Paragon – Hell Beyond Hell

Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.

Con i Paragon si torna a parlare di true power metal made in Germany, infatti la band di Amburgo oltre ad essere considerata ormai un gruppo storico del genere, è una di quelle che più ha mantenuto fede alla tradizione metallica del suo paese d’origine, dove la scena metal classica è diventata nel corso degli anni un punto di riferimento influenzando non poco le nuove generazioni di gruppi alle prese con i suoni heavy.

Nati nel 1990, i Paragon non hanno mai raggiunto il successo dei gruppi considerati i padri del genere, come Accept ed Helloween negli anni ottanta e poi i vari Gamma Ray, Grave Digger e Rage, nel decennio successivo, ma la loro discografia si è comunque sempre mantenuta su una buona qualità, tanto da non passare inosservati ai fans dei suoni heavy/power, anche grazie ad album di assoluto valore come la triade Steelbound , Law Of The Blade e The Dark Legacy, usciti tra il 2001 ed il 2003, anni ancora grassi per il genere, almeno in Europa.
Il tempo scorre inesorabile anche per il gruppo del chitarrista Martin Christian, siamo giunti al traguardo dell’undicesimo album, non male per una band che ha continuato per tutti questi anni a portare avanti la sua missione: suonare power/speed/heavy metal, veloce, devastante, epico e senza compromessi.
Prodotto da un monumento del power europeo come Piet Sielck , mastermind degli Iron Savior, il nuovo lavoro non deluderà i defender rimasti fedeli alle linee classiche del metal: Hell Beyond Hell è pregno di quel sound a metà strada tra l’heavy forgiato nell’acciaio dei Primal Fear ed il power ruvido e senza compromessi dei Grave Digger.
Senza riempitivi, l’album scorre nei cliché del genere, ma una produzione cristallina, energia a volontà e un lotto di buoni brani splendidamente metallici, non tradiscono le aspettative, confermando i Paragon come ottimi rappresentati dell’heavy metal di matrice teutonica.
Si passa da brani dall’andatura sostenuta ad altri dove le ritmiche rallentano e le atmosfere si colmano di epicità metallica, le asce tagliano l’aria con solos dirompenti e i chorus sono potenti inni al dio metallico: una tempesta di suoni, valorizzata dalla prova tutta grinta di Andreas Babuschkin al microfono e dai solos taglienti della coppia Christian/Bertram, mentre Jan Bünning al basso e Sören Teckenburg alle pelli, formano un muro di cemento armato metallico invalicabile.
Tanta epicità ed uno straordinario lavoro di Sielck alla consolle, che valorizza potenza e melodia, specie in brani come Rising Forces, Heart Of The Black, Stand Your Ground e Buried In Blood, mantengono Hell Beyond Hell su un’ottima qualità generale, consentendo ai Paragon di uscire vincitori anche dall’undicesima fatica.
Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.

TRACKLIST
1. Rising Forces
2. Hypnotized
3. Hell Beyond Hell
4. Heart Of The Black
5. Stand Your Ground
6. Meat Train
7. Buried In Blood
8. Devil’s Waitingroom
9. Thunder In The Dark (Bonustrack)
10. Heart Of The Black (Edit Version / Bonustrack)

LINE-UP
Andreas Babuschkin – Lead Vocals
Martin Christian – Guitars, Backing Vocals
Jan Bertram – Guitars, Backing Vocals
Jan Bünning – Bass, Backing Vocals
Sören Teckenburg – Drums

PARAGON – Facebook

Law 18 – Law 18

Al confine tra hardcore e metal questo gruppo milanese fa molto casino e regala belle soddisfazioni.

Possente ed ignorante hardcore metallico con forti rimandi ad eroi metropolitani come Biohazard e Sick Of It All. Al confine tra hardcore e metal questo gruppo milanese fa molto casino e regala belle soddisfazioni.

Le coordinate sono quelle di cui sopra ma c’è molto di più, perché i Law 18 ci mettono molto di loro, e con doppia voce e tanta cultura metal ci portano in posti dove i calci volano come polline a primavera e dove ci sono elementi di vari generi, tutti messi insieme validamente. La produzione è buona, ma potrebbe essere migliore, perché lascia giusto intravedere l’enorme potenziale del gruppo, ma è comunque sufficiente per rendere questo lavoro assai divertente. I Law 18 fanno canzoni ben al di sopra della melodia, con aperture vocali e tanto lavoro sotto, con fatica e passione.
I nostri sono persone che amano ed ascoltano molta musica e ciò lo si sente chiaramente, ma sono anche un gruppo che ambisce a qualcosa in più per quanto riguarda il discorso musicale. Un disco che è un ottimo inizio, e le pedate continueranno, rimanete in zona.

TRACKLIST
1.Dwarfs & Cowboys
2.You Blind
3.Hollow Earth Society
4.Dominus Caeli
5.Dirty of Blood
6.Leather’s Wreck
7.Mirror Reflections
8.Rage Against Me
9.2010

LINE-UP
Davide C – Lead Guitar, Voice
Lorenzo Colucci – Bass
Luca Ferrario – Drums, Voice
Alessandro Mura – Voice, Harmonica
Lorenzo Perin – Voice, Rhythm Guitar

LAW 18 – Facebook

Megascavenger – As Dystopia Beckons

Il death metal dei nostri soldati estremi risulta più americano che scandinavo, in realtà, oscuro e devastante e violentato da suoni sintetici di matrice industriale che sottolineano ancora di più il contenuto lirico dei brani.

Eccoci qua, ancora una volta a parlare di Rogga Johansson, polistrumentista e compositore svedese che non ne vuol sapere di prendersi una pausa e continua ad invadere il mercato dell’ underground estremo con le sue proposte, sempre di ottima qualità e che hanno nel loro DNA il death metal old school.

Meno male aggiungerei, visto che anche questo progetto chiamato Megascavenger, porta con sé musica di alto livello.
Fondati da Rogga intorno al 2012, anno in cui usciva il primo ep, i Megascavenger arrivano quest’anno al terzo full length, dopo Descent of Yuggoth del 2012 ed il precedente At the Plateaus of Leng, uscito un paio di anni fa.
A far coppia con prezzemolino Johansson troviamo alla batteria Brynjar Helgetun, anche lui alle prese con svariati progetti come Axeslasher, Crypticus, Johansson & Speckmann, Just Before Dawn, Liklukt e The Grotesquery, insomma un altro instancabile protagonista dell’underground estremo proprio come il buon Rogga.
Il concept che gira intorno ai brani dell’album parla di tematiche fantascientifiche ed horror, ben evidenziate nella copertina raffigurante un Terminator stile Schwarzenegger ormai distrutto da una terribile guerra futurista.
Il death metal dei nostri soldati estremi risulta più americano che scandinavo, in realtà, oscuro e devastante e violentato da suoni sintetici di matrice industriale che sottolineano ancora di più il contenuto lirico dei brani.
Rogga questa volta non molla neppure il microfono, il suo growl è di quelli cavernosi ed animaleschi, chitarra e basso suonano oscuri, le linee industriali sono soffocanti, mentre il lavoro alle pelli è altamente distruttivo.
I soldati in lega d’acciaio, con gli occhi infuocati di un rosso freddo come l’espressione di una macchina per uccidere, si aggirano in paesaggi di distruzione, i martellanti e marziali rintocchi industriali creano un’atmosfera di terra disumanizzata, mentre i nostri confezionano una colonna sonora davvero efficace.
Mezz’ora, non di più, e As Dystopia Beckons crea un’aura terrificante che non abbandona l’ascoltatore neanche dopo la fine dell’album, straziato da ottime songs di death old school amalgamato all’industrial.
Non manca la ciliegina sulla fantascientifica torta: The Harrowing of Hell è una dark song che vede come ospite Kam Lee, vocalist con Johansson nei magnifici The Grotesquery, nonchè ex di una band storica come i Massacre.
Un altro ottimo lavoro firmato dal musicista svedese, sempre alle prese con il suo amato death metal, ma con proposte che variano sia per il concept che nel sound, a dimostrazione del suo inossidabile talento.

TRACKLIST
1. Rotting Domain
2. The Machine That Turns Humans into Slop
3. Dead City
4. As the Last Day Has Passed
5. The Hell That Is in This World
6. Dead Rotting and Exposed
7. Steel Through Flesh Extravaganza
8. The Harrowing of Hell
9. As Dystopia Beckons

LINE-UP
Rogga Johansson – Guitars, Bass, Vocals
Brynjar Helgetun – Drums

MEGASCAVENGER – Facebook

Veuve – Yard

Album che cresce con gli ascolti, Yard è un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016

L’invasione di gruppi dediti ai suoni stonati nel nostro paese non conosce ostacoli, ormai da nord a sud, isole comprese, le danze sabbatiche si sprecano e con queste anche le ottime band intente a proporre, ciascuna a modo loro, sound monolitici e magmatici.

Elevators To The Grateful Sky, Desert Hype, Mutonia, sono solo alcuni dei gruppi che, negli ultimi tempi, hanno realizzato ottimi lavori, chi amalgamando il genere con suoni psichedelici, chi con l’alternative e chi, come i Veuve, con il sound settantiano di sabbatiana memoria.
Yard è il primo lavoro sulla lunga distanza per il trio di Spilimbergo, che arriva pesante come un meteorite in caduta libera sulla Terra, dopo un ep e la firma con The Smoking Goat Records.
Lunghe litanie in cui armonie acustiche lasciano spazio a violente e potenti esplosioni di lento incedere doom metal, una voce delicata che, come l’immagine angelica risvegliata da un fantastico e celestiale trip, ci accompagna tra i deserti bruciati dal sole, dove i miraggi ed i flash visivi sono gli unici compagni del nostro girovagare per ritrovare la strada perduta: questo è ciò che evoca il sound dei Veuve, caratterizzato da un basso che, come il battito di un cuore allo stremo, si accoppia con il drumming, un tappeto di ritmiche dal lento incedere, che a tratti varia di poco la velocità per accompagnare la sei corde, ora urlante riff stonati, ora più noise oriented, ma soprattutto protagonista di bellissime armonie acustiche.
L’album si sviluppa come una danza sabbatica, interrotta da tempeste e sfuriate di metallo stonato, il gruppo compatto ci invita alla sua jam lunga più di una quarantina di minuti dove i brani si susseguono, prima lungo un sentiero tranquillo, mentre susseguentemente, col passare dei minuti l’aggressività si fa arrembante, il dolce trip si trasforma in un incubo in cui fantasmi settantiani trasformano le dolci armonie vocali in grida di disperata ricerca di quella pace ora lontana; la sensazione di drammaticità diventa soffocante nelle ottime trame delle varie, Yeti, Witchburner e Pryp’jat’, un’escalation di heavy, doom, stoner emozionante che ha preso il posto dell’aura sognante dell’opener We Are Nowhere, ormai lontana anni luce dal mood intenso e cluastrofobico di questo esaltante trittico finale.
Album che cresce con gli ascolti, Yard è un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016.

TRACKLIST
1. We Are Nowhere
2. Days Of Nothing
3. Mount Slumber
4. 40.000 Feet
5. Flash Forward
6. Yeti
7. Witchburner
8. Pryp’jat’

LINE-UP
Andrea Carlin – Drums
Felice di Paolo – Guitar
Riccardo Quattrin – Bass & Vocals

VEUVE – Facebook

Funeral Moth – Transience

Transience è un disco di buona fattura. al quale manca solo la capacità di evocare quelle vibrazioni emotive che, in lavori di band più note vengono esibite con maggior continuità.

Mi capita di rado, specialmente per i generi che tratto normalmente, di parlare di musica proveniente dal Giappone.

In effetti, quelle poche band dedite a generi estremi che ho avuto occasione di ascoltare non è che mi abbiamo mai impressionato più di tanto, così non è che mi sia avvicinato con grande convinzione a questo lavoro dei Funeral Moth.
Come spesso (e fortunatamente) accade, mi sono dovuto ricredere visto che l’interpretazione del funeral doom fornita dalla band nipponica è piuttosto convincente e competente.
Il quartetto è attivo da circa un decennio, ma il primo passo su lunga distanza risale a due anni fa (Dense Fog): Transience è la prima uscita senza uno dei due membri fondatori, il bassista Nobuyuki Sentou, il che lascia le redini nelle mani del solo Makoto Fujishima, chitarrista, vocalist e, cosa non da poco, titolare della Weird Truth, label specializzata in doom che vede nel proprio roster nomi del calibro di Ataraxie, Mournful Congregation, Profetus e Worship, tra gli altri.
Lo stile attuale dei Funeral Moth è prossimo proprio a quello dei tedeschi Worship, quindi si parla di una forma di funeral molto asciutta ed essenziale e dall’incedere per lo più bradicardico, ma in questo caso il suono si rivela ancor più rarefatto, lasciando che spesso siano minimali contributi dei singoli strumenti a guidare lo sviluppo dei due lunghi brani che vanno a comporre Transience.
La band di Tokyo forse indulge troppo su questo aspetto della propria proposta, visto che il contributo vocale di Fujishima, dotato di un buonissimo e intelligibile growl, è però piuttosto parco e ciò rende il tutto ancor più statico di quanto normalmente ci si possa aspettare da un disco di funeral doom ma, nel contempo, non viene mai meno quel senso di ineluttabile tragedia che comunemente si cela dietro ogni singola nota di un album catalogabile all’interno del genere.
Detto ciò, Transience è comunque un disco di buona fattura al quale manca solo la capacità di evocare quelle vibrazioni emotive che, in lavori di band come i già citati Worship o gli stessi Mournful Congregation, vengono esibite con maggior continuità; due brani come la title track e Lost, alla fine, risultano un ascolto apprezzabile per chi ha una certa familiarità con questi suoni, meno per chi predilige il versante più melodico e atmosferico del funeral.

Tracklist:
1.Transience
2.Lost

Line-up:
Makoto Fujishima – Guitars, Vocals
Youichirou Azegami – Drums
Tomohiro Kanjya – Guitars
Ryo Amamiya – Bass

FUNERAL MOTH – Facebook

Poem – Skein Syndrome

Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.

Sono svariate e tutte affascinati le strade da percorrere nel mondo del metal/rock: per esempio il sound alternative degli anni novanta, da molti considerato colpevole di aver messo nell’ombra i suoni metallici classici, ha invece aperto nuove porte ed orizzonti, specialmente nell’ambito progressivo, ancora ancorato alla tradizione settantiana.

Molte band in questi anni hanno seguito il sentiero impervio tracciato da gruppi geniali come i Tool o i Pain Of Salvation, rompendo le catene che imprigionavano il genere, fermo (più per colpa degli appassionati che degli stessi musicisti) agli storici nomi i cui primi passi sono prossimi a compiere il mezzo secolo, per esplorare nuovi modi di proporre musica fuori dagli schemi.
I greci Poem sono una di queste ottime realtà: nati nella capitale intorno al 2006, licenziano il secondo lavoro, Skein Syndrome, che segue il debutto The Great Secret Show, lavoro che ha portato loro molte meritate soddisfazioni e la possibilità di confrontarsi on stage con nomi altisonanti del mondo metallico come il madman Ozzy Osbourne, i Paradise Lost ed i Pain Of Salvation.
Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.
Ottimo l’uso della voce, che richiama il post grunge statunitense alla Creed, per intenderci, mentre il sound rimane in tensione per tutta la durata dell’album, non mancando di toccare vette emozionali altissime (Fragments, Weakness), portando nelle cascata di note progressive molto della lezione impartita dal gruppo di Daniel Gildenlöw e dell’intimista drammaticità di Anathema e Katatonia.
Stati Uniti ed Europa, due modi diversi di intendere il rock che si è affacciato sul nuovo millennio, vengono fatti vivere in simbiosi nello spartito di questo bellissimo gioiellino che risulta Skein Syndrome, dove il nuovo progressive viene fagocitato ed aggredito dalle fiere alternative e metal per un banchetto a base di oscura e drammatica musica matura e terribilmente ipnotizzante.
Remission Of Breath, brano conclusivo del cd, funge da perfetto sunto del credo musicale del gruppo greco, con un’interpretazione al microfono del chitarrista George Prokopiou che da buona diventa colma di sontuosa e dolorosa teatralità.
Gran bel lavoro dunque, le attese dopo il debutto di ormai otto anni fa sono state giustificate dalla qualità di questa cinquantina di minuti, tutti da vivere sotto l’effetto emozionale che il gruppo non manca di riservare a più riprese lungo il corso di un album assolutamente da avere.

TRACKLIST
01. Passive Observer
02. Fragments
03. The End Justifies the Means
04. Bound Insanity
05. Weakness
06. Desire
07. Remission of Breath

LINE-UP
Giorgos Prokopiou – Vocals/Guitars
Laurence Bergström – Lead Guitars
Stratos Chaidos – Bass
Stavros Rigos – Drums

POEM – Facebook

Split Heaven – Death Rider

Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.

Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.

Gli Split Heaven sono una metal band molto conosciuta in patria, con tanto di mascotte maideniana (il pistolero in copertina) ed una già nutrita discografia.
Attivo dai primi anni del nuovo millennio, il gruppo messicano arriva con questo ottimo Death Rider al quarto full length, dopo l’esordio licenziato nel 2008 (Psycho Samurai) ed un paio di lavori molto apprezzati nell’underground metallico, Street Law del 2011 ed il precedente The Devil’s Bandit, uscito tre anni fa.
Il nuovo lavoro porta con sé un’importante novità: l’entrata nel gruppo del vocalist Jason Conde-Houston, sostituto di Giancarlo Farjat, singer sul precedente lavoro.
Death Rider continua la tradizione della band, il cui sound mantiene tutte le qualità di un heavy speed metal, influenzato tanto dalla new wave of british heavy metal, quanto dal U.S. metal, con chitarre che si lanciano in solos sempre ben in evidenza, sezione ritmica potente ed elegante ed un vocalist dalla timbrica old school, che non mancherà di fare proseliti tra i più legati alla tradizione.
Death Rider è composto da un lotto di brani coinvolgenti, che alternano cavalcate maideniane, rasoiate speed che possono ricordare i Primal Fear e l’eleganza tutta americana di band come gli Helstar.
Il nuovo singer si guadagna la pagnotta con una performance di qualità, anche se sono le chitarre che nell’album fanno la differenza (Carlo “Taii” Hernandez e Armand Ramos), due pistole che sparano proiettili metallici senza soluzione di continuità.
L’album ha nelle bellissime trame metalliche della title track, di Battle Axe, di Sacrifice e di Talking With The Devil, ottimi esempi di come si possa ancora suonare heavy metal tradizionale, risultando freschi e convincenti.
Se siete amanti dell’heavy metal classico, non perdetevi questo ottimo lavoro.

TRACKLIST
1. Death Rider
2. Awaken the Tyrant
3. Battle Axe
4. To The Fallen
5. Speed Of The Hawk
6. Ghost Of Desire
7. Sacrifice
8. Talking With The Devil
9. Descarga Letal
10. Destructor

LINE-UP
Jason Conde-Houston – vocals
Carlo “Taii” Hernandez – guitars
Tomas Roitman – drums
Armand Ramos – guitars

SPLIT HEAVEN – Facebook

Spektr – The Art To Disappear

The Art To Disappear costituisce un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.

Ritroviamo i francesi Spektr, a tre anni da Cypher, alle prese con il loro apocalittico mix tra industrial, ambient e black metal.

A livello di sonorità poco è cambiato: The Art To Disappear è decisamente, come il suo predecessore, un lavoro di ardua decrittazione, ma la sensazione è quella che il duo composto da kl.K. e Hth sia riuscito a focalizzare meglio la propria vis sperimentale.
L’album mostra sempre una qualche dispersività, che è connaturata all’indole avanguardistica dei suoi autori, ma nel contempo i vari tasselli paiono essere meglio collocati al loro posto: i passaggi più contorti sono maggiormente funzionali e connessi alle sfuriate tipicamente black e, cosa fondamentale, The Art To Disappear riesce a non annoiare nonostante i nostri poco o nulla facciano per risultare più ammiccanti.
Indubbiamente, i due musicisti transalpini centrano il bersaglio quando si lasciano andare alle sfuriate black/industrial, con micidiali ordigni quali From the Terrifying to the Fascinating e Your Flesh Is a Relic, per esempio, o con la summa della loro musica costituita dalla conclusiva title track, che tra il terzo e il quinto minuto regala persino una spaventosa accelerazione di matrice black’n’roll.
Se Cypher in più di una circostanza non convinceva del tutto, questa nuova fatica degli Spektr sgombra molte di quelle nubi in virtù di una sintesi raggiunta grazie al maggior equilibrio e coesione tra le parti ambient-rumoriste e quelle di matrice black metal.
The Art To Disappear costituisce, quindi, un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.

Tracklist:
1. Again
2. Through the Darkness of Future Past
3. Kill Again
4. From the Terrifying to the Fascinating
5. That Day Will Definitely Come
6. Soror Mystica
7. Your Flesh Is a Relic
8. The Only One Here
9. The Art to Disappear

Line-up:
kl.K. – Vocals, Drums, Samples, Programming
Hth – Vocals, Guitars, Bass, Samples, Programming

Martyr – You Are Next

Altra reunion di una band storica dell’heavy power olandese, i Martyr, tornati sul mercato con l’ottimo Circle Of 8 del 2011, album che li vedeva tornare dopo ben 25 anni di silenzio, dal secondo lavoro Darkness at Time’s Edge, datato 1986.

Band nata nel lontano 1982, i Martyr seguivano i canoni dell’allora new wave of british heavy metal, dando alle stampe, nel 1985 il primo album, For The Universe.
Prima la Metal Blade con il precedente Circle Of 8, ed ora la Pure Steel, hanno dato credito a questa reunion, ed il quintetto di Utrecht si ripresenta dopo cinque anni in forma smagliante, confezionando un macigno heavy power thrash davvero potente .
Confermando il trend del precedente lavoro, i Martyr hanno spostato il tiro della loro proposta, verso un sound più ruvido ed arcigno: questo nuovo lavoro, pur garantendo uno stilema old school, è ben prodotto e contiene quelle atmosfere thrash che rendono il tutto pesante, a tratti devastante, lasciando che il mood classico si sposi con la grinta e la pesantezza del thrash dai richiami power.
Mai troppo veloce, ma dall’andamento monolitico, con tra i solchi un gran lavoro delle sei corde, protagoniste con la prova del singer Rop van Haren, un mostro di personalità debordante al microfono, You Are Next si trova esattamente a metà strada tra il power teatrale dei fenomenali Angel Dust di Border Of Reality ed i primi Testament.
Ne esce un album che, a tratti, entusiasma, forte di un ottimo songwriting e dell’abilità dei protagonisti, certo non dei novellini e dotati di un’esperienza trentennale messa al servizio di metallo aggressivo, dall’impatto terremotante, ma, allo stesso tempo, dotato di un’eleganza tutt’altro che nascosta dalle cascate di riff e solos che i due axeman (Rick Bouwman e Marcel Heesakkers) riversano sullo spartito di questa raccolta di brani, alcuni davvero eccellenti.
Questi vecchietti con il viziaccio di suonare metal con la M maiuscola mi hanno letteralmente stupito: il loro suono risulta potente e fresco, le songs marciano spedite, già dall’opener Into The Darkest Of All Realms, introdotta dalla voce di un bimbo, mentre le chitarre esplodono e la sezione ritmica tiene il passo con mestiere (Wilfried Broekman alle pelli e Jeffrey Bryan Rijnsburger al basso).
Enorme Van Haren al microfono: personale, teatrale, potente e dannatamente coinvolgente, mette a ferro e fuoco i padiglioni auricolari con una prova d’applausi, mentre l’album prende il volo con Infinity, altro pezzo da novanta di You Are Next, e non si ferma più, rimanendo ad altezze elevate in fatto di qualità e coinvolgimento.
Monster e Mother’s Tear, la velocissima e violentissima In The End, sono gemme di heavy power, sparate da un cannone metallico, mentre il singer dàletteralmente spettacolo nell’inno ottantiano Don’t Need Your Money, posto a chiusura del disco ed esempio di come si suona l’heavy metal old school nel 2016.
Un ritorno esaltante, fatelo vostro.

TRACKLIST
1. Into The Darkest Of All Realms
2. Infinity
3. Inch By Inch
4. Souls Breathe
5. Unborn Evil
6. Monsters
7. Crawl
8. Mother’s Tear
9. In The End
10. Don’t Need Your Money

LINE-UP
Rick Bouwman – guitars
Rop van Haren – vocals
Wilfried Broekman – drums
Jeffrey Bryan Rijnsburger – bass
Marcel Heesakkers – guitars

MARTYR – Facebook

Sinphobia – Awaken

Un bombardamento sonoro che non lascerà indifferente sia chi predilige il death tout court, sia chi è propenso ad ascolti più in linea con il sound degli ultimi anni e che non nasconde una predisposizione insana per il thrash moderno.

La Bakerteam, oltremodo dotata di un gran fiuto per gruppi dall’alto spessore artistico, ci invita a fare dell’headbanging sfrenato con Awaken, nuovo lavoro dei veneti Sinphobia.

Il primo album autoprodotto, risalente a due anni fa, qui viene riproposto per intero con l’aggiunta di un’intro e due bonus track, dando vita ad un’ottimo lavoro che spazia tra death metal, thrash e soluzioni moderne, molto statunitense nel sound e dall’impatto di un carro armato.
Convincono a più riprese i quattro musicisti nostrani, il loro album risulta un assalto sonoro di notevole intensità, compatti ed affiatati, non lasciano punti deboli in balia di chi ascolta, grazie alla notevole prova del vocalist (Conso), al gran lavoro di una sezione ritmica che non risparmia blast beat a manetta, ritmiche dal groove micidiale, ed a tratti potenti bordate moderniste che incollano al muro (Darkoniglio al basso e Falsi alle pelli).
Una forza della natura il chitarrista Vain, punto di forza di questo quartetto di distruttori sonori: la sua prova, specialmente nelle ritmiche, è da applausi, contribuendo ad alzare un muro sonoro invalicabile di potenza estrema.
Un lavoro con gli attributi, senza fronzoli, un bombardamento sonoro che non lascerà indifferenti sia chi predilige il death tout court, sia chi è propenso ad ascolti più in linea con il sound degli ultimi anni e che non nasconde una predisposizione insana per il thrash moderno (Lamb Of God).
Il groove rimane sempre a livelli altissimi così come la tensione, i riff rompono ossa e triturano carni, il basso esplode sotto i colpi inferti da Darkoniglio sulle quattro corde, mentre le bacchette scintillano sulle pelli abrase dalla forza di Falsi.
Non manca qualche brano che spicca sul resto dell’album, a cominciare da Prayer To Wacry, la death metal Thread Of Salvation, il moderno groove di Respect e l’elaborata March Of The Lambs, tra velocità e rallentamenti , in una tempesta di suoni estremi molto ben congegnati.
Ottimo lavoro e gruppo che si candida come una delle sorprese dell’anno nel genere proposto: siamo in Italia, quindi supportare realtà meritevoli come i Sinphobia diventa un dovere per chiunque si professi un amante del metal estremo.

TRACKLIST
1. Fearless Horde (Intro)
2. Prayer to Warcry
3. Guilty of Downfall
4. The Punishing Hand
5. Thread of Salvation
6. Respect
7. Face Your Mirror
8. March of the Lambs
9. Tetra (Raw version)
10. Labyrinth (Elisa cover)

LINE-UP
Darkoniglio – Bass
Falsi – Drums
Vain – Guitars
Conso- Vocals

SINPHOBIA – Facebook

Stoned Jesus – Stormy Monday EP

Ristampa dell’EP Stormy Monday del 2011, la Heavypsychsounds ci fornisce un’ottima occasione per poter avere in casa uno dei primi lavori della band ucraina in formazione completa.

A meno di sei mesi dall’uscita del precedente The Harvest il trio ucraino si ripropone al pubblico con la ristampa dell’EP Stormy Monday, datato 2011, che ripropone la title track in due diverse versioni, una cover dei californiani Red Temple Spirits (Bear Cave) e una canzone insolitamente veloce, quasi punk hardcore della durata di 2 minuti.

Interessante e estremamente gradevole l’inizio di Stormy Monday, esempio di amore disilluso. Da cantare in solitario quando le cose vanno male o si è contrariati.
Bear Cave è una ballata triste e sconsolata, il cui inizio è accompagnato solo da chitarra acustica e voce, piuttosto sofferente. E il testo può essere sia una metafora della vita dell’uomo, sia semplici parole sconnesse di un uomo che vive isolato. A metà l’esplosione sullo stile di Eye Of Every Storm dei Neurosis. Lacerante nelle interiora, piena di rassegnazione, espressa anche attraverso suoni sporchi, manifestazione di una registrazione non proprio efficace. Tributo buddista al nulla.
Drunk And Horny inneggia al puro divertimento, canzone da non cantare alla propria metà, ma piuttosto da serata in cui ci si vuole caricare per andare a rimorchiare, per finire in modo decisamente rovinoso.
Nella extended version gli assoli di chitarra alternano note psichedeliche con tratti decisamente più progressive, anche se rimane un movimento di sottofondo, riff stoner doom che poi sono quelli che chiudono la canzone.
Un album stoner decisamente più tendente alla psichedelica, ma vista la durata e il numero di canzoni, ad uso di collezionisti.

TRACKLIST
1. Stormy Monday (edit)
2. Bear Cave
3. Drunk And Horny
4. Stormy Monday (extended)

LINE-UP
Igor Sydorenko- chitarra, voce, campionamenti
Sergey Sliusar – basso
Vadim Matiiko – batteria
Sergey Nesterenko – tastiere, mix

STONED JESUS – Facebook

Vanad Varjud – Dismal Grandeur in Nocturnal Aura

Quattro lunghi brani ci introducono in un mondo in cui la musica ambient, così come la conosciamo, viene di volta in volta spazzata via da accelerazioni comunque sempre abbastanza controllate, passaggi dalle sfumature epiche o progressioni piuttosto evocative.

Secondo album per i Vanad Varjud, band della quale poco si sa, se non che trattasi di un trio estone dedito ad un black ambient dai tratti ben poco rassicuranti.

Quattro lunghi brani ci introducono in un mondo in cui la musica ambient, così come la conosciamo, viene di volta in volta spazzata via da accelerazioni comunque sempre abbastanza controllate, passaggi dalle sfumature epiche o progressioni piuttosto evocative.
In effetti il lavoro può soffrire in parte di questa sua discontinuità, ma non si può negare che l’operato dei Vanad Varjud sia comunque meritevole di una certa attenzione. Forse lo screaming e un po’ troppo sgraziato, se rapportato al tipo di sound offerto, e Ott Kadak fatica specie quando deve spiegare la voce in senso melodico.
Il picco dell’album è senz’altro l’ottima Gloomy Sunday , mid tempo dalle azzeccate armonie chitarristiche in cui tutto funziona al meglio, avvicinando per attitudine un act estroso come gli A Forest of Stars.
Dismal Grandeur in Nocturnal Aura è quindi un lavoro di buona fattura, ancor più apprezzabile per la volontà dei nostri di non limitarsi ad un compitino privo di rischi, ma dando sfoggio, invece, di un sound a tratti grezzo ma senz’altro efficace e coinvolgente.

Tracklist:
1. Tume Kamber
2. Winter’s Dawn
3. Dismal Dusk
4. Gloomy Sunday

Line-up:
Thon – Drums, Vocals (backing), Piano
Sorts – Guitars, Bass, Fx
Ott Kadak – Vocals (lead)

VANAD VARJUD – Facebook

Zaibatsu – Zero

Gli Zaibatsu descrivono fini, stritolamenti post industriali e ricatti di metastasi senzienti, il tutto con un magnifico piglio post industrial.

Ci sono rari momenti di illuminazione nei quali, pur guardando un magnifico cielo fatto di bellissimi colori, senti che la fine è vicina, e ti avvolge uno strano senso di pace.

Purtroppo da quel momento alla pace eterna il cammino è ancora duro e pieno di pericoli. Gli Zaibatsu descrivono fini, stritolamenti post industriali e ricatti di metastasi senzienti, il tutto con un magnifico piglio post industrial. Ci sono accelerazioni, momenti chiari e concisi, impastamenti sonori e tante tante cose suonate con il cuore. Riferimenti al loro suono potrebbero oscillare dal grunge all’industrial, ma gli Zaibatsu per fortuna sono un qualcosa di unico e forse irripetibile, poiché fanno generi che non hanno patria, se non nel significato che vogliono attribuirgli chi li suona. Il disco scorre imponente e magnifico, descrivendo un fallimento globale che è solo nostro, poiché ci lasciamo avvelenare in ogni dove, sia fisicamente che spiritualmente, e paghiamo pure per morire di tumori ed essere legati ad un carrello della spesa. Zero è un disco rimarchevole e duro, che potrebbe essere tranquillamente pubblicato dalla Dischord. In Italia abbiamo dimostrato che siamo bravissimi a fare dischi apocalittici, e questo è magnifico. Da sentire e contorcersi, in una danza zero.

TRACKLIST
1. Plastic Machine Head
2. Oppenheimer’s Sister
3. Chemtrails
4. Mantra 3P
5. Pirates
6. Gnomes
7. Technocracy
8. Abac
9. Starless
10. Collateral Language

ZAIBATSU – Facebook

Demonstealer – This Burden Is Mine

Non smettono di stupire le realtà metalliche provenienti dalla magica India e noi di iyezine non ci priviamo della possibilità di portarle a conoscenza di chi ci segue, una missione che appaga specialmente il nostro udito, visto l’enorme potenziale di quel movimento.

Mumbai, una delle città più popolose al mondo, ha una scena metal/rock davvero entusiasmante nei suoi angoli e anfratti crescono band e gruppi di spessore, toccando un po’ tutti i generi che compongono il variegato ed affascinante mondo della nostra musica preferita.
Demonic Resurrection, Albatross e Reptilian Death, nomi che i più attenti lettori avranno incontrato nei nostri viaggi virtuali alla scoperta dell’underground asiatico, sono band eccellenti che hanno tutte un denominatore comune, The Demonstealer: il polistrumentista indiano milita ed ha militato nei gruppi citati e non solo ma, dal 1998, ha fondato il suo progetto denominato, appunto, Demonstealer.
This Burden Is Mine è il secondo lavoro, che segue di otto anni l’esordio …and Chaos Will Reign…, il sound è un’affascinante immersione nel death metal brutale, progressivo e tecnico, un monolitico viaggio fatto di esperienze musicali che lasciano a bocca aperta per intensità e bravura strumentale, un calderone di musica estrema dove il musicista ingloba tutte le sue influenze.
La parte progressiva del sound di Demonstealer è sicuramente la più avvincente, le orchestrazioni creano un’atmosfera magniloquente ed oscura, abbinandosi ad accelerazioni estreme, sempre molto ragionate ed in perfetto equilibrio con la musica rock di cui This Burden Is Mine è composto.
Sono molte e di diverso lignaggio le influenze di cui si avvale il nostro, dal death classico al doom death, per passare al dark progressivo: durante l’ascolto sono molti gli esempi che passano nella testa del sottoscritto, ma la grande maestria nel songwriting, non fa che valorizzare questa raccolta di brani da ascoltare con la dovuta calma, per fare proprie tutte le sfumature di cui la musica si nutre.
Brani mediamente lunghi, cantati alla grande, soprattutto nelle parti pulite, e tanta tecnica strumentale, danno all’album quel tocco in più per non passare inosservato, lasciando che piccoli capolavori come An Unforgiving Truth, la title track, Frail Fallible e The Last Jester Dance ci rapiscano, persi nei vortici di musica creati dal musicista indiano, che per l’occasione si è avvalso alla batteria di un pezzo da novanta come George Kolias (Nile), oltre ad Ashwin Shriyan al basso e di Nishith Hedge e Daniel Rego per le parti di chitarra solista.
Per gli amanti dei suoni progressivi uniti alla musica estrema, This Burden Is Mine è assolutamente un ascolto obbligato, godetene tutti.

TRACKLIST
1. How the Mighty Have Fallen
2. An Unforgiving Truth
3. When the Hope Withers and Dies
4. This Burden Is Mine
5. Frail Fallible
6. The Failures of Man
7. Where Worlds End
8. The Last Jester Dance
9. From Rubble and Ruin

LINE-UP
The Demonstealer – Guitars, Vocals
Geoge Kolias – Drums
Ashwin Shriyan – Bass

DEMONSTEALER – Facebook

Agathocles / Degenerhate – Wash Your Blues Away! / The Nothing I’ve Become

Prendete un nome storico della scena grindcore internazionale come i belgi Agathocles, aggiungete una delle migliori band nostrane nel genere, i romani Degenerhate, ed avrete uno dei più riusciti split degli ultimi anni.

Prendete un nome storico della scena grindcore internazionale come i belgi Agathocles, dal lontano 1987 a devastare palchi e con una discografia che tra split, full lenght, ep e compilation non basterebbe tutta la ‘zine per elencarla, aggiungete una delle migliori band nostrane nel genere, i romani Degenerhate, autori nel 2013 del bellissimo Chronicles Of The Apocalypse, ed avrete uno dei più riusciti split degli ultimi anni.

Addirittura quattro label hanno contribuito alla realizazzione di questo 7″, Uterus Productions, Here And Now!, GrindScene Records e la Horror Pain Gore Death Productions, a ribadire l’importanza di questa pubblicazione destinata a far parte di un documentario sulla scena, intitolato Slave To The Grind-A Film About Grindcore.
Wash Your Blues Away! è quello che ci propone il gruppo belga, tre brani di cui due, Erase Your Face e Big Foot Marches Again, risultano due blues songs marcissime e a mio parere geniali, sporcate da una voce cartavetrata, la prima basata su di un riff ripetuto che entra direttamente nel cervello, la seconda uno strumentale acustico, dal sentore molto southern rock e dall’andamento dissacrante.
Con Bunka Bunka Blues si torna a far male, il sound minimale del gruppo di Jan Frederickx, esplode in tutta la sua carica mincecore, un minuto e mezzo per salutarci e lasciare spazio al gruppo capitolino, dalla forza estrema impetuosa, confermata anche in questi nuovi quattro brani, condizionati da una verve molto più hardcore rispetto allo scorso full length.
Non manca nel sound quello che, a mio parere, è il punto di forza del gruppo, ed infatti dopo una serie di sfuriate estreme, il gruppo di Gianluca Lucarini ci investe con rallentamenti di una pesantezza mostruosa, attimi di cadenzata mostruosità in cui le urla animalesche del leader riempiono l’atmosfera di inumano dolore.
Unleash The Fury, I Against I, Submerged Into Void, The Nothing I’ve Become, dimostrano ancora una volta l’enorme talento del gruppo, la produzione rende giustizia al massacro sonoro creato dal combo, gli strumenti escono puliti e diretti e non si fatica a riconoscerli, anche se non si è abituali fruitori del genere.
Grande prova del gruppo nostrano che ben figura accanto alla storica band belga: Wash Your Blues Away! / The Nothing I’ve Become ci mette al cospetto di una coppia d’assi, assolutamente da non perdere se siete amanti del genere.

TRACKLIST
Wash Your Blues Away!
1 –Agathocles – Erase Your Face
2 –Agathocles – Big Foot marches again
3 –Agathocles – Bunka Bunka Blues
The Nothing I’ve Become
1 –Degenerhate – Unleash The Fury
2 –Degenerhate – I Against I
3 –Degenerhate – Submerged Into Void
4 –Degenerhate – The Nothing I’ve Become

LINE-UP
Agathocles:
Nils Laureys – Vocals, Drums
Jan Frederickx – Vocals, Guitar, Bass
Koen – Guitar

Degenerhate:
Gianluca Lucarini – Lead Guitar, Screaming, Backing Vocals
Marco “K” Paparella – Bass
Renato “BIG R” Lucandri: Vocals, Grunts
Stuart Franzoni- drums
Angelo Vernati – Rhythm Guitar

DEGENERHATE – Facebook

AGATHOCLES – Facebook

Aspercrucio – Dead Water

Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà

La Russia è l’ultima frontiera del metal gotico e romantico, lo è per quantità ma anche per qualità.

Non sono poche, infatti, le band provenienti da quelle lande che si sono rese autrici negli ultimi anni di ottime prove, più o meno estreme o comunque intrise di una componente doom. I siberiani Aspercrucio appartengono a questo novero e, come avvenuto per altre band dell’area ex-sovietica, la Nihil Art ha contribuito a promuovere fuori dai confini il lavoro già edito dalla Dark East, rendendolo più appetibile con la diffusione di note biografiche particolareggiate e rendendo comprensibili ai più i titoli dell’album e dei brani, grazie alla loro traduzione in inglese.
Infatti, il gothic doom degli Aspercrucio è cantato interamente in lingua madre, il che tutto sommato non incide più di tanto sulla sua fruibilità, visto che poi alla fine è sempre la musica a parlare e che, comunque, al giorno d’oggi ottenere una traduzione dei testi è piuttosto agevole.
L’aspetto principale di Dead Water è però il suo essere una sorta di emanazione del gothic doom novantiano: romantico, orecchiabile, con un bel lavoro solista delle chitarre, una tastiera che conduce le danze senza essere invadente ed il growl molto efficace del leader Stanislav Filinov, riporta piacevolmente alla memoria gli Evereve quand’erano ancora guidati dal povero Tom Sedotschenko, oppure quella scuola olandese che aveva per protagonisti, oltre ai più noti The Gathering, nomi “minori” come Moon Of Sorrow, Celestial Season ed Orphanage .
Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà (vedasi anche l’uso appropriato degli inserti vocali femminili), nel senso che non si ricorre mai a soluzioni debordanti per cercare di stupire ad ogni costo.
Pertanto, gli amanti del genere avranno di che godere ala cospetto di brani di ottima fattura come Broken Heart, Dreams e soprattutto Silence … Despair, canzone di oltre diciassette minuti che chiude l’album e che mette in mostra la capacità di offrire sonorità di volta in volta drammatiche, evocative ed intrise di splendide.
Tutto ciò è quanto gli Aspercrucio sono in gradi di offrire: oggettivamente, non poco.

Tracklist:
1.The Darkness Inside
2.Endless Leaf Fall
3.Broken Heart
4.Abyss
5.Alien Reflection
6.Dreams
7.Silence… Despair

Line-up:
Stanislav Filinov – guitars, vocals
Ahndor Yukhnevich – guitars, vocals
Mikhail Sartakov – bass guitar
Natalia Stupina – keyboards
Alexander Schukin – drums

Highrider – Armageddon Rock

Quattro brani deflagranti, devastanti e potenti, eppure non siamo nei meandri del metal estremo, bensì nel più classico e all’apparenza più innocuo hard rock.

Tempesta, tuoni, fulmini, terremoti e tsunami che si riversano sull’ascoltatore come in una pellicola di genere catastrofico, un’onda altissima di metallo fumante, rock ruvido accompagnato da una voce che gronda rabbia e angoscia.

Un armageddon, appunto, di rock settantiano ipervitaminizzato da scariche metalliche fuse nell’acciao, impreziosito da un hammond signore e padrone del sound, apocalittico e dannatamente vintage, ma fondamentale nell’economia di queste splendide quattro canzoni.
Gli Highrider sono un quartetto svedese, Armageddon Rock è il loro debutto, licenziato dalla The Sign Records, registrato da Leo Moller, mixato da Henke Magnusson e masterizzato da Linus Anderson ai Kust studio di Gotheborg così da straripare letteralmente dalle casse, come l’acqua liberata dal crollo di una diga.
Quattro brani deflagranti, devastanti e potenti, eppure non siamo nei meandri del metal estremo, bensì nel più classico e all’apparenza più innocuo hard rock.
Il fantastico lavoro alle tastiere di Christopher Ekendahl, che riporta indietro agli anni settanta e ai mai troppo osannati Uriah Heep, avvolge il metal, a tratti stonerizzato, rabbioso e devastante suonato dai suoi compari, con la sei corde di Eric Radegard che illumina la scena con solos dal saporeclassico (S= T x I) e la sezione ritmica che ci investe con una forza disumana (Carl-Axel Wittbeck alle pelli e Andreas Fageberg al basso).
Il concept dell’album è chiaramente ispirato alla deriva intrapresa dal genere umano e la musica, che mantiene un mood apocalittico, forma insieme alle urla drammatiche e rabbiose del bassista una clamorosa denuncia degli effetti distruttivi delle politiche nucleari.
Venti minuti esaltanti, da ascoltare a volume altissimo, un enorme suono che si sviluppa e si rigenera tra le trame bombastiche di Agony Of Limbo, The Moment (Plutonium) e Semen Mud And Blood.
Un grandissimo debutto che incorona gli Highrider come una delle sorprese di questa metà dell’anno di grazia 2016, il che induce ad aspettarli per la prima prova sulla lunga distanza che, se si attestasse su questi livelli, sarebbe trionfale.
Non c’è ne tregua ne speranza, solo la colonna sonora della fine del mondo.

TRACKLIST
1.S= T x I
2.Agony Of Limbo
3.The moment (Plutonium)
4.Semen Mud And Blood

LINE-UP
Eric Radegard-Guitar
Carl-Axel Wittbeck-Drums
Andreas Fageberg-Bass
Christopher Ekendahl-Keyboards

HIGHRIDER – Facebook

Antillia – Ancient Forces

Gli Antillia ci regalano un sorprendente e quanto mai efficace esempio di come si possa suonare un genere in cui l’originalità è una chimera, facendo risaltare le atmosfere e l’ottima vena epica, puntando su due vocalist di straordinaria bravura

Bellissimo esordio sulla lunga distanza per gli Antillia, symphonic power metal band russa alla quale, come tradizione di quella nazione, non manca di certo il talento per la musica classica e sinfonica.

Il gruppo di Mosca arriva al debutto dopo sette anni dalla sua nascita e due lavori minori, il primo demo del 2010 e Last Starfall, ep licenziato tre anni fa.
Il sound del gruppo consiste in un drammatico power metal, reso sinfonico, orchestrale e molto cinematografico, che deve tanto ai Rhapsody nell’approccio metallico e alle symphonic metal band scandinave, nel saper inserire nel tappeto sonoro grandiose partiture classiche.
Il tutto cantato in lingua madre dallo stupendo soprano Elena Belova e dal singer Alexandr Kolesov, che si divide tra vocalizzi da tenore ed il più classico cantato power oriented.
Le orchestrazioni sono ad appannaggio del compositore belga Maliki Ramia, sul quale il gruppo inserisce un energico power metal, mentre i testi, come da copione, sono incentrati su storie di magia, epiche battaglie, ed amori tragici per dolci damigelle rinchiuse in bui castelli.
Sessanta minuti di musica che, come una colonna sonora, si sostituisce alle immagini, suggestiva il giusto per fare dell’album un piccolo gioiellino di genere e resa molto epica dal cantato tradizionale della loro terra, duro e marziale come la musica impone.
Atmosfere che lasciano un sentore di epica tragedia, cavalcate metalliche di ottima fattura ed orchestrazioni che non abbandonano il sound neppure quando gli strumenti corrono veloci tra le pianure insanguinate della fredda steppa russa, ed il risultato è un’ottima opera metal classica.
Certo, il genere, ormai inflazionato, non lascia spazio all’originalità ma, come detto, il talento per la musica classica, innata nei musicisti provenienti dalla madre Russia, fa di Ancient Forces un affresco più che buono di come il metal riesca a sposarsi alla perfezione con la musica orchestrale.
Oltra ad essere bellissima, Elena Belova è dotata di una voce straordinaria, un puro talento al servizio della musica dei suoi compagni, che se la cavano al meglio con i propri strumenti.
Le atmosfere sono comunque il punto di forza della band moscovita, l’album non smette di aggredire e si arriva addirittura alla nona traccia, Loneliness, prima che un delicato giro di piano accompagni il duetto tra i due vocalist, in una super ballad con tanto di solo chitarristico dai rimandi heavy metal.
Gli Antillia ci regalano un sorprendente e quanto mai efficace esempio di come si possa suonare un genere in cui l’originalità è una chimera, facendo risaltare le atmosfere e l’ottima vena epica, puntando su due vocalist di straordinaria bravura: consigliato agli amanti dei Rhapsody, così come dei Nightwish, Epica e Therion.

TRACKLIST
1. Last Starfall
2. Mystery
3. Sunrise
4. The Assault
5. Mortal Fight
6. Candles
7. Ancient Forces
8. The Shaman
9. Loneliness
10. At World’s End
11. Captivated by the Immortality
12. Antillia
13. Universe
14. Epilogue

LINE-UP
Daniil Gayvoronsky – Drums
Nikita Zlobin – Bass
Valeriy Ostrikov – Guitars
Elena Belova – Vocals
Alexandr Kolesov – Vocals, Lyrics
Vladislav Semin – Guitars

ANTILLIA – Facebook

Thenighttimeproject – Thenighttimeproject

Il lavoro omonimo dei Thenighttimeproject è senz’altro apprezzabile ed è vivamente consigliato a chi si nutre di quelle sonorità delicate e soffuse alle quali ci hanno abituato, appunto, i Katatonia.

Probabilmente, qualche anno dopo essere uscito dai Katatonia per dedicarsi quasi a tempo pieno agli October Tide, a Fredrik Norrman cominciano a mancare quelle sonorità più pacate e rarefatte.

Potrebbe essere nata da qui l’esigenza di dar vita ad un progetto come Thenighttimeproject, con il quale il musicista svedese si ritrova a competere sullo stesso terreno della premiata ditta Nyström/Renkse.
Ovviamente, di suo Norrman ci mette un gusto più dark, con qualche spruzzatina di elettronica che avvicina la proposta, in certi frangenti, alla new wave più intimista.
L’operazione riesce abbastanza bene, anche se, così come per tutta la produzione dei Katatonia nel nuovo millennio, non riesce a conquistarmi totalmente; il disco scorre via fluido, con le sue sonorità crepuscolari che disegnano sullo sfondo uno scenario grigio e brumoso, in cui l’apparizione di qualche raggio di sole pare essere un’opzione non prevista, ma la tragedia umana che covava sotto sotto le magnifiche melodie di capolavori come Discouraged Ones e Tonight’s Decision è ben lungi dall’essere rievocata sia dalla band che ne è stata autrice, sia dalle sue varie derivazioni.
Qui, in un contesto dal buon livello medio, alcuni brani colpiscono per la loro dolente eleganza, in particolare l’accoppiata Caustic Reflection, efficace e malinconica pennellata di classe cristallina, e la successiva e più ammiccante Dissolve, che spicca per il suo andamento più sincopato rispetto agli altri episodi.
La voce di Tobias Netzell (In Mourning) si confà al genere anche se il suo registro mostra ben poche variazioni sul tema, mentre Norrman (che per una volta si occupa in prima persona anche del basso rinunciando al contributo del fratello Mattias) si destreggia mostrando la consueta maestria con tutti gli strumenti , ad eccezione della batteria affidata a Nicklas Hjertton.
Il lavoro omonimo dei Thenighttimeproject è senz’altro apprezzabile, pur non facendo gridare al miracolo, ed è vivamente consigliato a chi si nutre di quelle sonorità delicate e soffuse alle quali ci hanno abituato, appunto, i Katatonia o gli stessi Antimatter.

Tracklist:
1. The Annual Loss
2. Oneiros
3. Caustic Reflection
4. Dissolve
5. Among Reptiles
6. Empty Signs
7. Amends
8. Desert Prayers

Line-up:
Tobias Netzell – Vocals
Fredrik Norrman – Guitars, Bass, Keyboards
Nicklas Hjertton – Drums

THENIGHTTIMEPROJECT – Facebook

Necroskin – Before Chaos Takes You

Molto bravi, i musicisti palermitani, riprendono la vecchia scuola capitanata dai Morbid Angel e la riassumono in questo lavoro con buona personalità

Palermo è una città che vanta una scena underground di livello altissimo, non sono poche le band delle quali ho avuto il piacere di fare conoscenza attraverso lavori di categoria superiore, non solo nel metal estremo (Haemophagus), ma anche in generi magari lontani dall’estremismo del death metal, ma assolutamente geniali (Elevators To The Grateful Sky).

Un piccolo paradiso per chi ama la musica non convenzionale, uno splendido inferno se, come in questo caso, l’album in questione è composto da una ventina di minuti scarsi di death metal, molto vicino al brutal, tecnicamente suonato al meglio, oscuro, blasfemo e maligno il giusto per non passare inosservato.
La band si chiama Necroskin, si è formata solo lo scorso anno e Before Chaos Takes You è il riuscito biglietto da visita, un buon esempio di death metal dai chiari riferimenti old school, statunitense nell’approccio, derivativo dirà qualcuno, ma assolutamente d’impatto.
Molto bravi, i musicisti palermitani, riprendono la vecchia scuola capitanata dai Morbid Angel e la riassumono in questo lavoro con buona personalità, aggiungendo all’oscurità malsana tipica di Vincent e soci una dose letale di brutalità, così da proporre la loro personale versione del genere.
Ottimo il lavoro della sei corde, mai banale e piacevolmente tecnico, sul pezzo la sezione ritmica e di notevole intensità il growl, che esce demoniaco e bestiale come il genere comanda.
Brani brevi ma che vanno subito al sodo e tra i quali spiccano le devastanti Universal Implosion, la potentissima Three Is The Perfect Death e la violentissima Open Yourself For Chaos, per un delirio estremo di sicuro impatto.
Il gruppo è alla ricerca di un’etichetta per produrre un futuro full length: le premesse ci sono tutte, perciò il consiglio è di ascoltare Before Chaos Takes You, mentre sono d’uopo gli auguri ai Necroskin e supportarli è il minimo.

TRACKLIST
1 – Before Chaos Takes You
2 – Universal Implosion
3 – Three is the Perfect Death
4 – The Family Remains
5 – Open Yourself For Chaos (to Jon Nödtveidt)
6 – 237 Redrum
7 – After Chaos Takes you

LINE-UP
Valerio Sandman : Drums
Andrea Conti : Bass
Gabriele Mazzola : Vocals
Diego Gore Zimmardi : Guitar

NECROSKIN – Facebook

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