/events/1222369794546196/
Ingresso: 5€

Mercoledì 21.06 @ Rock Town, Cordenons (PN)
Evento FB -> https://www.facebook.com/events/464085010589277/
Ingresso gratuito

Giovedì 22.06 @ Blah Blah, Torino
Evento FB -> https://www.facebook.com/events/401894690173225/
Ingresso: 5€

“Vodun’s album POSSESSION sent more than a few shockwaves through the Noisey office with its offbeat blend of hefty stoner doom, low slung blues, heavy rock, and West African spiritualism.” – Noisey, Vice

“Like Aretha fronting Royal Blood after imbibing ayahuasca… unearthly, neck-snapping melange of Afro-beat, RnB and death metal…” – Mojo Magazine

Fall Of Carthage – The Longed-For Reckoning

I musicisti hanno esperienza da vendere e si sente, ma molti dei brani proposti non vanno oltre la sufficienza, tra spunti hardcore, nu metal e violenza da scontri sui marciapiedi di metropoli allo sbando.

Tra la miriade di proposte riguardanti l’ala più moderna del metal spunta il secondo album dei Fall Of Chartage, progetto messo in piedi da Arkadius Antonik, leader dei Suidakra, Martin Buchwalter, batterista dei Perzonal War, e Sascha Aßbach.

Un assaggio di quello che i tre musicisti ci scaraventano addosso è stato Behold, primo album uscito un paio di anni fa, ora seguito da The Longed-For Reckoning, un’opera di metal moderno mastodontica, se pensiamo alla durata di quasi un’ora che per il genere è come leggere il Signore degli Anelli in un giorno.
Lungo, troppo lungo anche perché la proposta non si discosta dal solito menù: ritmiche pregne di groove, qualche accenno metallico in stile Pantera e stop and go di scuola core sviluppati su sedici brani, alcuni valorizzati dall’elettronica ed alquanto interessanti (Sick Intentions), altri che sanno di già sentito in un genere ormai con la corda tirata all’inverosimile.
Gli spunti nu metal non mancano e alzano la tensione (Swept To The Edge), i musicisti hanno esperienza da vendere e si sente, ma molti dei brani proposti non vanno oltre la sufficienza, tra spunti hardcore, nu metal e violenza da scontri sui marciapiedi di metropoli allo sbando.
Si diceva dei musicisti, di un’altra categoria (Sascha Aßbach, per il genere, è un cantante dalla personalità unica, Martin Buchwalter svolge un lavoro enorme alle pelli e la sei corde di Antonik esplode in riff sincopati e core oriented) ma è il songwriting che non decolla, forse per l’eccessiva lunghezza il cui consistente alleggerimento avrebbe reso l’album sicuramente più digeribile.
Se il metal moderno è il vostro pane, The Longed-For Reckoning potrebbe regalarvi buoni spunti, ma se il genere lo ascoltate con parsimonia passate oltre.

TRACKLIST
1.Fast Forward
2.Dust And Dirt
3.Sick Intentions
4.They Are Alive
5.Swept To The Edge
6.Complete
7.For The Soul To Save
8.Whodini Peckawood
9.Suffer The Pain
10.Down Like Honey
11.Tapeworms
12.Paint It White
13.Bury The Crisis
14.Puerile Scumbag
15.Turning Point
16.Black December

LINE-UP
Sascha Aßbach – Vocals,
Arkadius Antonik – Guitars
Martin Buchwalter – Drums

FALL OF CARTHAGE – Facebook

Skallbank – The Singles

Una band con un sound che potenzialmente può fare danni e vedremo gli sviluppi futuri: un full length di qualità simile c’è solo da augurarselo.

Rock ‘n’ Roll made in Sweden, devastante, veloce ed irresistibile e per renderlo ancora più arrembante e arrabbiato, scream e growl si danno il cambio per vomitarci addosso una sequela di belligeranti inni del rock’ n’ roll style.

Il gruppo in questione si chiama Skallbank, è nato a Karlstad nel 2014 e questo ep è la raccolta dei singoli usciti in questi anni.
Quasi tutti i testi sono in lingua madre, il rumore è assicurato a colpi di hard rock, street, melodic death metal e il tutto funziona alla grandissima, sotto cascate di birra e watts.
Basta immaginarsi i Backyard Babies e gli Hardcore Superstar che se la fanno con i Sentenced di Down, e si avrà un’idea del massacro sonoro di cui sono capaci questi cinque svedesi dalla lattina facile ma dai riff impetuosi, nella più pura tradizione scandinava.
I brani, in effetti, sono cinque potenziali hit, dall’opener Falsarium, al riff che sa tanto di primi 69 Eyes e su cui è strutturata Halvmånar och träpinnar, mentre Dödens ord accenna un arpeggio acustico per esplodere in un refrain dall’appeal irresistibile.
Gli ultimi due brani (Sagor är för barn e Lättstöttare kan ingen vara) continuano a dispensare death ‘n’ roll dalla presa immediata, tracce costruite per far male e non lasciare di certo indifferenti i rockers dai gusti selvaggi e distruttivi .
Una band con un sound che potenzialmente può fare danni e vedremo gli sviluppi futuri: un full length di qualità simile c’è solo da augurarselo.

TRACKLIST
01 – Falsarium
02 – Halvmånar och träpinnar
03 – Dödens ord
04 – Sagor är för barn
05 – Lättstöttare kan ingen vara

LINE-UP
Tömte – Vocals
Rickard – Lead guitar
Mats – Guitar
Jonzon – Bass
Jocke – Drums

SKALLBANK – Facebook

Cerebral Extinction – Necro Parasite Anomaly

I brani si succedono come una lunga suite estrema, formata da nove bestiali capitoli in cui l’influenza dei maestri statunitensi è un dettaglio, causa la personalità e l’impatto del duo italiano che non teme confronti.

Sono un duo italiano, e suonano un brutal death di devastanti proporzioni, un enorme terremoto musicale arrivato al secondo e distruttivo episodio, dal titolo Necro Parasite Anomaly.

I Cerebral Extinction sono formati nella line up ufficiale da Shon (chitarra, ex Blessed Dead) e Malshum (voce, Human Waste): nel 2014 hanno dato vita a quello che era il primo tellurico lavoro, dal titolo Inhuman Theory of Chaos, ed ora tornano in tutta la loro devastante violenza in musica con questo nuovo album, un bombardamento sonoro che farà non poche vittime tra gli amanti del brutal death metal di ispirazione statunitense, con la sua mezz’ora di esplosioni estreme che, fin dall’intro Induced Transition, si abbatte come una tempesta sulla costa e a forza di trombe d’aria metalliche sferza, distrugge, tortura ed alla fine elimina ogni forma di vita in un vasto e devastato raggio.
Questo è brutal del più feroce, con blast beat che irrompono come tornado, un growl animalesco che accompagna un tale armageddon senza soluzione di continuità, in un vortice di violenza sadica.
I brani si succedono come una lunga suite estrema, formata da nove bestiali capitoli dove l’influenza dei maestri statunitensi è un dettaglio, causa la personalità e l’impatto del duo nostrano, che non teme confronti e ribadisce l’ottima salute della scena odierna dello stivale.
Inutile ribadire che Necro Parasite Anomaly è caldamente consigliato agli amanti del genere.

TRACKLIST
1.Induced Transition
2.Logic and Conspiracy
3.Nemesis the City of Madness (Part I)
4.Collision Identity
5.Nemesis the City of Madness (Part II)
6.Obscure Portal
7.Necro Parasite Anomaly
8.Face to Face
9.The End of All Worlds

LINE-UP
Shon – Guitars
Malshum – Vocals

CEREBRAL EXTINCTION – Facebook

Morbid Flesh – Rites Of The Mangled

I Morbid Rites vengono dalla Catalogna e fanno un death metal vecchia scuola in quota svedese molto valido e ben suonato.

I Morbid Flesh vengono dalla Catalogna e fanno un death metal vecchia scuola in quota svedese molto valido e ben suonato.

Nato nel 2007 il gruppo è arrivato con questo disco al secondo episodio della loro discografia su lunga distanza. Il loro suono è un ottimo death metal in stile svedese, suonato senza fronzoli e con molta passione. I Morbid Flesh, sin dal nome, mantengono ciò che promettono, e fanno un disco molto preciso e violento, con quel tipo di approccio che tanto piace ai fans del death metal più classico. Questo tipo di suono si fa amare per la sua cattiveria e potenza, per quell’impasto sonoro così speciale e malato che si crea tra la voce, la chitarra ed il basso distorti e la batteria che viaggia. Dischi come questo sono i migliori per accompagnare la vita di un deathster, che rimarrà sempre fedele a questo sound: quello dei Morbid Flesh esce così bene grazie anche all’ottima produzione di Javi Felez, che si è occupato di tutta la produzione e masterizzazione del disco. Il gruppo catalano vi entrerà dentro, lasciandovi quel classico gran bel gusto di odio e violenza in un contesto molto marcio che è poi l’essenza del death metal: il loro macina ogni cosa, rompendo ossa e passando sopra a cadaveri ancora caldi, e il disco dura il giusto per farci assaporare in pieno queste sensazioni.
Rites Of The Mangled è un gran bel disco di death metal vecchia scuola e ogni amante di questo sono dovrebbe dargli una possibilità.

TRACKLIST
1.Circle Cursed
2.Burn The Entrails
3.Banished To Oblivion
4.Heretics Hammer
5.Feeding Mallows
6.Incantation
7.Evil Behind You

LINE-UP
Makeda – Bass
Mitchfinder General – Drums
C. – Guitars
Gusi – Guitars, Vocals (backing), Drums
Vali – Vocals

MORBID FLESH – Facebook

Presence – Masters And Following

Masters And Following rappresenta il ritorno soddisfacente di una band ritrovata, per la quale si spera che questo sia solo l’inizio di una nuova e prolifica fase della sua storia.

Il fatto stesso che una band definibile in qualche modo di culto, come lo sono i Presence, si rifaccia viva dopo un lungo silenzio costituisce di per sé un evento, per cui resta solo da valutare quanto il trascorrere del tempo abbia influito o meno sull’operato del gruppo napoletano.

Indubbiamente, se si intendesse utilizzare quale termine di paragone un lavoro come Black Opera, che portò in maniera dirompente i Presence all’attenzione del pubblico nel 1996, sarebbe un partire con il piede sbagliato: vent’anni sono un lasso temporale che non può lasciare alcunché di immutato, tanto più se i musicisti, al di là delle centellinate uscite discografiche con questo monicker, sono stai attivi in altre vesti e alle prese con sfumature musicali differenti.
Ed è proprio un’accentuata varietà stilistica l’aspetto che colpisce maggiormente al primo impatto con Masters And Following: i Presence spaziano dal progressive più classico a quello metallizzato, passando attraverso pulsioni pop e hard rock, e a tutto questo non è certo estranea la decisione di annoverare tra i 13 brani del cd contenente i brani inediti anche ben tre cover, pure queste di natura variegata se pensiamo al rock settantiano di The House On The Hill degli Audience, alla NWOBH di Freewheel Burning dei Judas Priest ed al pop danzereccio di This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us degli Sparks (versione riuscitissima questa, che peraltro mi ha indotto a rivalutare quale fosse la caratura dei fratelli Mael, snobbati all’epoca da molti di noi imberbi fans del progressive).
In Masters And Following si attraversano così in maniera naturale tutte queste anime musicali immortalate da una serie di brani a mio avviso complessivamente riusciti, grazie ai quali, volendo giocare con il titolo dell’album, l’appellativo di “masters” nei confronti dei Presence calza a pennello …
Sicuramente il lavoro (del quale ho omesso inizialmente di dire che consta di un doppio cd, il secondo dei quali ripercorre la carriera del gruppo tramite una serie di canzoni registrate dal vivo) trova il suoi meglio nella parte iniziale, visto che la title track, Deliver e Now sono tre tracce differenti quanto efficaci, e soprattutto esaustive dell’incorrotta capacità della premiata ditta Baccini, Iglio, Casamassima di creare atmosfere coninvolgenti, nelle quali la robustezza del metal si sposa con naturalezza ad un tocco tastieristico settantiano e ad una voce come quella di Sophya che, come sempre, non si risparmia.
Diciamo anche, per converso, che dopo il trittico delle cover inframmezzato dal notevole strumentale Space Ship Ghost, la tensione scema leggermente senza che il livello complessivi si abbassi a lambire livelli di guardia, ritrovando anzi un’altra notevole impennata con un brano bellissimo come Collision Course.
Detto della parte dedicata al nuovo materiale, non resta che fare un breve accenno al cd dal vivo, purtroppo inficiato da una registrazione che spesso non rende giustizia alla bellezza della musica ed al talento dei musicisti, per cui la sua presenza nella confezione riveste più un valore documentale che non artistico, benché utile forse a spingere chi non conoscesse già i Presence a recuperare le opere originali dalle quali sono tratti i brani, cominciando ovviamente dall’imprescindibile Black Opera.
Masters And Following rappresenta il ritorno soddisfacente di una band ritrovata, per la quale si spera che questo sia solo l’inizio di una nuova e prolifica fase della sua storia.

Tracklist:
CD1:
1. Masters And Following
2. Deliver
3. Now
4. Interlude
5. The House On The Hill
6. Freewheel Burning
7. Space Ship Ghost
8. This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us
9. Prelude
10. Symmetry
11. Collision Course
12. On The Eastern Side
13. The Revealing

Bonus CD:
1. Scarlet
2. The Sleeper Awakes
3. Lightning
4. The Dark
5. Eyemaster
6. Just Before The Rain
7. The Bleeding
8. Un Di’ Quando Le Veneri
9. Orchestral:
– Overture
– Hellish
– J’Accuse
– Makumba
– Supersticious
– The King Could Die Issueless

Line up:
Sophya Baccini – vocals
Enrico Iglio – keyboards, percussion
Sergio Casamassima – guitars
Guests:
Sergio Quagliarella – drums
Mino Berlano – bass

PRESENCE – Facebook

AATHMA

Il video di Mithra, tratto dall’album di prossima uscita Avesta.

Il video di Mithra, tratto dall’album di prossima uscita Avesta (Underground Legends Records, Sacramento Records, Cosmic Tentacles, The Braves Records, Odio Sonoro, Lengua Armada, VZQ & Aladeriva Records).

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