Towards Atlantis Lights – Dust of Aeons

I Towards Atlantis Lights mettono in scena un ottimo funeral death doom dai tratti melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti.

I Towards Atlantis Lights sono una nuova band formata da musicisti di un certo nome all’interno della scena doom internazionale.

Il progetto vede all’opera il musicista italiano Ivano Zara (Void Of Silence) alla chitarra e con lui arriva dalla capitale anche il batterista Ivano Olivieri: assieme a loro troviamo un altro nome che tradisce le medesime origini, quello dell’inglese Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade), qui al basso, e del tastierista e cantante greco (ma attivo nella sua carriera soprattutto tra Belgio Olanda e Inghilterra in band come Pantheist, Wijlen Wij, nei Clouds di Daniel Neagoe e, in passato, negli stessi Aphonic Threnody).
Da una simile squadra era lecito attendersi un lavoro di un certo pregio e il risultato non delude affatto le attese: i Towards Atlantis Lights mettono in scena un’idea di funeral death doom dai tratti alquanto melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti.
Dust of Aeons è un lavoro che si protrae per quasi un’ora, con il solo brano iniziale che ne occupa metà dello spazio: The Bunker Of Life si snoda esibendo due aspetti del sound offerto, in quanto presenta una parte tipicamente funeral, con ritmiche bradicardiche ed un lavoro chitarristico volto a tessere magnifiche melodie, alla quale si alternano passaggi con voce pulita che apparentemente sembrano spezzare la tensione ma che, in realtà, sono propedeutici al suo ulteriore incremento ogni volta che tornano a farsi sentire il growl e i più canonici e granitici riff.
Il successivo Babylon’s Hanging Gardens è un brano piuttosto interlocutorio, nel senso che non lascia particolari tracce fungendo di fatto da cuscinetto tra i due episodi chiave del lavoro, ovvero la già citata The Bunker Of Life ed Alexandria’s Library che, forse anche per una maggiore sintesi, si rivela il momento più alto di Dust of Aeons, specie nella sua seconda parte quando Ivan Zara tesse una splendida melodia chitarristica che conduce ad un finale dall’elevato potenziale evocativo.
Greeting Mausolus’ Tomb chiude al meglio un album che è ovviamente rivolto, per le caratteristiche sopra enunciate, agli appassionati di doom più puri, quelli che hanno la pazienza di attendere tutto il tempo necessario alla mole di note riversate nel lavoro di ricomporsi, dopo diversi ascolti, nell’ennesima esperienza musicale in grado di fornire emozioni in quantità.
Detto ciò, sperando che i Towards Atlantis Lights non si rivelino un progetto estemporaneo bensì possano trovare una loro continuità discografica anche negli anni a venite, la sensazione è che questo quartetto di pregevoli musicisti abbia margini per migliorare ulteriormente una proposta già di ottimo livello, sfrondandola di qualche passaggio interlocutorio che affiora qua e là nel corso del lavoro.
Da rimarcare infine il magnifico artwork, anch’esso made in Italy essendo opera di Francesco Gemelli, uno dei grafici più richiesti ed apprezzati del momento.

Tracklist:
1. The Bunker of Life
2. Babylon’s Hanging Gardens
3. Alexandria’s Library
4. Greeting Mausolus’ Tomb

Line-up:
Kostas Panagiotou (Pantheist, Landskap) – Vocals and keyboards
Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade) – Bass
Ivan Zara (Void of Silence) – Guitar
Ivano Olivieri – Drums

TOWARDS ATLANTIC LIGHTS – Facebook

Ataraxy – Where All Hope Fades

La proposta di questa ottima realtà estrema chiamata Ataraxy si colloca perfettamente nel doom/death metal e risulta una lenta agonia, tra impietose ed estreme parti death old school e sofferenze senza fine tramutate in cadute negli abissi eterni del doom.

La proposta di questa ottima realtà estrema chiamata Ataraxy si colloca perfettamente nel doom/death metal e risulta una lenta agonia, tra impietose ed estreme parti death old school e sofferenze senza fine tramutate in cadute negli abissi eterni del doom.

Il gruppo spagnolo non è certo nuovo a questi deliri oscuri e macabri: nato a Saragozza dieci anni fa, ha all’attivo un demo, l’ep Curse Of The Requiem Mass, licenziato nel 2010, ed il primo full length dato alle stampe sei anni fa, dal titolo Revelations Of The Ethereal.
La band alterna così dilatate parti doom a ripartenze death, lasciando che le atmosfere horror che pervadono i brani si impossessino dell’ascoltatore, avvolto da un penetrante fetore di carni in decomposizione.
Una catacombe, un abisso senza uscita dove aspettare la fine di ogni sofferenza ed il silenzio della morte, mentre le anime si dannano per trovare una pace irraggiungibile ed i guardiani si accaniscono sui corpi ormai ridotti ad ammassi di carne maciullata.
Un purgatorio, molto vicino all’inferno, raccontato dagli Ataraxy con lunghi brani come Matter Lost In Time o As Uembras d’o Hibierno, in una cornice estrema che ricorda il genere negli anni che vedevano muovere i primi passi i gruppi che hanno fatto storia.
Asphyx, ma anche primi Tiamat nel dna di questa ottima realtà estrema che lascia ai dodici minuti di The Blackness Of Eternal Night il compito di portarci nei meandri dove regnano il male, la sofferenza e la dannazione, tra growl abissali, clean vocals teatrali e sofferte e riff che lasciano in bocca il gusto sanguigno del Gregor Mackintosh di Lost Paradise e Gothic.

Tracklist
1. The Absurdity of a Whole Cosmos
2. A Matter Lost in Time
3. One Last Certainty
4. As Uembras d’o Hibierno
5. The Mourning Path
6. The Blackness of Eternal Night

Line-up
Javi – Vocals, Guitars
Santi – Guitars
Edu – Bass
Viejo – Drums

ATARAXY – Facebook

Polynove Pole – On the Edge of the Abyss

L’album viene eseguito con tale competenza e credibilità da renderlo un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.

Gradito ritorno per i Polynove Pole (Полинове Поле), band che tiene fede ad una ormai consolidata tradizione ucraina in ambito gothic death doom.

Il gruppo di Lviv ha iniziato la propria carriera nello scorso decennio ma, aver pubblicato due ep ed un full length tra il 2008 ed il 2009, è rimasta a lungo in silenzio prima di rifarsi viva con questo nuovo ep, On the Edge of the Abyss, sul quale in teoria non ci sarebbe moltissimo da dire, nel bene e nel male, trattandosi della riproposizione di un modello oramai consolidato da quasi due decenni.
In realtà l’unico dato relativamente negativo è proprio quello legato ad una inevitabile prevedibilità del sound, che non si sposta di una virgola dagli stilemi del genere, incluso il ricorso alla doppia voce (in growl maschile e operistica femminile); in compenso, però, il tutto viene eseguito con tale competenza e credibilità da rendere l’album un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.
I Polynove Pole, infatti, sciorinano cinque brani molto belli nei quali la fa da padrona la bravissima Marianna Laba, con la sua impeccabile impostazione da soprano operistico, un elemento determinante che va ad inserirsi all’interno di un contesto nel quale le quattro canzoni (la quinta è un beve interludio strumentale) sono sapientemente costruite attorno alla dicotomia tra le due voci, rimarcando il pregevole doppio lavoro di Yurii Krupiak alle prese con la chitarra ed il growl.
Valga come esempio e spinta ad approfondire la conoscenza della band, per l’ipotetico ascoltatore, la conclusiva title track, brano sognante, a tratti epico e capace di toccare le giuste corde emotive senza scadere nella stucchevolezza di certe proposte similari.
I Polynove Pole esibiscono nel migliore dei modi le coordinate di un genere nel quale lo spazio per particolari variazioni sul tema è piuttosto ridotto, per cui non resta, per chi lo propone, che focalizzarsi sulla scrittura e sulla concretezza della forma canzone, aspetti riguardo ai quali il gruppo ucraino dimostra ampiamente di sapere il fatto proprio.

Tracklist:
1. Сивий ангел (Grey Angel)
2. Каїнові діти (Cain’s Children)
3. Вогні в тумані (Lights in the Fog)
4. Нічні птахи (The Nightbirds) – Remake 2017
5. On the Edge of the Abyss

Line-up:
Andriy Kindratovich – Bass, Vocals
Yurii Krupiak – Vocals (backing), Guitars
Marianna Laba – Vocals
Sergiy Vladarsky – Drums
Andriy Divozor – Keyboards

POLYNOVE POLE – Facebook

Bestialord – Law of the BurningBestialord – Law of the Burning

Il problema di un album simile, scritto ed interpretato con buona competenza, è quello di non riuscire a colpire come dovrebbe, tanto che in certi frangenti viene persino il dubbio che il lettore si sia incantato sullo stesso brano.

Bestialord è il nome scelto da questi musicisti del Kansas per dar vita ad una nuova band dedita a sonorità a cavallo tra il death ed il doom.

Law of the Burning è un album che non riserva particolari sorprese, nel senso che la proposta è decisamente lineare per quanto non priva di una sua efficacia, anche se alla lunga lo schema compositivo tende ad essere un po’ ripetitivo.
Più death (e un po’ di thrash) che doom, comunque, è quello che troviamo in Law of the Burning, con i dettami della scuola floridiana che vengono talvolta rallentati, ma sempre in maniera non troppo accentuata; restano quindi apprezzabili i lavori del basso, sempre ben in evidenza, e della chitarra solista, al contrario non convince del tutto il suono troppo secco della batteria, mentre la voce appare adeguata anche se leggermente monocorde.
In fondo il problema di un album simile, scritto ed interpretato con buona competenza, è quello di non riuscire a colpire come dovrebbe, tanto che in certi frangenti viene persino il dubbio che il lettore si sia incantato sullo stesso brano.
Peccato, perché l’opener The Doom That Came è una traccia che fa scapocciare non poco, facendo presupporre uno sviluppo ben più eccitante di quello chi si rivelerà, in seguito, un album piacevole ma sul quale difficilmente ci si soffermerà troppo a lungo, a meno che il tipo di sound descritto non sia il proprio pane quotidiano.

Tracklist:
1. The Doom That Came
2. Vermin
3. All Fall Down
4. Law of the Burning
5. Marduk Kurios
6. I Am Pain
7. Loathed Be Thy Name
8. Above the Vaulted Sky
9. What Is the End

Line-up:
Chris Johnson – Drums
Mark Anderson – Guitars, Vocals
Rob Harris – Bass

BESTIALORD – Facebook

Aeonian Sorrow – Into The Eternity A Moment We Are

Gli Aeonian Sorrow si rivelano il veicolo ideale per portare definitivamente alla luce il dirompente potenziale di un’artista a 360 gradi come Gogo Melone.

Uno dei rischi che si corrono nell’approcciarsi superficialmente ad un’opera di questo tipo è quello di derubricarla ad un normale album di gothic death doom con voce femminile, sulla falsariga di Draconian e band similari.

Commettere un errore del genere significherebbe non solo non rendere giustizia ad un disco meraviglioso come Into The Eternity A Moment We Are ma anche privarsi, per pigrizia o ignavia, di uno dei rari esempi di arte musicale in grado di toccare le giuste corde emozionali lungo l’intero scorrere dei brani.
Gli Aeonian Sorrow sono la creatura musicale di Gogo Melone, musicista greca che gli ascoltatori più addentro al genere avranno già avuto modo di conoscere in virtù della sua partecipazione a Destin, l’ultimo ep dei Clouds di Daniel Neagoe, offrendo nello specifico il suo magnifico contributo vocale nel brano In This Empty Room.
Gogo si è occupata in prima persona sia dell’aspetto compositivo, sia di quello lirico ed infine anche dell’aspetto grafico, essendo anche in quest’ultimo campo una delle più rinomate esponenti in circolazione: insomma, qui parliamo di un’artista a 360 gradi il cui talento viene finalmente svelato in tutto il suo dirompente potenziale grazie a Into The Eternity A Moment We Are.
Contribuiscono in maniera fondamentale alla riuscita del lavoro, accompagnando la musicista ellenica e collaborando fattivamente anche nell’arrangiamento dei brani, alcuni esponenti di comprovata esperienza della scena, partendo dal vocalist colombiano Alejandro Lotero (negli Exgenesis di Jari Lindholm) per arrivare al trio finnico composto da Saku Moilanen (batteria, Red Moon Architect), Taneli Jämsä (chitarre, Ghost Voyage) e Pyry Hanski (basso, ex Before The Dawn e live con Red Moon Architect): in particolare Lotero, con il suo profondo growl è l’ideale contraltare delle evoluzioni della cantante che, attenzione, non è la classica sirena dalla bella voce che parte con una tonalità e con quella finisce; Gogo Melone è “semplicemente” una vocalist formidabile, in grado di passare da timbriche cristalline e suadenti a lampi che riportano inevitabilmente a due giganti legati alla sua stessa terra come Diamanda Galas, naturale riferimento in quanto voce femminile, ed il mai abbastanza rimpianto Demetrio Stratos, che ben conosciamo per aver sviluppato la propria carriera in Italia, prima con i seminali Area e poi come vero e proprio sperimentatore e studioso dell’uso della voce umana.
Chi pensa che certi paragoni possano essere eccessivi deve solo ascoltare l’opener Forever Misery, finora l’unico brano reperibile in rete, che già di per sé sarebbe una canzone stupenda ma che, nella sua seconda metà, viene letteralmente segnata dai vocalizzi di Gogo poggiati su un tappeto sonoro drammatico; come prova del nove poi, chi verrà in possesso dell’intero album (che uscirà ad aprile), potrà pure passare alla conclusiva Ave End, uno dei pezzi più belli che abbia mai avuto la fortuna di ascoltare, con Alejandro a dominare la prima parte prima di lasciare spazio al canto drammatico e trasfigurato della vocalist, destinato infine a ricongiungersi al growl per un risultato d’assieme che conduce inevitabilmente alle lacrime.
Tutto ciò a livello esemplificativo, perché ovviamente resta tutto da godersi un corpo centrale dell’album che non è affatto da meno, oscillando da atmosfere più aspre (Thanatos Kyrie) ad altre più intimiste (Memory Of Love) per finire con tracce strutturate in maniera più canonica (Shadows Mourn, Under The Light, Insendia) ma dotate sempre di un’intensità superiore alla media grazie ad una scrittura di rara sensibilità.
E’ un delicato interludio pianistico (The Wind Of Silence) a condurre al capolavoro assoluto Ave End, che chiude l’album portando il coinvolgimento emotivo ad un livello tale da lasciare un tangibile senso di vuoto quando la musica cessa, invero in maniera quasi repentina: si tratta di pochi secondi, sufficienti però a realizzare che sì, la vita è un attimo rispetto all’eternità, come suggerisce il titolo del disco, ma spetta a noi darle un senso sviluppando al massimo un potenziale empatico che ci consenta di immedesimarci nella gioia e nel dolore altrui, marcando in maniera netta ed inequivocabile la differenza tra una minoranza fatta di persone senzienti e tutte le altre.
Dovendo per forza di cose fornire un riferimento musicale a chi legge, appare evidente, come già detto in fase introduttiva, che i Draconian dei primi album costituiscono un termine di paragone piuttosto attendibile, anche se gli Aoenian Sorrow possiedono un approccio più funereo, atmosferico e con una minore predominanza della chitarra, specialmente in veste solista, ma a fare la differenza con gran parte delle uscite del genere negli ultimi anni è una capacità innata di raggiungere il climax dei brani partendo sovente da passaggi più pacati ed intimisti.
Con un’opera di tale spessore gli Aoenian Sorrow vanno a collocarsi sullo stesso piano delle band citate nel corso dell’articolo, il che significa il raggiungimento dell’eccellenza assoluta, ottenuta anche e soprattutto tramite l’epifania di un talento artistico prezioso come quello di Gogo Melone.

Tracklist:
1.Forever Misery
2.Shadows Mourn
3.Under The Light
4.Memory Of Love
5.Thanatos Kyrie
6.Insendia
7.The Wind Of Silence
8.Ave End

Line-up:
Gogo Melone – Vocals, Keyboards, Songwriting, Lyrics
Saku Moilanen – Drums
Alejandro Lotero – Vocals
Taneli Jämsä – Guitars
Pyry Hanski – Bass

AEONIAN SORROW – Facebook

Shambles – Primitive Death Trance

Primitive Death Trance è un nuovo esempio della proposta malsana e senza compromessi dei thailandesi Shambles.

Nel 2016 ci eravamo uniti al corteo funebre che tra le strade thailandesi lasciava un putrido odore di marcio e di morte.

Il suono, che accompagnava il lento incedere verso l’abisso dominato da oscuri demoni torturatori, proveniva dal primo full length degli Shambles (Realm of Darkness Shrine), storici deathsters attivi addirittura dal 1998, anche se con una pausa temporale di dieci anni tra il 2003 ed il 2014.
Il gruppo torna a distanza di un anno con questo nuovo ep, Primitive Death Trance, venticinque minuti di death/doom/grind che equivale ad una morte lenta e dolorosissima, una decomposizione del corpo che lascia l’anima in balia delle maligne forze del male.
Gli Shambles non spostano di una virgola l’atmosfera creata con l’album precedente e, come se questo Primitive Death Trance fosse una sua appendice, continuano a marciare inesorabili verso la perdizione con quattro marcissimi brani nei quali l’odore acre e putrido cancella ogni velleità di bene, lasciando a poche ma intense accelerazioni dalle sfumature grind/death il compito di lavare con i fluidi corporali l’altare eretto per il maligno.
La lenta cattiveria di Daemon, l’atmosfera oscura che varia ritmo della massiccia Dismal Pantheons, il caos infernale di Illusion Of The Void ed il tragico finale della title track, pregna tra le sue note di spunti psichedelici, fanno di Primitive Death Trance un altro esempio di quanto malsana e senza compromessi risulti la proposta di questi cinque demoni thailandesi.

Tracklist
1.Daemon
2.Dismal Pantheons
3.Illusion of the Void
4.Primitive Death Trance

Line-up
Chainarong Meeprasert – Bass, Vocals
Thinnarat Poungmanee – Drums
Issara Panyang – Guitars
Thotsaphon Ayusuk – Guitars
Kairudin – Bass

SHAMBLES – Facebook

Apathy Noir – Black Soil

Un viaggio che ci fa astrarre per un’ora abbondante dalla spesso noiosa realtà.

C’è un’aria costante di intima empatia e al tempo stesso di sconfinata distruzione nella musica degli Apathy Noir, i
quali ritornano con Black Soil, due anni dopo l’uscita del loro ultimo disco.

Chi volesse avere un’idea di ciò che si appresta ad ascoltare, dovrebbe dare un’occhiata innanzitutto alla copertina, che è uno spettro chiarissimo delle emozioni che gli Apathy Noir hanno messo in questo lavoro: lo scenario scuro, deserto e malinconico che ricorderebbe più un’ambientazione in stile Nocturnal Depression o giù di lì, emana però un’energia particolare che ritroviamo esattamente nella musica della band svedese.
La durata dei brani è in media di sette minuti, un tempo che risulta perfetto per sviluppare ogni volta emozioni esplosive e mai scontate nell’ascoltatore. Nonostante questo, la band svedese non fa tanti calcoli a tavolino per costruire pian piano questi scenari emotivi o gestirli secondo uno schema, ma mette semplicemente in musica le sue chiare intenzioni dall’inizio alla fine di ogni pezzo. Ci riesce benissimo, e il risultato è quello di un viaggio vero e proprio che ci fa astrarre per un’ora abbondante dalla spesso noiosa realtà.
La chitarra in questo disco ha un doppio potere: sa essere tagliente e galoppante come i migliori Dissection, e l’attimo dopo catartica e un po’ spezzacuore come certi tratti dei Katatonia, e grande merito per questo va a al leader della band Victor Jonas.
Per concludere, lascia un bel po’ di amaro in bocca il fatto che una band di questo calibro abbia ancora relativamente poca considerazione e visibilità. D’altro canto, però, la musica di valore e di carattere è sempre stata di nicchia e forse questa è la sua fortuna.

Tracklist
1.The Glass Delusion
2.Samsara
3.Black Soil
4.The Void Which Binds
5.Bloodsong
6.Towers of Silence
7.Time and Tide

Line-up
Viktor Jonas – Guitars, Drum programming, Keyboards, Bass
Mattias Wetterhall – Vocals

APATHY NOIR – Facebook

Nadir – The Sixth Extinction

The Sixth Extinction si rivela opera di una band di sicuro spessore, composta da musicisti che hanno sempre sotto controllo lo sviluppo del sound, spesso sufficientemente accattivante e melodicamente mai scontato.

Nonostante si tratti di una band attiva da oltre un decennio, e addirittura dal secolo scorso se consideriamo la sua precedente incarnazione denominata Dark Souls, gli ungheresi Nadir credo proprio che siano degli emeriti sconosciuti dalle nostre parti.

Forse la loro particolare forma di death doom contaminato da pulsioni sludge e metalcore non rappresenterà qualcosa di epocale, ma non merita certamente d’essere del tutto ignorato.
Infatti, The Sixth Extinction, che è il settimo full length uscito con l’attuale monicker, si rivela fin da subito l’opera di una band di sicuro spessore, composta da musicisti che hanno sempre sotto controllo lo sviluppo del sound, spesso sufficientemente accattivante e melodicamente mai scontato, come dimostra per esempio una traccia magistrale come Fragmented, capace di segnare in maniera importante la prima parte del lavoro.
Dico questo perché, subito dopo la massiccia Mountains Mourn, prende vita la trilogia Ice Age in the Immediate Future (ispirata dal dramma The Tragedy of Man, composto dallo scrittore magiaro Imre Madach a metà dell’800) che sposta le coordinate del sound verso un qualcosa di più elaborato, anche se l’impronta catchy del sound dei Nadir non viene mai meno, con addirittura la terza parte, A Matter of Survival, che assume ritmi decisamente incalzanti prima di piombare poco dopo metà brano in un rallentato e distorto incedere.
Il bellissimo strumentale Les Ruines, infine, esibisce in modo esplicito le qualità compositive di questa ottima band, che mette in scena una traccia conclusiva solenne ed evocativa allo stesso tempo, grazie ad una splendida melodia chitarristica che stempera in più parti il rumorismo sui cui si appoggia un recitato in lingua francese.
Considerando anche che The Sixth Extinction, un lavoro ricco di intuizioni che non risultano troppo diluite all’interno di una durata di poco superiore alla mezz’ora, è collegato concettualmente al suo predecessore Ventum Iam ad Finem Est, potrebbe valere la pena di approfondire la conoscenza con questa band foriera di un’interpretazione del death doom sicuramente non banale.

Tracklist:
1. The Human Predator
2. The Debris Archipelago
3. Fragmented
4. Along Came Disruption
5. Mountains Mourn
6. Ice Age in the Immediate Future: I. Arctic
7. Ice Age in the Immediate Future: II. To Leave It All Behind
8. Ice Age in the Immediate Future: III. A Matter of Survival
9. Les Ruines

Line-up:
Viktor Tauszik – Vocals
Norbert Czetvitz – Guitars
Hugó Köves – Guitars
Ferenc Gál – Bass
Szabolcs Fekete – Drums

NADIR – Facebook

Hamferð – Támsins likam

Gli Hamferð completano la trilogia concettuale sulla morte e sulla perdita e lo fanno con un capolavoro nel quale la parte strumentale è perfettamente bilanciata tra ardore e intimismo, con la voce di Jón Aldará ad incendiare i nostri sensi.

E’ un’opera di cristallina bellezza il terzo disco degli Hamferð, giunti con Támsins likam alla chiusura della trilogia concettuale dedicata alla morte e alla perdita.

A cinque anni da un disco meraviglioso come Evst il sestetto faroese, che nel frattempo ha sostituito il bassista, ora Ísak Petersen, ci regala un vero e proprio capolavoro di intensità e disperazione quasi insostenibili.
La storia tratta di una famiglia distrutta dalla perdita di un figlio, vista sia dalla parte del padre che della madre , la quale, per sopperire al dolore cerca conforto in entità soprannaturale del folklore isolano.
Il tutto è emozionalmente molto straziante e viene reso dalla band con un suono perfettamente equilibrato tra parti intime e solenni; il cantato faroese si dimostra un valore aggiunto ed è ulteriormente esaltato dal canto intenso e sentito di Jón Aldará, a mio parere tra i migliori singer sulla scena, il quale variando timbriche e toni inanella una serie di interpretazioni di altissimo livello.
I sei brani creano un pathos, una spiritualità che non ha eguali e fin dalla prima traccia Fylgisflog si rimane senza parole, quando note delicate di chitarra e violoncello tratteggiano una atmosfera in cui le clean vocals di Jon colpiscono profondamente, prima che il brano si incendi in un death doom intenso, dove il growl alternato al pulito timbro solenne lacera il cuore dell’ascoltatore; la musica raggiunge cosi alti livelli di angoscia da turbare nel profondo, i musicisti sono molto concentrati e convinti, le chitarre non suonano melodie accattivanti, ma ricercano e creano atmosfere che possano definire il senso di mancanza, la tragedia, la disperazione provata dai genitori per la loro perdita (da vedere il video di Frosthvarv per riuscire a comprendere appieno il significato del disco).
La band in una intervista ha affermato che l’ascolto di alcuni musicisti classici (Mahler, Rachmaninoff) ha contribuito alla creazione di un perfetto bilanciamento tra “bellezza, dissonanza e disperazione” e tutto questo si evince dal complessivo ascolto dell’ opera dove non una sola nota è sprecata, ma tutto è coinvolgente, volto a creare un assoluto quadro di disperazione e angoscia.
Le atmosfere intime e inquietanti di Frosthvarv, il canto solenne ed evocativo di Aldará in Tvístevndur meldur, nutrono il cuore di calde e uniche sensazioni, l’aggressività ammantata di angoscia di Hon syndrast ci ricorda che il death doom sa regalare emozioni uniche e, infine, gli abbondanti dieci minuti di Vápn í anda ci gettano in profondi abissi di sconforto suggellando un capolavoro.

Tracklist
1. Fylgisflog
2. Stygd
3. Tvístevndur meldur
4. Frosthvarv
5. Hon syndrast
6. Vápn í anda

Line-up
Remi Johannesen – Drums
John Egholm – Guitars
Theodor Kapnas – Guitars
Esmar Joensen – Keyboards
Jón Aldará – Vocals
Ísak Petersen – Bass

Hamferð – Facebook

Ocean Of Grief – Nightfall’s Lament

Gli Ocean Of Grief raggiungono con questo album un livello di maturità che può sorprendere solo chi non ne avesse già scorto gli evidenti prodromi nell’ep d’esordio.

Poco meno di due anni fa mi ero espresso molto favorevolmente sugli esordienti Ocean Of Grief indicandoli come band dalle enormi prospettive.

Non che ci volesse un coraggio particolare per lanciarsi in simili previsioni, visto che il gruppo ateniese esibiva in maniera inequivocabile quelle stesse stimmate del talento esibito dai migliori act europei di death doom melodico, quali Enshine, Evadne, Frailty, When Nothing Remains e, ovviamente Swallow The Sun e Saturnus.
Chiaramente, essendo stato Fortress Of My Dark Self un ep, era lecito attendere gli esiti di un lavoro su lunga distanza, prima di decretare la nascita di una nuova stella capace di affiancare i nomi sopra citati nell’empireo di un genere che continua con regolarità a regalare grandi dischi, sia da parte delle band già affermate sia da quelle emergenti.
Sono sufficienti pochi secondi di In Bleakness per capire che Nightfall’s Lament terrà perfettamente fede alle aspettative: sopraffatti dall’afflato melodico di un chitarrista magnifico come Filippos Koliopanos, non resta altro che lasciarsi andare alla commozione ascoltando di brani di rara bellezza come Mourning Over Memories, Painting My Sorrow The Release of the Soul; ma si tratta solo di una preferenza dovuta a particolari infinitesimali, perché raramente la tracklist di un album può godere di una qualità cosi uniformemente elevata.
Proprio come Eshine, Saturnus o Doom Vs., il sound degli Ocean of Grief è condotto senza soluzione di continuità dalle linee melodiche tessute dalla chitarra solista e il risultato è ugualmente entusiasmante: il gruppo fondato nel 2014 dal già citato Koliopanos e dal bassista Giannis Koskinas raggiunge con questo album un livello di maturità che sorprenderà, appunto, solo chi non ne avesse già scorto gli evidenti prodromi nell’ep d’esordio; è vero, però, che il sound degli ellenici si è ulteriormente raffinato ed evoluto fino a raggiungere qualcosa di molto vicino alla perfezione formale e compositiva
Se qualcuno obietterà che, in fondo, gli Ocean Of Grief sono simili a questa o a quella band (che magari a sua volta attinge a piene mani da qualcun’altra) la noncurante risposta che gli si deve è che effettivamente c’è del vero, ma tra l’assomigliare ed il copiare c’è di mezzo non un mare bensì un “oceano di dolore” …
Gli Ocean Of Grief ottengono una meritata consacrazione già al full length d’esordio e, in effetti, Nightfall’s Lament è il classico album il cui ascolto diviene ogni volta sempre più irrinunciabile, nella sua funzione di catartico vettore.

Tracklist:
1.In Bleakness
2.Eyes of Oblivion
3.Mourning Over Memories
4.Fiend of the Overlord
5.Painting My Sorrow
6.The Breeding of Death
7.The Release of the Soul

Line-up:
Charalabos Babis Oikonomopoulos – Vocals
Filippos Koliopanos – Guitars
Dimitra Zarkadoula – Guitars
Giannis Koskinas – Bass
Aris Nikoleris – Keyboards
Thomas Motsios – Drums

OCEAN OF GRIEF _ Facebook

Faal – Desolate Grief

Desolate Grief è un lavoro ottimo, che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.

Gli olandesi Faal appartengono ad una scena che, in ambito funeral/death doom, conta su una tradizione consolidata.

L’ultima uscita della band di Breda risale al 2015, quando occupò la seconda meta di uno split album in compagnia degli Eye Of Solitude.
Il brano offerto in quell’occasione, Shattered Hope, era piuttosto rappresentativo del sound dei Faal, una band che, seppure ascrivibile a pieno titolo all’interno del funeral melodico, non rinuncia a a proporre spunti più robusti ed aspri, rendendo sicuramente meno prevedibile la proposta.
Restano però quale fulcro del lavoro le dolenti armonie che i Faal, mai come questa volta, riescono a rendere nel migliore dei modi, avvolgendo l’ascoltatore di una cappa di tristezza che non sfocia mai nella disperazione, lasciando spazio ad una malinconia che si sublima in una brano magnifico come Grief.
No Silence, invece, è esempio lampante di quanto il gruppo olandese riesca a fare quando aumenta i giri del motore, mantenendo alta la tensione e senza smarrire la componente melodica che sarà nostra fedele compagna fino al termine di Desolate Grief: è bellissimo in questa traccia (vicino ai dieci minuti così come le altre tre, escludendo l’intro) il lavoro chitarristico che punteggia prima un notevole crescendo emotivo e poi si lascia andare a quelle litanie funebri, che tanto amano gli appassionati del genere.
Una buona ma meno intensa (nonostante il titolo) Evoking Emotions fa da cuscinetto prima della degna conclusione dell’album con The Horizon, con il growl di William Nijhof che fa vibrare anche le casse, mentre fanno capolino gradite sfumature post metal che vanno ad intrecciarsi con ritmiche ingannevolmente rallentate, visto che a metà brano arriva una sfuriata che rappresenta un ultimo sussulto, quasi una reazione scomposta all’ineluttabile e penosa discesa agli inferi coincidente con la fine di un lavoro ottimo, e che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.

Tracklist:
1. Intro
2. Grief
3. No Silence
4. Evoking Emotions
5. The Horizon

Line-up:
William Nijhof – Vocals
Gerben van der Aa – Guitars
Pascal Vervest – Guitars
Remco Verhees – Drums
Vic van der Steen – Bass
Cátia Uiterwijk Winkel-André Almeida – Synths

FAAL – Facebook

Esoteric – Esoteric Emotions-The Death of Ignorance

Riedizione in formato cd, da parte della Aesthetic Death, del demo d’esordio degli Esoteric, rimasterizzato dallo stesso Greg Chandler e rivestito di una nuova veste grafica: come si vede, non mancano i motivi di interesse per gli appassionati di doom.

Se ogni tanto la riedizione dei primi passi discografici di una band può risultare superflua se non addirittura fuorviante, sia a causa di suoni non ottimali sia perché poco rappresentativa dello stile musicale sviluppato in seguito, di certo lo stesso non si può dire riguardo alla riproposizione in formato cd del primo demo degli Esoteric, intitolato Esoteric Emotions – The Death Of Ignorance.

E’ stata una serie di favorevoli coincidenze, tra le quali la ricorrenza del venticinquesimo anno di attività della band e l’unità di intenti da parte di Greg Chandler e Stu Gregg (proprietario della Aesthetic Death), a rendere nuovamente disponibile sul mercato un lavoro che ormai era reperibile solo sotto le sembianze di bootleg dallo scadente rapporto qualità/prezzo, offrendolo al contrario in un formato curato anche dal punto di vista grafico e sonoro.
Al di là della bontà dell’opera, che per assurdo andrebbe ascoltata senza conoscere la successiva produzione di uno dei gruppi monumento del doom, in modo da poterla apprezzare senza subire una percezione distorta del suo valore, preme rimarcarne l’importanza storica, dato che uscì in un periodo, l’inizio degli anni novanta, nel quale diverse band stavano cominciando a proporre quella forma diluita e rallentata all’inverosimile di death metal che sarebbe poi divenuta il funeral.
A differenza di molti altri musicisti, Greg Chandler non rinnega affatto quanto composto e pubblicato agli inizi della carriera e, nonostante gli Esoteric sia siano con il tempo trasformati in una band giustamente oggetto di culto per la sua interpretazione del genere che ne rifugge gli stilemi tipici , la scelta di riproporre il demo in versione rimasterizzata dimostra più di tante parole quanto egli stesso ritenga quella prima uscita un passo importante, non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello dello sviluppo futuro del sound del suo gruppo.
D’altra parte Esoteric Emotions – The Death of Ignorance non appare neppure oggi così obsoleto, a ben vedere, perché non di rado capita di ascoltare lavori di band che si rifanno senza troppe remore a quelle sonorità, a tratti crude ed essenziali, che racchiudono i prodromi di quel funeral doom dei quali gli Esoteric, assieme a Thergothon, Skepticism, Evoken, Mournful Congregation  e Disembowelment, hanno dettato alcune delle principali linee guida.
Per chi nutrisse qualche dubbio, l’ascolto di due brani magnifici come Scarred e Eyes of Darkness (non a caso i due più lunghi e “funerei” dell’opera) dovrebbe dissipare ogni residua perplessità, rendendo l’acquisto di questo frammento di storia del metal estremo qualcosa in più di un semplice atto dovuto.

Tracklist:
1. Esoteric
2. In Solitude
3. Enslavers of the Insecure
4. Scarred
5. Eyes of Darkness
6. Infanticidal Fantasies
7. Expectations of Love
8. The Laughter of the Ignorant

Line-up:
Original line-up
Bryan Beck – Bass
Stuart – Guitars
Gordon Bicknell – Guitars, Keyboards
Greg Chandler – Vocals
Darren Earl – Drums
Simon Phillips – Guitars

ESOTERIC – Facebook

Aura Hiemis – Silentium Manium

Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva.

V. è un musicista cileno che ha fatto parte anche degli ormai disciolti Mar De Grises, forse la maggiore band di sempre partorita in ambito doom dal paese sudamericano.

Aura Hiemis è il monicker del suo personale progetto che giunge, con Silentium Manium, al quarto full
length: il genere assume sovente, qui, una forma più eterea ma nel contempo guitar oriented e ciò spinge l’album ad avere un’ampia porzione puramente strumentale.
L’approccio alla materia di V. e senz’altro più emotivo che tecnico, per cui il predominio dello strumento a sei corde è foriero di malinconici arpeggi acustici, così come di brani constraddistinti da dolenti linee melodiche di matrice solista.
Detto ciò, sono comunque i brani cantati ad assumere un ruolo chiave nell’economia dell’album in quanto sicuramente più efficaci ed più impattanti a livello emotivo: forse quello che manca un po’ è una certa continuità in tal senso, perché è indubbio che i brani strumentali, pur avendo una loro funzione all’interno dello sviluppo del lavoro, talvolta paiono spezzare la tensione che riescono a creare due gioielli come Sub Luce Maligna e soprattutto Danse Macabre, brano funeral di grande spessore
Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva e, soprattutto, intento a seguire una propria strada che porta a quelle rovine immortalate in copertina, volte a simboleggiare l’impossibilità di ricostruire ciò che il tempo e l’abbandono hanno definitivamente sgretolato.
Da notare anche la presenza di quella che dovrebbe essere una ghost track, visto che nel libretto i brani dichiarati sono dieci, mentre dopo un prolungato silenzio parte un undicesima traccia, altro brano notevole nel quale V., mette in mostra un growl di notevole profondità oltre ad una naturale propensione alla creazione di linee chitarristiche davvero evocative.
Silentium Manium è senz’altro un gran bel disco, anche se un death doom melodico ed ispirato come quello offerto per lunghi tratti dagli Aura Hiemis verrebbe ulteriormente valorizzato se sviluppato su pochi brani di consistente durata piuttosto che distribuito su una decina di tracce, cinque delle quali, quelle intitolate Maeror Demens, sono frammenti strumentali pregevoli ma che, come detto, finiscono per spezzettare eccessivamente l’incedere del lavoro.
L’album resta comunque vivamente consigliato a chi ama il genere, a patto di approcciarlo con la giusta pazienza visto che, proprio per le suddette caratteristiche, l’assimilazione viene completata solo dopo diversi passaggi nel lettore.

Tracklist:
1. Maeror Demens I
2. Cadaver Fessum
3. Maeror Demens II
4. Sub Luce Maligna
5. Maeror Demens III
6. Between Silence Seas
7. Frozen Memories
8. Maeror Demens IV
9. Danse Macabre
10. Maeror Demens V

Line-up:
V. – Vocals, Guitars, Programming
Lord Mashit – Drums, Bass

AURA HIEMIS – Facebook

Rotting Kingdom – Rotting Kingdom

Licenziato dall’attivissima Godz Ov War, questo ottimo mini cd è composto da tre brani medio lunghi che formano una lunga litania oscura di death metal old school.

Tre brani bastano ai Rotting Kingdom per presentarsi al meglio sulla scena doom/death mondiale con il loro ep di debutto omonimo.

Licenziato dall’attivissima Godz Ov War, questo ottimo mini cd è composto da tre brani medio lunghi che formano una lunga litania oscura di death metal old school, ricco delle atmosfere dark e malinconiche che hanno fatto la fortuna dei My Dying Bride, probabilmente il gruppo che più ha ispirato la musica del combo statunitense.
Vario e colmo di riferimenti ai primi passi delle storiche band del genere, i Rotting Kingdom non dimenticano che il doom ha una sua origine classica, e Pentagram e Solitude Aeturnus si mescolano alle trame estreme e romantiche della sposa morente e dei primi Paradise Lost come si evince dalla seconda traccia, The Castle Of Decay, brano incentrato su passaggi più tradizionali rispetto alle atmosfere dark e decadenti dell’iniziale Adrift In A Sea Of Souls.
Il riff ripetuto che annuncia la conclusiva Demons In Stained Glass porta venti di morte sul sound del gruppo e si intensificano le ritmiche per quella che è la traccia più death metal del lotto.
Ovviamente nei suoi dieci minuti di durata i rallentamenti non mancano, con richiami agli olandesi Asphyx (maestri in queste sonorità), ed un finale che sfuma lento e inesorabile, creando un’atmosfera di paziente attesa per un prossimo full length assolutamente da non perdere.
Votata alla parte più atmosferica del death metal, la band americana, formata alla scuola europea, è una delle migliori novità del genere di questo inizio anno: per gli amanti di queste sonorità un album da non perdere.

Tracklist
1.Adrift In A Sea Of Souls
2.Castle Of Decay
3. Demons In Stained Glass

Line-up
Anton Escobar – Vocals
Kyle Keener – Guitar
Chuck Mcintyre – Bass
Clay Rice – Guitar
Brandon Glancy – Drums

ROTTING KINGDOM – Facebook

Monolithe – Nebula Septem

Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Sono passati quindici anni da quando i Monolithe pubblicarono il proprio album  d’esordio.

Ci volle relativamente poco perché la band francese, guidata da Sylvain Bégot, si ritagliasse un suo status di culto presso gli estimatori del funeral doom, soprattutto perché a livello concettuale, invece di ripiegarsi sulle sventure terrene, tentava di elevarsi verso un sentire cosmico con risultati ugualmente angoscianti, a ben vedere.
Ogg, ad accompagnare il leader, tra i membri originari è rimasto solo l’altro chitarrista Benoît Blin, visto che per la prima volta i Monolithe non si avvalgono della voce di Richard Loudin, cosicché in Nebula Septem le parti vocali sono state registrate da Sebastien Pierre (Enshine, Cold Insight), mentre in sede live il ruolo verrà assunto dal terzo chitarrista Remi Brochard.
Come si può intuire dal titolo siamo arrivati alla settima puntata su lunga distanza per la band transalpina (alla cui discografia vanno aggiunti anche i due Interlude, importanti Ep usciti tra Monolithe II e Monolithe III) e tale numero ricorre in maniera puntuale sia nel numero dei brani che nella loro durata, ma al di là di questi aspetti, è confortante constatare come la cadenza di uscite ormai annuale non abbia per nulla scalfito la qualità degli album.
Nebula Septem per certi versi sorprende, perché se in Epsilon Aurigae certe aperture progressive potevano far presagire un ulteriore incremento della componente melodica, il suono al contrario pare addirittura inasprirsi, senza che venga comunque mai meno la propensione atmosferica e l’afflato cosmico che è tratto distintivo dei Monolithe.
Se IV resta, anche a detta dello stesso Bégot nel corso dell’interessante documentario Innersight, l’album più riuscito nella discografia dei nostri, qui andiamo molto vicini al raggiungimento di quel livello, sebbene sia da mettere subito in chiaro che, per un’assimilazione soddisfacente, sono necessari diversi ascolti, in modo da riuscire a cogliere ogni volta sfumature diverse pur se racchiuse in un “monolite” sonoro molto compatto, eretto dalle tre chitarre e sostenute da un eccellente lavoro tastierisco, dal growl magnifico di Pierre e da una base ritmica molto più attiva e in evidenza rispetto alle abitudini del genere.
Del resto la collocazione dei Monolithe nell’ambito del funeral doom appare più una convenzione che non una reale fotografia delle loro attuali sonorità, definibili più correttamente come un metal estremo cosmico e avanguardista, non troppo distante per approccio neppure da certe forme di black/space atmosferico.
Nebula Septem, per come è strutturato, va assorbito nella sua interezza, perché parlare dei singoli brani sarebbe abbastanza inutile: basti sapere comunque che almeno i primi ventotto minuti sono superlativi (dovendo scegliere mi prendo l’accoppiata Burst in the Event Horizon / Coil Shaped Volutions), mentre l’incipit da videogame di Engineering the Rip potrebbe risultare spiazzante per cui è bene dire che il tutto dura ben poco, prima che la galassia musicale denominata Monolithe ricominci ad abbattersi come di consueto sull’ascolatore, fino a chiudere i giochi con lo strumentale Gravity Flood, spruzzato di elettronica all’avvio e poi melodico e dolente come da copione doom.
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Tracklist:
1. Anechoic Aberration
2. Burst in the Event Horizon
3. Coil Shaped Volutions
4. Delta Scuti
5. Engineering the Rip
6. Fathom the Deep
7. Gravity Flood

Line-up
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums
Rémi Brochard – Guitars, Vocals
Matthieu Marchand – Keyboards

Sebastien Pierre – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Into Coffin – The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos

Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo.

Credo che una delle ipotesi più terrorizzanti per ogni essere umano sia l’eventualità di risvegliarsi all’interno di una bara collocata circa sei piedi sottoterra …

E’ normale, quindi, che una band denominata Into Coffin sia autrice di un sound annichilente, capace di rendere tangibile il senso di soffocamento e la disperata alternanza tra il parossismo ed il deliquio che precede una morte vera e mai cosi invocata.
Questi tre figuri provenienti da Marburg mettono in scena due lunghi brani per una mezz’ora scarsa di death/black doom asfissiante, spaventoso nel suo monolitico incedere: un qualcosa che davvero riesce a scuotere anche la coscienza più assopita, attirandola in un vortice di alienazione al quale non è possibile sottrarsi.
I rallentamenti morbosi sono propedeutici ad un crescendo inarrestabile, una colata di lava che pare risalire le pendici vulcaniche, partendo da uno stato semisolido per divenire incandescente e ridurre in cenere tutto ciò che incontra sul suo passaggio
The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos è un epche possiede quel quid in più rispetto ad offerte di simile tenore: devo ammettere che questa forma di doom, per quanto apprezzabile, l’ho sempre ritenuta alla lunga piuttosto prevedibile in virtù della totale assenza di sbocchi o aperture atmosferiche, ma gli Into Coffin vanno al di là di ogni tipo di considerazione di genere, perché l’intensità che viene espressa in ogni attimo del lavoro è a dir poco sorprendente, e probabilmente ineguagliabile in un’offerta di questo tipo.
In sede di presentazione il trio tedesco viene associato ad una band seminale come gli Winter ma, a mio avviso, il loro valore va ben oltre, e sono certo di non esagerare.
Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo e a questo punto, per completare il luttuoso cammino, conviene fare un passo indietro andando a recuperare il full length del 2016 intitolato Into a Pyramid of Doom, uscito sempre per Terror Of Hell Records.

Tracklist:
1. Crawling In Chao
2. The Evanescence Creature From Nebula’s Dust

Line-up:
G. – Bass & Vocals
J. – Drums
S. – Guitars & Vocals

INTO COFFIN – Facebook

Ilienses Tree – Edda

Una band del genere è assolutamente pronta a giocarsi la carta del full length, lo dicono la qualità della musica creata e la cura nei dettagli che emergono all’ascolto di Edda.

Gli Ilienses inaugurano con l’ep Edda la collaborazione con la Maculata Anima Rec.

La band sarda offre un metal che ha nei passaggi doom/death il proprio punto di forza, e l’orgoglio di appartenere ad una terra leggendaria si rispecchia in un sound estremo ma fortemente epico: queste sono le caratteristiche che rendono peculiare il sound degli Ilienses Tree, i quali come valori aggiunti immettono un ottimo songwriting ed un guerresco approccio alla materia estrema, che divengono poi i tramiti per un elegante viaggio lungo la storia secolare dell’isola.
Edda è un’opera interessante e ricca di sonorità che passano dal doom/death classico al death/black, e resta incollata perfettamente al padiglione uditivo grazie a tremende sfuriate estreme, in un mastodontico marciare tra mid tempo nei quali l’epicità dilaga, con non pochi riferimenti ad alcune leggende del panorama death/doom metal: ritroviamo così i primi Anathema e Paradise Lost arricchiti da una solennità che ricorda i Primordial, e Candlemass /Penance nelle jam di doom metal classico.
Tutto ciò rende tutti i brani che compongono Edda dei potenziali classici all’interno dei quali le citazioni esaltano l’atmosfera di brani epici ed oscuri come Ragnarok o Agony, cuore nero e pulsante sangue di questo album.
Una band del genere è assolutamente pronta a giocarsi la carta del full length, lo dicono la qualità della musica creata e la cura nei dettagli che emergono all’ascolto di Edda.

Tracklist
1.Edda
2.The Birth
3.Ragnarok
4.Agony
5.Dark Age

Line-up
Maurizio Meloni – Vocals
Claudio Kalb – Bass
Simone Milia – Guitar
Francesco Carboni – Guitar
Giammarco Vacca – Drums

ILIENSES TREE – Facebook

My Silent Wake – There Was Death

Tutta la vostra attenzione dovrà andare al puro ascolto per questo nuovo album. Non c’è tempo per discutere, i My Silent Wake, come sempre, pensano solo a produrre sensazioni, riuscendoci nuovamente.

C’è del marcio, ma non solo, in There Was Death dei My Silent Wake. Ebbene sì, perché questa band inglese dalla fama sempre maggiore, che ha fatto parlare di sé soprattutto con il riuscitissimo album del 2007, The Anatomy of Melancholy, non si chiude mai ad una sola via stilistica.

Anche in questo nuovo lavoro, l’impatto sonoro che ci viene restituito è molto difficile da etichettare con una definizione ben precisa. Gran punto a favore, certamente, perché l’unica cosa che ci resta da fare è semplicemente aprire le orecchie ed ascoltare. Per tutta la durata dell’album, così come è sempre stato nelle loro corde, c’è una fondamentale vena malinconica, a tratti disperata. Stavolta però, a differenza di tante produzioni precedenti, la malinconia è accompagnata dal vigore e dalla forza sonora a tutti gli effetti. Ma non illudetevi, perché anche quest’ultima è perfettamente in sintonia con l’animo di questa band, ed anzi accentua gli aspetti più crudi della tristezza.
Ascoltando brani come la traccia di apertura A Dying Man’s Wish o Ghost of Parlous Lives, è inevitabile avvertire la sensazione di un vuoto totale che si espande sempre di più. I My Silent Wake riescono ancora una volta a restituirci quest’immaginario al meglio possibile. C’è una grande componente eterea, inafferrabile, che scorre per tutta la durata dell’album.
In questo sta, ancora una volta, la grande forza espressiva oltre che tecnica di questa band.

Tracklist
1. A Dying Man’s Wish
2. Damnatio Memoriae
3. Killing Flaw
4. Ghosts of Parlous Lives
5. Mourning the Loss of the Living
6. There Was Death
7. Walls Within Walls
8. No End to Sorrow
9. An End to Suffering

Line-up
Ian Arkley: Guitar, Vox
Addam Westlake: Bass
Gareth Arlett: Drums
Mike Hitchen: Live guitar and Vox
Simon Bibby: Keys, Vox

MY SILENT WAKE – Facebook

Druid Lord – Grotesque Offerings

Un lavoro che saggiamente mantiene la sua natura underground, rendendo i Druid Lord un gruppo da seguire, almeno per chi ama il genere ed il death metal rallentato e appesantito da cascate di watt che si trasformano in magma infernale.

Quando si avvicina la fine dell’anno succede spesso di ritrovarsi al cospetto di band notevoli, che in Zona Cesarini (come si dice in gergo calcistico), piazzano i loro splendidi lavori come un goal all’ultimo secondo di un’avvincente partita.

Quest’anno, parlando di death metal dalle chiare influenze doom, la plastica rovesciata che vale un campionato la fanno gli statunitensi Druid Lord con questo Grotesque Offerings, monumentale esempio di musica del destino potenziata da sua maestà il death e resa ancora più estrema ed affascinante da un concept horror preso in prestito dalla cultura cinematografica e fumettistica degli anni settanta.
Il quartetto nasce in Florida nel 2010 e di quell’anno è l’esordio sulla lunga distanza Hymns for the Wicked, seguito da una serie di ep e split che accompagnano la band fino al mastodontico Grotesque Offerings, che nasce e prende forma in qualche profondità infernale e torna in superficie a trasformare questo fine 2017 in una marcia inesorabile verso la perdizione ed il puro terrore.
Il lavoro saggiamente mantiene la sua natura underground, rendendo i Druid Lord un gruppo da seguire, almeno per chi ama il genere ed il death metal rallentato e appesantito da cascate di watt che si trasformano in magma infernale.
Composto da una serie di brani atmosfericamente perfetti per notti da incubi (l’opener House Of Dripping Gore, Night Gallery, il capolavoro doom/horror Evil That Haunts This Ground e la discesa nel pozzo delle anime dannate intitolata Last Drop Of Blood) l’album è una notevole opera estrema, lenta ed inesorabile e composta da attimi davvero suggestivi.
Immaginate gli Asphyx, i primi Cathedral e i primi Paradise Lost amalgamati con il doom classico di Pentagram e Candlemass, ed ispirati dai film della Hammer (la nota casa di produzione britannica, molto attiva negli anni settanta): ecco gli ingredienti che rendono Grotesque Offerings imperdibile.

Tracklist
1.House of Dripping Gore
2.Night Gallery
3.Spells of the Necromancer
4.Evil That Haunts This Ground
5.Black Candle Seance
6.Creature Feature
7.Into the Crypts
8.Murderous Mr. Hyde
9.Last Drop of Blood
10.Final Resting Place

Line-up
Pete Slate- Lead & Rhythm Guitar
Tony Blakk- Vocals & Bass
Ben Ross- Rhythm & Lead Guitar
Elden Santos – Drums

DRUIUD LORD – Facebook