Secrets Of The Moon – Seven Bells

Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal

Tre anni dopo l’ottimo “Privilegivm” tornano i Secrets Of The Moon, con un altro album destinato ad arricchire ulteriormente una discografia che li ha visti protagonisti negli ultimi dieci anni di una progressione costante e inarrestabile.

La band tedesca già nel 2006 con “Anthitesis” aveva iniziato a distaccarsi dal black metal inteso in senso classico spostando i propri orizzonti verso una vena più avanguardistica da un lato e verso parti più melodiche e darkeggianti dall’altro, aspetti sviscerati in maniera ancor più approfondita con il già citato album del 2009. In Seven Bells il sound scaturisce da un equilibrato mix tra gli spunti migliori dei Samael di “Passage”, il gothic metal dei Moonspell, l’ombrosità del black metal di scuola teutonica e le fosche melodie del doom. Con tutto ciò, i riferimenti più evidenti nella proposta della band di Osnabruck sono i Celtic Frost di “Monotheist” e i più recenti Tryptikon ma, dove le creature di Tom Gabriel Fischer (mi scuso per il possibile reato di lesa maestà) finivano spesso per avvitarsi in una proposta dai toni invariabilmente claustrofobici, i nostri riescono a puntellare i loro brani con partiture più ariose e maggiormente fruibili; anche quando le tracce si allungano non si avverte mai stanchezza nell’ascolto, persino nei momenti nei quali i suoni vanno a lambire territori ambient (come nel finale di Nyx). Quattro colpi di campana introducono la title-track che, dopo un incipit di stampo doom, si dipana in un tipico mid-tempo accompagnato dalle vocals abrasive di sG; Goathead, al contrario, si avvia con ritmi più accelerati per poi arrivare a una rarefazione del suono che qui assume timbri di un’oscurità assoluta ai confini del funeral. Serpent Messiah invece è una cavalcata gothic-dark dotata di un eccellente gusto melodico, mentre Blood Into Wine possiede un ammaliante flavour epico che viene sferzato da una sfuriata di stampo black nella sua parte centrale. Questi quattro brani, già da soli farebbero la fortuna di qualsiasi disco ma il meglio deve ancora venire: infatti, il trittico finale Worship, Nyx, The Three Beggars, dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora, si rivela un autentico caleidoscopio di emozioni, nel quale sG e soci riversano tutto il loro background musicale. La track conclusiva, in particolare, è incredibilmente coinvolgente sia dal punto di vista sonoro sia da quello lirico, proponendosi come una sorta di manifesto del pensiero religioso della band. I Secrets Of The Moon del 2012 sono una band alla quale l’etichetta black sta decisamente stretta; il loro sound si è evoluto in una forma pressoché perfetta di quello che, in senso lato, andrebbe definito più correttamente come dark metal: una configurazione musicale dove riescono a convivere in piena armonia le svariate influenze inglobate nel corso di una carriera dalla durata già significativa; ogni brano è caratterizzato da diversi cambi di ritmo e i break melodici si amalgamano in maniera sempre adeguata alle ruvidezze di stampo più estremo. Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal e se non sarà questo disco a consacrare definitivamente i Secrets Of The Moon, viene da chiedersi quando ciò potrà mai verificarsi. Metal estremo senza barriere.

Tracklist:
1. Seven Bells
2. Goathead
3. Serpent Messiah
4. Blood Into Wine
5. Worship
6. Nyx
7. The Three Beggars

Line-up:
sG – Lead Vocals, Guitar, Bass
Ar – Vocals, Guitar
Thelemnar – Drums

The Way Of Purity – Equate

Lungi dall’essere un semplice fenomeno da baraccone, i The Way Of Purity difficilmente raggiungeranno il grande pubblico a causa di una proposta ideologicamente troppo estrema e tutt’altro che di facciata.

Come si può facilmente intuire da queste note presenti all’interno del booklet, i The Way Of Purity non fanno nulla per essere ammiccanti o tranquillizzanti:
Sole, Fuoco, Vento, Acqua, Terra, Demoni, Natura, Fasi Lunari, Anime dei Primi Umani e Malattie si uniranno per riequilibrare il mondo con un unico scopo: Animali e Natura governeranno nuovamente il pianeta con la loro integrità, la razza umana sarà brutalmente sterminata, le menzogne antropocentriche avranno fine e gli umani vedranno la terrificante immagine dell’orrore che hanno inflitto agli animali per anni.
L’umanità è malata, contaminata dal peggior morbo chiamato Specismo

Abbigliati come gli attivisti dell’Animal Liberation Front (del quale in pratica sono il braccio musicale) , i componenti della band predicano e auspicano la rivincita degli animali e della natura sugli uomini fino al definitivo annientamento di questi ultimi e neppure l’ingresso in formazione di una splendida ragazza come Tiril Skaardal (unica a volto scoperto) ne migliorerà più di tanto l’appeal sul pubblico, dato che appena l’angelica creatura inizierà a vomitare il suo impressionante growl, ogni possibile intento rassicurante verrà vanificato.
Gli animali quindi sono privi di ragione e di coscienza e non provano dolore; anche quando sembrano manifestare sofferenza, in realtà reagiscono meccanicamente ad una stimolazione materiale come quando toccando una molla dell’orologio le sue lancette si muovono” : questa teoria di Cartesio ha dato il via libera a quattro secoli di sevizie di ogni genere perpetrate a danno degli animali in nome di una pseudo-ricerca scientifica e i nostri gli “dedicano”, non a caso, il brano più violento del disco, recante un titolo eloquente come Eternal Damnation to Renè Descartes.
Chiaramente tutto ciò che sta dietro i The Way Of Purity, l’estremismo ideologico, un ideale religioso che identifica Dio con una natura pronta alla rivalsa sull’umanità che la violenta, la provocazione attraverso immagini crude come quelle che li ha visti protagonisti nel cortometraggio diretto da Susy Medusa Gottardi, non riesce certo a farli passare inosservati suscitando, come sempre avviene in questi casi, sentimenti contrastanti da parte del pubblico e della critica.
Noi non siamo la band che loro vorrebbero che fossimo, non siamo puliti e belli come tutti i musicisti là fuori: lo abbiamo detto sin dall’inizio. Stiamo solo lavorando per distruggere la malattia peggiore dell’umanità, che si chiama specismo, che riteniamo pari al nazismo”.
Ovviamente, chi ama gli animali e la musica metal, non può che schierarsi istintivamente dalla parte della band, sia se si ritiene che lo sterminio indiscriminato di migliaia di esseri viventi sia un crimine a tutti gli effetti perpetrato dalla specie che si è arrogata il diritto di monopolizzare e, probabilmente, di distruggere il pianeta, sia perché l’impatto della proposta musicale non può e non deve essere ignorato.
Qui troviamo un deathcore/black che spesso lascia spazio a interi brani dal sapore gothic, in un’alternanza di stili che, come per il loro modo d’essere, espone i The Way Of Purity, a critiche provenienti da schieramenti opposti tra loro, risultando inevitabilmente troppo violenti per chi si nutre del metalcore più zuccheroso e troppo morbidi per i deathsters/blacksters più intransigenti .
Eppure proprio nell’apparente schizofrenia della loro proposta risiede il vero valore aggiunto, quando per esempio, nell’opener Artwork Of Nature, tra le vocals efferate di Tiril e un blast beat furioso si fa largo una splendida melodia di tastiera, oppure quando nella track-list, tra due autentiche mazzate deathcore come Death Abound Everywhere e la già citata Eternal Damnation to René Descartes viene piazzata Eleven, traccia degna dei migliori Lacuna Coil (grazie anche all’ottima performance vocale di Giulia dei nostri Ravenscry). Il lavoro chitarristico in Keep Dreaming è da urlo e in For All Who Trieved Unheard la singer norvegese mostra prima il suo lato angelico per poi ritornare nelle sue consuete vesti di alter ego di Angela Gossow.
Anche The Last Darkest Night potrebbe apparire un innocuo e orecchiabile brano gothic-pop se non fosse letteralmente brutalizzato nella sua parte centrale, mentre A Time To Be Small, splendida cover del brano degli Interpol, pur mantenendosi abbastanza allineata alla melodia originale, viene ugualmente screziato da parti in growl.
Lijty Cristy chiude in maniera piuttosto cruda, così com’era iniziato, un album dai molti contenuti compressi nei suoi trentasette minuti scarsi.
Lungi dall’essere un semplice fenomeno da baraccone, i The Way Of Purity difficilmente raggiungeranno il grande pubblico a causa di una proposta ideologicamente troppo estrema e tutt’altro che di facciata; questo è un vero peccato perché l’aspetto che come recensori ci deve interessare maggiormente, cioè quello musicale, è di primissimo piano risultando di gran lunga superiore a band molto più reclamizzate ma dall’impatto visivo e ideologico rassicurante.
You wear my skin as a monument of wealth”.

Tracklist :
1. Artwork Of Nature
2. Death Abound Everywhere
3. Eleven
4. Eternal Damnation To René Descartes
5. Keep Dreaming
6. For All Who Thrive Unheard
7. The Mighty Fall
8. The Last Darkest Night
9. A Time To Be So Small
10. Lijti Crjsty

Line-up :
Tiril Skardal – Vocals
Without Name – Bass
Jeffrey – Guitar
Wod – Drums
Deathwish – Guitar, Keyboards

THE WAY OF PURITY – Facebook

Frailty – Melpomene

I Frailty ci regalano più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità.

I Frailty giungono con Melpomene (nella mitologia greca, la musa della Tragedia) alla seconda prova su lunga distanza e non deludono le attese che si erano create dopo la pubblicazione dell’esordio “Lost Lifeless Light” del 2008 e dei successivi EP “Frailty” e “Silence Is Everything …”.

La band lettone con la sua proposta musicale si colloca sui territori death-doom già battuti in modo lusinghiero in questo spicchio di 2012 dagli iberici In Loving Memory; analogamente a questi ultimi i Frailty mostrano la loro spiccata attitudine nel comporre brani nei quali convivono in perfetta armonia aggressività e melodia.
A livello di ispirazione i nostri hanno rivolto lo sguardo verso le altre sponde del Baltico dove i riferimenti sono i Saturnus su quella danese, per quanto riguarda i brani risalenti all’EP del 2010, e i Swallow The Sun su quella finlandese, per i brani più recenti composti appositamente per questo disco.
In questo senso appare sorprendente la traccia d’apertura Wendigo che, con le sue sonorità più aspre rispetto alle produzioni precedenti dei lettoni, si avvicina ai brani di maggiore impatto dei Novembers Doom, anche se l’aspetto melodico non viene trascurato grazie ad uno splendido break a metà del brano.
Già la successiva Cold Sky, che inaugura un trittico di brani maestosi, sin dalle prime note chiarisce eventuali dubbi sorti su un possibile sbilanciamento delle composizioni verso il death, caratterizzandosi per il magnifico lavoro alla chitarra di Edmunds, capace di tratteggiare melodie sognanti e melanconiche allo stesso tempo; segue Desolate Moors che, nonostante i suoi quattordici minuti, non accusa cali di tensione con le sue ritmiche pachidermiche ben coadiuvate dalla tastiera di Ivita, per un risultato degno dei migliori Saturnus.
Underwater chiude l’ideale prima parte del disco ed è un brano semplicemente grandioso che racchiude in sé tutte le caratteristiche essenziali del death-doom: grandi riff, melodie dolcemente ammantate di mestizia e un growl proveniente dagli abissi più reconditi.
Onegin’ s Death è una traccia strumentale acustica che funge come introduzione di altro magnifico trittico di brani, partendo da The Doomed Hall Of Damnations, che lambisce territori funeral con le sue atmosfere soffocanti, per passare da Eternal Emerald, che ci riporta ad un clima decisamente più arioso, e concludendo con Thundering Heights, che è l’altra perla del disco, con Edmunds sugli scudi grazie a un memorabile assolo di chitarra nella parte finale.
Melpomene, pubblicato dall’attiva label ucraina Arx Productions, si chiude degnamente con un altro brano strumentale, The Cemetery Of Colossus, lasciando appagato chi sperava di trovare conferma alle potenzialità in precedenza espresse dalla band.
Andando alla ricerca del classico pelo nell’uovo, si nota una lieve discontinuità tra i brani meno recenti e quelli nuovi, cosa che normalmente accade quando nel pubblicare un full-length si includono anche pezzi già editi in demo, singoli o EP.
Nulla che possa influire sul giudizio finale, sia chiaro, soprattutto quando una band come i Frailty ci regala più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità, con un vocalist dal growl terrificante, un chitarrista dal tocco personale e dal grande gusto melodico e altri quattro ottimi musicisti che forniscono il loro contributo preciso ed essenziale alla riuscita di un bellissimo album.

Tracklist:
1. Wendigo
2. Cold Sky
3. Desolate Moors
4. Underwater
5. Onegin’s Death
6. The Doomed Halls of Damnation
7. Eternal Emerald
8. Thundering Heights
9. The Cemetery of Colossus

Line-up:
Lauris Polinskis – Drums
Edmunds Vizla – Guitars, Vocals
Ivita Puzo – Keyboards
Martins Lazdāns – Vocals
Jānis Jēkabsons – Bass
Jēkabs Vilkārsis – Guitars (rhythm)

Ea – Ea

Il male di vivere negli Ea è un evento catartico, dove il triste incedere delle melodie tratteggia il lento consumarsi dell’esistenza fino al suo estremo commiato e le note ne raccontano il melanconico fluire lasciando una sensazione di soffusa malinconia piuttosto che di sconforto e di costernazione.

Non è facile parlare in maniera obiettiva di qualcosa o qualcuno che in una certa fase della propria vita ha contrassegnato o accompagnato i momenti più belli oppure i più difficili.

Proprio per questo per me recensire un album degli Ea è sempre piacevole da un lato e tremendamente complesso da un altro, in considerazione del fatto che non posso nascondere il mio amore sconfinato per ogni nota composta da questa band. Quindi con questa recensione non posso fare altro che cercare di trasmettere le stesse sensazioni a chi mi leggerà, con la speranza di spingere più persone possibili all’ascolto di questa misteriosa band.
Evidentemente, al di là dell’aspetto affettivo non è certo per piaggeria che si può lodare l’operato di un gruppo del quale non si conosce l’identità dei componenti e che non possiede un sito internet, una pagina su Facebook o MySpace, nulla di nulla che possa far sperare il povero recensore di ricevere il minimo feedback …
Quel poco che sappiamo da voci ufficiose è che si dice siano musicisti russi (ma la stessa Solitude che in quelle lande ha la propria sede non accredita questa tesi), che Ea è il nome di una divinità della mitologia accadico-babilonese e che sia i testi sia la lingua utilizzata fanno riferimento a queste antiche civiltà.
Ma questi in fondo sono aspetti marginali perché gli Ea in realtà non sono una band, bensì una sensazione che penetra nell’anima, che si insinua nella mente con le sue note malinconiche guidate ora da efficaci linee di tastiera ora da una chitarra dal timbro desolatamente dilatato.
Il sound di questi anonimi cantori del dolore, infatti, non possiede i tratti disperatamente claustrofobici e l’attitudine nichilista dei Worship o il senso di ineluttabile tragedia che si annida dietro ad ogni nota composta dai Colosseum.
Il male di vivere negli Ea è un evento catartico, dove il triste incedere delle melodie tratteggia il lento consumarsi dell’esistenza fino al suo estremo commiato e le note ne raccontano il melanconico fluire lasciando una sensazione di soffusa malinconia piuttosto che di sconforto e di costernazione.
Questo episodio della loro discografia, il quarto in sei anni, è la logica prosecuzione dei precedenti, anche se per intensità emotiva si avvicina più a “Ea II” che non a “Ea Taesse” e “Au Ellai”: il piccolo elemento di novità risiede nell’aver scelto di presentare un unico brano di quarantotto minuti anziché suddividere come di consueto la musica composta in due o tre tracce.
Quello che impressiona realmente è la capacità che esibiscono questi musicisti nel toccare le giuste corde dell’emozione senza ricorrere a particolari virtuosismi e nemmeno esibendo una tecnica fuori dal comune. La grandezza della band si esalta proprio nell’estrema semplicità compositiva, quella che porta alcune frange della critica a snobbarli perché artefici di soluzioni non sufficientemente cervellotiche per chi si diletta nell’esercizio dello snobismo intellettuale.
Gli Ea hanno creato una via del tutto personale al funeral doom, battuta di recente pure dagli ottimi Comatose Vigil con il loro splendido “Fuimus … Non Sumus”, anche se non sarebbe onesto ignorare che tutti quelli che si cimentano con questo genere devono fare i conti con le inevitabili influenze dei Thergothon prima e degli Skepticism poi.
Questa musica non è certo per chi ricerca avanguardistiche novità o rumorismi assortiti spacciati come la nuova frontiera della musica estrema; al contrario è nutrimento essenziale per chi si “accontenta” di commuoversi al cospetto della malinconica colonna sonora di un’esistenza inevitabilmente destinata all’oblio.

Tracklist:
1. Ea

Sick Monkey – Anatomia Dell’Essere

Le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di “Anatomia dell’Essere” sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Potente, ruvido e genuino: tre aggettivi che servono per inquadrare il sound dei Sick Monkey, alle prese con il loro primo EP Anatomia Dell’Essere.

La band, proveniente dalla sponda orientale del lago di Garda, nasce nel 2007 e musicalmente, come ci informano le note biografiche, trae linfa dallo stoner in stile Kyuss senza precludersi eventuali escursioni in altri generi.
Lo testimonia la title-track posta in apertura che, dopo un avvio cadenzato come ci si aspetterebbe, si sposta in certi frangenti su ritmiche più spedite che lambiscono territori hardcore pur mantenendo complessivamente l’impatto e le chitarre lisergiche dei maestri del desert rock.
Già a partire dalla successiva Entiende il sound si fa più sempre più viscoso e le chitarre più distorte, mentre con la terza traccia Ruggine il quartetto veneto esprime al massimo le proprie potenzialità grazie a quello che sembra essere un vero marchio di fabbrica: riff granitici, una base ritmica spaccaossa e testi mai banali che raccontano i disagi e le problematiche della quotidianità.
Senza Testo (che, nonostante il titolo non è un brano strumentale) rinsalda l’ottimo lavoro svolto dai Sick Monkey chiudendo un EP nel quale si riscontrano sicuramente molte luci e pochissime ombre: a tale proposito è da valutare quanto possa essere funzionale alla riuscita del lavoro l’utilizzo della lingua italiana che, se da una parte consente ai nostri di comporre i testi in maniera più diretta ed efficace, dall’altra potrebbe costituire un ostacolo al tentativo di donare in futuro un respiro internazionale alla loro musica.
Ma, al di là di questa annotazione, le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di Anatomia Dell’Essere sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Line-up:
Marco Fila – Batteria
Antonio Bonizzato – Voce, Basso
Claudio Luce – Chitarra Solista
Pierpaolo Modena – Voce, Chitarra

1. Anatomia dell’Essere
2. Entiende
3. Ruggine
4. Senza Testo

In Loving Memory

Gli In Loving Memory sono una band spagnola che ha esordito quest’anno con un ottimo disco di death-doom.
Grazie alla loro disponibilità abbiamo avuto l’occasione di di approfondire la conoscenza della scena iberica oltre a fare qualche inevitabile raffronto con ciò che accade nel nostro paese.

ME Ciao ragazzi, grazie per la vostra disponibilità! Il vostro album è stato una piacevole sorpresa, per questo motivo vorremmo sapere qualcosa di più sulla storia della band.

Ciao, come va ? La storia degli In Loving Memory è iniziata nel 2005, quando Raúl (basso) e Juanma (voce e chitarra) hanno lasciato i Forensick, la band nella quale stavano suonando in quel momento, e dopo un paio di mesi hanno cominciato a cercare nuovi membri per una band doom metal. Hanno contattato Aitor (ora non più nella band) e Jorge (chitarra), entrambi componenti della band Lost Emotions. Alcuni mesi più tardi, dopo aver provato diversi cantanti, abbiamo contattato Alaitz (anch’essa non più nella line-up) per diventare la voce femminile della band e con quella line-up abbiamo iniziato a suonare dal vivo e abbiamo registrato il nostro primo demo.

ME Qual è la situazione attuale della scena doom in Spagna?

Beh, il doom metal non è uno stile musicale popolare anche tra chi ascolta metal. Death metal, metalcore e djent (sonorità tipo Meshuggah – nda) sono oggi gli stili estremi più diffusi nel nostro paese, ma per fortuna c’è ancora spazio per noi e per alcune altre ottime band.

ME Penso che fare musica sia soprattutto un piacere, ma quanto può essere difficile farlo sapendo in partenza che il prodotto sarà ascoltato da un numero limitato di persone?
Forse, se foste nati in Finlandia o in Norvegia, con un album come questo, avreste potuto trovare posto nelle classifiche di vendita … 

Forse, se fossimo nati in quei paesi non saremmo stati in grado di suonare a causa delle dita congelate … 😉  Parlando seriamente nelle nazioni del nord-europa la cultura, in particolare quella musicale, è sviluppata in modo diverso rispetto ai paesi mediterranei come Spagna, Italia e Grecia per citarne qualcuno. Là tutti i tipi di musica sono supportati mentre nel nostro paese la musica metal non ha alcun tipo riscontro da parte dei media, ad eccezione di alcuni appassionati di metal che ancora si prodigano per la musica che amano e la diffondono tramite le radio e le fanzine, e men che meno da parte delle istituzioni.

IN LOVING MEMORY

ME Parlando del vostro disco, ho trovato davvero ottimi i testi, in particolare “November Cries”, per la sua toccante drammaticità e “Negation Of Life”: a tale proposito potreste spiegarci il significato racchiuso nel brano che, credo, rappresenta il tema principale dell’album ?

Il vero significato di Negation Of Life parla di come Juanma si senta a volte incompreso dalle altre persone, facendolo sentire come intrappolato in una bolla di plastica e isolato dai rapporti umani. In una simile situazione qual è il significato delle parole “essere vivi”? Sappiamo che ci sono persone che vivono quotidianamente questo tipo di realtà, i senzatetto, gli orfani e tutti coloro che non fanno parte della società “fashion” nella quale siamo immersi.

ME In Italia la religione cattolica ha sempre influenzato la vita politica e sociale del paese, le cose vanno diversamente in Spagna?

No, qui avviene la stessa cosa, l’attuale governo è di orientamento cattolico. Noi non siamo contrari a ciò che la religione rappresenta per le persone ma siamo contro ciò che la religione provoca nelle loro vite: guerra e menzogna. Se vuoi credere in qualcosa, che si chiami Dio, Jahvé, Allah, Buddha non c’è problema; ma quando si tenta di imporre la propria religione ad altri, allora non è più così …. Nei nostri testi troverete diverse critiche corrosive riguardanti ciò che significa per noi la religione.

ME Passando a esaminare l’aspetto commerciale, perché per produrre un video avete scelto “Even a God Can Die”, una canzone che è sicuramente meno immediata, per esempio, di “Skilled Nichilism” o “Adversus Pugna Tenebras” ?

Abbiamo scelto quella canzone anche per aprire l’album. Certamente non è quella più orecchiabile, né la più commerciale o più elaborata del disco, ma pensiamo che abbia qualcosa di speciale. Abbiamo voluto piazzare all’inizio un classico brano lento, pesante e doomy, per poi passare a un altro più veloce, poi uno più melodico, poi uno più complesso, e così via.
Così abbiamo deciso che il primo video dovesse essere il brano di apertura, con l’intento di fare uscire un prodotto”home-made”. Ne abbiamo in programma un altro che pensiamo dovrebbe essere visivamente più complesso, vedrete …. (speriamo tra breve !)

ME  Anche se fino ad ora avete prodotto solo due album, apprezzo la vostra integrità nel proporre una death doom classico, senza troppe concessioni alla parte commerciale, differenziandovi da molti gruppi che, pur avendo segnato il passato e il presente, hanno ceduto alla tentazione di snaturare parzialmente il loro stile. Cosa ne pensate? Ritenete che sia questa un’evoluzione in qualche modo inevitabile?

Beh, a giudicare da quanto si legge in alcuni siti web siamo considerati leggeri dai puristi del doom metal, perché usiamo molte melodie nelle nostre composizioni; per contro, non essendo neppure sbilanciati sulle sonorità più estreme, non siamo nemmeno così adatti agli gli appassionati di brutal o death, mentre possiamo costituire una valida opzione per chi ama trovare il giusto equilibrio tra melodia e brutalità. Potremmo comporre musica più commerciale, come già fanno molte band, ma alla fine suoniamo quello che dà più soddisfazione, poi se piace anche agli altri, meglio. In caso contrario noi trascorriamo il tempo facendo ciò che amiamo, che è suonare, quindi non c’è alcun problema.
Di certo non abbiamo intenzione e neppure ci interessa cambiare il nostro stile preoccupandoci se quello che suoniamo sia commerciale o meno.

ME Sicuramente oggi la Solitude Productions e la sua sub-label BadMoonMad sono sinonimo di produzioni di alta qualità, ma vi chiedo: quali sono le difficoltà che dovete affrontare trattando con persone che vivono dalla parte opposta del continente ?

Il primo problema è la lingua: per entrambi l’inglese non è la lingua madre e a volte ci sono cose che potrebbero essere espresse meglio.
Un altro è la distanza: mandiamo tutto il nostro materiale musicale via internet, ma per tutti gli altri aspetti, dalla firma dei contratti alla consegna delle copie dei cd, bisogna avvalersi forzatamente della posta aerea, con tutto ciò ne consegue a livello di tempistica; chiaramente tutto si svolge in maniera più lenta di quanto accadrebbe se vivessimo nella stessa nazione.
Ma a parte questo, siamo soddisfatti del lavoro della Solitude Productions e della BadMoonMad, perché grazie a loro stiamo raggiungendo sempre più persone con Negation Of Life rispetto a quanto successo con il nostro precedente Tragedy & Moon; questo non è certo un sintomo di maggiore commercialità, come abbiamo detto in precedenza, ma lo scopo è quello di riuscire a valicare i confini nazionali, cosa che è molto difficile senza il supporto di una buona etichetta discografica. In questo modo ora altre persone possono ascoltare la nostra musica, e decidere se apprezzarla oppure no.

IN LOVING MEMORY

ME Quale band e quali dischi hanno orientato il vostro background musicale?

Ahi, troppi da citare qui, he he … Noi ascoltiamo tutti i tipi di musica, dal jazz al metal estremo, ma quelli che ci hanno spinto realmente verso questo tipo di musica sono da individuare tra My Dying Bride, Anathema, Paradise Lost, Swallow The Sun, In Flames, Evoken, In Mourning, Saturnus, Moonspell, Opeth, Amorphis e Evereve.

ME Una band che ha modificato nel tempo il proprio sound sono gli Swallow The Sun, ai quali vi ho accostato nella mia recensione, che hanno esordito con un capolavoro come “The Morning Never Came” ma gradualmente hanno ammorbidito il loro suono, rimanendo comunque ad alto livello. Sono stati davvero un’influenza per voi e avete avuto l’opportunità di ascoltare il loro album appena uscito?

Sì, abbiamo proprio tutti gli album che questa grande band ha rilasciato e consideriamo la loro evoluzione simile a quella avuta da Anathema, Paradise Lost o Amorphis anni fa. Certe volte si desidera “ammorbidire” il suono perché si ha acquisito una maggiore esperienza come musicisti e quindi si riesce più efficacemente a fornire questa impronta alla musica. In altre parole, si stratta solo di ascoltare la musica in maniera diversa.
Noi rispettiamo molto gli Swallow The Sun e ci piace ancora la loro musica, anche se preferiamo i primi due album.

ME Per finire, avete in programma un tour o qualche data per proporre dal vivo i brani di “Negation Of Life” ?

Vorremmo fare diversi concerti nel nostro paese per promuovere l’album e al momento stiamo organizzando alcuni spettacoli. Certo, suoneremo più che potremo, ma vogliamo anche trovare il tempo per produrre e scrivere, nel prossimo futuro, musiche e testi sempre migliori.

YOUR TOMORROW ALONE

Gli Your Tomorrow Alone sono una band salernitana all’esordio su lunga distanza che perpetua la recente tradizione gothic/doom italiana grazie ad un album riuscito come Ordinary Lives .
Abbiamo cercato di saperne di più sulla loro storia, sulla composizione del disco ed altro ancora ….

ME Ragazzi, vi rinnovo i complimenti per il bellissimo album. La vostra band è di formazione recente, mi vorreste raccontare come vi siete incontrati e in quale modo siete approdati alle sonorità che avete proposto in “Ordinary Lives” ?

Grazie per i complimenti, graditissimi! “Ordinary Lives” è il frutto di un lavoro complesso, maturato nell’arco di circa due anni (2010-2012), iniziato con l’uscita del primo demo nel Dicembre 2010. I fondatori del gruppo, Marco Priore (chitarra solista) ed Eugenio Mucio (chitarra e growl) sono amici di lunga data, e già in passato avevano provato più volte a mettere su un progetto solido, tentando diverse soluzioni con Giovanni Sorgente alla voce, Daniele Ippolito alla batteria e Gianpiero Sica al basso. Poi con l’ingresso in pianta stabile di Giovanni Costabile alle tastiere si è assestata sia la line-up che l’intenzione sonora del gruppo, nata dalla comune passione di tutta la band per il gothic/doom di matrice inglese dei primi anni ’90.

ME A vostro parere qual è la strada da percorrere per evitare che l’esistenza di ciascuno di noi sia archiviata come una “ordinary life” ? Forse la copertina, con i suoi molteplici simbolismi, racchiude già in sé qualche risposta ?

Innanzitutto c’è da precisare che il titolo “Ordinary li(v)es” punta sull’assonanza tra le parole inglesi lives (vite) e lies (bugie). Questo per sottolineare come molto spesso l’esistenza di ognuno di noi possa essere piena di bugie, e finire col somigliare essa stessa ad una grossa menzogna. L’artwork, curato con sapienza e maestria da Sergio Monfrinotti (Adhiira Art) nasce proprio da questa idea di fondo. Ognuno sceglie, ogni giorno, una maschera da indossare, trovandosi a sua volta di fronte a tante maschere. Difficile quindi discernere il confine tra la realtà e la menzogna, il mescolarsi di finzione e vero sentimento. Riscoprire e dare importanza ai moti dell’animo, alla genuinità dei sentimenti, positivi o negativi che siano, contrapposti al formalismo fittizio della moderna realtà, è il modo suggerito dai nostri brani per evitare questa commistione sistematica tra vita e bugia e non condurre una “ordinary life”.

intervista Your Tomorrow Alone

ME Il disco in pratica è appena uscito ma, nonostante questo, se poteste rientrare in studio cambiereste qualcosa o siete totalmente soddisfatti della resa finale ?

Per noi tutti era la prima esperienza di registrazione vera e propria, e a dire il vero ci riteniamo decisamente soddisfatti. Il lavoro è stato duro e meticoloso, curato con grande attenzione e professionalità da Fabio Calluori ai Sonic Temple Studios di Salerno e concluso poi con il master a cura di Luca Martello (H-Sound Mastering).

ME Come nascono i vostri brani ? Le musiche e le liriche sono a cura di qualcuno in particolare oppure sono frutto di un lavoro di gruppo ?

I testi sono a cura di Daniele Ippolito ed Eugenio Mucio mentre per quanto riguarda la composizione, i brani nascono da una struttura chitarristica impostata da Marco Priore e successivamente elaborata e completata dal lavoro di gruppo. Fa eccezione il brano “Agony (Praeludium)”, che è stato concepito da Giovanni Sorgente e arrangiato poi con basso, tastiere e batteria.

ME “The Essence of Gloom”, secondo me, costituisce il top del vostro album e, così come per “In Silence”, trovo molto efficaci anche le parti in italiano : siete d’accordo con la mia valutazione e ritenete possibile, in futuro, l’eventualità di ricorrere integralmente alla nostra lingua per uno o più brani?

L’utilizzo della lingua madre è stato un nostro obiettivo fin da subito, sia per creare un’alternanza all’interno dei brani, sia per la poesia e la teatralità che può generare una strofa in lingua italiana. Tuttavia ci siamo preoccupati di non strafare, cercando un utilizzo sapiente e parsimonioso. In questo ci siamo ispirati molto ai Novembre, e per quanto nella composizione di “Ordinary Lives” non ci sia stata l’intenzione di proporre un brano interamente in italiano, è un’opzione da non escludere per il futuro.

intervista Your Tomorrow Alone

ME In “Agony” ho riscontrato un’atmosfera che ricorda i migliori Depeche Mode. E’ solo una mia impressione o anche loro rientrano tra le vostre preferenze musicali ?

“Agony” nasce come brano d’atmosfera, ed era un’altra delle nostre intenzioni originarie. Quanto alle influenze, sono da ricercare maggiormente nel progressive italiano anni ’70 o nei lavori acustici degli ultimi Opeth, per quanto i Depeche Mode rappresentino un’influenza importante soprattutto per il lavoro di Giovanni Costabile alle tastiere.

iye Per stile musicale e in qualche modo anche per collocazione geografica siete contigui alla scena gothic-doom romana che annovera band quali Novembre, En Declin e The Foreshadowing, solo per citare le più note. Siete in contatto con queste band oppure vi considerate appartenenti ad una realtà a sé stante ?

Il contatto, se inteso a livello di influenze e di vicinanza a un certo filone musicale, c’è senz’altro. Anche perché sarebbe alquanto pretestuoso pensare di appartenere a una realtà a sé stante. Gli Your Tomorrow Alone sono una band italiana, innanzitutto, per cui non si può negare che le altre band italiane gothic/doom siano state una fonte di ispirazione, soprattutto per quel che riguarda i Novembre. L’importante per noi era creare un sound diverso, personale, pur partendo da ispirazioni e influenze inevitabili (ma anzi, volute) per il genere che proponiamo.

ME Negli ultimi tempi ho recensito band norvegesi che registrano per etichette italiane così come band nostrane che incidono per label polacche, svedesi o russe; rispetto a simili contesti come vi sentite pensando che la My Kingdom, praticamente, ce l’avete sotto casa ?

Poter lavorare in prima persona con la propria label è un qualcosa di essenziale. La vicinanza favorisce i rapporti umani, che sono fondamentali per poter svolgere un ottimo lavoro e mantenere un contatto costante. Con la My Kingdom Music si è da subito instaurato un rapporto solido, e noi siamo grati a Francesco Palumbo per aver creduto nel progetto Your Tomorrow Alone, e speriamo che la collaborazione porti ottimi frutti.

ME In considerazione delle band che vi hanno fornito l’ispirazione, sarei curioso di conoscere la vostra top five dei migliori album gothic-doom di sempre .

Precisando che non vanno sicuramente letti in ordine di “classifica”, possiamo citare “Icon” dei Paradise Lost ; “The Angel And The Dark River” dei My Dying Bride; “The Silent Enigma” degli Anathema; “Novembrine Waltz” dei Novembre e “Solar Lovers” dei Celestial Season.

ME Noto con piacere che per quanto riguarda i migliori album della “sacra triade britannica” siamo in perfetta sintonia… Un’ultima domanda : profezia dei Maya permettendo, quali sono i progetti futuri degli Your Tomorrow Alone ?

Attualmente siamo concentrati sulla promozione di “Ordinary Lives” attraverso il maggior numero di serate possibili. L’obiettivo principale in questo momento è far conoscere la nostra musica e la nostra band, anche grazie alla visibilità concessa da interviste e recensioni. Dopodichè siamo già concentrati su quelli che saranno i nuovi brani ed eventualmente le nuove idee e sonorità da ricercare per i prossimi lavori … insomma, siamo carichi e intenzionati a proseguire su questa strada e fare di tutto per migliorarci ulteriormente!

Lunar Aurora – Hoagascht

Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti.

Uno dei ritorni più attesi in questo 2012 era sicuramente quello dei Lunar Aurora dopo cinque anni di silenzio seguiti alla pubblicazione di “Andacht”, per chi scrive uno dei migliori album black metal di sempre.

Oggi il gruppo è ridotto a un duo, costituito da Aran, in questa occasione privo del supporto fraterno di Sindar, e da Whyrd, rientrato nella line-up dopo esserne uscito in occasione dell’ultimo disco. E’ inevitabile chiedersi, ogni qual volta una band ritorna sulle scene dopo un lungo silenzio, se tale decisione derivi da una ritrovata vena artistica o piuttosto da semplici motivi commerciali. Per dirimere simili dubbi, già fugati in parte dallo stile dei nostri che è lontano anni luce da qualsiasi tentazione “di classifica”, può bastare la scelta di comporre i testi in dialetto bavarese, cosa che peraltro rende ulteriormente complicato ottenere qualche informazione relativa ai contenuti lirici del disco. Fatte le debite premesse, l’annunciato ritorno sulle scene della band tedesca ha indubbiamente provocato notevoli aspettative da parte dei suoi fedeli estimatori anche se, spesso, le attese eccessive finiscono per compromettere un’analisi obiettiva dei nuovi lavori, poiché la mente e il cuore vanno istintivamente a cercare raffronti con il passato piuttosto che focalizzarsi sul presente. Così le prime 2-3 prese di contatto con Hoagascht si sono rivelate particolarmente ostiche proprio perché mancavano quegli spunti più immediati che avevano caratterizzato l’album precedente. Ma, semmai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta ha ragione chi sostiene che siano necessarie, per apprezzare pienamente l’arte compositiva, sia un’adeguata dedizione sia, soprattutto, molta pazienza. Infatti, dopo ripetuti ascolti, nel corso dei quali di volta in volta il disco svelava quasi con ritrosia i propri lati più nascosti, Hoagascht si è palesato finalmente in tutta la sua affascinante bellezza. Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti. Cos’è cambiato dunque rispetto alla precedente opera ? E’ vero che, probabilmente, non si raggiungono i picchi emotivi che trovavano la loro sublimazione in brani come “Findling” o “Gluck” ma, per contro, va detto che Aran e Whyrd con Hoagascht hanno cercato di veicolare in maniera diversa le consuete atmosfere alternando maggiormente rispetto al passato l’impatto dei riff chitarristici a passaggi più rarefatti o sperimentali. Una naturale trasformazione che dimostra, pur senza apportare straordinari stravolgimenti, quanto i Lunar Aurora, con il loro ritorno, abbiano cercato innanzi tutto di non restare arroccati sulle posizioni di “Andacht”. Proprio l’elevato livello che accomuna tutte le tracce rende difficile citarne qualcuna in particolare: dovendo proprio fare una scelta evidenzierei Nachteule, che possiede un’impronta simile per certi aspetti a Der Pakt, o Beachgliachda, brano dall’andamento altalenante contraddistinto da parti lentissime ai confini del doom e brusche accelerazioni caratterizzate da un originale lavoro di tastiera; ma anche Sterna con le sue armonie malinconiche e Håbergoaß, che si distingue come l’episodio più cadenzato del lotto, non sono affatto da meno. Accompagnati da una produzione all’altezza, in grado di valorizzare ogni strumento ma anche di enfatizzare quei caratteristici suoni che talvolta sembrano provenire da una dimensione onirica, i Lunar Aurora del 2012 padroneggiano con disinvoltura la materia perdendo qualcosa in immediatezza ma guadagnando in pulizia ed eleganza compositiva; di sicuro con questo lavoro mantengono e consolidano le peculiarità chi li hanno resi unici all’interno della scena (un loro brano è immediatamente riconoscibile tra altri 1.000, non so per quante altre band si possa dire lo stesso). Probabilmente a causa della provenienza da una nazione dove il black metal non è un genere così radicato, al contrario di quanto avviene in Scandinavia, i bavaresi non hanno mai raccolto un successo comparabile alla straordinaria qualità espressa nei propri lavori; augurandoci che questa possa essere la volta buona, accogliamo con estrema soddisfazione il ritorno sulla scena di una di una band storica, sperando solo di non dover attendere un altro lustro per ascoltare nuovo materiale.

Tracklist:
1. Im Gartn
2. Nachteule
3. Sterna
4. Beagliachda
5. Håbergoaß
6. Wedaleichtn
7. Geisterwoid
8. Reng

Line-up:
Aran – All Instruments, Vocals
Whyrd – Vocals

NECRODEATH

Per chi ascolta metal, presentare i Necrodeath può apparire un esercizio superfluo ma pensiamo che sia comunque utile ricordare che la band genovese è stata tra le prime ad ibridare la componente thrash con partiture vicine a quello che oggi conosciamo come black metal e non è un caso, del resto, che gran parte delle band nord-europee citino i nostri come veri e propri punti di riferimento.

Scioltisi nel 1989 dopo due album (“Into The Macabre” e “Fragments of Infinity”) che hanno fatto, come detto, la storia del metal italiano, i Necrodeath si sono ripresentati sulla scena dieci anni dopo per volere del batterista Peso, unico membro originario della band attualmente in line-up, e da allora hanno sfornato una serie di lavori di elevata qualità a partire da “Mater Of All Evil” per arrivare a giorni nostri con l’ottimo Idiosyncrasy
La formazione è composta da : Flegias – vocals , Pier Gonella – chitarra, GL – basso e Peso – batteria.
I primi tre hanno risposto ai nostri quesiti riguardanti l’ultimo album e non solo…

ME Abbiamo iniziato la nostra recensione di “Idiosyncrasy” rimarcando la chiusura mentale che continua a persistere nell’ambiente e che le vostre scelte fuori dai normali canoni del metal estremo hanno fatto emergere nuovamente.
C’è speranza che un giorno molti personaggi che gravitano attorno all’ambiente del metal italiano riescano a togliersi paraocchi e paraorecchi ?

FLEGIAS: La cultura italiana con tutti i suoi pregi e difetti è da prendere come tale. Pochi filosofi o pensatori hanno fatto breccia nel modificare il nostro modo di pensare o di vedere le cose, figuriamoci se riusciamo a farlo con un album dei Necrodeath.
Ma alla fine va bene così, non è che facciano piacere commenti prevenuti, ma ciò significa che sei una band che riesce a far parlare di se prima ancora di far uscire l’album, e questo non è da tutti.

ME Certo che, vedendola dall’esterno , la scena metal italiana non dà l’idea di d’essere molto coesa. E’ veramente così come sembra ?

FLEGIAS: Non godiamo di certo della fama di “fucina metal”. All’estero siamo conosciuti per la Pausini e Ramazzotti, nel metal le porte del grande pubblico si sono aperte grazie ai Lacuna Coil, ma pochi come loro possono vantare una tale professionalità e un supporto di marketing così ampio.
Nel settore underground invece, grande stima la ricevono i gruppi più credibili, ovvero quelli che da anni si sbattono e persistono sulla loro proposta musicale. Quando giro il mondo con i Necrodeath e i Cadaveria, rimango sempre stupito nel momento in cui la gente ti riconosce per strada e ti ferma per una foto o un autografo.

ME Parliamo di “Idiosyncrasy”. E’ evidente che la vostra idea di presentare un unico brano di 40 minuti, per quanto non inedita in campo estremo, è stata certamente inconsueta. E’ nata prima l’idea del concept e contestualmente quella della suite oppure il progetto ha preso corpo durante la fase compositiva ?

GL: E’ nata prima l’idea, dopodiché ci siamo concentrati sulla fase compositiva che doveva sempre mantenere l’impostazione di fondo senza risultare banale. Non è stato semplice comporre “Idiosyncrasy”, anche perché un unico brano di 40 minuti ha strutture e andamenti completamente diversi rispetto a un classico brano di 3 o 4 minuti. Invece l’idea di suddividerlo in 7 parti, che comunque lasciano integra la canzone, è nata in fase di mixaggio, per poter dare all’ascoltatore la possibilità di ascoltarlo tutto d’un fiato oppure in diversi episodi.

ME Queste sono le differenze che avete riscontrato per quanto riguarda l’aspetto compositivo. Invece, a livello promozionale, quanto può pesare la mancanza del classico brano trainante e di un’eventuale video ad esso correlato ?

GL: Certo, essendo un disco così particolare viene da sé che anche tutto il discorso promozionale che ne ruota attorno sia completamente diverso, infatti è molto difficile trarne un singolo, come fare un videoclip che non risulti poi adattato alla base musicale.
Infatti non intendiamo fare né video né altro ma confidiamo nell’ascoltatore che, incuriosito da “Idiosyncrasy”, abbia intenzione di avventurarsi in questo viaggio musicale.

iye Qual è la storia che c’è dietro al concept ? E’ maturato attraverso esperienze personali, eventi specifici o magari dalla lettura di qualche buon libro ?

FLEGIAS: Quando scrivo qualcosa faccio sempre riferimento ad esperienze personali e mi piace tradurle in chiave allegorica sotto forma di incubi malsani.
In questo caso ho voluto esaltare la personalità e forza di volontà dimostrate nell’affrontare situazioni particolarmente avverse e la capacità di venirne fuori a testa alta lottando con le unghie e l’intelletto.

ME  Nella seconda parte della vostra storia, ovvero quella successiva al 1999, con Idiosyncrasy siete giunti al settimo album. Secondo voi quale è stato quello più importante o che, comunque, vi ha dato le maggiori soddisfazioni e, viceversa, ce n’è uno in particolare che vi ha lasciato qualche rimpianto per la sua riuscita ?

PIER: “Idiosyncrasy” è quello che mi ha soddisfatto di più perché mi ha consentito di partecipare attivamente anche dal punto di vista solista, facendo trasparire il mio modo di suonare ma sempre nel giusto contesto del trademark Necrodeath, grazie anche al lavoro di arrangiamento di tutta la band.
“Draculea” è quello che mi ha soddisfatto di meno dal punto di vista del feedback, essendo stato considerato troppo sperimentale quando, a mio parere ovviamente, si trattava già di un piccolo “Idiosyncrasy”.

ME Grazie a quanto fatto negli anni ’80 ma anche nelle produzioni successive, avete raggiunto lo status di band di culto; ma i componenti di una realtà come i Necrodeath riescono a vivere di sola musica (giuriamo di non essere delle spie al soldo dell’agenzia delle entrate …), oppure questa eventualità per chi suona metal in Italia è una sorta di chimera ?

FLEGIAS: Come ti accennavo prima, ho idea che a malapena possano vantare questo primato solo i Lacuna Coil. Metà di noi vivono di musica ma non di Necrodeath, l’altra metà ha un lavoro fuori da questo ambito.
Anzi, il più delle volte la musica ti porta fuori budget e non sarà mai ripagato adeguatamente l’impegno e il tempo che dedichi ad essa. Meno male che siamo motivati da una sana passione, altrimenti ci sarebbe da attaccare lo strumento al chiodo.

ME  Ci agganciamo in qualche modo a quest’ultima domanda per chiedervi se avete già avuto qualche riscontro tangibile a livello commerciale a pochi mesi dall’uscita dell’album.

PIER: I primi riscontri commerciali si possono avere solo un po’ di mesi dopo l’uscita del disco, però fin da subito si ha un’idea di come vanno le cose in base a recensioni, interviste e movimento che si crea attorno al disco. E data la gran quantità di interviste e concerti che stiamo programmando possiamo già ritenerci soddisfatti.

ME  Abbiamo notato , tra le date previste nel vostro prossimo tour, l’assenza di una tappa a Genova: tale scelta è ascrivibile al famoso detto “nemo propheta in patria” oppure la vostra (e nostra) città è prossima al coma irreversibile anche in campo artistico, dopo i noti problemi di carattere geologico-ambientali ed occupazionali ?

PIER: Genova è sempre stata una tappa impegnativa da gestire perché dietro a locali, gestori, permessi, spazi, ecc. ci sono sempre tanti problemini. Le poche date fatte in zona sono sempre andate alla grande per cui confidiamo sempre in qualche promoter volenteroso …

ME Chiudiamo con una domanda classica per ciascuno di voi : quali band e musicisti hanno costituito fonte di ispirazione all’inizio della vostra carriera ?

FLEGIAS: I Kiss sono stati il gruppo che mi ha fatto venire la voglia di diventare musicista, i Venom quello che mi ha dato l’ispirazione, gli S.O.D. quello che mi ha fatto dire: “ma si… buttiamoci!”

GL: Sono cresciuto a pane e death metal anni ’90 … quindi direi Death, At the Gates, Sepultura e tutto quello che ruotava intorno a quegli anni.

Dreams After Death – Embraced By The Light

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Il suo progetto Dreams After Death, alla resa dei conti, si va a collocare non lontano da coloro che hanno segnato, con la loro arte funerea, gli ultimi due decenni.
Qui, come già detto in altre occasioni, nulla si crea e nulla si distrugge, l’unico scopo è di tradurre in musica, in maniera onesta e sentita, la malinconia, la tristezza e il dolore che talvolta ci accompagnano nelle diverse fasi della nostra esistenza.
Tra le note di Embracing By The Light troviamo naturali riferimenti a tutti i numi tutelari di Andras, dai progenitori Thergothon agli altri totem del movimento finlandese come Colosseum, Skepticism e Shape Of Despair, passando dagli Ea, per il tappeto sonoro delineato dall’andamento dolente delle tastiere e dagli Worship, per la loro opprimente lentezza .
Il polistrumentista ungherese riesce nella non facile impresa di assimilare queste influenze e amalgamarle presentandole in una forma del tutto personale e senza apparire mai derivativo.
Se spesso le one-man band risentono di diversi sbalzi qualitativi a livello strumentale e compositivo, qui non c’è proprio nulla da eccepire : ogni strumento è suonato con la dovuta perizia, il growl, pur se usato con parsimonia, è sempre all’altezza della situazione e la produzione riesce a valorizzare degnamente il tutto.
Tra i sei brani, tutti di una lunghezza standard per il genere proposto, spicca in particolare il trittico iniziale : Genesis, che con le sue atmosfere a metà strada tra Ea e Comatose Vigil è l’ideale introduzione al senso di angoscia e disperazione che il musicista magiaro vuole rappresentare; Funeral, che fin dal titolo si presenta come il manifesto musicale di Andras, e Meeeting With The Ancestors, certamente il brano cardine del disco con i suoi 11 minuti intrisi d’intensa drammaticità e caratterizzati da azzeccate linee melodiche.
The Endless Time inizia a mostrare un altro aspetto dei Dreams After Death, ovvero quello ambient, decisamente efficace e mai fine a se stesso come spesso accade, mentre in From Time Immemorial Andras libera il suo probabile retaggio classico con alcuni passaggi che potrebbero apparire come una rilettura in versione doom delle composizioni di Bela Bartok.
L’album si chiude con il delicato e malinconico strumentale Outer Space lasciandoci l’impressione di aver scoperto un’artista che già ora merita un posto di rilievo in ambito funeral doom e che, in un futuro prossimo, potrebbe ambire a eguagliare se non superare i propri maestri.

Tracklist:
1. Genesis
2. Funeral
3. Meeting With The Ancestors
4. The Endless Time
5. From Time Immemorial
6. Outer Space

Line-up:
Andras Illes – vocals, all instruments

(EchO) – Devoid Of Illusions

Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Devoid Of Illusions è il miglior esordio discografico che mi sia capitato di ascoltare da diverso tempo a questa parte.

I bresciani (EchO) sono l’ennesima pietra preziosa che, con la consueta lungimiranza, la Solitude Productions (tramite la sub-label BadMoodman) lancia nella scena doom mondiale; anche se, in effetti, racchiuderli in maniera semplicistica all’interno del genere appare riduttivo.
Infatti i nostri, pur muovendosi chiaramente nell’ambito di competenza dell’etichetta con sede a Orel (Russia), riescono a fornire al loro sound una serie di sfumature e di influenze che spaziano dal gothic/doom più classico fino ad un progressive dalla tonalità darkeggianti.
Tale progetto riesce alla perfezione grazie alle innegabili capacità tecniche della band e a un vocalist come Antonio Cantarin in grado di passare con disinvoltura dal growl più catacombale a clean vocals evocative e prive di qualsiasi sbavatura.
In un quadro di questo genere la classica ciliegina sula torta è costituita da una produzione che valorizza al massimo le sonorità dell’album a cura di un autentico mostro sacro del doom metal, ovvero Greg Chandler, mastermind degli Esoteric.
In Devoid Of Illusions tutto funziona alla perfezione, ciascun brano possiede un’impronta che lo rende memorizzabile e distinguibile dagli altri, benché certamente non si stia parlando di musica di facile presa.
Del resto, proprio ciò che ad un primo impatto potrebbe costituire il punto debole del lavoro, ovvero l’eterogeneità stilistica che si manifesta anche all’interno delle singole tracce, in realtà finisce per rivelarsi il valore aggiunto dato che l’alternanza tra atmosfere apparentemente discordanti tra loro avviene magicamente in maniera del tutto naturale e spontanea.
Prendendo in esame alcune dei brani, The Coldest Land vive sull’avvicendamento tra arpeggi delicati prossimi ai Katatonia ed un’irresistibile melodia chitarristica contrassegnata da un growl impetuoso, mentre Omnivoid si caratterizza per un riff pesantissimo che improvvisamente si dissolve per lasciare spazio a sonorità prossime al depressive metal.
Disclaiming My Fault è un’altra delle tante perle dell’album, un brano che nasce con un’impronta prog alla Porcupine Tree che viene trasfigurata nel finale da un furioso death metal; Once Was A Man invece risalta come un’eccezione nel contesto dell’album poiché, se come la precedente traccia si muove inizialmente su territori contigui alla band di Steve Wilson, finisce per confluire in passaggi degni dei Cure di “Disintegration”; in sintesi : splendido !
Sounds From Out Of Space chiude alla grande il lavoro con la partecipazione dello stesso Greg Chandler che, con la sua voce e la sua chitarra, finisce inevitabilmente per “esoterizzare” il brano, ma questo non è certo un male, anzi …
Proprio il contrasto tra il cupo funeral doom introdotto dall’illustre ospite e le caratteristiche aperture post metal che, giunti alla fine dell’album, abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare, si erge a simbolo dell’intero lavoro e dimostra quanto il talento degli (EchO) renda naturale la convivenza tra sonorità apparentemente incompatibili.
Non c’è molto altro da aggiungere se non l’esortazione nei confronti di chi ama la buona musica (non solo il metal) affinché supporti questa magnifica realtà nostrana.
Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Tracklist:
1. Intro
2. Summoning the Crimson Soul .
3. Unforgiven March
4. The Coldest Land
5. Internal Morphosis
6. Omnivoid
7. Disclaiming My Faults
8. Once Was a Man
9. Sounds From Out of Space

Line-up:
Antonio Cantarin – Vocals
Mauro Ragnoli – Guitars
Simone Saccheri – Guitars
Simone Mutolo – Piano, Keyboards
Agostino Bellini – Bass
Paolo Copeta – Drums

In Loving Memory – Negation Of Life

Gli In Loving Memory ottengono il nostro plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Gli In Loving Memory costituiscono, assieme a Helevorn, Evadne ed Autumnal, la massima espressione in ambito death-doom della penisola iberica.

I doomsters spagnoli nascono come band nel 2005 ed un anno dopo pubblicano un primo demo influenzato da uno dei trend dell’epoca , ovvero il gothic- doom con voce femminile.
La scelta di virare verso sonorità più robuste, oltre a quella di affidare le vocals al chitarrista Juanma, si rivela vincente e già in “Tragedy & Moon” del 2008 vengono messe in mostra le qualità che ritroviamo in Negation Of Life , lavoro che presenta una band in grande spolvero e focalizzata sull’obiettivo di produrre un sound pesante e malinconico come il genere esige.
A tale proposito, posiamo collocare gli In Loving Memory nel solco stilistico tracciato, ad altre latitudini, dagli Swallow The Sun in particolare, ma senza che per questo la band rinunci ad esprimere la necessaria personalità
L’album è caratterizzato da riff robusti, solos malinconici, un growl corrosivo ed un lavoro di tastiere efficace senza essere mai invadente, il tutto supportato da una produzione encomiabile. Grazie a queste caratteristiche ed all’ottimo bilanciamento tra parti aggressive e momenti melodici tutti i brani si lasciano ascoltare senza alcun affanno.
La traccia iniziale, Even A God Can Die è forse quella che concede meno spazio alle melodie, riservando solo a qualche breve inserto pianistico il compito di contrastare la pesantezza delle chitarre e della base ritmica, ma già dalla successiva Skilled Nihilism la proposta degli iberici si fa più immediata ed accattivante.
Adversus Pugna Tenebra parte con un arpeggio delicato ed una voce sussurrata per poi sfociare in un riff melodico che ricorda un’altra grande band mediterranea come i greci Nightfall.
La title-track è un altro splendido episodio che, per le sue atmosfere malinconiche, non avrebbe affatto sfigurato in un capolavoro come The Morning Never Came, mentre November Cries e Through a Raindrop si rivelano più coinvolgenti nel finale quando la chitarre di Jorge e Juanma costruiscono linee melodiche struggenti.
Shimmering Divinity emerge come uno dei picchi dell’album grazie ad una seducente armonia chitarristica che lascia successivamente spazio ad un break di chiara matrice death per poi abbandonarsi a quelle atmosfere dolenti che, con la loro presenza, caratterizzano l’intero lavoro.
Celestial costituisce l’episodio più acustico del lotto, mentre Nulla Religio, Solum Veritas chiude l’album così come era iniziato, all’insegna di una rabbiosa malinconia tratteggiata da testi pervasi da una sconfinata amarezza .
La Solitude Prod. (qui tramite la sublabel BadMoodMan) continua a proporci band relativamente nuove ma tutte di elevato livello e gli In Loving Memory non fanno eccezione, ottenendo il nostro un plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Tracklist:
1. Even a God Can Die
2. Skilled Nihilism
3. Adversus Pugna Tenebras
4. Negation of Life
5. November Cries
6. Shimmering Divinity
7. Through a Raindrop
8. Celestial
9. Nulla Religio, Solum Veritas

Line-up:
Raúl Arauzo – Bass
Jorge Araiz – Guitars
Juanma Blanco – Vocals, Guitars
Mauricio C. – Drums
Alberto O. – Keyboards

IN LOVING MEMORY – Facebook

The Wounded Kings – In The Chapel Of The Black Hand

The Wounded Kings con il terzo album della carriera esprimono il massimo delle loro potenzialità realizzando un lavoro che li inserisce di diritto tra le band di riferimento del doom metal.

The Wounded Kings con il terzo album della carriera esprimono il massimo delle loro potenzialità realizzando un lavoro che li inserisce di diritto tra le band di riferimento del doom metal.

Il gruppo britannico , già autore dell’ottimo “The Shadow of Atlantis”, trae nuova linfa dal rivoluzionamento della line-up compiuto, suo malgrado, dal talentuoso polistrumentista Steve Mills; il cambiamento più rilevante riguarda l’avvicendamento tra una voce maschile, quella del co-fondatore della band, George Birch, ed una femminile, a cura di Sharie Neyland.
Una trasformazione certo non di agevole assimilazione al primo impatto, dato che il particolare timbro dell’ammaliante Sharie è quanto di più lontano possa esserci dalle vocals stentoree ed evocative del suo predecessore. In realtà, il salmodiare tutt’altro che rassicurante di quella che potrebbe essere sia una strega alle prese con un rito sabbatico sia una novella Cassandra nell’atto di pronunciare le proprie nefaste previsioni , diventa il vero valore aggiunto al tessuto sonoro creato da Mills.
Il doom proposto dai The Wounded Kings si può certamente definire di stampo tradizionale, con ampi riferimenti a quelle band che negli anni ’70 hanno arricchito la propria musica con elementi esoterici; ciò che rende unico questo lavoro è proprio la capacità di fondere le atmosfere del passato con un sound evoluto benché monolitico e, soprattutto, mai derivativo.
L’iniziale The Cult Of Souls viene introdotta da un Hammond che, in simbiosi con la voce della Neyland, ci accompagna nel suo inesorabile percorso alla scoperta di mondi atavici popolati da entità spaventose, mentre nel finale il brano viene caratterizzato da una irresistibile quanto conturbante melodia, con la chitarra solista che va a lambire sonorità di stampo floydiano.
The Gates Of Oblivion, dove la traccia precedente concedeva tenui spiragli di luce, stende invece un ulteriore velo di oscurità e rende ancora più opprimente e corrosiva l’atmosfera del disco.
Return Of The Sorcerer è un breve (se comparato agli altri tre brani che hanno una durata superiore ai 10 minuti) episodio strumentale che ha la funzione tutt’altro che marginale di introdurre degnamente la mastodontica title-track, brano che chiude il disco facendoci sprofondare definitivamente negli abissi della mente umana e delle sue paure ancestrali.
Un’opera, In the Chapel Of The Black Hand, che non potrà lasciare indifferenti coloro che apprezzano atmosfere tipicamente lovecraftiane trasportate in ambito musicale; la citazione del “solitario di Providence” non è casuale, provate a capovolgere la copertina : esaminando attentamente la scritta posta sulla fronte del teschio, si potrà leggere distintamente parte della famosa invocazione a Cthulhu (Ia! Ia! Cthulhu fhtagn).

“In his house at R’lyeh dead Cthulhu lies dreaming”…

Tracklist:
1. The Cult of Souls
2. Gates of Oblivion
3. Return of the Sorcerer
4. In the Chapel of the Black Hand

Line-up:
Steve Mills – Guitars, Hammond organ, Keyboards, Slide guitar
Sharie Neyland – Vocals
Alex Kearney – Guitars
Mike Heath – Drums
Jim Willumsen – Bass

Aeternal Seprium – Against Oblivion’s Shade

Una formazione che, mettendosi in gioco e lavorando intensamente dal vivo in tutti questi anni, ha raggiunto una cifra stilistica di livello ragguardevole ma non per questo priva di ulteriori margini di miglioramento

Dopo la mazzata impartita con i Black Propaganda, la Nadir ci propone una nuova interessante realtà nostrana.

Questa volta però, con gli Aeternal Seprium, ci allontaniamo dai lidi più estremi per prendere in esame sonorità decisamente prossime al metal classico.
Il monicker della band è un omaggio alle proprie radici che attingono appunto al  Seprio, una delle aree a maggiore densità di testimonianze storico-artistiche del territorio varesino.
Nati sotto il nome di Black Shadows nel 1999, i nostri nei primi anni di vita si affacciano sulle scene come cover band proponendo brani dei gruppi appartenenti alla NWOBHM, ma a metà dello scorso decennio si trovano ad un bivio : continuare a riproporre all’infinito gli stessi brani negli anni a venire, garantendosi l’attenzione di promoter e gestori di locali poco propensi al rischio, oppure provare a percorrere una strada meno sicura ma più stimolante come quella di comporre e proporre musica propria ?
E’ meritoriamente la seconda opzione a prevalere e gli Aeternal Seprium nel 2007 sono pronti per pubblicare il loro primo demo, “A Whisper From Shadows”, che viene accolto favorevolmente dagli addetti ai lavori.
Nel 2010 esce un nuovo demo, “The Divine Breath Of Our Land”, che come il precedente ottiene unanimi consensi e mostra una band già pronta per pubblicare il primo full-length.
Ed eccoci arrivati ad oggi, con Against Oblivion’s Shade , che costituisce una summa di quanto prodotto dai varesini negli ultimi 4 anni , riprendendo tutti i brani già presenti nei demo con l’aggiunta di 3 inediti.
Pur mantenendo il proprio background influenzato da Iron Maiden e Manowar, la band ha sviluppato uno stile personale che può richiamare alla mente certo heavy metal epico in stile Warlord, senza dimenticare quanto già fatto sul suolo italico dai Domine (in particolare per la voce di Stefano che ricorda molto da vicino quella di Morby) e dai Doomsword, quando i nostri passano a brani dai ritmi più compassati.
Dal punto di vista lirico risulta invece apprezzabile la volontà di non omologarsi a tematiche fantasy o legate alla mitologia nordica, scegliendo di raccontare le vicende legate alla propria terra e le gesta di personaggi che hanno caratterizzato la storia delle popolazioni del nord Italia.
Sotto l’aspetto musicale il disco mantiene un’apprezzabile omogeneità stilistica nonostante i brani più datati (quelli del 2007) possano risultare in certi passaggi un po’ slegati con gli altri e meno originali rispetto al contesto.
Le composizioni più recenti peraltro dimostrano un freschezza ed una varietà eccellente come per esempio l’iniziale The Man Among Two Worlds, con il suo intro epicheggiante che fa da subito intuire il trademark stilistico della band, o In The Sign Of Brenno, che con il suo riff cadenzato e doomeggiante, risulterà essere uno dei picchi qualitativi dell’album.
A differenza di quanto accade in molte occasioni, quando i musicisti sparano le migliori cartucce all’inizio provocando con il resto del lavoro un inevitabile calo di attenzione nell’ascoltatore, gli Aeternal Seprium ci riservano nel finale due brani piacevolmente sorprendenti : L’Eresiarca , il brano più lento del lotto, cantato interamente in italiano, con una pregevole prestazione di Stefano, il quale dimostra di possedere una voce versatile ed evocativa che riesce a valorizzare al massimo quando non si fa prendere da tentazioni “kiskeiane”, e The Oak And The Cross che, anche grazie all’apporto di tre componenti dei Furor Gallico, acquisisce un flavour folkeggiante che apre un altro fronte molto interessante per la band.
Il disco si chiude con l’anthem Under The Flag Of Seprium che ci lascia l’impressione di una formazione che, mettendosi in gioco e lavorando intensamente dal vivo in tutti questi anni, ha raggiunto una cifra stilistica di livello ragguardevole ma non per questo priva di ulteriori margini di miglioramento, soprattutto alla luce della maturata consapevolezza di avere alle spalle un’etichetta in grado di fornire il giusto supporto.

Tracklist:
1. The Man Among Two Worlds
2. Vainglory
3. Sailing Like the Gods of the Sea
4. Soliloquy of the Sentenced
5. In Sign of Brenno
6. Victimula’s Stone
7. Solstice of Burning Souls
8. L’eresiarca
9. The Oak and the Cross
10. Under Flag of Seprium

Line-up:
Santino Talarico – Bass
Matteo Tommasini- Drums
Adriano Colombo- Guitars
Leonardo “UNTO” Filace – Guitars
Stefano Silvestrini- Vocals

Mare Infinitum – Sea Of Infinity

I Mare Infinitum riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani.

In questi ultimi anni la Russia si sta rivelando un’autentica fucina di band dedite alle forme di metal più plumbee e malinconiche, ovvero il doom nelle sue varianti death e funeral.

Questo movimento in costante evoluzione trova il suo naturale sbocco in un’etichetta autoctona come la Solitude Productions, che ha avuto il merito di inserire all’interno del proprio roster una serie di nomi che stanno contribuendo a riscrivere la storia del genere.
I Mare Infinitum sono alla loro prima uscita discografica ma certo non possono essere definiti dei debuttanti in quanto i due musicisti coinvolti nel progetto sono piuttosto noti nella scena dell’ex Unione Sovietica : Homer, polistrumentista ex-Who Dies In Siberian Slush ed il più noto A.K. iEzor batterista e cantante di Comatose Vigil e Abstract Spirit.
Inevitabilmente il genere proposto dai due non si discosta di molto da quanto prodotto dalle band appena menzionate, ma è comunque apprezzabile il tentativo di inserire momenti di discontinuità rispetto agli schemi compositivi consueti, grazie alle frequenti aperture melodiche e all’utilizzo di diversi ospiti alle clean vocals in alternanza al canonico growl.
Il doom in fondo non è genere che si presti troppo a voli pindarici da parte dei suoi interpreti e per certi versi la fedeltà ai modelli consolidati costituisce garanzia di fedeltà e dedizione totale alla causa della “musica del destino”.
Il metodo ideale per assaporare le sonorità funeree ed allo stesso tempo emozionanti di questo lavoro è quello di approcciarlo con la giusta predisposizione mentale, rinunciando a ricercare chissà quali novità stilistiche o compositive.
I Mare Infinitum assolvono pienamente alla loro missione con un album ricco di momenti delicatamente malinconici, sia con brani virati verso il death/doom, come l’iniziale In Absence We Dwell o in Beholding The Unseen, così come in parte della strumentale November Euphoria, con i suoi passaggi prossimi al quella gemma preziosa che e’ stata “They Die” degli Anathema, sia con due episodi decisamente più orientati al funeral come In The Name Of My Sin e la superlativa Sea Of Infinity.
A chi potrebbe aver da obiettare nei confronti di un giudizio del tutto positivo, rimarcando la scarsa originalità della proposta, ricordo che ci sono band come Motorhead e AC/DC, tanto per citare due nomi “qualsiasi”, che propongono fondamentalmente lo stesso disco da 20 anni eppure nessuno osa batter ciglio in nome di una effettiva e consolidata integrità stilistica; la realtà è che, se un album è bello, lo è punto e basta.
Se in questo o quel passaggio i Mare Infinitum possono ricordare i Comatose Vigil piuttosto che gli Ea, ma riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani, significa che l’obiettivo è stato raggiunto pienamente .
Io non mi sono ancora stufato di ascoltare Sea Of Infinity, provate a scoprire se vi farà lo stesso effetto…

Tracklist:
1. In Absence We Dwell
2. Sea of Infinity
3. Beholding the Unseen
4. November Euphoria
5. In the Name of My Sin

Line-up:
Homer – Vocals, Drums
A.K. iEzor – Guitars, Bass, Programming, Lyrics

Blut Aus Nord – 777:The Desanctification

L’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Devo ammettere che in passato band come i Deathspell Omega o gli stessi Blut Aus Nord, pur non essendomi affatto sgradite, non sono mai riuscite a far breccia nelle mie preferenze, forse perché quella particolare commistione tra black e industrial mi risultava in qualche indigesta.

Ma con questo 777 : The Desanctification i Blut Aus Nord mi fanno ampiamente ricredere proprio perché, pur mantenendo gli aspetti emozionali del black, se ne staccano quasi del tutto dal punto di vista compositivo per approdare a sonorità industrial arricchite da una personalissima impronta che spazia tra momenti ipnotici ed altri dalle sfumature rituali, per arrivare alle atmosfere claustrofobiche poste in chiusura del disco. Il risultato è un qualcosa che travalica la concezione stessa di genere musicale riuscendo nell’intento dichiarato di Vindsval (cantante, chitarrista e compositore) ovvero “ disumanizzare la nostra musica per non influenzare quello che ci auguriamo sia un viaggio occulto e mistico per l’ascoltatore”. A tal fine la band francese limita al massimo gli inserti vocali, lasciandoli spesso in secondo piano o filtrandoli, mettendo sempre in primo piano le proprie sonorità destabilizzanti che al primo impatto ti respingono per poi attrarti ed inghiottirti in maniera ineluttabile. Quest’album costituisce il secondo atto della trilogia iniziata con “777 : Sect(s)” (e che troverà il suo epilogo con l’uscita , probabilmente a fine 2012, di “777 : Cosmosophy”) che segna un progressivo distacco dal black metal nella sua accezione più tradizionale; ognuna di queste opere è costituita da brani intitolati “Epitome” contraddistinti da una numerazione progressiva. In The Desanctification ciascuna Epitome è una autentica opera d’arte, a partire dalle iniziali VII e VIII con le loro dissonanze graziate da improvvise aperture melodiche da considerarsi alla stregua di oasi nel bel mezzo di un’infinita distesa desertica, mentre IX è un breve intermezzo dagli inattesi riflessi orientaleggianti. Epitome X riprende impietosa con la sua incessante opera destrutturante ed è seguita da una XI che assume un andamento vagamente psichedelico, con influssi riconducibili ai Killing Joke, ma sono solo barlumi residui di quell’umanità che viene spazzata via senza alcuna misericordia. Epitome XII è un’esperienza sonora straordinaria, con una melodia che si ripete fino a portare l’ascoltatore in un piacevole stato di trance dal quale viene bruscamente ridestato con l’arrestarsi del brano per essere nuovamente scaraventato nei baratri della follia con la conclusiva XIII. Non sappiamo se a fine ascolto l’effetto catartico sia garantito, di certo i Blut Aus Nord con questo disco ci offrono un dono prezioso, quello di essere testimoni di un’opera che si colloca qualche anno-luce avanti rispetto alla quasi totalità delle uscite in ambito estremo. 777 : The Desanctification è un capolavoro che, se ascoltato al momento dell’uscita, avrebbe concorso con “The Book Of Kings” dei Mournful Congregation per la vetta del mio “best of 2011”; l’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Tracklist:
1. Epitome VII
2. Epitome VIII
3. Epitome IX
4. Epitome X
5. Epitome XI
6. Epitome XII
7. Epitome XIII

Line-up: Vindsval – All instruments, Vocals, Songwriting

BLUT AUS NORD – Facebookl

Opera IX – Strix Maledictae In Aternum

Il giudizio finale è positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di “Strix Maledictae In Aeternum” viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Ritornano dopo ben 7 anni gli Opera IX , una delle band storiche della scena black metal tricolore.

Diciamo subito che non ci dobbiamo attendere grandi novità da chi ha fatto della propria integrità stilistica una sorta di bandiera; la proposta risulta oscura e aggressiva, mentre le liriche vertono su tematiche care al gruppo quali stregoneria e occultismo. L’album presenta una serie di brani che colpiscono nel segno, a partire da 1313 , nella quale spiccano pregevoli parti di tastiera, proseguendo con l’altrettanto valida Dead Tree Ballad per arrivare al suo picco con Mandragora, contraddistinta da un impatto leggermente più immediato rispetto al resto del lavoro (e non è un caso che sia il pezzo prescelto per la realizzazione di un video, peraltro molto interessante sotto diversi aspetti …) e la successiva Eyes In The Well con il suo carattere epico. Da segnalare a livello lirico l’uso efficace dell’italiano negli ultimi due brani, abitudine che sta prendendo sempre più piede in ambito estremo, nonostante la nostra lingua ponga maggiori ostacoli dal punto di vista della metrica rispetto all’inglese. Nel suo complesso il platter della band piemontese viene in parte penalizzato sia dalla sua notevole durata sia dalla prevalenza dei mid –tempo che rendono alla lunga l’ascolto meno fluido . Ciò non impedisce agli Opera IX di riuscire nell’intento di condurci per mano nell’oscurità di epoche dominate dalla superstizione e da credenze arcaiche, nelle quali non occorreva molto affinché le maldicenze si trasformassero in accuse e le donne venissero additate come streghe e quindi responsabili di qualsiasi evento avverso. Il giudizio finale è dunque più che positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di Strix Maledictae In Aeternum viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Tracklist:
1. Strix the Prologue (Intro)
2. 1313 (Eradicate the False Idols)
3. Dead Tree Ballad
4. Vox in Rama (Part 1)
5. Vox in Rama (Part 2)
6. Mandragora
7. Eyes in the Well
8. Earth and Fire
9. Ecate – The Ritual (Intro)
10. Ecate
11. Nemus Tempora Maleficarum
12. Historia Nocturna

Line-up: Ossian – Guitars
Vlad – Bass
Dalamar – Drums
M. – Vocals, Guitars (rhythm)

NunFuckRitual – In Bondage To The Serpent

Questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore

I progetti paralleli dei musicisti norvegesi stanno fornendo frutti ben più prelibati rispetto alle band originarie.

Così come per i So Much For Nothing, qui trattati recentemente, pure in questa circostanza l’album si rivela un’autentica perla di arte nera. L’idea del polistrumentista e compositore Teloch (Nnidingr) e del vocalist Espen Hangard risale al 2006, ma è solo tre anni dopo che assume una struttura stabile con l’ingresso in formazione del drummer Andreas Jonsson e soprattutto di un autentico mito della scena estrema ovvero il bassista statunitense Dan Lilker, già nella prima incarnazione degli Anthrax, poi con i Nuclear Assault ed attualmente alle prese con i risorti Brutal Truth. Completata la line-up viene inciso il lavoro d’esordio che vede la luce però solo due anni dopo grazie alla lungimiranza della Debemur Morti. Insomma … “vede la luce” forse non è il modo più appropriato per descrivere l’uscita di questo disco, qui regna un’oscurità assoluta, originata da atmosfere plumbee sospese tra sonorità vicine al black old-school ed ai ritmi cadenzati che spesso confluiscono in una sorta di doom malato e perverso. I NunFuckRitual, fin dal monicker adottato, non si pongono certo scrupoli con i loro testi nel colpire i valori ed i postulati della cristianità, scelta sulla quale si può essere più o meno d’accordo, ma fedele a quelli che sono i dettami lirici del genere fin dalla sue origini. Non dimentichiamo che questa avversione verso le religioni monoteiste ha un fondamento storico che risale al X secolo d.c. quando, in Scandinavia, i templi pagani vennero abbattuti ed in loro vece vennero costruite chiese cristiane. Ma questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore, contrassegnato da un mid-tempo strisciante che accomuna l’intera opera e che ci avvolge nelle sue spire come il serpente citato nel titolo. Fare una disamina dei singoli brani diviene un esercizio superfluo, dato che il disco scorre come se fosse un corpo unico concedendoci rari momenti di tregua sotto forma di passaggi ambient e fornendo l’illusoria sensazione di trovare finalmente dell’aria respirabile, prima di riscoprirci definitivamente immersi nei miasmi infernali creati da Teloch e co…

Tracklist:
1. Theotokos
2. Komodo Dragon, Mother Queen
3. Christotokos
4. Cursed Virgin, Pregnant Whore
5. Parthenogen
6. In Bondage to the Serpent

Line-up:
Dan Lilker – Bass Espen
T. Hangård – Vocals, Keyboards, Effects
Teloch – Guitars
Andreas Jonsson – Drums

Your Tomorrow Alone – Ordinary Lives

Ci troviamo certamente di fronte a un buon esordio che merita la dovuta considerazione da parte di chi predilige musica dai toni cupi e malinconici.

Una nuova realtà si affaccia nella già prolifica scena gothic-doom italiana : gli Your Tomorrow Alone.

La band salernitana si forma nel 2009 per volere del chitarrista Marco Priore e del cantante Eugenio Mucio; assestata la line-up, dopo diversi avvicendamenti viene pubblicato nel 2010 un demo che ottiene immediati riscontri favorevoli.
Nel 2011 la My Kingdom aggiunge al suo roster i propri conterranei consentendo loro di presentarsi al debutto sulla lunga distanza con questo Ordinary Lives (in uscita in questi giorni).
Come riportato nella bio della band, le coordinate stilistiche vanno ricercate ovviamente nella sacra triade del genere, Paradise Lost , Anathema e My Dying Bride, con netta prevalenza per i primi, senza però dimenticare un nome rilevante in campo nazionale come i Novembre.
Il sestetto campano si muove pertanto in questo ambito esibendo la caratteristica contrapposizione tra armonie malinconiche e partiture più robuste sfruttando al meglio la presenza in line-up di due cantanti dal diverso timbro vocale.
Il risultato è un album di grande valore, contrassegnato da momenti di considerevole impatto come l’opener Renaissance e One Last Breath, nelle quali proprio l’ottimo bilanciamento tra il growl di Eugenio e la voce pulita di Giovanni ricorda un’opera sottovalutata come “Shades Of Sorrow” dei disciolti Whispering Gallery, il trittico Praise For Nothing, The Essence Of Gloom e Guilty, con il pregevole lavoro chitarristico ispirato da Greg Mackintosh da parte di Marco, nonché l’intensa Agony, dal mood più darkeggiante. Anche i brani dalle atmosfere più intimiste e cangianti come Bursting Hope e In Silence si mantengono su un buon livello anche se per le loro caratteristiche peculiari riescono ad essere assimilati pienamente solo dopo diversi ascolti .
E’ evidente che questo disco farà la gioia di coloro che sono cresciuti ascoltando autentiche pietre miliari quali “Shades Of God”, “Icon” o “Draconian Times”, senza che per questo la proposta degli Your Tomorrow Alone possa essere definita una calligrafica riproduzione delle sonorità prodotte dalla seminale band di Halifax, anche perché il tutto viene opportunamente miscelato con atmosfere più rarefatte, che sono il tratto caratteristico della scuola gothic-doom italiana, rendendo in questo modo il lavoro, se non originale, sicuramente dotato di una propria personalità.
Tirando le somme ci troviamo certamente di fronte a un buon esordio che merita la dovuta considerazione da parte di chi predilige musica dai toni cupi e malinconici.

Tracklist:
1. Renaissance
2. Praise for Nothing
3. The Essence of Gloom
4. Guilty
5. Bursting Hope
6. Far From the Sight
7. One Last Breath
8. Agony (praeludium)
9. In Silence

Line-up:
Gianpiero Sica – Bass
Daniele Ippolito – Drums
Marco Priore – Guitars (lead)
Giovanni Costabile – Keyboards
Giovanni Sorgente – Vocals (clean)
Eugenio Mucio – Vocals