Stille Volk – Milharis

L’ascolto del disco ci porta lontano, le canzoni sono come favole per adulti, ma anche per tutte le età, la musica si fa racconto e mito descrivendo un archetipo creato da una cultura che non è morta e della quale bisognerebbe andare molto orgogliosi.

Settimo disco per i francesi Stille Volk, un gruppo che parte dal neofolk per andare molto lontano, intersecando vari generi, riuscendo ad interessare ascoltatori provenienti da molti generi diversi.

Il quartetto celebra i venticinque anni di onorata attività, sempre dalle parti dell’eccellenza musicale e questo disco si spinge ancora oltre. Come argomento in questo lavoro si parla dei miti delle montagne pirenaiche, antichissimo punto di incontro di varie culture e teatro di molti accadimenti. Dire Pirenei significa indicare un’area molto estesa e dalle molte peculiarità, di cui gli Stille Volk fanno rivivere le particolari atmosfere. Si musica la vicenda di Milharis, un patriarca quasi millenario dei Pirenei, un archetipo per indicare l’arrivo della prima neve e la venuta del cristianesimo in un’area fortemente pagana. La musica di Milharis è qualcosa di mistico ed ancestrale, la summa di tutto ciò che gli Stille Volk hanno fatto in questi venticinque anni di carriera, o meglio sarebbe a dire di continua evoluzione. L’ascolto del disco ci porta lontano, le canzoni sono come favole per adulti, ma anche per tutte le età, la musica si fa racconto e mito descrivendo un archetipo creato da una cultura che non è morta e della quale bisognerebbe andare molto orgogliosi, che gli Stille Volk celebrano in maniera molto adeguata. Il gruppo francese ha sempre avuto difficoltà ad immedesimarsi nella scena neofolk, ed infatti propone qualcosa che va ben oltre questo genere, e soprattutto ha una visione storica e metastorica molto diversa rispetto a tanti gruppi attuali. Il neofolk è infatti un terreno molto scosceso, soprattutto sul versante politico, ma qui vige la totale assenza di qualsivoglia intento similare: gli Stille Volk sono un gruppo da interpretare alla sola luce della loro musica, che è ricchissima e splendida. Il medioevo qui viene sublimato attraverso uno studio molto attento, sia dal punto di vista musicale che da quello storico, per un risultato fra i migliori possibili. La ricchezza del loro suono permette ed invita a molteplici ascolti, e ogni nuovo passaggio regala qualcosa di nuovo e di affascinante. Un’altra tappa di un viaggio meraviglioso.

Tracklist
1.Sous la peau de la montagne
2.L’aurost lunaire
3.Incantation mystique
4.Le crépuscule du pâtre
5.La mòrt de Milharis
6.Dans un temps qui n’a pas d’histoire…
7.La grotte du jadis
8.Sacré dans la tourmente
9.Neige que versa le ciel noir…
10.Parmi les monts oubliés

Line-up
Lafforgue: chant, vielle à roue, flutes, cornemuse, cornamuse, chalémie, bombarde…
Roques: choeurs, nyckelharpa, mandoline, bouzouki, mandoloncelle, luth arabe, violon, guitares…
Sarg: choeurs, guitare, boudègue, caremère
Arexis: percussions, samples

STILLE VOLK – Facebook

Hexvessel – All Tree

All Tree, grazie alla sua forte matrice esoterica, ci fa toccare con mano delle cose che stanno morendo perché noi ci stiamo allontanando in maniera oramai irrimediabile dal nostro vero baricentro.

Tornano gli Hexvessel, uno dei gruppi più interessanti che abbiamo in Europa, e lo fanno con un disco struggente che riporta il progetto al neofolk.

La creatura finlandese, fondata da Mat “Kvohst” McNerney nel 2009, fa da sempre una musica esoterica, una fuga pressoché totale dalla modernità, con una approfondita ricerca nella tradizione e nell’esoterismo. Negli ultimi episodi Hexvessel si era allontanato dal neofolk e dal dark folk, per addentrarsi in maniera risoluta in territori più psichedelici, e nonostante molti seguaci del gruppo non lo avessero apprezzato la qualità era buona. Con questa ultima opera si torna a casa, trattando delle fiabe celtiche e di un mondo ben preciso che si colloca nel nord Europa, anche se ci sono varie scorribande verso sud come Journey To Carnac, che parla della spettacolare e per noi enigmatica località della Bretagna, dove vi sono moltissimi menhir e dolmen, silenti testimoni della nostra antichità. All Tree è un gran bel disco di folk tenebroso, affascinante, suonato molto bene e con una splendida attitudine. Il ritorno al folk, che comunque non era mai stato completamente bandito dal progetto, è attestato anche nella ripresa della collaborazione con il musicista e discografico inglese Andrew McIvor, con cui in pratica era cominciato tutto con il primo disco Dawnbearer. L’album è come un sogno, una frequenza che proviene direttamente dall’antichità, un respirare un’aria antica prettamente celtica, una cultura imbevuta di natura e di antichi contatti con altre dimensioni. Qui tutto ciò è reso molto bene, anche grazie all’adeguato uso di molti strumenti, che giostrano in maniera sapiente attraverso una composizione ben studiata. Ogni particolare è curato e nulla è lasciato al caso, ed il risultato è un disco fra i migliori nel genere neofolk e dark folk degli ultimi anni. Oltre a sognare e a viaggiare in territori lontani All Tree, grazie alla sua forte matrice esoterica, ci fa toccare con mano delle cose che stanno morendo perché noi ci stiamo allontanando in maniera oramai irrimediabile dal nostro vero baricentro. Dischi come questo ribilanciano il tutto, riportandoci dolcezza, bellezza e cose preziose.

Tracklist
1 Blessing
2 Son Of The Sky
3 Old Tree
4 Changeling
5 Ancient Astronaut
6 Visions Of A.O.S.
7 Sylvan Sign
8 Wilderness Spirit
9 Otherworld Envoy
10 Birthmark
11 Journey To Carnac
12 Liminal Night
13 Closing Circles

HEXVESSEL – Facebook

Albireon – La Bellezza Di Un Naufragio 1998-2018

Madrigali, cose antiche e belle che richiedono di ascoltare e soffermarsi, di cercare dentro e fuori dal proprio sé, o forse solo di chiudere gli occhi e di abbandonarsi ad una poesia che apre il cuore e porta al naufragio.

Disco di canzoni della loro carriera riarrangiati, riregistrati e reinterpretati per un gruppo italiano fra i maggiori della scena sperimentale neo folk mondiale, gli Albireon.

Nato nell’ormai lontano 1998, il gruppo ha saputo toccare con la sua musica eterea, molti cuori, ha attraversato molti mari e ora compie questo bellissimo naufragio. La musica degli Albireon è un qualcosa che ve ben oltre l’accezione comune di musica, è un viaggio all’interno del proprio cuore, un ricercare delle cose antiche e forse sopite ma ancora vive. Albireon è un sogno ad occhi aperti, un modo altro di fare poesia, i testi sono quasi tutti dei capolavori di bellezza della lingua italiana, accompagnati da una musica antica, eppure non vi capiterà spesso di ascoltare qualcosa di così moderno e fresco. Le loro visioni nascono da loro stessi ma anche dalla lettura di pagine o dalla visione di film che potremmo definire immortali, è uno sguardo verso le cose piccole della vita, uno zoom sui particolari che ti fa cogliere l’insieme. Per questo importante anniversario il gruppo ha chiamato ospiti importanti: in Celebrazione di Un Oblio canta Mauro Berchi, membro dei Canaan, dei Neronoia e capo della Eibon Records, una voce che arriva direttamente dalla fine del mondo. Oltre a lui troviamo Francesca Nicoli degli Ataraxia, Oliver dei Sonne Hagal, dei quali gli Albireon fanno un’incredibile cover, Spighe, Bard degli Oberon, Tony Wakeford, deus ex machina dei Sol Invictus, Gianni Pedretti dei Colloquio, Corrado Videtta dei mai abbastanza celebrati Argine e Daniele Landolfi degli Instant Lakes. Insomma il meglio di una scena, quella neo folk, che in Italia ha radici importanti e ha regalato momenti immensi e bellissimi, fortunatamente relegati in una nicchia di persone che ama il bello (ma conosce e vive anche il brutto) e che sa coglierlo anche e soprattutto nelle piccole cose: una scena che crea cose fantastiche ma che ricerca l’oblio in continua contraddizione. Chi ha scoperto e apprezza gli Albireon non torna indietro, perché è così forte e abbagliante la delicata bellezza delle loro canzoni che non se ne può fare a meno. Questo lavoro è una celebrazione ma al contempo un rielaborare la propria tradizione, e le loro canzoni acquistano, se possibile, un bellezza maggiore. Madrigali, cose antiche e belle che richiedono di ascoltare e soffermarsi, di cercare dentro e fuori dal proprio sé, o forse solo di chiudere gli occhi e di abbandonarsi ad una poesia che apre il cuore e porta al naufragio.
E sono bellissime e molto esplicative le loro parole :
“ Abbiamo imparato che non c è un traguardo da raggiungere, nessun posto speciale da conquistare, l’unica verità che abbiamo invece scoperto nei nostri 20 anni di esistenza come band è che non esiste destinazione, ma solo il viaggio stesso… Un viaggio che valeva la pena compiere e che ci ha regalato qualcosa che ha definito per sempre le nostre vite e con noi quelle di chi ha amato la nostra musica, offrendoci un sorriso o una lacrima durante i nostri concerti, o ha condiviso le nostre emozioni comprando i nostri dischi. Non siamo altro che una nave perduta su una spiaggia lontana, un manipolo di eroi dimenticati da tempo, un paio di canzoni che potrete canticchiare quando avrete voglia di qualcosa di visionario e malinconico… ma è stato un naufragio che non ci pentiremo mai di aver vissuto, così come questa ricerca di noi stessi, questo oblio che lentamente ci avvolge ”

Tracklist
1 Canto Del Vento Lontano 2018
2 Nel Nido Dei Ragni Funamboli – Remix
3 Celebrazione Di Un Oblio feat. Mauro Berchi
4 Gli Aironi – Remix 2018
5 Snowflake 2018 Feat. Tony Wakeford
6 Chaosinsomnia
7 Ninèta 2018 Feat. Francesca Nicoli
8 Liù Dorme – Remix 2018
9 Imbrunire 2018 – Feat. Gianni Pedretti
10 Mr. Nightbird Hates Blueberries 2018
11 Il Deserto Dei Tartari 2018 – Feat. Corrado Videtta And Daniele Landolfi
12 Like Stars In Winter Rapture – Remix 2018
13 Ala Di Falena 2018 – Feat. Sonne Hagal
14 Inquietudine – Remix 2018
15 Through Winter Fires 2018 – Medieval Mix Feat . Bard Oberon
16 Ballata Delle Rovine – Remix 2018
17 Spighe (Sonne Hagal Cover)
18 Falene

Line-up
Davide Borghi – Vocals, Guitar, Lyrics
Carlo Baja-Guarienti – Keyboards, Piano, Flute
Stefano Romagnoli – Programming, Samples, Recording
Elia Albertini – Bass Guitar
Lorenzo Borghi – Drums

ALBIREON – Facebook

Oberon – Aeon Chaser

La grandezza di Oberon risiede nel suo trattare argomenti di grande profondità, rivestendoli di una struttura musicale sicuramente ricercata ma nel contempo alla portata di un pubblico più ampio, proprio in virtù idi un afflato melodico che costituisce l’asse portante di un sound sempre ricco ed originale.

Dopo qualche anno è un vero piacere ritrovare Oberon, il quale mi incantò nel 2014 con il suo Dream Awakening, album che ne segnava il ritorno sulle scene dopo un lunghissimo silenzio.

Il musicista norvegese oggi si ripresenta dopo aver reso il suo antico progetto solista una band vera e propria, ed il risultato che ne scaturisce è un lavoro che se, da un lato, smarrisce in parte quella magia che ne ammantava il predecessore, d’altro canto acquista uno spessore più rock, con diverse divagazioni nel gothic di matrice novantiana, ovviamente in una versione riveduta, corretta ed arricchita dal talento di Bard Titlestad.
Quella che ne consegue è sempre e comunque una prova di livello sublime, grazie ad un lotto di brani affascinanti, vari e ricchi di intuizioni melodiche nei momenti più soffusi, coinvolgenti allorché il passo assume ritmi più spediti.
Inutile dire che almeno per gusto personale la preferenza va a canzoni di cristallina bellezza come To Live To Die, Worlds Apart, Lost Souls, in cui elementi neo folk si mescolano sapientemente a pulsioni cantautorali dalle reminiscenze buckleyane, andando a comporre un magnifico quadro.
Che dire poi della splendida Laniakea, in odore di progressive con il suo fluido lavoro chitarristico, della travolgente Walk In Twilight, della gotica perfezione di The Secret Fire, altri punti di forza di un album ricco dal punto di vista musicale e come sempre profondo anche a livello lirico, visto che per Bard la musica è sempre stata anche (se non soprattutto) il veicolo per esprimere le proprie elaborate convinzioni filosofiche.
Nelle note di accompagnamento si afferma che Oberon vede l’arte come un progetto sciamanico, ma la cosa che più sorprende è che tale obiettivo venga perseguito tramite una forma musicale tutt’altro che ostica o fatta da interminabili composizioni ritualistiche; la grandezza di Bard risiede nel suo trattare argomenti di grande profondità, rivestendoli di una struttura musicale sicuramente ricercata ma nel contempo alla portata di un pubblico più ampio, proprio in virtù idi un afflato melodico che costituisce l’asse portante di un sound sempre ricco ed originale.

Tracklist:
1.Omega
2.Walk In Twilight
3.To Live To Die
4.Black Aura
5.The Secret Fire
6.Worlds Apart
7.Laniakea
8.Surrender
9.Lost Souls
10.Brother Of The Order
11.Magus Of The Dunes

Line-up:
Bard Oberon: vocals, guitars, bass, keyboards, percussion
James F.: guitars
Jan Petter Sketting: guitars, percussion
Tory J. Raugstad: drums

OBERON – Facebook

Selvans – Faunalia

Tutte le canzoni sono magnifici affreschi tutti diversi fra loro, attraverso i quali si viene trasportati in una dimensione dove le nostre tradizioni sono ancora vive, anche quelle più crudeli e demoniache, perché noi siamo degli animali.

La natura, soprattutto quella animale, è la nostra vera casa, ed il cristianesimo ha rotto questo stretto legame, che si è totalmente dissolto con la nostra epoca giustamente chiamata antropocene.

Il nuovo lavoro degli italiani Selvans, chiamato Faunalia, è qui per ricordarci tutto ciò e riportarci sulla retta via: trattasi di un’ulteriore evoluzione del loro avanguardistico black metal, che con questo disco travalica i confini del genere. Infatti l’azzeccato sottotitolo è A Dark Italian Opus, ed infatti è un nero viaggio nel nostro immaginario, nei nostri boschi, nelle nostre tradizioni popolari, con i nostri animali che ci ricordano chi siamo in realtà, ed è qualcosa di ben diverso da questo sentimento moderno che imperversa ovunque. Il duo usa il black metal come codice di partenza per andare a creare un suono che sfocia, in alcuni momenti, nel neo folk e nella musica tenebrosa. Il suono dei Selvans è sempre cangiante ed interessante, vi troviamo il black metal italiano della nuova specie, momenti più classici sottolineati da un organo importante e sempre puntuale, e poi ci sono forti inserti di neo folk con l’introduzione di strumenti tipici. Non c’è posto per la confusione in questo progetto, la direzione è sempre in avanti, il disco è di alto livello e rientra pienamente nella nuova stirpe del black italiano, dove Donwfall Of Nur, Progenie Terrestre Pura, Earth And Pillars ed altri stanno facendo qualcosa di davvero importante, trasmutando il black metal in qualcos’altro, in pieno spirito alchemico. Ascoltando Faunalia si può addirittura parlare di progressive, perché le canzoni sono concepite in maniera non circolare, ma è un continuo avanzare verso nuovi territori. Tutte le canzoni sono magnifici affreschi tutti diversi fra loro, attraverso i quali si viene trasportati in una dimensione dove le nostre tradizioni sono ancora vive, anche quelle più crudeli e demoniache, perché noi siamo degli animali.

Tracklist
1. Ad Malum Finem
2.Notturno Peregrinar
3.Anna Perenna
4.Magna Mater Maior Mons
5.Phersu
6.Requiem Aprutii

Line-up
Haruspex – vocals, keyboards, traditional instruments
Fulguriator – guitars, bass

SELVANS – Facebook

Ataraxia – Synchronicity Embraced

Quella degli Ataraxia è musica senza vincoli spazio-temporali e, anche se può talvolta offrire l’ingannevole impressione di provenire da un remoto passato, è in realtà come sempre ricca di sfumature che ne rendono l’ambientazione saldamente attuale.

Quando ci viene concessa la possibilità di poter ascoltare un album degli Ataraxia, non si può fare a meno di pensare quanto la nostra vita sarebbe misera se privata di quella forma d’arte suprema che è la musica.

Un disco come Synchronicity Embraced rappresenta quel prodigio che si ripete in maniera puntuale in corrispondenza di ogni uscita del gruppo emiliano, vera e propria eccellenza del movimento musicale italiano, indipendentemente dalle suddivisioni di genere.
Quella degli Ataraxia è musica senza vincoli spazio-temporali e, anche se può talvolta offrire l’ingannevole impressione di provenire da un remoto passato, è in realtà come sempre ricca di sfumature che ne rendono l’ambientazione saldamente attuale.
Forse è proprio in questo aspetto che l’ensemble, guidato dalla voce di Francesca Nicoli e dal genio compositivo di Vittorio Vandelli, differisce da un’altra gemma sonora italica che si muove su territori contigui come la Camerata Mediolanense: infatti, benché i punti di contatto tra queste due magnifiche realtà non siano pochi, il gruppo lombardo sembra però più orientato ad una ricerca filologica che volge inevitabilmente lo sguardo all’indietro.
Gli Ataraxia aprono invece le loro ali in un volo che sovrasta ora il neo folk, ora la dark wave, lambisce contrafforti morriconiani per poi planare appoggiandosi sulle basi della più colta tradizione musicale tricolore.
Synchronicity Embraced è il regalo che musicisti di livello inarrivabile mettono a disposizione di chi voglia appropriarsene, godendo del contenuto poetico ed evocativo di un lavoro che incanta e sorprende ancora, perché l’ascolto di brani di irreale bellezza come Sikia, Chiron Quartz e la title track restituisce emozioni difficilmente riproducibili in altri ambiti.
Prendiamoci tutto il tempo che ci serve, in queste uggiose giornate autunnali, per elevare il nostro spirito al di sopra delle nefandezze terrene grazie all’ascolto di questo ultimo capolavoro degli Ataraxia: un’occasione che si presenta di rado e che, a maggior ragione, non va assolutamente sprecata.

Tracklist:
1.Oenoe
2.Sikia
3.Ieros
4.Prayer Of The Archangel
5.Rose Of The Wild Forces
6.Chiron Quartz
7. La Vista Del Bardo
8.Synchronicity Embraced

Line-up:
Francesca Nicoli– vocals
Vittorio Vandelli – Electric, classical and acoustic guitars, bass guitar, back vocals
Giovanni Pagliari – Keyboards, piano, back vocals
Riccardo Spaggiari – drums
Totem Bara – cello

ATARAXIA – Facebook

King Dude – Music To Make War To

Music To Make War To è un disco dalla musica potentissima, americana al cento per cento, dove si incrociano neo folk, in misura però minore rispetto ai dischi precedenti, american folk new wave, rock tout court e musiche da fine del mondo.

Non ci può essere pace, la quiete arriva solo in un dato momento e tutti sappiamo benissimo quale sia.

La natura dell’uomo porta guerra, abbiamo più anime in noi che a volte si ammazzano fra loro, e capire gli altri è a volte affascinante e a volte insopportabile ed impossibile. Ci sforziamo di credere che nella nostra storia personale e, più per esteso, nella storia del mondo ci sia un qualche disegno, una firma superiore od inferiore, ma in realtà c’è solo confusione e guerra per l’appunto. Quindi mettetevi alla finestra, guardate uno di quelli che potrebbe essere uno degli ultimi tramonti ed ascoltate King Dude, una delle miglior cose che siano capitate nella musica degli ultimi tempi. King Dude, al secolo TJ Cowgill, è una di quelle figure di frontiera che solo in America possono sbucare, una sintesi riuscitissima di una miriade di spinte e stili diversissimi fra loro che si sublimano in una scintilla luciferiana. Questo è il suo settimo disco, un’opera interamente incentrata sulla guerra in tutte le sue accezioni, ed è come al solito per King Dude un bellissimo romanzo messo in musica. Il newyorchese è un tentatore, un demiurgo che fa nascere storie e ce le fa vivere appieno, un Tom Waits senza gli eccessi e le stronzate tipiche di chi ha la patente di genio. Music To Make War To è un disco dalla musica potentissima, americana al cento per cento, dove si incrociano neo folk, in misura però minore rispetto ai dischi precedenti, american folk new wave, rock tout court e musiche da fine del mondo. Ogni canzone possiede una sua cifra stilistica, un obiettivo ed uno svolgimento, infatti questa è musica di livello superiore, sia per il discorso compositivo che per quello interpretativo, perché King Dude è un fantastico crooner maledetto che ci apre mondi altrimenti preclusi. Si potrebbe stare in sospeso ore ad ascoltare questa sua ultima opera, poiché la bellezza è talmente tanta che trasborda e ci inonda. King Dude è sempre stato un cantautore unico e fantastico, ma questo ultimo sforzo lo pone davvero ad un livello altissimo, mai toccato prima, e l’asticella era già molto in alto.
Tremendamente carnale, mortale e lussurioso, una vera guerra, la nostra condizione naturale.

Tracklist
1. Time To Go To War
2. Velvet Rope
3. Good And Bad
4. I Don’t Write Love Songs Anymore
5. Dead On The Chorus
6. Twin Brother Of Jesus
7. In The Garden
8. The Castle
9. Let It Burn
10. God Like Me

Line-up
TJ Cowgill
August Johnson
Tosten Larson
Lee Newman

KING DUDE – Facebook

Hekate – Totentanz

Un lavoro che mantiene un tasso qualitativo bel al di sopra della media, con il suo picco in un episodio magnifico come Lost And Broken, brano emblematico di una capacità di scrittura da parte degli Hekate che sicuramente non è stata corrotta dal tempo.

Hekate è uno dei nomi che gode di maggiore considerazione all’interno della scena neofolk tedesca, in virtù di una carriera iniziata nei primi anni novanta seppure non ricchissima di uscite.

Peraltro, ascoltando questo ultimo lavoro intitolato Totentanz, l’inserimento in questo filone musicale appare calzante soprattutto nella parte iniziale, in coincidenza con i brani cantati da Axel Menz, il quale conferisce al tutto un’aura solenne sia nei brani in inglese che in quelli in lingua madre.
Nella seconda metà dell’opera entra in scena invece la voce di Susanne Grosche, vocalist bravissima ed espressiva ma che, inevitabilmente, fa venire meno quell’alone algido e marziale che è da sempre la parte che più mi affascina in tale ambito.
Al di là del gusto personale, il lavoro non soffre però di evidenti cali qualitativi grazie a brani che brillano per pulizia esecutiva e ricerca di soluzioni sempre evolute.
Certamente il lungo rituale intitolato Embrace The Light si discosta parecchio dal minimalismo della successiva Desire e, tenendo conto dei già citati brani cantati da Menz, questa apparente disomogeneità può essere l’unica pecca, sia pure minima, in un’opera che sicuramente non delude dall’alto dell’esperienza dei musicisti coinvolti, anche se il progressivo spostarsi del sound verso pulsioni più sperimentali impedisce a Totentanz di raggiungere quell’eccellenza alla quale sembrava destinato dopo i primi tre quattro brani.
Il tutto va ricondotto comunque al mantenimento di un tasso qualitativo bel al di sopra della media, in un lavoro che trova il suo picco in un episodio magnifico come Lost And Broken, brano emblematico delle capacità di scrittura da parte degli Hekate che sicuramente non è stata corrotta dal tempo.

Tracklist:
01. The Old King
02. Lost And Broken
03. Mondnacht
04. Luzifer Morgenstern
05. Ascension Day
06. Totentanz
07. Spring Of Life
08. Embrace The Light
09. Desire
10. Am Meere

Line-up:
Axel Menz
Susanne Grosche

HEKATE – Facebook

Spiritual Front – Amour Braque

Amour Braque è il sesto episodio di una carriera discografica costellata di luci: la poetica del gruppo romano è pressoché unica, una commistione fra neo folk, rock per arrivare ad una formula davvero originale.

Torna uno dei migliori gruppi italiani, gli Spiritual Front da Roma.

Questo gruppo è molto apprezzato all’estero più che in Italia, ma potete rimediare ascoltando questa ultima prova. Il percorso musicale degli Spiritual Front è qualcosa in unico in Italia e non solo, una continua ricerca di tradurre in musica la potenza e la decadenza dei sentimenti umani. Ci si era lasciati cinque anni fa con la raccolta Open Wounds, che era una cesura nei confronti di quanto fatto fino a quel momento. Amour Braque è il sesto episodio di una carriera discografica costellata di luci, cosa notevole per un gruppo che ama il buio e le tenebre. Tutto cominciò nel 1999 per mano di Simone H. Salvatori, deus ex machina del gruppo e una delle figure più complete e singolari del panorama underground. Il gruppo suona in maniera splendide ballate per una gioventù nichilista, con un disco traboccante di sentimenti e di letti sfatti, sguardi assassini e coltelli che volano verso petti offesi dall’amore. La poetica del gruppo romano è pressoché unica, una commistione fra neo folk, rock per arrivare ad una formula davvero originale. Gli Spiritual Front tracciano percorsi gotici, luci ed ombre in narrazioni sempre interessanti, con un passato che è solo di chi lo ha vissuto, donne e amori che nono finiscono bene. Come in una notte romana troviamo violenza, sesso, amore, malinconia e soprattutto tanta vita, perché la vita è dolore, e dobbiamo combattere sul fronte dello spirito. Simone conduce amabilmente le danze, in un abbraccio sadomaso davanti ad una villa di vampiri, con dolcezza e forza come sempre. Stilisticamente il disco non si discosta dai precedenti, è forse più melodico e senza certe asperità di inizio carriera, sinceramente è difficile essere parziali con un gruppo che o si ama o si odia, ogni suo disco è comunque un’esperienza particolare e speciale, uno scendere all’inferno con Hellvis, ed è bellissimo. Da segnalare la presenza di grandi ospiti del calibro di King Dude e Matt Howden, fra gli altri.

Tracklist
1.Intro/Love’s Vision
2.Tenderness Through Violence
3.Disaffection
4.The Abyss Of Heaven
5.Children Of The Black Light
6.Pain Is Love
7.Beauty Of Decay
8.Devoted To You
9.This Past Was Only Mine
10.Battuage
11.An End Named Hope
12.The Man I’ve Become
13.Vladimir Central

Line-up
Simone “Hellvis” Salvatori: Vocals and acoustic Guitar
Andrea Freda: Drums
Riccardo Galati: Guitars

SPIRITUAL FRONT – Facebook

Ancient VVisdom – 33

Il suono è un qualcosa che non troverete da nessuna altra parte, bisogna completamente abbandonasi a questo piccolo grande capolavoro di musica occulta americana, che si sviluppa su più livelli e che potrebbe farvi vedere le cose in una prospettiva diversa, derivando direttamente dall’oscurità dei figli dei fiori, dalle pazze ore di Aleister Crowley e che continua a fluire tra le ere, non domata da duemila anni di cristianesimo.

Gli Ancient Vvisdom sono dei cantori dell’occulto, seguaci di Lucifero e del percorso della mano sinistra, adoratori della carnalità umana, ma soprattutto un grandissimo gruppo musicale.

Nato nel 2009 in quel di Austin in Texas, il trio si compone di Nathan Opposition, anche nei Vessel Of Light con Dan Lorenzo, suo fratello Michael e Connor Metsker. Nel 2010 incidono un dodici pollici split intitolato Inner Earth Inferno su Withdrawl Records con un certo Charles Manson, non so se lo conoscete. In seguito hanno pubblicato altri tre dischi dopo quel dodici pollici. La loro traiettoria musicale è un rock neo folk con innesti doom e gotici, dal forte retrogusto metal, e fortemente ispirato dalla tradizione del folk americano. In alcuni momenti ci si avvicina anche al death rock, ma è davvero difficile non privilegiare la matrice folk per definire il gruppo. 33 è un disco esoterico ed occulto, che parla di luce e tenebra molto diversamente dai soliti termini, e già dal titolo ha dei riferimenti ben precisi in tal senso. Qui, sia nella musica che nei testi c’è la carnalità umana, l’eterna lotta dell’umano per uscire fuori dai binari già determinati di un’esistenza priva di libero arbitrio. La musica è dolce e molto melanconica, ti culla nell’oscurità, adoratori di Lucifero ti sussurrano parole di conoscenza proibita e tutto il disco ha un sapore difficilmente dimenticabile. In 33 ci sono momenti di assoluto entusiasmo grazie ad un gruppo che è in stato di grazia, e che va ben oltre la musica. Il suono è un qualcosa che non troverete da nessuna altra parte, bisogna completamente abbandonasi a questo piccolo grande capolavoro di musica occulta americana, che si sviluppa su più livelli e che potrebbe farvi vedere le cose in una prospettiva diversa, derivando direttamente dall’oscurità dei figli dei fiori, dalle pazze ore di Aleister Crowley e che continua a fluire tra le ere, non domata da duemila anni di cristianesimo.

Tracklist
1. Ascending Eternally
2. Light of Lucifer
3. In the Name of Satan
4. True Will
5. The Infernal One
6. Summoning Eternal Light
7. Rise Fallen Angel
8. 33
9. The Great Beast
10. Lux
11. Dispelling Darkness

Line-up
Nathan “Opposition” Jochum – vocals, acoustic guitar, kick drum
Michael Jochum – guitar, back up vocals
Connor Metsker – bass

ANCIENT VVISDOM – Facebook

Neun Welten – The Sea I’m Diving

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore.

I tedeschi Neun Welten ritornano con il loro terzo full length, a ben otto anni di distanza dal precedente Destrunken.

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore attraverso la voce e la chitarra di Meinolf Müller, il violino ed il piano di Aline Deinert ed il violoncello, la chitarra ed il basso di David Zaubitzer: la profonda connessione con tematiche naturalistiche (in questo caso con l’acqua quale elemento cardine a livello lirico) è percepibile in ogni singolo passaggio in quanto, nonostante l’approdo ad una più tradizionale forma canzone, le modifiche intervenute nel “mondo” dei Neun Welten non hanno affatto stravolto quella che è sempre stata l’essenza primaria della loro forza compositiva.
Momenti di alto lirismo si vanno ad intrecciare, così, con altri nei quali la voce quasi sussurrata di Müller accarezza i timpani; indubbiamente la musica del trio è rivolta a chi vuole trovare un’oasi di pace, pur se virtuale, una sorta di immaginaria radura all’interno della foresta nella quale giacere e meditare, magari consentendo ad un pizzico di malinconia di illanguidire l‘animo.
Il sound dei Neun Welten è pura poesia, ed il gradito inserimento delle parti vocali rende ancor più tangibile tale aspetto facendo sì che canzoni splendide come Drowning, Nocturnal Rhymes, Human Fail e la più post rock oriented In Mourning siano solo i picchi di un’opera da godersi nella sua interezza e con la giusta predisposizione: l’arricchimento, sia morale che musicale, è assolutamente garantito …

Tracklist:
01. Intro
02. Drowning
03. The Dying Swan
04. Cursed
05. Nocturnal Rhymes
06. Floating Mind
07. Earth Vein
08. Lonesome October
09. Lorn
10. Human Fail
11. In Mourning

Line-up:
Aline Deinert : Violin, Piano
David Zaubitzer : Guitar, Cello, Bass
Meinolf Müller : Guitar, Vocals

NEUN WELTEN – Facebook

Mosaic – Old Man’s Wyntar

Supreme Thuringian Folklore …come spesso accade nell’underground si celano grandi realtà per “open-minded people”.

Spettacolare riedizione (la quarta in tre anni) da parte della tedesca Eisenwald dell’ep Old Man’s Wyntar dei Mosaic, che in realtà nascondono le gesta musicali di un solo artista, Inkantator Koura, accompagnato da altri musicisti (Leshiyas, Scorpios, Maya e altri).

Le tre precedenti edizioni non sono neanche lontanamente paragonabili alla magnificenza dell’ attuale packakging in A5 digibook con testi tedesco e inglese, con intervista all’artista e storia del concept; inoltre, per rendere imperdibile il tutto e’ stato aggiunto un terzo capitolo intitolato Joyful reminiscense and sacred eyes. Inkantator Koura narra di un concept riguardo a winter journey through ancient mysticism and bittersweet darkness e lo fa creando un masterpiece, stratificando suoni black metal, neofolk, ambient, experimental trascinando l’ascoltatore in un vortice di emozioni varianti dall’ incanto alla melanconia, dall’orgoglio alla oscurità, dalla disperazione alla estasi. L’opera alterna momenti folk e neo folk struggenti e dolorosi con parti black raramente esasperate o ritmicamente forsennate, ma cariche di fierezza e disperazione; la struttura è complessa a formare una materia cangiante che sfida l’ascoltatore ad entrare in un regno di freddo e oscurità omaggiante la stagione invernale. L’opera originaria, edita nel 2014, nelle parole dell’autore intesa come un omaggio a Paysage d’Hiver, entità guidata da Wintherr (ora anche nei Darkspace), si divide in due capitoli: il primo, Awakening & Snowfall, inizia con Incipit:Geherre, una litania ovattata sferzata da un gelido vento, per poi proseguire con Onset of Wyntar, brano a tinte black molto atmosferico con Inkantator che declama le sue lyrickal magick.
Il terzo brano Im Winter, che conclude il primo capitolo, profuma di immobili e infiniti ghiacci e mi ha ricordato echi, probabilmente non voluti, di una leggenda Krauta di acidfolk, gli Amon Duul II (qualche vecchio ascoltatore ricorderà); il secondo capitolo, …of Magick and Darkness, presenta Snowscape, un breve viaggio guidato da una tersa melodia,White gloom, un fiero inno black come un lupo in cerca di prede da dilaniare, mentre in the darkness the wind still blows… e Black Glimmer, spettrale e salmodiante racconto ricco di tensione per un posto in cui …nothing shall be green here, for as long as winter reigns. Il terzo capitolo, Joyful reminiscense and sacred eyes, presenta altri tre brani che completano il concept, Silent world, holy awe, oscuro e acido folk rock ,Vom ersten schnee/a tale of mother Hulda dove una nonna, su note molto malinconiche, narra al nipote l’origine della neve; il finale Silver Nights, della durata di circa venti minuti (l’opera dura in tutto molto più di un’ora) chiude su intense, atmosferiche ed epiche note black un lavoro molto particolare, originale, di non facile assimilazione e, come chiosa Inkantator, …for candid, open minded people that take an umbiased approach to music and don’t need to sort everything into stereotyped thinking.

TRACKLIST
1.Incipit: Geherre
2.Onset of Wyntar
3.Im Winter
4.Snowscape
5.White Gloom
6.Black Glimmer
7.Silent World, Holy Awe
8.Vom ersten Schnee
9.Silver Nights

LINE-UP
Inkantator Koura – all instruments and vocals

MOSAIC – Facebook

Dark Awake – Anunnaki

Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient.

Dark Awake è un progetto dark ambient attivo da circa un decennio per volontà del musicista greco Shelmerdine VI°, e Anunnaki è il quarto full length, uscito originariamente nel 2014 e riedito in vinile, alla fine del 2016, dalla label ellenica Sleaszy Records in edizione limitata a 500 copie.

Il disco in questione mostra un approccio piuttosto lontano dalla più consueta riproposizione ad oltranza di limitati spunti sonori o rumoristici: per una volta, la dichiarazione di intenti di un’artista corrisponde pienamente alla realtà e così, quando sul bandcamp dei Dark Awake ne leggiamo la definizione di progetto dedito a musica neoclassica, marziale, dark ambient e neo folk, non si può che essere del tutto d’accordo.
Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient, come avviene magistralmente in Die Nibelungen, ma l’effetto straniante non è da meno nella greve litania con voce femminile Decay o nelle pulsioni liturgiche di Towards The Nine Angles, deviate da un percussionismo ritmato e da rumorismi assortiti.
Euphoria (Of The Flesh) è un esempio di musica classica dai tratti inquietanti e malevoli, mentre la dark ambient più riconoscibile della title track schiude la strada alla notevole Sacrarium, traccia che riporta alla già battuta strada classico-liturgica.
Chiaramente si tratta di un lavoro per intenditori audaci e pervasi anche da una discreta dose di masochismo: va detto però, ad onor del vero, che la forma di ambient perseguita dai Dark Awake è più movimentata, grazie alle numerose variazioni sul tema e ad una parvenza melodica presente in quasi tutti i brani, benché qui venga meno ogni effetto cullante e rassicurante, catapultando invece l’ascoltatore in un’atmosfera sovente da incubo.
Un album molto convincente, che il formato in vinile dovrebbe ancor più valorizzare rendendolo appetibile agli estimatori del genere, oltre a costituire una buona base di partenza per esplorare il resto della discografia firmata Dark Awake.

Tracklist:
1. Blut Ist Feuer
2. Die Nibelungen
3. Decay
4. Towards The Nine Angles
5. Virgo Lucifera
6. Euphoria (Of The Flesh)
7. Thy Satyr
8. Anunnaki
9. Sacrorum

Line-up:
Shelmerdine VI° – All Instrumentats, Orchestration
Sekte – Vocals

DARK AWAKE – Facebook

Heather Wasteland – Under The Red Wolfish Moon

Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva, ma ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato.

Gli ucraini Heather Wasteland erano una delle band incluse nella compilation Mister Folk, della quale abbiamo parlato qualche settimana fa, ed oggi abbiamo l’opportunità di esaminare il loro operato in maniera più ampia, tramite l’ep d’esordio intitolato Under The Red Wolfish Moon.

Va detto subito che il quartetto originario della Crimea è anomalo in tutti i sensi, incluso quello del teorico genere d’appartenenza: basti pensare che la line up consta di un batterista e tre bassisti, rispettivamente alle prese con lo strumento nella versione a 4, 5 e 6 corde; a quest’ultimo è affidato il compito di arricchire il sound creando le parti di tastiera ed archi tramite un pick up collegato ad un guitar-synth della Roland.
Balza subito all’orecchio che la rinuncia a voce e chitarra potrà costituire un problema per la fruizione immediata del lavoro, anche se va detto che i nostri se la cavano davvero bene, sopperendo a queste volontarie lacune con un sound sufficientemente dinamico ed originale.
Più che folk metal, a tratti, gli Heather Wasteland si spingono verso una forma di musica medievaleggiante e barocca che il triplo basso rende assolutamente peculiare (un titolo come Venice – Barocco Veneziano è abbastanza eloquente, in tal senso).
E’ anche vero, d’altra parte, che la durata ridotta agevola la fruizione , che altrimenti alla lunga potrebbe risultare più difficoltosa, ma in ogni caso Under The Red Wolfish Moon si rivela una prova interessante, anche per i numerosi riferimenti storici contenuti nel libretto che, nel rievocare la storia della parte meridionale della Crimea, finiscono peraltro per richiamare alla memoria una parte importante della storia marinara del nostro paese, che vede la mia Genova ritornare ad essere La Superba e non l’attuale vertice smussato di quello che fu il cosiddetto triangolo industriale.
Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva e dubito che possa soppiantare nelle preferenze degli appassionati gli album di folk metal, per così dire, più tradizionali; ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato, perché questo quattro simpatici ed audaci “cimmeri”, hanno tutte le potenzialità per sorprenderci ulteriormente in futuro, dopo questo già interessante assaggio del loro “heretical folk”.

Tracklist:
I – Tre Sverd
II – Under The Red Wolfish Moon
III – Venice (Barocco Veneziano)
IV – Beltane (Intro) / Wicker Man
V – Under The Red Wolfish Moon (Single Edit)

Line-up:
Anatoliy Polovnikov – drums
Sergey AR Pavlov – 4-string bass
Andrey “SLN” Anikushin – 5-string bass
Alexander Vetrogon – 6-string bass

HEATHER WASTELAND – Facebook

Ataraxia – Deep Blue Firmament

La musica degli Ataraxia esula da etichette o limiti spazio temporali, ed è essenzialmente la rappresentazione più pura di quanto sia concesso fare all’uomo manipolando le sette note.

Non c’e dubbio che ogni genere musicale sia più o meno adatto agli umori ed alle circostanze connesse al momento dell’ascolto: per un disco degli Ataraxia immagino, quale luogo ideale, una zona collinare o, ancora meglio, posizionata sulle alture della mia Genova dove, con i contrafforti appenninici alle spalle, si ha la fortuna di godere, a poca distanza, della vista di tutto il golfo.

Purtroppo tale abbinamento non sempre è possibile, pertanto ad un lavoro come Deep Blue Firmament viene affidato il non facile compito di farci immaginare quegli stessi scenari anche stando seduti in un angolo delle proprie dimore abituali.
Del resto gli Ataraxia compiono questa magia ormai da venticinque anni, reiterandola mediamente una volta all’anno senza mai mostrare cenni di stanchezza o cali d’ispirazione: chiamiamola neo folk o come meglio ci aggrada, la verità è che questa musica esula da etichette o limiti spazio temporali, ed è essenzialmente la rappresentazione più pura di quanto sia concesso fare all’uomo manipolando le sette note.
La voce meravigliosa di Francesca Nicoli è ovviamente il tratto che identifica gli Ataraxia nel loro primo palesarsi al nostro udito, la guida ideale per un viaggio virtuale tra civiltà perdute, suoni ancestrali, spiritualità e natura, il tutto intriso di quel carico di malinconia che è insito nelle anime sensibili, un club che pare divenire sempre più ristretto, a giudicare dalle nefandezze che, quotidianamente, i nostri sensi devono sempre più subire.
Da Delphi ad Alexandria II è tutto un susseguirsi di emozioni, una danza tra luci ed ombre, condotta attraverso l’uso di diversi idiomi, a corollario di suoni talmente cristallini da far temere che qualcosa possa infrangerli da un momento all’altro.
Non mi dilungherò nel canonico passaggio ai raggi x dei vari brani, un po’ per atavica incapacità, ma soprattutto perché non c’è davvero bisogno di farlo quando ci si trova al cospetto di musica di tale levatura, e neppure mi permetterò di lanciarmi in improbabili paragoni che potrebbero risultare persino offensivi per chi ci regala la propria arte da oltre un quarto di secolo.
Mi limiterò quindi a chiedervi in maniera accorata di continuare a supportare questa band, se già la conoscevate, e di scoprirla definitivamente qualora così non fosse, a meno che non vogliate continuare ad ignorare le eccellenze che, almeno a livello artistico, questo vituperato paese continua a produrre nonostante la protervia e l’ignoranza dilagante provino a soffocarle: gli Ataraxia sono una di queste, indubbiamente tra le più luminose e durature.

Tracklist:
1.Delphi
2.Message to the clouds
3.Greener than grass
4.Myrrh
5.Alexandria part I
6.Rosso Sangue
7.Galatia
8.May
9.Vertical
10.Ubiquity
11.Phoebe
12.Alexandria part II

Line-up:
Francesca Nicoli – Voce
Vittorio Vandelli – Chitarra classica, chitarra elettrica, chitarra fado, basso, cori
Giovanni Pagliari – Tastiere, armonizzazioni, cori
Riccardo Spaggiari – Rullante, tamburi a cornice, daf, darabouka, piatti, pads elettronici, programmazione

ATARAXIA – Facebook

Wöljager – Van’t Liewen Un Stiäwen

Un capolavoro in grado rendersi appetibile anche a chi, pur non frequentando in maniera assidua questo genere, sia in grado di assimilare le emozioni offerte da una musica solo apparentemente semplice ma che arriva dritta al cuore, trovandovi una sua stabile dimora.

Marcel Dreckmann è un musicista tedesco che i più attenti identificheranno nello Skald Draugir degli Helrunar e nel Marsél degli Árstíðir Lífsins, due band autrici di una musica estrema obliqua e colta che, solo per comodità, sono sempre state inserite nel calderone black metal.

Non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che Dreckmann avesse già da tempo in canna questo colpo magnifico, sotto forma di un’opera di matrice folk che avrebbe dovuto costituire, peraltro, il supporto musicale di una rappresentazione teatrale.
Come spesso accade in situazioni analoghe, la trasposizione scenica non è mai stata realizzata e così il musicista tedesco ha pensato giustamente di pubblicare il tutto in formato audio con il monicker Wöljager, e menomale, aggiungerei, perché un lavoro di tale spessore qualitativo non poteva certo essere lasciato a languire in attesa di tempi migliori.
Con l’aiuto dei due compagni d’avventura negli Árstíðir Lífsins, il connazionale Stefan Drechsler e l’islandese Árni Bergur, Marcel sciorina una prova maiuscola esibendo il lato più cupo e meditabondo del folk e, a rendere ancor più particolare e degna di attenzione la proposta, a livello lirico viene utilizzato il Münsteran Platt, ovvero il dialetto basso tedesco parlato ancora in alcune regioni del nord ovest della Germania e che, come si può notare, ha non poche similitudini anche con l’idioma dei vicini Paesi Bassi.
Insomma, non sono pochi i motivi di interesse che l’ascoltatore può rinvenire in Van’t Liewen Un Stiäwen, ma ovviamente il principale è il contenuto musicale, fatto di un folk altamente evocativo nel quale vengono banditi del tutto i toni caciaroni a favore di un mood tra il drammatico ed il malinconico che sovente induce alla commozione: difficile che gli occhi non si inumidiscano di fronte a gioielli intrisi di aulico splendore come la title track, Summer e Vettainachtain, o ancora una Üöwer de Heide in odore del Nick Cave più intimista.
Le uniche concessioni ad una musica popolare dall’andamento relativamente più allegro sono la trascinante Kuem to Mi e Junge Dään, non a caso collocate l’una dopo l’altra nella parte centrale del disco, quasi a costituire una parentesi di leggerezza all’interno di un mood complessivo che lascia ben poco spazio alla gioia e all’ottimismo.
Qui ci troviamo di fronte a musicisti di statura superiore alla media e la produzione cristallina restituisce alla perfezione le minime sfumature, esaltando all’ennesima potenza ogni singolo arpeggio chitarristico della coppia Drechsler – Bergur, le carezze degli archi suonati magistralmente da quest’ultimo e il timbro caldo e profondo della voce di Dreckmann.
Uno degli intenti dichiarati di Marcel era quello di dimostrare che un dialetto come quello basso tedesco non deve essere necessariamente associato all’immaginario del folklore da sagra paesana, ma che, invece, può costituire tranquillamente la base linguistica per opere di elevato spessore artistico e dagli umori plumbei come quella rappresentata da Van’t Liewen Un Stiäwen.
La missione è stata compiuta, forse andando anche oltre le iniziali previsioni, perché non esito a definire questo disco un autentico capolavoro in grado rendersi appetibile anche a chi, pur non frequentando in maniera assidua questo genere, sia in grado di assimilare le emozioni offerte da una musica solo apparentemente semplice ma che arriva dritta al cuore, trovandovi una sua stabile dimora.

Tracklist:
1.Vüörgeschicht
2.Van’t Liewen un Stiäwen
3.Swatte Äer
4.Summer
5.Magdalene
6.Kuem to mi
7.Junge Dään
8.Üöwer de Heide
9.Up’n Likwäg
10.Deaolle Schwatters föert to’n Deibel
11.Vettainachtain
12.Dat Glas löp rask
13.Aomdniewel

Line-up:
Marcel Dreckmann – Vocals, Lyrics, Compositions
Stefan Drechsler – Acoustic Guitars
Árni Bergur Zoega – Acoustic Guitars, Viola, String arrangements

Wöljager – Facebook

THE MAGIK WAY – CURVE STERNUM

A differenza di quanto accade sovente, in occasione di reunion che per motivi di marketing vengono contrabbandate come eventi epocali, per i The Magik Way si può invece tranquillamente affermare che di un ritorno di questa levatura se ne sentiva davvero il bisogno.

Il nome dei The Magik Way era balzato nuovamente alla ribalta dopo diversi anni di oblio, grazie alla riedizione delle due uniche testimonianze discografiche della loro prima parte di carriera.

Curve Sternum è il naturale passo che segue questo tipo di operazioni, propedeutiche a riportare l’attenzione su una band in procinto di tornare sulla scena dopo un lungo silenzio; decisamente meno prevedibile è, invece, il modo in cui Nequam e Azach si ripropongono al pubblico: il dark ambient dalla forte componente esoterica lascia spazio ad una sorta di neo folk dai contenuti orrorifico-rituali, esaltati da testi a volte disturbanti, altre volte grotteschi, recitati con voce da crooner dal primo dei due.
I Corpi Pesanti, in apertura di lavoro, è un brano che fatica a decollare in prima battuta a causa delle forzature metriche che contraddistinguono il comparto lirico, senza dimenticare un timbro vocale comunque poco convenzionale; ci vuole infatti un po’ di tempo e, quindi, diversi ascolti per venire a patti con un approccio musicale volto, più che ad attrarre, a disorientare prima e ad avvolgere poi l’ascoltatore con i suoi testi che rifuggono ogni banalità ed un sound solo apparentemente semplice e minimale.
Forse anche per questo, il disco si rivela come una delle uscite più originali degli ultimi tempi, rendendo credibile un accostamento audace, soprattutto per attitudine, alle opere di personaggi quali Mr.Doctor o Malleus.
Rispetto ai citati geni musicali qui troviamo indubbiamente un minore slancio melodico ed atmosferico e una maggiore voglia di sperimentare un suono che, talvolta, diviene quasi ossessivo nel suo per lo più lento incedere.
Curve Sternum è la perfetta espressione artistica esibita da un gruppo di musicisti che oltre vent’anni fa ritennero troppo angusti i confini espressivi del black metal, avviando senza alcuna fretta un percorso di ricerca musicale e filosofica privo di vincoli temporali ed espressivi: ne è testimonianza il cospicuo periodo di stand by al quale sono stati appunto soggetti i The Magik Way.
Con calma e consapevolezza, come creature sotterranee che si nutrono con pervicace regolarità di tutto ciò che proviene dalla superficie, nulla escluso, il duo alessandrino giunge ad offrire un album difficile e che necessita di molta pazienza ed altrettanta voglia di conoscenza da parte degli ascoltatori: superati questi ostacoli, sul piatto resta un lavoro forse per pochi ma sicuramente di gran pregio.
A differenza di quanto accade sovente, in occasione di reunion che per motivi di marketing vengono contrabbandate come eventi epocali, per i The Magik Way si può invece tranquillamente affermare che di un ritorno di questa levatura se ne sentiva davvero il bisogno.

Tracklist:
1.I corpi pesanti
2.La mano raccoglie
3.A curva di sterno
4.Yod-He-Vau-He
5.Nel tempo restare
6.L’orrore
7.Scuotiti, oh vita!
8.In alto come in basso

Line-up:
Nequam – vocals, acoustic guitars, programming
Azàch – drums and percussions, backing vocals

Maniac of Sacrifice – electric guitars
Old Necromancer – electric guitars
Tlalocàn – doublebass

THE MAGIK WAY – Facebook

Oberon – Dream Awakening

Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio.

Il secondo full-length del solo project Oberon arriva dopo ben tredici anni di silenzio, nel corso dei quali colui che ne è l’artefice, il norvegese Bard Oberon, è rimasto ai margini dell’ambiente pur continuando a comporre musica.

Molta di questa è confluita poi in Dream Awakening, il disco che, in fondo, costituisce la chiusura di un cerchio, giacché l’etichetta che lo licenzia è quella stessa Prophecy che, nel 1997, tra le prime produzioni immesse sul mercato, pubblicò proprio l’omonimo mini di Oberon. Diciamo subito che questo album è l’ennesimo centro da part di una label che, da anni, continua a proporre musica sempre contraddistinta da un incommensurabile valore artistico. Devo ammettere, senza particolari remore, che prima di oggi il nome Oberon mi era del tutto sconosciuto; ne deriva, quindi, che la valutazione di questo lavoro e le sensazioni scaturite dall’ascolto esulano inevitabilmente da qualsiasi raffronto con la produzione passata. Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio. Una voce limpida ed evocativa conduce l’ascoltatore lungo un percorso disseminato di momenti incantevoli, un qualcosa di avvicinabile alla purezza dell’acqua che sgorga da una fonte; caratteristica, questa, che non viene meno neppure quando i suoni si irrobustiscono, ma che semmai viene ulteriormente esaltata dal gioco di luci ed ombre. Empty And Marvelous inaugura questo magnifico album con umori folk, soppiantati dal successivo brano capolavoro Escape nel quale, a tratti, viene evocato nientemeno che Jeff Buckley e, tutto sommato, il mai abbastanza compianto singer statunitense può costituire un valido punto di riferimento per capire meglio ciò di cui è capace Bard in Dream Awakening. Certo, la voce del musicista norvegese, pur pregevole, non è comparabile con quella di Jeff, ma la sensibilità compositiva e la capacità di tratteggiare brani dell’enorme impatto emotivo non sono affatto da meno. Anche quando è il folk ad impadronirsi del songwriting il risultato merita il nostro plauso, ma è certo che gli episodi che restano più impressi sono quelli in cui vengono messe in evidenza sia una più spiccata anima melodica (Flight Of Aeons), sia un’impronta di stampo prog/rock (I Can Touch The Sun With My Heart ). Le atmosfere sottilmente inquietanti di Machines sono la penultima perla di un lavoro che regala in chiusura un altro brano splendido (Age Of The Moon) nel quale la chitarra elettrica si ritaglia un ultimo spazio all’interno di suoni che, se trasposti visivamente, assumerebbero delicati color pastello. Oberon è stata un autentica folgorazione con la scoperta di un musicista rimasto per anni in una sorta di oblio: questo è un altro buon motivo, tra i tanti, per il quale nessuno dovrebbe mai ritenersi appagato di ciò che ha ascoltato in passato. Per chi come me , si è innamorato a prima vista di questa eccellente entità musicale, sarà cosa gradita sapere che la Prophecy ha programmato anche la ristampa dell’intera produzione targata Oberon, una buona occasione per approfondire la conoscenza e magari scovare altre gemme dimenticate composte dall’ottimo Bard.

Tracklist:
01. Empty And Marvelous
02. Escape
03. In Dreams We Never Die
04. Dark World
05. Flight Of Aeons
06. Dream Awakening
07. I Can Touch The Sun With My Heart
08. Phoenix 09. Secret Flyer
10. Machines That Dream
11. Age Of The Moon

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