Belfry dà uno stato di calma quasi eterna, un punto distaccato dal quale osservare i nostri disperati affanni, una comoda nicchia nel fresco di un ghiacciaio morto da eoni.
Incredibile debutto per questo gruppo italiano, doom con fortissime influenze anni settanta, droni possenti e volanti, il tutto fatto benissimo.
Disco per fortuna inconsueto e fuori dall’ordinario per questo gruppo nato, composto da musicisti dai più disparati bagagli musicali, dal black metal al grind, dal prog al dark ambient, al doom. Tutto ciò porta ad un risultato strabiliante per un gruppo nuovo, dato che si è formato nel 2014. Il suono dei Messa sembra un rituale pagano molto oscuro e godibile, che cattura vari immaginari, nobilitato dalla voce di Sara, sacerdotessa che ci accompagna in questo viaggio agrodolce.
Tutte le canzoni sono diverse e raccontano una storia che si intreccia con suoni e visioni diverse. Belfrydà uno stato di calma quasi eterna, un punto distaccato dal quale osservare i nostri disperati affanni, una comoda nicchia nel fresco di un ghiacciaio morto da eoni. I Messa hanno il passo dei grandi gruppi, e grande scenicità musicale, come se fossero stati portati nel mondo reale da Dario Argento in persona, perché per tutto il disco aleggia questo sentimento di horror anni settanta all’italiana. Differenti visioni musicali si amalgamano per un risultato straordinario.
TRACKLIST
1- Alba
2- Babalon
3- Fårö
4- Hour Of The Wolf
5- Blood
6- Tomba
7- New Horns
8- Bell Tower
9- Outermost
10- Confess
LINE-UP
Mark Sade: guitar/bass/ambient
Sara: Voice.
Mistyr : drums.
Albert: lead guitar
I The Foreshadowing consolidano la recente fama acquisita con un altro splendido disco.
Per una band che ha raggiunto il picco qualitativo della propria carriera il difficile viene proprio nel momento in cui bisogna dare seguito a quanto di buono fatto in precedenza, con l’obiettivo di migliorare ulteriormente o, in subordine, quello di mantenersi su uno standard quanto meno simile.
Per i The Foreshadowing la missione appariva ancor più complessa, visto che il valore assoluto di un disco come Second World ne aveva esteso la fama oltre i confini nazionali, portandoli anche ad intraprendere un tour americano in compagnia di nomi pesanti quali Marduk e Moonspell.
Nonostante il primissimo approccio con Seven Heads Ten Horns mi avesse lasciato più di una perplessità, la percezione dei contenuti dell’album è progressivamente lievitata, ascolto dopo ascolto, fino a svelarne inesorabilmente la vera natura, quella di degno successore di una pietra miliare come Second World.
I The Foreshadowing confermano così il loro valore uscendo vincenti da questa ardua prova, anche se il particolare stile esibito non rappresenta più una sorpresa, essendosi consolidato nel corso degli anni; la band capitolina in questo caso ha optato per un percepibile ammorbidimento del sound, puntando allo sviluppo di chorus dal grande impatto, di quelli che si imprimono subdolamente nella memoria e ci si ritrova a cantare quasi in maniera inconsapevole: una scelta, questa, che offre risultati eccellenti anche se viene sacrificato un pizzico di quella energia esibita nei lavori precedenti.
Del resto i nostri possiedono quella peculiarità tipica dei campioni che è l’esibizione di una cifra stilistica riconoscibile, non solo per il timbro vocale di Marco Benevento, ma anche per un gusto melodico innato che li porta ad essere, volendo un po’ forzare la mano nei paragoni, un ideale punto di incontro tra Paradise Lost, Moonspell e Depeche Mode.
Azzardato ? No, perché un brano di una bellezza stordente come Until We Fail avrebbe trovato una naturale collocazione all’interno di quel capolavoro intitolato Songs of Faith and Devotion; no, perché il background doom attinto dai maestri di Halifax si fonde mirabilmente, in canzoni come Two Horizons e Lost Soldiers, con la malinconia gotica dei lusitani.
I brani citati sono quelli che maggiormente spiccano in una tracklist priva di passaggi a vuoto, prima che la conclusiva Nimrod, traccia di quasi un quarto d’ora composta da quattro movimenti (The Eerie Tower, Omelia, Collapse e Inno al Dolore) si snodi in un magnifico crescendo emotivo, trovando la propria sublimazione in un drammatico ed emozionante finale. Seven Heads Ten Horns è incentrato, dal punto di vista lirico, sul declino della civiltà europea, delineandone un parallelismo tutt’altro che fuori luogo con quella dell’antica Bababilonia, con tanto di metaforico crollo della torre posto come funesto epilogo di un lavoro curato sotto tutti gli aspetti, incluso quello grafico, grazie all’ennesimo visionario artwork creato dal frontman dei Septicflesh, Seth Siro Anton.
I The Foreshadowing consolidano la recente fama acquisita con un altro disco impeccabile e, francamente, alla luce dello status raggiunto e del livello espresso, si auspicano per loro ben altri palcoscenici rispetto a quelli offerti in un’italietta dalla ristretta cultura musicale.
Tracklist:
1. Ishtar
2. Fall of Heroes
3. Two Horizons
4. New Babylon
5. Lost Soldiers
6. 17
7. Until We Fail
8. Martyrdom
9. Nimrod (The Eerie Tower / Omelia / Collapse / Inno al Dolore)
Line-up:
Alessandro Pace – Guitars
Andrea Chiodetti – Guitars
Francesco Sosto – Keyboards
Marco Benevento – Vocals
Francesco Giulianelli – Bass
Giuseppe Orlando – Drums
Passage è un album che sicuramente comunica un senso di algida alienazione e, se questo era l’intento dei due ragazzi San Pietroburgo, l’obiettivo viene sicuramente raggiunto, permane però sullo sfondo una certa monotonia provocata da un incedere senza particolari strappi.
I russi Depicting Abysm, duo dedito ad un atmospheric depressive black, pubblicano il loro secondo full length intitolato Passage.
Al netto di una esecuzione pregevole e di una produzione buona per gli standard abituali del genere, va detto che nell’album latitano quegli spunti emotivi che sarebbe lecito attendersi con maggiore continuità in una proposta simile. I ritmi sono costanti, così come le melodie tenui ma non troppo incisive, che creano un sottofondo senza sobbalzi allo screaming disperato di matrice DSBM e a clean vocals per lo più recitate
Anche il doom entra nel novero delle influenze mostrate dai Depicting Abysm, specie nelle parti iniziali di alcuni brani, laddove l’incedere si fa più soffocante.
L’opener Shelter è sicuramente un buon brano, resta il fatto che la formula si ripete poi per oltre mezz’ora salvo le impennate finali di Gathering, in cui un violino fornisce quella variabile lungamente attesa, e di Unity, in cui un dolente chitarrismo di matrice doom, regala il picco di drammaticità dell’album. Passageè un album che sicuramente comunica un senso di sottile afflizione e, se questo era l’intento dei due ragazzi di San Pietroburgo, l’obiettivo viene sicuramente raggiunto, permane però sullo sfondo una certa monotonia provocata da un incedere senza particolari strappi.
I Lanthanein conquistano per l’approccio sinfonico, ma dalle ritmiche chi si allontanano dalle sonorità più in voga ultimamente, per esplorare lidi più dark oriented e doom.
Poche informazioni ma grande musica gli argentini Lanthanein, duo che con un po’ di ritardo giunge a noi con questo ep dal titolo Nocturnalgica.
Marili Portorrico (voce, arrangiamenti e programming) e Juan Mansilla (voce, chitarre, basso e programming) licenziano questi oscuri ed affascinanti venti minuti circa di musica gotica, sinfonica, operistica e dalle reminiscenze doom/dark, giocando con l’anima malinconica e decadente del metal con eleganza e talento.
Alternando l’idioma inglese alla lingua madre, il gruppo sudamericano conquista subito per l’approccio sinfonico, ma dalle ritmiche chi si allontanano dalle sonorità piu in voga ultimamente, per esplorare lidi più dark oriented e doom.
Molto raffinato, il songwriting è valorizzato da un’ottima interpretazione vocale, classica ma molto suggestiva, specialmente nei brani (A Orillas Del Silencio) dove la vocalist fa sfoggio della sua lingua, il che regala raffinatezza alle già eleganti trame orchestrali, oscure e pregne di un’elegante melanconia.
Un accenno metallico di stampo black rimane confinato al solo inizio della pur ottima title track, mentre Marili Portorrico ammalia e affascina non poco con la sua bellissima voce.
Siamo nei dintorni del doom gotico di metà anni novanta, la pesantezza dei ritmi lenti e cadenzati vanno a braccetto con orchestrazioni raffinate, delicate ed oscure.
L’atmosfera è magicamente dark, il piano disegna accordi classici, le sinfonie non sono mai troppo invadenti e la voce maschile, quando accompagna la sontuosa prova della singer, lo fa senza estremizzare troppo l’aura gotico orchestrale delle songs (Lacrimosa Et Gementem).
Quattro brani da ascoltare per una band da seguire nei suoi prossimi passi che potrebbero regalare grosse soddisfazioni, sia ai Lanthanein, sia alle anime notturne sempre alla ricerca di nuove colonne sonore per paesaggi crepuscolari.
TRACKLIST
01.Lágrimas De Luna
02.Nocturnálgica
03.A Orillas Del Silencio
04.Lacrimosa Et Gementem
Pur in presenza di una serie di canzoni ineccepibili formalmente e dotate di notevoli spunti, il disco si adegua ad un andamento che, se non delude, neppure ricrea il pathos raggiunto con lo splendido brano d’apertura.
Gli October Tide, quando mossero i loro primi passi alla fine del secolo scorso, attirarono su di loro una certa attenzione essendo di fatto una sorta di costola death doom dei ben più noti Katatonia, grazie alla presenza in formazione di Fredrik Norrman e di Jonas Renkse.
Peraltro la bontà di lavori come Rain Without End, uscito subito dopo Brave Murder Day, anche se la sua genesi va fatta risalire a qualche anno prima, e Grey Dawn, che arrivò invece subito dopo la coppia di capolavori Discouraged Ones e Tonigth’s Decision , giustificò ampiamente l’attenzione loro riservata da appassionati e addetti al lavori.
Dopo diversi anni di oblio Fredrik Norrman, successivamente alla sua uscita dai Katatonia, decise di ridare nuovo impulso alla band riportandola agli onori della cronaca con due lavori che videro la luce all’inizio di questo decennio, A Thin Shell e l’ottimo Tunnel Of No Light
Questo Winged Waltz, quindi, veniva atteso come una sorta di spartiacque in grado di stabilire quale fosse l’attuale status degli October Tide, ma la risposta a tale quesito credo debba essere rinviata alla prossima occasione: la band, infatti, spara subito la propria cartuccia migliore, Swarm, brano coinvolgente e dalla qualità che non a tutti è concesso raggiungere, ma poi, pur in presenza di una serie di canzoni ineccepibili formalmente e dotate di notevoli spunti, il disco si adegua ad un andamento che, se non delude, neppure ricrea il pathos raggiunto con l’opener.
Ciò che lascia perplessi, negli October Tide, è che solo a tratti riescono e trasmettere le emozioni che chi ascolta questo genere si attende, tanto più quando ad essere coinvolto è, come in questo caso, un musicista come Norrman, oggettivamente di levatura superiore alla media e con alle spalle una storia così importante.
Detto questo, affermare che Winged Waltznon sia un buon disco sarebbe quasi disonesto intellettualmente, perché di rado è dato ascoltare musica così ben eseguita e prodotta, ma qui la tensione drammatica si palesa in maniera troppo intermittente, compressa tra un incedere per lo più ritmato e talvolta relativamente catchy (A Question Ignite) e qualche limpida apertura chitarristica il cui afflato melodico non viene poi sfruttato come si potrebbe.
Alexander Högbom alla voce conferma le buoni impressioni destate in Tunnel Of No Light, Fredrik Norrman è chitarrista sopraffino, ben coadiuvato da Emil Alstermark , dal fratello Mattias al basso e da Jocke Wallgren alla batteria, ma resta il fatto che, oltre alla già citata Swarm ed alla “katatonica” Lost in Rapture, gli October Tide non riescono ad infondere le suggestioni emotive con la continuità che sarebbe lecito attendersi.
Ma forse sono io ad essere troppo esigente nei confronti di un musicista come Norrman, al quale posso essere solo grato per essere stato partecipe di alcuni dischi che hanno fatto la storia; probabilmente chi si porrà nei confronti di Winged Waltz con diverse aspettative potrebbe restare, invece, oltremodo soddisfatto.
Tracklist:
1. Swarm
2. Sleepless Sun
3. Reckless Abandon
4. A Question Ignite
5. Nursed by the Cold
6. Lost in Rapture
7. Perilous
8. Coffins of November
Line-up:
Alexander Högbom – vocals
Fredrik Norrman – guitars
Mattias Norrman – bass
Emil Alstermark – guitars
Jocke Wallgren – drums
Ben eseguito e rivestito di un notevole gusto melodico, il lavoro va a lambire talvolta territori ambient ma mantenendo, sempre e comunque, una fisionomia volta a creare una malinconia soffusa
Grimirg è il progetto solista del quasi omonimo musicista finlandese Grim666, personaggio molto attivo nel’ambito della scena estrema del suo paese, e MMXV-I è l’esordio su lunga distanza con il quale veniamo invitati a percorrere la strada tormentata del funeral doom .
La sfumatura del genere prescelta è quella più atmosferica, predominata da tastiere avvolgenti sulle quali si abbattono con lenta cadenza i riff ed i colpi della batteria.
Ben eseguito e rivestito di un notevole gusto melodico, il lavoro va a lambire talvolta territori ambient ma mantenendo, sempre e comunque, una fisionomia volta a creare una malinconia soffusa, che le eleganti clean vocals femminili dell’ospite M.Karvinen contribuiscono ad esaltare.
Possiamo dire che i quattro lunghi brani si alternano nel loro incedere, per stile ed umore: se in Solitude e Into My Light si punta di più sul lato atmosferico, affidando soprattutto alle tastiere il compito di condurre le danze, in Infinity Revealed e Cold Abyss viene esibito un lato leggermente più drammatico, grazie ad un sobrio lavoro chitarristico che riporta il tutto su un piano vicino al funeral melodico in stile Ea. MMXV-Iè, quindi, un primo passo più che positivo, con i suoi oltre quaranta minuti all’insegna del funeral più consolatorio e meno ostico; peraltro, Grim666 dimostra anche una certa prolificità, visto che sei mesi dopo ha visto la luce il secondo full length, Pioneer Anomaly, del quale vi daremo conto non appena ne avremo la possibilità, allo scopo di verificare la tenuta su livelli medio-alti ed eventuali sviluppi dal punto di vista compositivo da parte del bravo musicista finnico.
Tracklist:
1. Solitvde
2. Infinity Revealed
3. Into My Light
4. Cold Abyss
Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature
Torna al full lenght la storica band svizzera Excruciation, dopo una serie di singoli ed ep che ha caratterizzato la discografia degli ultimi due anni.
Partito una trentina di anni fa come thrash metal band, il gruppo di Zurigo ha nel corso del tempo spostato le sue coordinate stilistiche verso un doom/death grezzo, alimentandolo con ottime atmosfere dark, come si evinceva dall’ep Twenty Four Hours, recensito su queste pagine.
Questo lavoro riprende in parte l’irruenza del sound proposto sui precedenti lavori come (G)host, senza perdere le atmosfere oscure ed ottantiane espresse nelle ultime releases. (C)rust trova nella nuova via intrapresa dal gruppo, una sorta di linfa che contribuisce a rendere il sound più fresco e vario, le atmosfere si alternano, così come il canto di Eugenio Meccariello che passa da uno stile estremo al profondo tono gothic/dark.
I ritmi si mantengono cadenzati, le chitarre abrasive, l’atmosfera sabbatica delle songs viene destabilizzata da sfumature ora dark, ora più orientate verso un metal che, dal vecchio sound suonato dal gruppo, prende l’aggressività e l’impatto.
A mio parere i due brani che si discostano di più dalla proposta monolitica e senza compromessi del gruppo risultano i momenti migliori di (C)rust: la dark oriented Olympus Mons, perfetta via di mezzo tra il gothic/dark classico e quello più intimista e dolente dei Joy Division (di cui la band ha offerto una valida cover nell’ep Twenty For Hours) e la gothic metal Days Of Chaos, che richiama i primi Paradise Lost, specialmente nella performance vocale vicina a quella del Nick Holmes di Icon.
Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature, (C)rustconferma il gruppo svizzero come un valido esponente dello stile proposto e da riscoprire se siete amanti delle sonorità plumbee e cadenzate che fanno capo alla musica del destino.
TRACKLIST
1. Judas’ Kiss
2. Disgrace
3. Olympus Mons
4. Lutheran Psalms
5. The Scent of the Dead
6. Borderline
7. Days of Chaos
8. Glorious Times
Change strabilia per un songwriting che penetra l’anima dell’ascoltatore senza remissioni, nonostante presenti più di una difficoltà per assimilarne la bellezza in maniera immediata, stante il suo incedere versatile ed articolato.
È un periodo nel quale mi trovo spesso a recensire diverse band provenienti dalla Grecia e devo dire che la cosa non mi dice affatto male.
Chiaro, come d’abitudine la musica che tratto ha a che fare con il doom, e le probabilità che ciò sia di mio gradimento aumentano esponenzialmente, ma non è così scontato dare alla luce lavori così efficaci ed ispirati, quasi che le vicissitudini che hanno afflitto di recente quello che, forse, è il popolo a noi più vicino per cultura e mentalità, abbiano fatto emergere il meglio in quanto a vis compositiva.
Gli Universe 217 non li conoscevo e devo fare ammenda, visto che sono già al loro quarto full length e che quello in questione, il recente Change, è una vera esibizione di musica evocativa e potente . L’elemento determinante è una vocalist eccezionale (per rimarcarlo mi verrebbe quasi da scriverlo con due zeta …) come Tanya Leontiou: questa ragazza fa della sua voce un vero e proprio strumento, e fatte le debite proporzioni, si rivela degna conterranea (di origine) di Diamanda Galas, anche se rispetto alla “serpenta” è molto più asservita al lavoro della band che la sorregge piuttosto che irrimediabilmente rapita da pulsioni sperimentali.
E poi il doom … Sarebbe riduttivo confinare la musica degli Universe 217 in un alveo ristretto: qui il doom è l’umore che costituisce le fondamenta per erigere suoni che vanno dall’hard rock al blues, sui quali Tanya troneggia con voce ora potente, ora suadente e talvolta aggressiva, sempre un passo avanti dal punto di vista comunicativo rispetto a chi fa sterile esibizione di pura tecnica vocale.
La spledida Undone, che apre il disco, è un episodio di enorme potenza evocativa, più coerente con la musica del destino (come la più cupa Rest Here) rispetto ad altri brani del disco, ma con momenti sorprendenti, tipo il finale che evoca per maestosità la zeppeliniana Kashmir; Counting Hours mostra umori più alternative mentre Here Comes è un crescendo emotivo irresistibile .
Se Burn giustifica ampiamente l’aggettivo sperimentale associato alla musica del quartetto ateniese, nella successiva Call vengono esibite tutte le gamme vocali di cui Tanya dispone, riversandole sul drammatico tappeto sonoro impeccabimente creato dai suoi ottimi compagni, mentre la lunghissima title track, infine, chiude in maniera altrettanto eclettica e sorprendente (blues, doom, post metal e una spruzzata di trip-hop) un lavoro che racchiude un caleidoscopio di emozioni raramente riscontrabili. Changestrabilia per un songwriting che penetra l’anima dell’ascoltatore senza remissioni, nonostante presenti più di una difficoltà per assimilarne la bellezza in maniera immediata, stante il suo incedere versatile ed articolato. Universe 217: come il mio caso specifico insegna, non è mai troppo tardi per scoprirli ed arricchirsi con la loro arte musicale.
Tracklist:
1. Undone
2. Counting Hours
3. Here Comes
4. Rest Here
5. Burn
6. Call
7. Change
Fortress of My Dark Self consegna agli appassionati una band dalle enormi prospettive
Ep d’esordio per i greci Ocean Of Grief, i quali arrivano a dare man forte agli Immensity nel proporre una via ellenica al melodic death doom dai tratti altamente evocativi.
Rispetto ai concittadini, il sestetto ateniese propone una versione del genere più ortodossa rinunciando del tutto a pulsioni post metal e conseguente abbondante ricorso a break più rarefatti e clean vocals, per concentrarsi esclusivamente sull’impatto di un sound che trae evidentemente linfa dal già sentito, toccando però con costanza le giuste corde dell’emozione.
Considerando, appunto, che trattasi di band all’esordio la relativa mancanza di originalità passa del tutto in secondo piano, specie se la qualità del sound proposto è elevatissima, come nel caso specifico. In effetti, a ben vedere, i ragazzi ellenici non assomigliano a qualcuno in particolare ma assimilano tutte le loro influenze amalgamandole con sapienza, senza offrire mai la sensazione di trovarsi al cospetto di un banale lavoro di copia e incolla.
Così i cinque brani, neppure troppo lunghi per gli standard del genere, si snodano con grande fluidità e ricchezza di spunti, con un growl efficace ed una chitarra solista a tessere con continuità quelle melodie dolenti che non ci si stanca mai di ascoltare. Il pregio maggiore dagli Ocean Of Grief è quello di proporre il genere nella sua forma più pura, cercando di evocare le emozioni in maniera diretta senza ricorrere a complesse circonlocuzioni, facendo propria in tal senso la lezione dei maestri Saturnus.
Nel segnalare, in una tracklist di eccellente livello medio, due brani stupefacenti come House Of Misery e Drowning In Nostalgia, Fortress of My Dark Self consegna agli appassionati una band dalle enormi prospettive: un prossimo passo su lunga distanza potrebbe già risultare decisivo per consolidare gli Oceans Of Grief ai livelli di band quali Enshine (forse la maggiore fonte di ispirazione), When Nothing Remains, Evadne e Frailty, tanto per citare quelle più contigue alla sorprendente band greca.
Tracklist:
1. Spiritual Fortress
2. House of Misery
3. Futile Regrets
4. Drowned in Nostalgia
5. The Birth of Chaos
I Godwatt sono l’ennesimo esempio di come nel nostro paese si fa musica come e, molto spesso, meglio dei paesi con molta più tradizione e credito, è giunta l’ora di supportare e far uscire allo scoperto le nostre realtà.
Una cascata di riff pesantissimi, una marmorea statua innalzata per glorificare le sonorità doom, il tutto originalmente cantato in Italiano, questa è la clamorosa proposta dei laziali Godwatt, tornati sul mercato con questo monolitico L’Ultimo Sole, licenziato dalla Jolly Roger Records.
Sono sincero, non conoscevo il terzetto nostrano, da dieci anni in attività, prima con il monicker Godwatt Redemption, ridotto successivamente in Godwatt, non prima di aver dato alle stampe due full length autoprodotti, The Hard Ride of Mr. Slumber nel 2008 e The Rough Sessions del 2012.
Tre anni fa, la riduzione del monicker e la scelta di cantare in lingua madre portano il gruppo a Senza Redenzione, nuovo lavoro seguito dall’ep Catrame e dall’ultimo full length MMXVXMM, licenziato all’inizio dello scorso anno e sempre autoprodotto.
L’ultimo periodo è contraddistinto dalla firma per la label nostrana e da questo nuovo lavoro che racchiude sette brani ri-registrati dal precedente album, più due da Senza Redenzione (Scheletro e Venus, ma solo nella versione cd).
Una band dalla personalità debordante, valorizzata da esperienze live accanto a gruppi come Ufomammut, Necrodeath, Doomraiser, Zippo, Karma To Burn, un sound di una pesantezza inumana che risulta molto più legato alla musica del destino che allo stoner, e la scelta, fuori dagli schemi del genere, di cantare in italiano testi di lucida decadenza, sono gi elementi che impreziosiscono queste nove incudini di metallo pesantemente lento e cadenzato, composto da una serie di riff che riducono in cenere.
Moris Fosco (chitarra e voce), Mauro Passeri (basso) e Andrea Vozza alle pelli, giustamente fanno spallucce al suono desertico, tanto di moda di questi tempi (e che io adoro, non fraintendetemi) per tornare al doom classico, messianico, oscuro e monolitico, come la discesa inesorabile di lava che cade dopo l’esplosione del vulcano attivo che risulta questo lavoro, pescando a piene mani dai gruppi della scena di primi anni novanta come i Cathedral del reverendo Dorrian e in parte dalle band d’oltreoceano come Saint Vitus ed i Revelation, e aggiungendo pochi ma azzeccati elementi settantiani che danno quel giusto tocco vintage.
Lo stoner è comunque presente, in qualche passaggio più acido, ma nel disco regna sua maestà il doom, lento, a tratti claustrofobico, inesorabile nella sua marcia cadenzata che accelera leggermente per stenderci al tappeto con frustate heavy rock, che strappano le carni, torturate nel sabba ossianico a cui i Godwatt ci invitano, vittime inconsapevoli di questa cerimonia di decadente e ruvido metallo. Memoria, Cenere, la title track, il basso di Nessuno Mai, che pulsa come un cuore strappato ed in mano ad un sacerdote pazzoide, sono le songs che strappano applausi, ma è il lavoro nella sua interezza che non lascia scampo, con le due chicche finali tratte dal disco del 2013 (Scheletro e Veleno) che confermano il valore assoluto del combo laziale con un’heavy rock che letteralmente stende.
I Godwatt sono l’ennesimo esempio di come nel nostro paese si fa musica come e, molto spesso, meglio dei paesi con molta più tradizione e credito, è giunta l’ora di supportare e far uscire allo scoperto le nostre realtà.
No King Reigns Eternal è davvero un ottimo album, grazie ad una resa sonora ottimale che valorizza una scrittura nell’alveo della tradizione, ma sempre convincente nel suo far convivere in maniera fluida la ferocia del death e la pesantezza del doom.
Dalle gelide lande finniche emerge una nuova inquietante creatura denominata Solothus.
In effetti, No King Reigns Eternal è il secondo full length, che segue di circa tre anni il precedente Summoned from the Void, quindi non su può certo parlare di una band ai primi passi, ma è chiaro che questo nuovo ottimo lavoro potrebbe ampliare il novero dei suoi estimatori.
Il death doom dei Solothus è sbilanciato in maniera netta sulla prima delle due componenti, soprattutto nella prima parte del lavoro, laddove in The Betrayer e nella title track sono umori alla Morbid Angel (epoca Covenant) o alla Asphyx a predominare, per cui qui la melodia è confinata agli ottimi interventi della chitarra solista che, sovente, corrispondono anche ai momenti in cui il sound rallenta fino a farsi soffocante.
Lo stesso growl di Kari Kankaanpää non lascia spazio ad equivoci, le clean vocals sono del tutto bandite e il cavernoso grugnito è perfettamente funzionale alla resa finale del lavoro.
L’accoppiata Darkest Stars Aligned e Malignant Caress trasporta il sound verso il più cupo e grumoso sentire di band com gli Evoken, mentre Towers in the Mist appare più orientata ad un doom “classico”, con i suoi toni sabbatiani ampiamente irrobustiti nel loro incedere. The Winds Of Desolation chiude nel migliore dei modi l’album: unica a superare i 10 minuti di lunghezza, la traccia è sostenuta da una linea chitarristica relativamente “catchy” senza che per questo vengano meno l’impatto e l’intensità costantemente caratterizzanti il sound dei Solothus. No King Reigns Eternal è davvero un ottimo album, grazie ad una resa sonora ottimale che valorizza una scrittura nell’alveo della tradizione, ma sempre convincente nel suo far convivere in maniera fluida la ferocia del death e la pesantezza del doom.
Tracklist:
1. The Betrayer
2. No King Reigns Eternal
3. Darkest Stars Aligned
4. Malignant Caress
5. Towers in the Mist
6. The Winds of Desolation
Line-up:
Veli-Matti Karjalainen – Guitars
Kari Kankaanpää – Vocals
Juha Karjalainen – Drums
Sami Iivonen – Guitars, Vocals (backing)
Tami Luukkonen – Bass
Il gruppo ellenico, nel corso di questo riuscito esordio su lunga distanza, dimostra d’aver appreso alla perfezione gli insegnamenti dei migliori nomi del settore
Un’altra band si affaccia al proscenio del metal più malinconico e melodico: si tratta dei greci Immensity, i quali con The Isolation Splendour entrano a far parte del ricco novero delle band europeo dedite al doom death atmosferico.
Il gruppo ellenico, nel corso di questo riuscito esordio su lunga distanza, dimostra d’aver appreso alla perfezione gli insegnamenti dei migliori nomi del settore, e parlo in particolare di Swallow The Sun e Daylight Dies, senza dimenticare spunti rinvenibili anche in band dalla storia più recente come Evadne e When Nothing Remains.
Se vogliamo, è questo l’unico punto dolente dell’album, ovvero il fatto di non mettere in mostra ancora un sound del tutto personale a differenza delle band citate, che esibiscono un tratto peculiare e riconoscibile nonostante tra di esse gli scostamenti siano apparentemente minimi.
Di loro, però, i ragazzi ateniesi ci mettono sicuramente un gusto melodico da primi della classe e un’interpretazione vocale impeccabile da parte di Leonidas Hatzimichalis, ottimo sia con il suo feroce growl sia con le più sognanti clean vocals. The Isolation Splendour è senz’altro molto bello, curato a livelli di suoni, ricco di spunti notevoli e, in fondo, scorre esattamente come l’appassionato se lo aspetterebbe, ora guidato dalle dolenti note chitarristiche, ora con le clean vocals a dare respiro alla drammatica aura fornita dal growl.
Più brillante nella sua prima metà, l’album regala appunto tre preziose gemme come l’opener Heartfelt Like Dying e Irradiance, più orientate allo stile delle band d’oltreoceano (oltre ai già citati Daylight Dies, anche qualcosa dei primi Novembers Doom), anche se a differenza di queste troviamo più caratterizzanti break con clean vocals, e la title track, il brano migliore dell’album nel quale sono rinvenibili anche sfumature progressive; tutt’altro che trascurabili comunque, The Sullen, che offre notevoli spunti emozionali grazie al lavoro della chitarra solista, Everlasting Punishment, brano strumentale piuttosto elegante, e la conclusiva Adornment, sorta di atto d’amore nei confronti dei My Dying Bride nella sua fase iniziale, con successivo sviluppo all’insegna dello struggimento melodico, mentre Eradicate risulta un episodio più opaco rispetto al resto della tracklist.
Va detto che gli Immensity sono attivi comunque fin dai primi anni del decennio (infatti le ultime due tracce citate sono presenti anche nel demo datato 2012), per cui ciò che potrebbe apparire derivativo spesso non è altro che un percorso parallelo, all’insegna di un comune sentire musicale, con altre band emerse in tempi relativamente recenti.
In definitiva, The Isolation Splendour è un lavoro che sarà apprezzato non poco da parte degli appassionati al versante più melodico del death/doom: il prossimo obiettivo per il gruppo ellenico sarà quello di mantenere questo stesso standard qualitativo rendendo però maggiormente personale il proprio sound.
Tracklist:
1. Heartfelt like Dying
2. Irradiance (For the Unlight)
3. The Isolation Splendour
4. The Sullen
5. Everlasting Punishment
6. Eradicate (The Pain of Remembrance)
7. Adornment
Line-up:
Nora Koutsouri – Keyboards
Andreas Kelekis – Guitars
Leonidas Hatzimichalis – Vocals
George Kritharis – Bass
Yiannis Fillipaios – Drums
Chris Markopoulos – Guitars
I Tombstoned sono un gruppo particolare e qui lo confermano nettamente, producendo un disco fantastico.
Tornano questi giganti finlandesi del doom rock, con il secondo capitolo su lunga distanza.
Dopo un ottimo album omonimo nel 2013 pubblicato dalla fondamentale Svart Records, che li ha portati a suonare al Roadburn di quell’anno, ecco il nuovo capitolo. Ed è al livello del precedente, se non migliore, ma i Tombstoned vanno ascoltati ed assaporati disco dopo disco. Rispetto all’esordio alcune cose sono cambiate, il suono è sempre un piacevolissimo doom rock fortemente influenzato dagli anni settanta, ma per niente derivativo. Vivendo in nazioni differenti i membri del gruppo hanno accentuato il carattere jam session dei loro brani, ed il risultato è ottimo, lunghi riff con ottime melodie che sanno dove andare e cosa fare. il tutto con composizioni di ottima qualità.
I Tombstoned non hanno vissuto tempi facili ultimamente e la loro musica è più oscura rispetto al passato, anche il cantato è mutato, divergendo dall’iniziale carattere sabbatiano per trovare qualcosa di più simile al post punk. IIè un disco molto affascinante e con un timbro dominante e forte. L’approccio totalmente analogico all’incisione da quel tocco di calore che rende ancora più magica questa musica. I Tombstoned sono un gruppo particolare e qui lo confermano nettamente, producendo un disco fantastico.
TRACKLIST
1. Pretending to Live
2. Brainwashed Since Birth
3. Time Travels
4. And I Told You
5. Haven’t We Seen All This Before
6. You Can Always Close Your Eyes
7. Remedies
LINE-UP
Akke – Drums
Olavi – Bass
Jussi – Guitar & Vocals
Nell’ora abbondante in cui si sviluppa, URSA non mostra alcun cedimento qualitativo, a dimostrazione del fatto che i Novembre non sono tornati solo per uniformarsi alla moda delle reunion o della rievocazione di ciò che è stato
Trovarci tra le mani l’album che segna il ritorno, dopo molti anni, di una della band italiane più influenti degli ultimi vent’anni provoca sensazioni contrastanti: da una parte c’è il desiderio di ascoltare nuovo materiale inedito controbilanciato dal timore che una pausa così lunga possa averne, in qualche modo, annacquato la vis compositiva.
Australis, brano d’apertura di URSA(che, oltre al suo più immediato significato in latino è, soprattutto, l’acronimo di Union des Républiques Socialistes Animales, richiamando così l’orwelliana “La Fattoria degli Animali”), riparte da dove il discorso si era interrotto: i Novembre sono di nuovo tra noi, con il loro magistrale incontro tra doom, death, dark e post rock (sotto genere questo, dei quali i nostri sono degli antesignani suonandolo già quando nessuno si era ancora sognato di definirlo in tale maniera). Rispetto al passato forse l’elemento di discontinuità maggiore non è musicale bensì a livello di organico, perché non si può fare a meno di notare la “rumorosa” assenza di Giuseppe Orlando (ormai in pianta stabile nei The Foreshadowing): la band oggi è, quindi, più che mai nelle mani del solo Carmelo Orlando, appoggiato dalla stabile e fondamentale presenza di Massimiliano Pagliuso alla chitarra; a completare una line-up di tutto rispetto troviamo altri due ottimi musicisti della scena romana come Fabio Fraschini (Degenerhate) al basso e David Folchitto (Stormlord e Nerodia, tra le altre) alla batteria. URSAsciorina con una continuità impressionante brani fluidi, ispirati, nel quale il tipico incedere vocale, all’apparenza indolente, di Orlando si alterna con il growl, stile al quale i corrispettivi scandinavi hanno da tempo rinunciato: a mio parere, l’innesto di vocals più aspre, se dosato sapientemente come avviene in questo caso, aumenta non poco l’impatto del sound, fornendo un sbocco drammatico al senso di soffusa malinconia che viene invece evocato dalle clean vocals.
A livello lirico URSA fornisce uno spaccato dell’umanità che non lascia presagire nulla di buono per il futuro del pianeta, laddove la specie dominante piega alle proprie esigenze, sfruttandola, qualsiasi altra forma di vita senza farsi sfiorare da alcun dubbio di natura etica; il tema trova, peraltro, una sua magnifica rappresentazione grafica grazie alla copertina creata dal celeberrimo Travis Smith.
L’umore dell’album ne risente, pur senza toccare le vette tragiche del doom più estremo, scegliendo di comunicare tali sensazioni tramite un sound che, come da trademark dei nostri, si ammanta di tonalità per lo più autunnali, screziate però da frequenti accelerazioni.
Nell’ora abbondante in cui si sviluppa, URSAnon mostra alcun cedimento qualitativo, a dimostrazione del fatto che i Novembre non sono tornati solo per uniformarsi alla moda delle reunion o della rievocazione di ciò che è stato: Orlando in tutti questi anni ha continuato a comporre e, nel 2016, ha messo sul piatto l’album che chiarisce quali siano i ruoli di leader e followers della scena, non solo italiana; la scelta di affidare la produzione a Dan Swanö costituisce la consueta garanzia di successo, anche perché è ben difficile trovare un lavoro prodotto dal genio svedese che non sia all’altezza della situazione e, tutto sommato, sembra quasi che i Novembre, con il singolo Annoluce, intendano in qualche modo omaggiarlo, visto che il brano ricorda per umori gli Edge of Sanity di Crimson (da segnalare, qui, la partecipazione di Anders Nyström dei Katatonia). URSAsi muove come un flusso unico, nonostante ogni traccia possieda una sua peculiarità: ad esempio la citata Annoluce sfuma in Agathae , splendido e lunghissimo episodio pressoché strumentale di matrice folk, nel quale Pagliuso rievoca brillantemente gli umori e la tradizione di quella Sicilia che ai nostri ha dato i natali: il brano si trasforma via via in un caleidoscopio di emozioni e sfumature musicali, passando fluidamente per il progressive, il death ed il black, il tutto rivestito da un’eleganza e da un talento compositivo non comune.
Altre due canzoni che impressionano per il loro impatto melodico ed evocativo sono Umana, forse il momento maggiormente accostabile al death/doom dell’intero album, ed Oceans Of Afternoons, sei minuti di pathos in costante crescendo progressivo, sigillati dall’intervento finale di un sax.
Più melodici degli Opeth e meno algidi degli ultimi Katatonia, i Novembre dimostrano in maniera chiara quale sia la fonte alla quale si sono abbeverati molti dei più recenti campioni emersi all’interno di questo segmento stilistico; rispetto a questi, però, la seminale band italiana possiede quel background estremo che, pur se esplicitato in maniera ridotta, rappresenta l’ingrediente capace di donare ulteriore profondità al sound rendendolo, infine, qualcosa di unico.
Tracklist:
1. Australis
2. The Rose
3. Umana
4. Easter
5. URSA
6. Oceans of Afternoons
7. Annoluce
8. Agathae
9. Bremen
10. Fin
Album che cresce con gli ascolti, Yard è un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016
L’invasione di gruppi dediti ai suoni stonati nel nostro paese non conosce ostacoli, ormai da nord a sud, isole comprese, le danze sabbatiche si sprecano e con queste anche le ottime band intente a proporre, ciascuna a modo loro, sound monolitici e magmatici.
Elevators To The Grateful Sky, Desert Hype, Mutonia, sono solo alcuni dei gruppi che, negli ultimi tempi, hanno realizzato ottimi lavori, chi amalgamando il genere con suoni psichedelici, chi con l’alternative e chi, come i Veuve, con il sound settantiano di sabbatiana memoria. Yardè il primo lavoro sulla lunga distanza per il trio di Spilimbergo, che arriva pesante come un meteorite in caduta libera sulla Terra, dopo un ep e la firma con The Smoking Goat Records.
Lunghe litanie in cui armonie acustiche lasciano spazio a violente e potenti esplosioni di lento incedere doom metal, una voce delicata che, come l’immagine angelica risvegliata da un fantastico e celestiale trip, ci accompagna tra i deserti bruciati dal sole, dove i miraggi ed i flash visivi sono gli unici compagni del nostro girovagare per ritrovare la strada perduta: questo è ciò che evoca il sound dei Veuve, caratterizzato da un basso che, come il battito di un cuore allo stremo, si accoppia con il drumming, un tappeto di ritmiche dal lento incedere, che a tratti varia di poco la velocità per accompagnare la sei corde, ora urlante riff stonati, ora più noise oriented, ma soprattutto protagonista di bellissime armonie acustiche.
L’album si sviluppa come una danza sabbatica, interrotta da tempeste e sfuriate di metallo stonato, il gruppo compatto ci invita alla sua jam lunga più di una quarantina di minuti dove i brani si susseguono, prima lungo un sentiero tranquillo, mentre susseguentemente, col passare dei minuti l’aggressività si fa arrembante, il dolce trip si trasforma in un incubo in cui fantasmi settantiani trasformano le dolci armonie vocali in grida di disperata ricerca di quella pace ora lontana; la sensazione di drammaticità diventa soffocante nelle ottime trame delle varie, Yeti, Witchburner e Pryp’jat’, un’escalation di heavy, doom, stoner emozionante che ha preso il posto dell’aura sognante dell’opener We Are Nowhere, ormai lontana anni luce dal mood intenso e cluastrofobico di questo esaltante trittico finale.
Album che cresce con gli ascolti, Yardè un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016.
TRACKLIST
1. We Are Nowhere
2. Days Of Nothing
3. Mount Slumber
4. 40.000 Feet
5. Flash Forward
6. Yeti
7. Witchburner
8. Pryp’jat’
LINE-UP
Andrea Carlin – Drums
Felice di Paolo – Guitar
Riccardo Quattrin – Bass & Vocals
Transience è un disco di buona fattura. al quale manca solo la capacità di evocare quelle vibrazioni emotive che, in lavori di band più note vengono esibite con maggior continuità.
Mi capita di rado, specialmente per i generi che tratto normalmente, di parlare di musica proveniente dal Giappone.
In effetti, quelle poche band dedite a generi estremi che ho avuto occasione di ascoltare non è che mi abbiamo mai impressionato più di tanto, così non è che mi sia avvicinato con grande convinzione a questo lavoro dei Funeral Moth.
Come spesso (e fortunatamente) accade, mi sono dovuto ricredere visto che l’interpretazione del funeral doom fornita dalla band nipponica è piuttosto convincente e competente.
Il quartetto è attivo da circa un decennio, ma il primo passo su lunga distanza risale a due anni fa (Dense Fog): Transienceè la prima uscita senza uno dei due membri fondatori, il bassista Nobuyuki Sentou, il che lascia le redini nelle mani del solo Makoto Fujishima, chitarrista, vocalist e, cosa non da poco, titolare della Weird Truth, label specializzata in doom che vede nel proprio roster nomi del calibro di Ataraxie, Mournful Congregation, Profetus e Worship, tra gli altri.
Lo stile attuale dei Funeral Moth è prossimo proprio a quello dei tedeschi Worship, quindi si parla di una forma di funeral molto asciutta ed essenziale e dall’incedere per lo più bradicardico, ma in questo caso il suono si rivela ancor più rarefatto, lasciando che spesso siano minimali contributi dei singoli strumenti a guidare lo sviluppo dei due lunghi brani che vanno a comporre Transience.
La band di Tokyo forse indulge troppo su questo aspetto della propria proposta, visto che il contributo vocale di Fujishima, dotato di un buonissimo e intelligibile growl, è però piuttosto parco e ciò rende il tutto ancor più statico di quanto normalmente ci si possa aspettare da un disco di funeral doom ma, nel contempo, non viene mai meno quel senso di ineluttabile tragedia che comunemente si cela dietro ogni singola nota di un album catalogabile all’interno del genere.
Detto ciò, Transienceè comunque un disco di buona fattura al quale manca solo la capacità di evocare quelle vibrazioni emotive che, in lavori di band come i già citati Worship o gli stessi Mournful Congregation, vengono esibite con maggior continuità; due brani come la title track e Lost, alla fine, risultano un ascolto apprezzabile per chi ha una certa familiarità con questi suoni, meno per chi predilige il versante più melodico e atmosferico del funeral.
Ristampa dell’EP Stormy Monday del 2011, la Heavypsychsounds ci fornisce un’ottima occasione per poter avere in casa uno dei primi lavori della band ucraina in formazione completa.
A meno di sei mesi dall’uscita del precedente The Harvest il trio ucraino si ripropone al pubblico con la ristampa dell’EP Stormy Monday, datato 2011, che ripropone la title track in due diverse versioni, una cover dei californiani Red Temple Spirits (Bear Cave) e una canzone insolitamente veloce, quasi punk hardcore della durata di 2 minuti.
Interessante e estremamente gradevole l’inizio di Stormy Monday, esempio di amore disilluso. Da cantare in solitario quando le cose vanno male o si è contrariati. Bear Cave è una ballata triste e sconsolata, il cui inizio è accompagnato solo da chitarra acustica e voce, piuttosto sofferente. E il testo può essere sia una metafora della vita dell’uomo, sia semplici parole sconnesse di un uomo che vive isolato. A metà l’esplosione sullo stile di Eye Of Every Storm dei Neurosis. Lacerante nelle interiora, piena di rassegnazione, espressa anche attraverso suoni sporchi, manifestazione di una registrazione non proprio efficace. Tributo buddista al nulla. Drunk And Horny inneggia al puro divertimento, canzone da non cantare alla propria metà, ma piuttosto da serata in cui ci si vuole caricare per andare a rimorchiare, per finire in modo decisamente rovinoso.
Nella extended version gli assoli di chitarra alternano note psichedeliche con tratti decisamente più progressive, anche se rimane un movimento di sottofondo, riff stoner doom che poi sono quelli che chiudono la canzone.
Un album stoner decisamente più tendente alla psichedelica, ma vista la durata e il numero di canzoni, ad uso di collezionisti.
Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà
La Russia è l’ultima frontiera del metal gotico e romantico, lo è per quantità ma anche per qualità.
Non sono poche, infatti, le band provenienti da quelle lande che si sono rese autrici negli ultimi anni di ottime prove, più o meno estreme o comunque intrise di una componente doom. I siberiani Aspercrucio appartengono a questo novero e, come avvenuto per altre band dell’area ex-sovietica, la Nihil Art ha contribuito a promuovere fuori dai confini il lavoro già edito dalla Dark East, rendendolo più appetibile con la diffusione di note biografiche particolareggiate e rendendo comprensibili ai più i titoli dell’album e dei brani, grazie alla loro traduzione in inglese.
Infatti, il gothic doom degli Aspercrucio è cantato interamente in lingua madre, il che tutto sommato non incide più di tanto sulla sua fruibilità, visto che poi alla fine è sempre la musica a parlare e che, comunque, al giorno d’oggi ottenere una traduzione dei testi è piuttosto agevole.
L’aspetto principale di Dead Water è però il suo essere una sorta di emanazione del gothic doom novantiano: romantico, orecchiabile, con un bel lavoro solista delle chitarre, una tastiera che conduce le danze senza essere invadente ed il growl molto efficace del leader Stanislav Filinov, riporta piacevolmente alla memoria gli Evereve quand’erano ancora guidati dal povero Tom Sedotschenko, oppure quella scuola olandese che aveva per protagonisti, oltre ai più noti The Gathering, nomi “minori” come Moon Of Sorrow, Celestial Season ed Orphanage .
Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà (vedasi anche l’uso appropriato degli inserti vocali femminili), nel senso che non si ricorre mai a soluzioni debordanti per cercare di stupire ad ogni costo.
Pertanto, gli amanti del genere avranno di che godere ala cospetto di brani di ottima fattura come Broken Heart, Dreams e soprattutto Silence … Despair, canzone di oltre diciassette minuti che chiude l’album e che mette in mostra la capacità di offrire sonorità di volta in volta drammatiche, evocative ed intrise di splendide.
Tutto ciò è quanto gli Aspercrucio sono in gradi di offrire: oggettivamente, non poco.
I riminesi Deadly Carnage celebrano i 10 anni di attività con la pubblicazione di questo ottimo 7” intitolato Chasm.
I riminesi Deadly Carnage celebrano i 10 anni di attività con la pubblicazione di questo 7” intitolato Chasm.
Ci eravamo già occupati di questa ottima band in occasione del loro ultimo full-length, Manthe, che fotografava in maniera nitida quello che ne era stata l’evoluzione artistica rispetto al black metal degli esordi.
Il post black, o come lo si preferisce chiamare, che il gruppo romagnolo ci sta offrendo in questi ultimi anni, è quanto di più prezioso ci sia dato ascoltare in questo particolare segmento stilistico, per lo meno dalle nostre parti, e i due brani contenuti nell’Ep non fanno che confermare questa sensazione. Night Was the End parte in maniera più delicata, evocando in qualche modo i colori autunnali esibiti dalla magnifica copertina, per poi evolversi in aperture che uniscono melodia ad asprezza, condotte sempre da uno screaming che comunica un costante senso di profonda inquietudine, appena attenuata dagli arpeggi chitarristici più gentili. Hole Of Mirrors accentua maggiormente la tensione drammatica del sound dei Deadly Carnage, i quali ci regalano una traccia invero splendida, accompagnata da un video capace di trasporre su immagine il disagio e il male di vivere evocato dalla musica e dai testi.
Specie in quest’ultima canzone sorge spontaneo un parallelismo con un’altra band evolutasi nel corso degli anni, partendo dal black metal fino a spingersi a forme espressive fortemente contaminate da altri generi, come i Secrets Of The Moon.
I Deadly Carnage privilegiano maggiormente gli umori post metal rispetto a quelli gotico/progressivi esibiti dai tedeschi, ma resta in comune quell’attitudine rappresentata efficacemente da un sound in costante evoluzione e, soprattutto, volto in ogni suo singolo frangente a trasmettere emozioni tangibili all’ascoltatore. Chasm è un’offerta alla quale chi ama l’arte e la buona musica non dovrebbe sottrarsi …
Tracklist:
Side A
1. Night Was the End
Side B
2. Hole of Mirrors
Line-up:
Adres – Bass
Marco Ceccarelli – Drums, Percussion
Marcello – Vocals
Dave – Guitars
Alexios Ciancio – Guitars, Synths
L’album è piuttosto lungo ma non conosce momenti di stasi, alla luce delle buone doti compositive esibite da Brock, il quale infonde alla sua musica un mood autunnale, rendendola appetibile anche a chi si nutre di sonorità oscure senza essere necessariamente un patito del black metal.
Echoes Of The Moon è il monicker scelto dal giovane Brock Tatich, musicista dell’Indiana, per proporre la sua personale visione musicale.
Visione che prefigura una forma di post black molto atmosferica e basata per lo più su un pregevole lavoro chitarristico, che spazia da liquide parti soliste ad arpeggi acustici fino ai più consueti, per il genere, passaggi in tremolo picking.
L’album è piuttosto lungo ma non conosce momenti di stasi, alla luce delle buone doti compositive esibite da Brock, il quale infonde alla sua musica un mood autunnale, rendendola appetibile anche a chi si nutre di sonorità oscure senza essere necessariamente un patito del black metal.
In effetti gli stilemi del genere sono rappresentati soprattutto nello screaming e in alcune accelerazioni, ma nel complesso Entropyè un lavoro che, per umori, oscilla dal depressive al post metal con buona fluidità. Rispetto a quanto esibito da un analogo progetto solista proveniente dagli States, recensito qualche giorno fa, qui siamo davvero su un altro pianeta: Brock brilla anche per la cura dei particolari, e le frequenti incursioni di chitarra solista sono valorizzate da un buonissimo suono che non ne vanifica in alcun modo l’eccellente esecuzione.
Come detto, l’album è piuttosto lungo, superando abbondantemente l’ora di durata e gli stessi brani talvolta si spingono oltre i dieci minuti, ma Entropyscorre bene, in virtù di una sufficiente varietà e di una scrittura per lo più rivolta ad esaltare i risvolti compositivi più melodici; peraltro, anche nelle parti più tirate, non viene mai meno quel substrato di tensione che è poi la discriminante tra chi fa un gran baccano e chi ha, invece, qualcosa di davvero interessante da dire. Echoes of The Moon è una creatura che trae linfa, a livello di base, dal black metal di matrice atmosferica, e inevitabilmente, vista la provenienza geografica, dalle sue derivazioni cascadiane, ma il ragazzo dell’Indiana rielabora il tutto immettendoci una sensibilità musicale derivante da uno spettro di ascolti e preferenze che spaziano dal doom al progressive settantiano.
Dovendo menzionare qualche brano in particolare, opto per la lunga The Tower Of Babel, che rappresenta un po’ la summa della musica contenuta all’interno del lavoro, e per la soffusa ed insidiosa Acceptance, con il suo lento crescendo disturbato da effetti elettronici che finisce per sfociare poi nella magnifica All Is Good. Entropyè una piacevolissima sorpresa e bene ha fatto la nostra Avantgarde Music ad immetterlo oggi sul mercato sotto la sua egida (l’album era uscito originariamente in free download nella scorsa estate) e, del resto, la sagacia musicale (e non solo) di Brock Tatich fa pensare concretamente che questi siano solo i prodromi di una carriera ancor più brillante.
Tracklist:
1.Entropy
2.Cognitive Dissonance
3.The Tower of Babel
4.Ideologue
5.Adaption
6.Acceptance
7.All is good
8.Find the Silence