Begerith – A.D.A.M.

Chi ama il death metal più intenso e veloce qui troverà davvero un bel disco.

In fondo al 2017 arriva questo gran disco di death metal dei Begerith.

Questi ultimi sono dei russi di Vladivostok che si sono trasferiti in Polonia, ed effettivamente il loro suono è molto influenzato dalla scuola polacca del death metal, fatta conoscere nel mondo da gruppi come Behemoth, Vader e Hate, per citare quelli maggiormente conosciuti.
I Begerith sono al loro secondo lavoro sulla lunga distanza, e con A.D.A.M. Mettono in mostra tutte le loro qualità. Il suono, come detto sopra, è un death metal molto polacco, e ci sono anche forti influenze black metal, quello delle origini. Trovano anche molto spazio dei virtuosismi chitarristici mai fini a loro stessi, che potenziano la struttura dei brani. I Begerith mettono al centro di tutto la musica e ciò che veicolano con essa, infatti non si sanno i nomi dei componenti del gruppo, che sono indicati come Begerith e numerati da 1 a 4. Non si perde nemmeno tempo con i titoli delle canzoni, come potete notare. Il disco funziona davvero molto bene, è molto potente e bilanciato, ha un’ottima produzione e riesce a tenere sempre alta la tensione. Pur venendo da un ambiente musicale ben preciso i Begerith sono unici e il loro death è molto personale e devastante. Il disco è incentrato sulla figura di Adamo, scagliato da Dio sulla Terra, mostrando tutta la sua tracotanza. I testi sono molto interessanti, come spesso succede nel death metal, e non sono solo un contorno. I Begerith sono un gruppo affermato nella scena death metal, ed impressioneranno ancora di più grazie a questa prova, che è davvero buona.
Chi ama il death metal più intenso e veloce qui troverà davvero un bel disco.

Tracklist
1.Nome Fatas Hiss Mortus
2.A.D.A.M. I
3.A.D.A.M. II
4.A.D.A.M. III
5.A.D.A.M. IV
6.A.D.A.M. V
7.A.D.A.M. VI
8.A.D.A.M. VII
9.A.D.A.M. VIII
10.A.D.A.M. IX
11.A.D.A.M. X

Line-up
Begerith I – vocals, guitars
Begerith II – guitars
Begerith III – bass
Begerith IV – drums

BEGERITH – Facebook

Sorrowful Land – Where The Sullen Waters Flow

Un ep che conferma il nome Sorrowful Land come un qualcosa che va ben oltre lo status di progetto futuribile, trattandosi di una realtà alla quale si chiede solo di continuare su questa strada anche in futuro.

A distanza di circa un anno Max Molodtsov torna a farsi sentire con il suo progetto solista Sorrowful Land.

Avevo già parlato più che bene del full length d’esordio Of Ruins …, che metteva in mostra qualità sopraffine sia dal punto di vista compositivo che esecutivo, andando anche oltre a quanto di buono già fatto con la sua band principale, i gotici Edenian.
In occasione del lavoro su lunga distanza avevo fatto notare una devozione piuttosto marcata nei confronti degli When Noting Remains (con tanto di imprimatur derivante dalla partecipazione come ospite di Peter Laustsen) e tutto sommato con questo lungo ep intitolato Where The Sullen Waters Flow non sembra che le coordinate siano variate più di tanto e, ci tengo a ribadirlo, questo non è assolutamente da considerare un punto negativo.
Infatti, nei tre lunghi brani che si avvicinano complessivamente alla mezz’ora di durata, il polistrumentista ucraino conferma lo spessore del proprio talento naturale per la composizione di musica struggente e colma di melodia mai stucchevole, grazie ad un lavoro chitarristico elegante e sobrio allo stesso stesso tempo.
Niente da eccepire quindi su questo gradito ritorno in tempi relativamente brevi (per le abitudini in uso nel genere) con un trittico di brani di grande efficacia tra i quali, a mio avviso, spicca l’ultimo, The Night Is Darkening Around Me, nel quale avviene un parziale spostamento verso un sound ancor più legato al suono della chitarra solista, questa volta con Saturnus e Doom Vs. nel mirino.
Ripeto che la citazione dei vari riferimenti non deve essere intesa come un’accusa di derivatività, bensì quale tentativo di fornire un’idea di cosa attendersi a chi si avvicina all’ascolto di questo lavoro, con la certezza che chi ama questo genere musicale l’ultimo dei problemi che si pone è proprio quello dell’originalità, specialmente quando il pathos e l’intensità si mantengono sempre al livello offerto da Where The Sullen Waters Flow.
Un ep che conferma il nome Sorrowful Land come un qualcosa che va ben oltre lo status di progetto futuribile, trattandosi di una realtà alla quale si chiede solo di continuare su questa strada anche in futuro.

Tracklist:
1.As I Behold Them Once Again
2.Where The Sullen Waters Flow
3.The Night Is Darkening Around Me

Line-up
Maks Molodtsov

SORROWFUL LAND – Facebook

Shrine Of The Serpent / Black Urn – Shrine Of The Serpent / Black Urn

Lo split album favorisce la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della cover degli AIC, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Altro giro, altro regalo, altro split album.

La label polacca Godz Ov War Productions ha immesso sul mercato la versione in CD di questo lavoro che vede all’opera con due brani ciascuno le band statunitensi Shrine Of The Serpent e Black Urn; per amore di precisione va aggiunto che il lavoro è stato contemporaneamente edito in formato musicassetta dalla Caligari Records.
Gli Shrine Of The Serpent provengono da Portland e questa è la loro seconda uscita dopo l’ep omonimo del 2015: la band evidentemente si sta prendendo tutto il tempo necessario prima di fare il passo del full length, ma la strada intrapresa, benché lenta come la loro musica, pare rivelarsi quella giusta visto che il doom death catacombale esibito nelle monolitiche Desicrated Tomb e Catacombs of Flesh è molto vicino, per indole ed approccio, a quello di un album seminale per il genere come Foresto Of Equlibrium dei Cathedral, il tutto rivisto scremato dalla componente psichedelica. Ciò che viene offerto è un sound dal grande impatto e di altrettanta qualità, inclusa una produzione del tutto all’altezza della situazione.
I Black Urn arrivano invece da Philadelphia, hanno una storia non dissimile da quelle dei compagni di split sia per anzianità di servizio che di fatturato discografico, ed appaiono fin dalle prime note di Catacombs of Flesh propensi ad uno stile più vario, con un’alternanza ritmica marcata a fronte di un’incisività appena inferiore; il colpaccio però questi ragazzi lo piazzano con una micidiale cover di Junkhead, brano degli immensi Alice In Chains che si presta in maniera naturale ad una “doomizzazione” aspra ma che ne mantiene intatte le principali caratteristiche (a parte lo screming furioso che, rimpiazzando la magia vocale di Layne Staley, inevitabilmente può risultare spiazzante).
A livello di consuntivo resta sicuramente la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della citata cover, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Tracklist:
Side A
1. Shrine of the Serpent – Desicrated Tomb
2. Shrine of the Serpent – Catacombs of Flesh
Side B
3. Black Urn – My Strength Is Within Heavenless Plains
4. Black Urn – Junkhead

Line-up:
Shrine Of The Serpent
Todd Janeczek – Guitars, Vocals
Chuck Watkins – Drums
Adam DePrez – Guitars, Bass

Black Urn
Alex Onderdonk – Bass
Tim Lewis – Drums
Jordan Pierce – Guitars
Ryan Manley – Guitars, Vocals
John Jones – Vocals

SHRINE OF THE SERPENT – Facebook

BLACK URN – Facebook

Luna – Swallow Me Leaden Sky

Swallow Me Leaden Sky regala quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Su quest’ultimo lavoro della one man band ucraina Luna avei potuto più o meno fare un copia incolla di quanto scritto nelle precedenti occasioni: DeMort, titolare del progetto, continua imperterrito a sfornare un buon funeral doom atmosferico interamente strumentale e che trae ispirazione in maniera piuttosto marcata dal sound degli Ea, anche se Swallow Me Leaden Sky mostra una progressione importante, se non dal punto di vista dall’originalità, sicuramente da quello prettamente qualitativo.

D’altronde, come già detto parlando di Ashes to Ashes e On the Other Side of Life, i due full length usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2015, il rifarsi al sound tipico della misteriosa band americana non è certo da considerarsi deprecabile, specialmente se si apprezza in toto questa espressione musicale che qui viene riproposta con competenza e buona ispirazione.
Il permanere della struttura interamente strumentale resta pur sempre un limite, anche se forse in questo genere lo è meno che in altri; d’altro canto, però, in questo ultimo lavoro, non si può fare a meno di notare che alcuni degli elementi di discontinuità inseriti nel bellissimo ep There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask, uscito a cavallo tra i primi due full length, vengono ripresi dal musicista ucraino riuscendo cosi a conferire al tutto un’aura più drammatica e solenne, specialmente nella seconda delle due lunghe tracce, la title track. E’ proprio qui che il sound acquista parecchi punti in personalità e profondità rispetto al pur buono brano iniziale Everything Becomes Dust, con l’aggiunta di una sorta di vocalizzo campionato che si fa gradevolmente ossessivo nella seconda metà della traccia: la chitarra diviene finalmente protagonista soppiantando le tastiere nel ruolo preponderante assunto fino ad allora, spostando il tutto su un piano più cosmico affine a quello dei Monolithe, altra importante fonte di ispirazione per la musica marchiata Luna.
Grazie a questo l’operato di DeMort acquista quello spessore che era mancato talvolta nei lavori precedenti, assurgendo ad una forma decisamente compiuta e ben diversa da quella di buon surrogato del già esistente, definizione che sembrava essere fino ad oggi quella più calzante per la one man band di Kiev.
Swallow Me Leaden Sky regala così quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Tracklist:
1.Everything Becomes Dust
2.Swallow Me Leaden Sky

Line-up
DeMort

Руины вечности – Будни войны

l’operato del gruppo siberiano si colloca ben al di sopra della sufficienza ma si rivela la classica messa in scena dei dettami di base di un genere, con l’inserimento di tutti gli ingredienti necessari senza che appaiano mai davvero coesi tra loro.

In un scena death doom russa davvero fiorente, il full length d’esordio di questa band di Krasnoyarsk chiamata Руины вечности (Ruins Of Eternity), corre il serio rischio di finire in secondo piano.

Questo non deriva del tutto dal valore di un album come Будни войны (The Whispers of Forgotten Hills), tutt’altro che riprovevole, bensì dal fatto che la concorrenza, anche interna, è forte e qualificata; l’operato del gruppo siberiano si colloca ben al di sopra della sufficienza ma si rivela la classica messa in scena dei dettami di base di un genere, con l’inserimento di tutti gli ingredienti necessari senza che appaiano mai davvero coesi tra loro.
Così succede che il violino, elemento sempre peculiare benché non siano affatto poche le band che utilizzano questo strumento, sembra scontrarsi più che amalgamarsi con i riff chitarristici, la base ritmica ed il growl del vocalist; per essere sulla carta un death doom melodico, l’album offre con il contagocce momenti capaci di creare un adeguato flusso emotivo, puntando più su un impatto robusto e che, molto spesso, devia verso una sorta di avanguardismo, convincendo molto di più nei momenti in cui il sound sembra avvicinarsi maggiormente alle sfumature sinfonico orchestrali dei nostri Dark Lunacy.
Quando sembra che la melodia possa finalmente assumere una forma compiuta e prendere il sopravvento, come per esempio in Эхо, viene sempre meno quel momento chiave capace di dar seguito a tali intuizioni, sia per scelta da parte della band sia per una produzione che restituisce il sound in una maniera a mio avviso troppo secca, con le tastiere che non svolgono quel ruolo di raccordo che competerebbe loro in una formazione strutturata in questa maniera.
Detto ciò, l’ascolto di Будни войны è tutt’altro che superfluo, ma il confronto con Shallow Rivers o Откровения Дождя, per esempio, vede i pur bravi Руины вечности ancora diversi gradini sotto il livello raggiunto dalle band viciniori collocabili nello stesso segmento stilistico.

Tracklist:
01. Будни войны
02. Брест
03. Кто будет первым?!
04. Танк
05. Победа для мёртвых
06. Для тех, кто потерялся на этой войне
07. Эхо
08. Наследие

Line-up:
Andrei Nasekailov – guitar
Pavel Golovnin – bass
Konstantin Terentiev – drums
Pavel Maiboroda – vocals
Eugenia Antsyferova – violin, keys
Aleksander Gasenko – guitar
Roman Nasibov – backing vocals, keys

Jupiterian – Terraforming

Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.

Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.

Ho notato che sia oggi che in passato questo gruppo paulista ha riscosso pareri decisamente discordanti, e io stesso avevo apprezzato ma senza esaltarmi il death doom offerto dai nostri circa tre anni fa con l’ep di debutto Archaic, ma credo che questo sia il destino chi non si limita ad offrire musica accondiscendente o banale: personalmente ritengo che Terraforming, oltre a costituire un’evoluzione sonora davvero decisa ed importante, sia pressapoco la miglior forma possibile di sludge che si possa offrire di questi tempi perché, se proviamo a prendere una band che interpreta il genere nella maniera più estrema ed incopromissoria possibile, come per esempio i Primitive Man, conferendole una quantità minima ma fondamentale di senso melodico, ecco venirne fuori l’essenza musicale dei Jupiterian.
E’ grazie a questo che l’album non ottiene solo l’effetto di opprimere l’ascoltatore perché, aprendosi a passaggi più fruibili nonostante non venga mai meno un’assoluta pesantezza, riesce ad attrarre irresistibilmente così come farebbe l’enorme massa gravitazionale del maggiore dei pianeti richiamato dal monicker della band.
Se Matriarch e Forefathers sono l’emblema del migliore è più compiuto sludge doom (con annessi accenni di ambient), in Unearthly Glow si fanno largo quelle insperate melodie che che paiono riportare il tutto su un piano più accessibile, e se nella title track lo sperimentatore Maurice De Jong (Gnaw Their Tongues) offre il suo contributo ad un notevole break ambientale/rumoristico, la successiva Us And Them dei Jupiterian non ha davvero nulla in comune con la ben più nota canzone pinkfloydiana, anche se alla fine la chitarra disegna passaggi gradevolmente cristallini, prima che Sol rada al suolo definitivamente quel poco che era rimasto barcollante in posizione verticale, con un riffing dal carico oppressivo difficilmente descrivibile.
A mio avviso la dote migliore dei Jupiterian sta essenzialmente nel loro non accontentarsi di picchiare soltanto, ricordando a noi e a molti dei propri colleghi di genere quanto sia fondamentale variare ed offrire di tanto in tanto agli ascoltatori degli appigli ai quali potersi aggrappare per non essere spazzati via dallo tsunami di riff che la band brasiliana non fa certo mancare.

Tracklist:
1. Matriarch
2. Unearthly Glow
3. Forefathers
4. Terraforming (ft. Maurice de Jong of GNAW THEIR TONGUES)
5. Us and Them
6. Sol

Line up:
V – Voices, Guitars, Percussions, Synths
A – Guitars
R – Bass
G – Drums

JUPITERIAN – Facebook

Svarthart – Emptiness Filling the Void

Una proposta come questa al giorno d’oggi non può essere minimamente competitiva, men che meno in un settore già di per sé di nicchia come quello del doom metal.

Emptiness Filling the Void è il disco d’esordio per questo duo di Anversa dedito a un death doom davvero minimale.

L’album è uscito nel 2016 ma viene riproposto ora dalla Sepulchral Silence, anche se sinceramente non vedo quale spazio possa trovare anche nell’ambito degli appassionati più accaniti del genere.
L’operato degli Svarthart è poco più che amatoriale: suoni scarni, produzione approssimativa e una coesione strumentale che pare essere tenuta assieme da colla scadente, senza che si abbia mai l’impressione di essere al cospetto di una costruzione musicale organica.
L’idea di death doom ci sarebbe pure, ma manca pressoché del tutto una trasposizione esecutiva all’altezza: il sound si trascina penosamente lungo le sette tracce, con le due chitarre che se ne vanno ognuna per proprio conto accompagnando un rantolo privo della minima espressività.
Spiace doverlo scrivere, perché comunque chi si dedica a questo genere riscuote la mia simpatia a prescindere, ma una proposta come questa al giorno d’oggi non può essere minimamente competitiva, men che meno in un settore già di per sé di nicchia come quello del doom metal.

Tracklist:
1 The Void
2 A Fading Image
3 Dark Visions From The Past
4 Almost Alive
5 Inside This Darkness
6 Deep Within
7 Disappearance
8 The Awakening

Line-up:
Zeromus – (Tom M) – All instruments
Svartr – (Dieter M)

SVARTHART – Facebook

Apotelesma – Timewrought Kings

Timewrought Kings è un lavoro aspro e piuttosto parco di spunti melodici, e nonostante il suo buon livello la sensazione è che gli Apotelesma non abbiano ancora dato per intero quanto sembra essere nelle loro possibilità, sperando che questo non sia davvero il loro ultimo atto.

Timewrought Kings è il primo album degli olandesi Apotelesma ma rischia d’essere anche l’ultimo, visto che subito dopo la sua realizzazione la band ha deciso di sospendere l’attività a tempo indeterminato.

Un peccato, perché questi ragazzi, partiti nel 2012 con il monicker Monuments, con il quale hanno prodotto un ep, paiono padroneggiare con buona disinvoltura la materia death doom e, non a caso, hanno attirato l’attenzione di una label specializzata in tali sonorità come la Solitude. Timewrought Kings è un lavoro aspro e piuttosto parco di spunti melodici, riconducibili a qualche fugace litania chitarristica o nei passaggi che accompagnano la voce pulita, per cui le uniche variazioni sul tema sono quelle ritmiche, sotto forma di momenti più liquidi e rarefatti che si trovano in queste quattro tracce principali (la terza, che dà il titolo all’album, è in realtà un breve episodio strumentale).
Rispetto alla scuola olandese gli Apotelesma hanno attinto qualcosa dagli Officium Triste, soprattutto nelle fasi più rallentate ed evocative, quando l’incedere si fa più dolente, ma della band di Blankenstein non possiedono lo stesso appeal melodico, il che rende l’album decisamente valido ma piuttosto avaro di sprazzi di autentica e dolorosa bellezza.
La tracklist è di valore piuttosto uniforme, con la più rocciosa The Weakest of Men che si fa preferire per la sua organicità unita a diversi ottimi spunti chitarristici, ma il tutto fa ritenere ragionevolmente che gli Apotelesma non abbiano ancora dato per intero quanto sembra essere nelle loro possibilità; a questo punto, non fosse altro che per verificare la fondatezza di questa impressione, non resta che sperare che il periodo di riflessione preso dalla band sia solo un momento di stand-by e non la fine definitiva di un avventura, in fondo, appena iniziata.

Tracklist:
1. Aural Emanations
2. The Weakest of Men
3. Timewrought
4. Our Blooming Essence
5. Remnants

Line-up
Martijn Velberg – Drums
Ruben – Guitars (lead)
Yuri Theuns – Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Mitch van Meurs – Vocals (lead)
Dennis Tummers – Bass

APOTELESMA – Facebook

Ceased – Resurrection Of The Flesh

I Ceased si rivelano davvero bravi nel conferire al proprio sound umori diversi, a seconda delle sensazioni descritte attraverso testi diretti ma tutt’altro che scontati.

Resurrection Of The Flesh, il primo full length dei tedeschi Ceased arriva dopo una serie di singoli che sono confluiti nell’album, essendo peraltro legati tra loro da un valido concept lirico.

La band di Karlsruhe sviscera in maniera piuttosto profonda il rapporto del’uomo con la morte che va a cozzare con il desiderio di una vita eterna, andando ad alimentare le varie credenze religiose e tutto quanto ne consegue: il mezzo musicale per descrivere tutto ciò è un death doom piuttosto melodico e di buona fattura, con una Black Room che apre di fatto il lavoro andando a lambire sonorità non distanti dai Forgotten Tomb, mente con Virus Of The World il sound si fa molto più cupo e privo di luminosità.
Cambiano le cose, in tal senso, nella parte centrale grazie a due brani più rallentati e dolenti come Emptiness e Resurrection Of The Flesh , decisamente attraenti ne loro sviluppo melodico affidato ad una chitarra solista lineare ma molto efficace, mentre le conclusive Before The Law e Meaningless Words riprendono un ritmo più incalzante, esprimendo in maniera credibile la disillusione e la rabbia verso le molte esistenze sprecate nel percorrere una strada piena di speranza al termine della quale c’è solo un portone chiuso a doppia mandata.
I Ceased si rivelano davvero bravi nel conferire al proprio sound umori diversi, a seconda delle sensazioni descritte attraverso testi diretti ma tutt’altro che scontati, anche se, alla luce dei risultati ottenuti, fossi in loro spingerei maggiormente in futuro verso quella vena maggiormente evocativa che dimostrano d’avere ampiamente nelle corde.

Tracklist:
01. I – Denial
02. Black Room
03. Virus Of The World
04. II – Depression
05. Emptiness
06. Resurrection Of The Flesh
07. III – Acceptance
08. Before The Law
09. Meaningless Words

Line-up:
N – vocals
D – guitar
Y – guitar
E – bass

CEASED – Facebook

Aphonic Threnody – Of Loss and Grief

Il death doom regala un’altra perla nel 2017 con il secondo full length degli Aphonic Threnody, band capace di raggiungere notevoli vette di lirismo e di emozioni.

Una delicata melodia ci introduce al secondo full length degli Aphonic Threnody e diventa subito complicato esprimere a parole il profondo senso di smarrimento di cui queste note si nutrono; la disperazione, l’abbattimento, il viaggio verso una profonda depressione che permeano i settantatré minuti di Of Loss and Grief  rappresentano uno specchio in cui l’ascoltatore deve riflettersi per catturare appieno l’arte della band, attiva dal 2013 con l’EP First Funeral.

Una creatura internazionale comprendente musicisti italiani, cileni e inglesi che, in questo disco, si circondano di ospiti provenienti da alcune tra le migliori band del settore (My Shameful, Worship, Mournful Congregation, Ataraxie, Alunah) per dare “vita” a un’opera intensa, affascinante e debitrice del migliore death doom degli anni 90 ammantato di oscurità funeral.
Il disagio emozionale è grande, così come è importante la capacità creativa dei musicisti che trovano sempre il “quid” giusto in ogni brano per farci intraprendere un viaggio carico di disperazione e dolore; non si inventa nulla di nuovo, ma colpisce la sensibilità e l’intensità della’arte espressa.
Il growl espressivo, presente in tutti i brani, colpisce profondamente e l’alternarsi con female vocals in All I’ve Loved dà un’ulteriore sapore tragico al brano, che pur iniziando con una melodia più limpida si inabissa in lidi doom di gran livello e in liriche di tristezza sconfinata … all I’ve loved is lost.
Brani lunghi con punte di circa venti minuti (Lies) in cui il suono si dipana lento, maestoso quando le chitarre erigono muri melodici ricchi di sfumature, sfrangiandosi talvolta in intarsi acustici e madrigaleschi molto suggestivi per poi lasciarsi andare in parti soliste cariche di lirismo e forza.
Nei sei brani non ci sono riempitivi, tutto è frutto di una vera e sentita ispirazione per il lato oscuro della vita che è in ognuno di noi e di cui l’ascoltatore del doom si alimenta costantemente. Le idee e i suoni fluiscono naturalmente, non vi è nulla di manieristico: questi brani raccontano un viaggio nelle miserie umane, nella perdita di ogni speranza, e un interminabile brano come Lies deve trovare l’ascoltatore predisposto verso questa forma d’arte che, in un mondo frenetico e spesso inconcludente, ha bisogno di essere metabolizzata lentamente per poter penetrare a fondo nell’anima. Disco perfetto per le fredde e umide serate novembrine.

Tracklist
1. Despondency
2. Life Stabbed Me Once Again
3. All I’ve Loved
4. Lies
5. Red Spirits in the Water
6. A Thousand Years Sleep

Line-up
Roberto Mura – vocals
Riccardo Veronese – bass\guitars
Juan Escobar – keys\vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

Omega – Eve

Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo.

Eve degli Omega è un disco che va ben oltre le emozioni che da un supporto fonografico, fa vedere orizzonti lontani.

Il disco è composto da vari livelli, quello più immediato può essere descrivibile come un tenebroso disco di black metal misto a doom ed un pizzico di death, con stacchi dark ambient. Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo. Le tracce sono quattro, il disco va sentito come un continuum sonoro, una lunga suite di musica estrema. Eve è ispirato dal manoscritto Voynich, forse il libro più misterioso mai scritto, o forse soltanto un tentativo di oltrepassare la realtà andando oltre i sensi, in un flusso che lega tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà. Lo stile musicale è pienamente narrativo, veniamo trasportati in una storia dall’architettura profonda con l’uomo al centro, ed intorno un universo che vortica. Il black metal qui è un punto di partenza, perché il suono di questo disco ne ha molti elementi, ma è un’opera nuova ed originale. Nel nuovo splendido libro Black Metal Compendium Volume II – Europa e Regno Unito – di Vavalà e Ottolenghi per i tipi della Tsunami Edizioni, gli autori spiegano molto bene cosa sia il black metal per noi mediterranei, ed in particolare per noi italiani, ovvero un codice da far evolvere, un punto di partenza per profonde esplorazioni, e Eve ne è la spiegazione perfetta: un manoscritto Voynich che ognuno deve decifrare, perché parla di noi stessi, della nostra storia, e della cosmogonia che abbiamo dentro. Un’esperienza, molto più di un disco.

Tracklist
1.Arboreis
2.Sidera
3.Mater
4.Laudanum

Line-up
Alexios Ciancio – Vocals
Mike Crinella – Guitars, Synths, Samples
Fabio Arcangeli – Bass
Marco Ceccarelli – Drums

DUSKTONE – Facebook

The Father Of Serpents – Age Of Damnation

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i The Father Of Serpents riescono senza dubbio nella non facile impresa e, laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta, si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.

Gothic death doom di buona fattura è quello che ci arriva da Belgrado grazie ai The Father Of Serpents.

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da giganti del genere come Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i nostri riescono senza dubbio nella non facile impresa e laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.
In effetti, l’unica critica attribuibile alla band serba è proprio quella di sembrare ogni tanto una congrega di bravissimi assemblatori delle intuizioni altrui, sensazione che prende piede, per esempio, fin dal secondo brano The Flesh Altar, con il suo riff portante simile a quello di Lesbian Show dei Nightfall, e che si protrae sino al termine, con l’appassionato più esperto che si diletterà nel rinvenire passaggi che rievocano, in maniera comunque mai troppo marcata, il meglio offerto dal genere negli ultimi vent’anni.
Detto ciò, veniamo ai lati positivi, che poi sono nettamente prevalenti su qualsiasi altra considerazione: i The Father Of Serpents, con Age Of Damnation mettono assieme un’opera dal notevole spessore qualitativo, con una decina di brani caratterizzati da un invidiabile equilibrio tra ruvidezza e melodia, esprimendo un gothic doom spesso elegante nel quale l’utilizzo appropriato del violino (ad opera di Pavle Sovilj, che si occupa anche delle clean vocals) conferisce in più di un frangente un decisivo tocco malinconico.
Il sestetto slavo fornisce una prova priva di sbavature, i suoni sono ottimi così come gli arrangiamenti, l’uso della doppia voce risulta inattaccabile (l’ottimo growl è opera di Tamerlan, il quale però ha da poco abbandonato la band) e si fatica davvero a trovare un brano che non sia all’altezza della situazione, con menzione d’obbligo per la notevole Tainted Blood e non solo per la citazione dantesca (“lasciate ogni speranza voi che entrate”, declamata con una dizione invero rivedibile).
Questo quadro complessivo ci suggerisce che Age Of Damnation è un album rimarchevole, prodotto da una band dal sicuro potenziale che deve fare, però, solo un piccolo sforzo per imprimere un marchio personale alla propria musica, pena la permanenza nel confortevole limbo delle realtà di buon livello ma nulla più.

Tracklist:
1. The Walls of No Salvation
2. The Flesh Altar
3. Tale of Prophet
4. The Grave for Universe
5. Tainted Blood
6. The Afterlife Symphony
7. The Quiet Ones
8. The God Will Weep for You
9. The Last Encore
10. Viral

Line-up:
Tamerlan – Vocals (growls/screams/narrations)
Pavle Sovilj – Vocals (clean) & Violin
Igor Lončar – Guitars
Željko Zec – Guitars
Milan Šuput – Bass
Aleksandar Maksimović – Drums

THE FATHER OF SERPENTS – Facebook

I, Forlorn – My Kingdom Eclipsed

Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.

Il primo full length del progetto solista denominato I, Forlorn, dietro al quale troviamo il musicista olandese Jurre Timmer, si propone come uno dei debutti su lunga distanza più riusciti in ambito death doom melodico negli ultimi tempi.

My Kingdom Eclipsed è un album nel quale viene sviluppato al meglio il potenziale atmosferico ed evocativo del genere, e ciò avviene attraverso un’interpretazione magistrale sia a livello vocale che strumentale, in aggiunta a doti compositive di primo livello.
Timmer, che in quest’occasione si firma con il nickname I, non è uno sconosciuto nell’ambiente, in quanto attivo già da qualche anno con un altro progetto solista denominato Algos, mentre dalle nostri parti ha collaborato in veste di vocalist alla riuscita del primo album de Il Vuoto, ma non c’è dubbio che quanto fatto con il monicker I, Forlorn lo ponga ancor di più all’attenzione generale.
Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed, pur con qualche sconfinamento nel funeral, è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.
Chiaramente I, Forlorn non apre un nuovo fronte nel genere ma raccoglie il meglio delle istanze già espresse in passato da Saturnus, Officium Triste, Doom Vs. e When Nothing Remains, mettendo sul piatto un’ora abbondante di musica dolente e coinvolgente che trova il suo picco, come è giusto che sia, nella title track, un monumento di depressiva bellezza che si sublima in un finale davvero toccante.
My Kingdom Eclipsed è un album inattaccabile per qualità e potenziale evocativo, composto da una musicista come Jurre Timmer dotato di quella innata sensibilità che è poi la dote in comune con la fascia di ascoltatori ai quali la sua opera è rivolta.

Tracklist:
1. Behind the Sun
2. House of Glass
3. My Kingdom Eclipsed
4. Hysteria
5. Spiral’s End
6. Through Her Eyes
7. The Fragile Beast
8. Embers

Line up:
I – All instruments, Vocals

I, FORLORN – Facebook

Moribundo – Raíz Amarga

Raíz Amarga è un’ottima opera che inserisce di diritto i Moribundo tra i nomi da tenere in considerazione anche nel prossimo futuro in ambito death doom.

Di norma non è che la lingua spagnola associata al rock e al metal mi entusiasmi più di tanto, ma credo che ciò dipenda soprattutto dall’allegria sudata e plastificata della sonorità latino/americane che ci deturpano l’udito in ogni dove, dai supermercati alle autoradio dei troppi “minus-habens” che la sparano a palla lungo le strade delle nostre città; va anche detto che, oltre agli storici Heroes Del Silencio, i trasgressivi Brujeria ed i brillanti Mago De Oz non sono poi molti altri quelli che hanno realmente lasciato il segno esprimendosi nell’idioma ispanico.

I Moribundo, non fosse altro che per il genere suonato, non hanno alcuna chance di sfiorare la popolarità raggiunta questi gruppi, ma trovo che la lingua castigliana si addica invece alla perfezione al loro ottimo death doom melodico: il duo, composto dal polistrumentista Evilead, conosciuto in quest’ambito in quanto membro dei Nangilima e live session con i Famishgod, e dal vocalist Luis Miguel Merino, appartenente alla band death thrashVanagloria , maneggia la materia con grande disinvoltura offrendo oltre mezz’ora di sonorità dolenti e malinconiche ad infiorettare i testi drammatici composti da Mortvs Vyrr.
Le influenze sono disparate ma restano comunque nel solco di una scena iberica che, oltre alle citate band nelle quali è coinvolto Evilead, vede tra le sue punte di diamante Evadne, Helevorn, Autumnal, In Loving Memory e Dantalion: troviamo così due brani melodicamente ineccepibili come Vida ed Antithesis, entrambi dal notevole impatto emotivo enfatizzato da una robusta ma comunicativa interpretazione vocale da parte di Merino, mentre le altre due tracce Suicidio Ilustrado e Luz esibiscono in parte una minore intensità, forse per un andamento meno lineare dovuto a cambi di ritmo e ad interventi pianistici gradevoli ma che finiscono per spezzare, in qualche modo, la tensione creata nella parte iniziale dell’album.
Niente che vada comunque a compromettere la bontà del lavoro nel suo insieme: Raíz Amarga è un’ottima opera che inserisce di diritto i Moribundo tra i nomi da tenere in considerazione anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
01. Vida
02. Antitesis
03. Suicidio Ilustrado
04. Luz (Ciego Color)

Line up:
Evilead – All instruments
Luis Miguel Merino – Vocals
Mortvs Vyrr – Lyrics

MORIBUNDO – Facebook

Humanity Zero – Withered In Isolation

Per una band giunta al suo ottavo full length certi difetti potrebbero essere ineludibili, anche se concediamo agli Humanity Zero una prova d’appello visto il loro recente approdo al genere suonato in Withered in Isolation.

I greci Humanity Zero hanno una storia piuttosto curiosa: nati agli albori del secolo come progetto solista di Dimon’s Night, dopo essersi trasformati in una band a tutti gli effetti hanno iniziato, dal 2008 in poi, a pubblicare un album all’anno (con puntualità più svizzera che ellenica) fino al 2014: tutti questi full length prendevano come punto di riferimento certo death metal tecnico e nel contempo brutale, partendo dai Death per arrivare agli Immolation, ma non credo con particolari riscontri se, fino ad oggi, il nome di questa band mi era del tutto ignoto.

L’ipotesi è suffragata dal fatto che, dopo un inusuale silenzio durato tre anni, gli Humanity Zero sono tornati con un volto del tutto diverso, spostando in maniera decisa il proprio sound verso il death doom e puntando il mirino questa volta sui My Dying Bride, soprattutto quelli con Martin Powell in formazione, ai quali l’accostamento si addice ancor più per l’utilizzo del violino suonato da Stelios.
Il ruolo del violinista è una novità nella formazione, così come quella vocalist Johnie Panagiotidis, mentre il leader (chitarra, batteria e tastiere) continua ad avvalersi alla chitarra solista di Vaggelis Vee Kappa: il risultato che ne scaturisce non è del tutto deprecabile, anche se manca della necessaria organicità.
In buona sostanza, all’interno dei cinquanta minuti di Withered in Isolation si palesano spunti interessanti ma che spesso paiono gettati lì senza un disegno preciso, andando ad accavallarsi con riff sovente rallentati come da copione, o che talvolta riprendono le accelerazioni di un tempo, e interventi di un violino che sicuramente si segnala come l’aspetto più peculiare e positivo nell’insieme: queste ultime caratteristiche riportano, in effetti, allo stile dei primi My Dying Bride, dei quali purtroppo gli Humanity Zero non possiedono la necessaria percentuale di talento compositivo.
In un album che guadagna la sufficienza, se non altro per una svolta stilistica mai scontata e a suo modo coraggiosa, all’interno di una tracklist delineata da una certa perfettibilità a livello sia esecutivo che di songwriting, si segnalano episodi validi come l’atmosferica Reveries of My Stained Mind e l’evocativa Solitary Confinement, ma anche un brano davvero sconclusionato quale Blood Redemption.
Per una band giunta al suo ottavo full length certi difetti potrebbero essere ineludibili, anche se concediamo agli Humanity Zero una prova d’appello visto il loro recente approdo al genere suonato in Withered in Isolation.

Tracklist:
1. Withered in Scars
2. Away from the Light
3. Reveries of My Stained Mind
4. Fading in a Cryptic Obscurity
5. Solitary Confinement
6. Horrendous Growls
7. Blood Redemption
8. The Dungeon
9. Premonition

Line up:
Dimon’s Night – Drums, Guitars, Keyboards
Vaggelis Vee Kappa – Guitars (lead)
Stelakis – Violin
Johnie Panagiotidis – Vocals

HUMANITY ZERO – Facebook

Spectral Voice – Eroded Corridors of Unbeing

Eroded Corridors of Unbeing è un lento e penoso trascinarsi lungo un sentiero scosceso e dall’approdo ancor meno accogliente rispetto al punto di partenza, un luogo dove l’orrore non può essere descritto a parole.

Dopo una serie di demo e di split a partire dal 2014, gli statunitensi Spectral Voice giungono al primo full length rivelandosi una delle sorprese più piacevoli dell’anno.

Il death doom proposto dalla band di Denver, composta per tre quarti, batterista/cantante escluso, da componenti dei deathsters Blood Incantation, è di matrice prettamente d’oltreoceano, rivelandosi quindi una sorta di tratto d’unione tra il death asfissiante degli Incantation (…appunto) e il doom più estremo e per lo più privo di sbocchi melodico in quota Evoken / Disembowelment.
Fin dalle prime note, l’operato degli Spectral Voice appare volto a creare atmosfere plumbee e minacciose, con le corde degli strumenti ribassate all’inverosimile per creare una muraglia di impenetrabile e tenebrosa incomunicabilità, senza disdegnare neppure disturbati sussulti di matrice ambient.
Il brano più lungo del lotto, Visions Of Psychic Dismemberment, costituisce a ben vedere la summa del buon lavoro compositivo degli Spectral Voice, ma tutto il resto del lavoro si colloca sullo stesso piano, risultando monolitico ma di notevole spessore ed intensità; del resto, quando i nostri si spingono dalle parti degli Evoken, anche il sound acquista un minimo di respiro grazie a più limpidi arpeggi chitarristici (Lurking Gloom e Terminal Exhalation Of Being) senza perdere nemmeno per un attimo la sua presa mefitica sulla psiche dell’ascoltatore.
Eroded Corridors of Unbeing è un lento e penoso trascinarsi lungo un sentiero scosceso e dall’approdo ancor meno accogliente rispetto al punto di partenza: lungo gli “erosi corridoi” veniamo condotti con passo vacillante in un luogo dove l’orrore non può essere descritto a parole, in ossequio al metodo narrativo utilizzato da Lovecrat, la cui opera potrebbe risultare perfettamente complementare ad un approccio musicale di questo tenore.
Davvero un ottimo disco, che gli estimatori delle band citate quali possibili numi tutelari degli Spectral Voice non dovrebbero farsi sfuggire.

Tracklist:
1. Thresholds Beyond
2. Visions Of Psychic Dismemberment
3. Lurking Gloom (The Spectral Voice)
4. Terminal Exhalation Of Being
5. Dissolution

Line-up:
J. Barrett – Bass
P. Riedl – Guitar
E. Wendler – Drums and Voice
M. Kolontyrsky – Guitar

SPECTRAL VOICE – Facebook

Paradise Lost – Medusa

I Paradise Lost c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, sicuramente invecchiati e forse un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.

Passano gli anni, cambiano le stagioni ed il clima della terra, mentre la persona che si riflette nello specchio non è più un giovane irrequieto ma un uomo che un tempo sarebbe stato definito di mezz’età.

I Paradise Lost però restano: c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, anch’essi invecchiati e un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.
Certo. anche loro hanno dovuto superare lunghi momenti di appannamento, il primo subito dopo la svolta di One Second, subendo la fascinazione “depechemodiana” fin quasi a snaturarsi del tutto, e poi quando, resisi conto di non potersi spingere oltre in quella direzione, hanno fatto marcia indietro pubblicando una manciata di album non brutti ma nemmeno indimenticabili.
Per fortuna, dopo le avvisaglie costituite dai discreti In Requiem e Faith Divides Us – Death Unites Us, nel corrente decennio i maestri di Halifax hanno riportato la barra del timone sulla giusta rotta, e a questo non è stato del tutto estraneo l’impegno di Gregor Mackintosh con i suoi Vallenfyre che, facendogli esplorare nuovamente il lato più estremo del death/doom, ha inevitabilmente riversato parte di questo rinnovato spirito nelle nuove uscite dei Paradise Lost, confluito in altre due buoni dischi come Tragic Idol e The Plague Within.
Medusa (quindicesimo full length della band) spinge ulteriormente verso un sound più indurito ed incupito, con il doom che si riappropria della sua importanza nell’economia del songwrtiting, e a tale proposito l’iniziale Fearless Sky dimostra tale tendenza in maniera manifesta spazzando via ogni ammiccamento gothic rock che, del resto, ritroveremo nel corso dell’album nella sola Blood And Chaos, orecchiabile quanto si vuole anche nella sua veste di singolo, ma lontanissima per grinta e pesantezza dai brani più carezzevoli ed inoffensivi epoca Host/Believe In Nothing.
Si sussegue così una serie di tracce rocciose, plumbee ma sempre caratterizzate dal tocco chitarristico di Mackintosh, spingendoci ad affermare che, fino alla title track, l’album è uno dei maggiormente ispirati tra quelli usciti nel nuovo millennio: Gods Of Ancient, con i suoi rallentamenti soffocanti, è il degno seguito di Fearless Sky, mentre From The Gallows è una cavalcata che riporta stilisticamente ai fasti di Icon.
The Longest Winter è il primo dei due singoli usciti e, non a caso, Nick Holmes utilizza per la prima volta la voce pulita nel corso dell’album, ma ciò non rende meno efficace un brano che si dimostra l’ideale trait d’union tra gli estremi stilistici della produzione targata Paradise Lost, mentre in Medusa riprendono a prevalere ritmiche dolenti, con il cantante ad alternare le due gamme vocali e Mackintosh che continua a dominare la scena con il suo innato gusto melodico.
Si era detto che quest’ultimo brano segnava una sorta di spartiacque qualitativo del lavoro e, in effetti, la virulenta No Passage For The Dead, la gradevole Blood And Chaos e la robusta Until The Grave, per quanto valide, si rivelano meno brillanti rispetto al resto della tracklist.
Come tutti i nuovi lavori editi dalle band storiche, l’album ha già ampiamente diviso sia i fans che gli addetti ai lavori: dal mio punto di vista è vero che Medusa non riporta i Paradise Lost ai fasti del passato e non è escluso che i primi due brani possano risultare persino ostici per chi si era abituato negli anni all’ascolto di un sound più edulcorato, ma il fatto stesso che un gruppo così “pesante” ed influente sia ancora in grado di regalare buona musica è segno tangibile di un’ispirazione ancora non del tutto evaporata, al contrario di quanto accade a gran parte delle band aventi lo stesso stato di servizio.

Tracklist:
1. Fearless Sky
2. Gods Of Ancient
3. From The Gallows
4. The Longest Winter
5. Medusa
6. No Passage For The Dead
7. Blood and Chaos
8. Until The Grave

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Waltteri Väyrynen – Drums

PARADISE LOST – Facebook