Suffer Yourself – Ectoplasm

Ottima seconda prova di funeral doom da una band in costante evoluzione

Fin dalla cover alcuni dischi accendono l’ interesse di noi ascoltatori, di noi ” cercatori d’oro”; mi sbilancio ma questa mi è piaciuta tantissimo e anche il particolare titolo “Ectoplasm” mi ha spinto ad ascoltare il 2° full dei Suffer Yourself, già autori di un ottimo full nel 2014 (Inner Sanctum).

Nati come one man band di Stanislav Govorukha già EX AUTO DA FE (funeral death), CORAM DEO (melodic death), ILLUMINANDI (folk-gothic) si sono evoluti nella attuale band, locata in Svezia, che comprende altri tre musicisti che aiutano il leader a creare un grande disco di funeral death doom in cui si miscelano artigianalmente, con cura certosina, molte influenze per creare un opera che come sempre data la lunghezza, cinque brani per un ora di splendida musica, ha bisogno di numerosi ascolti per “entrare”. Il suono, come il titolo esplica, appare come una “sostanza mobile ectoplasmica” e può essere morbido, sinuoso, vaporoso, fluido, non ben definito, ma in ogni caso sempre emozionante e di infinita tristezza, come nel magnifico brano “The Core\Nika Turbina” in ricordo del trentennale del disastro di Chernobyl (…i’ll paint my name on the abandoned walls to come back in thirty years). Due brani anche per la loro lunghezza, Abysmal Emptiness di sedici minuti e Dead Visions di diciannove minuti sono l’ esempio migliore di come sono intersecate anche in modo inaspettato tutte le influenze del leader, da grandi muri di suono (come i grandi Esoteric) in perenne movimento a momenti più direttamente death (metà di Abysmal) che scivolano in parti più morbide, “melodiche”, in modo da rendere questa opera maestosa, misteriosa e cangiante; le vocals del leader passano da un lento salmodiare a un ottimo growl, con parti anche cantate in russo\ucraino. E’ sempre un piacere poter seguire ed ascoltare bravi musicisti che suonando con passione e idee, ci affascinano nel loro percorso musicale.

TRACKLIST
1. Ectoplasm
2. Abysmal Emptiness
3. The Core
4. Dead Visions
5. Transcend the Void

LINE-UP
Malcolm Sohlen – Bass
Kateryna Osmuk – Drums
Lars Abrahamsson – Guitars
Stanislav Govorukha – Guitars, vocals, programming

SUFFER YOURSELF – Facebook

Shambles – Realm Of Darkness Shrine

Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.

A quasi vent’anni dalla nascita i deathsters thailandesi Shambles licenziano il primo full length, questo oscuro e morboso Realm Of Darkness Shrine.

Il gruppo orientale in tutti questi anni si era affacciato sul mercato solo con una serie di lavori minori e finalmente quest’anno giunge a noi un’opera sulla lunga distanza, traguardo raggiunto dopo anni passati nell’underground più profondo.
Il sound del gruppo rispecchia l’attitudine dei quattro musicisti, un death metal marcissimo, fortemente old school e reso ancora più morboso e catacombale da lunghe parti doom.
Un lento corteo funebre parte dai meandri di Bangkok e arriva, oscuro e malvagio, nel vecchio continente: una lunga discesa nelle catacombe, imputridite dalla morte e dai vermi che banchettano su resti umani dimenticati dal tempo.
Il growl cavernoso di Chainarong Meeprasert ci fa da Caronte nei cunicoli dove l’oscurità regna sovrana, le ritmiche sono lente marce mortifere, a tratti pervase da un urgenza estrema che attanaglia la gola, bruciante dall’aria malata che si respira nelle tetre atmosfere dei brani che non concedono il minimo richiamo ad una luce ormai abbandonata.
Rosarium è l’opener che ci introduce in questo mondo di blasfemia e morti orrende, seguita da una serie di brani sempre più oscuri e malati, con la title track apice doom/death dell’album, inquietante nelle sue esplosioni di violenza a destabilizzare il ritmo lentissimo del suo magmatico e funereo incedere.
Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.

TRACKLIST
1.Rosarium
2.Call from the Further Tomb
3.Breath of the Deathprayer
4.Onward into Chasms
5.Haxanwomb
6.Realm of Darkness Shrine
7.Bitter Abysmal Depths

LINE-UP
Issara Panyang – Guitars
Thotsaphon Ayusuk – Bass
Thinnarat Poungmanee – Drums
Chainarong Meeprasert – Vocals

SHAMBLES – Facebook

Dead End – Reborn from the Ancient Grave

Reborn from the Ancient Grave torna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.

Gli olandesi Dead End provengono dalla scena death metal olandese dei primi anni novanta e fanno parte di quella variante estrema che vi accostava al potenti rallentamenti doom e sfumature gotiche, tipiche di quello che viene consciuto dagli amanti dei suoni estremi come doom/death.

Gli inizi del gruppo portano al 1988 e ai primi tre anni del decennio successivo, periodo dove il gruppo rilasciò due demo ed un ep ed affiancò in sede live nomi storici del metal nato nei Paesi Bassi come Gorefest, Phlebotomized e Pestilence.
Un silenzio durato più di vent’anni, rotto lo scorso anno dall’annuncio da parte della Vic Records del ritorno in pista del gruppo, in mano all’unico membro originario, il bassista Alwin Roes.
Puntuale arriva dopo circa dodici mesi un nuovo lavoro, il primo sulla lunga distanza, un album che, nel genere, è da considerare certamente old school.
Non sono più molte infatti le band che adottano queste sonorità, all’epoca nuova frontiera del metal estremo, poi evolutosi con l’aggiunta di sfumature dark/gothic e sinfonie, accompagnate molto spesso da femminee voci operistiche.
Niente di tutto questo, Reborn from the Ancient Grave torna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.
Meno gotici dei primissimi Paradise Lost, oscuri e pesanti come i primi The Gathering e Celestial Season, con il sound potenziato da dosi massicce di Bolt Thrower e Asphyx, l’album nel suo genere è un toccasana per le anime oscure che a dolci sinfonie preferiscono le malate trame chitarristiche pervase da un malsano odore di morte, tratti magmatici che si ritrovano a profusione tra le trame delle buone Haze of Lies, Mea Culpa e la sepolcrale Wearing the Cloak, la più gotica ed emozionante traccia del lotto che conclude alla grande questo manifesto ai primi passi del genere.
Un buon ritorno, c’è da sperare che i Dead End riescano a trovare ulteriore nuova spinta da questo lavoro.

TRACKLIST
01. David’s Theme (Intro)
02. Dead End (Reborn)
03. Haze of Lies
04. Trail of Despair
05. Mea Culpa
06. Wither
07. Another Weakness
08. Venture
09. Nails of the Martyr
10. Wearing the Cloak

LINE-UP
Bryan – Vocals
Jeroen R – Guitar
Arjan – Guitar
Alwin Roes – Bass
Harald – Drums

DEAD END – Facebook

Ordog – The Grand Wall

The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere.

I finlandesi Ordog sono una band già abbastanza longeva e capace di pubblicare, nel 2011, un magnifico disco come Remorse, autentico monumento al funeral doom.

Sembra passato molto più tempo da allora, forse anche perché la band di Tornio ha dato seguito a quel lavoro con una prova ben più opaca nel 2014 (Trail for the Broken).
In effetti è difficile pensare di passare, senza subire contraccolpi, da una proposta basata su un sound granitico e rallentato all’inverosimile ad un gothic senz’altro più orecchiabile ma fondamentalmente inoffensivo, anche per le caratteristiche stesse della band che vede un vocalist perfettamente a suo agio con il growl ma piuttosto zoppicante quando so trova alle prese con le clean vocals.
Il nuovo The Grand Wall non riporta ai fasti di Remorse, il cui feeling unico pare non essere definitivamente più nelle corde degli Ordog, ma dimostra un raddrizzamento della barra verso una direzione stilistica più confacente alla band.
L’album, infatti offre una buona serie di brani in cui il substrato gothic è molto ben accompagnato da una robusta componente death doom, e il ritorno, seppure parziale, ad una materia che calza a pennello al gruppo finnico fa il resto, fornendo così un risultato del tutto soddisfacente.
Proprio una traccia che maggiormente riporta alla componente death, come In the Looming Bitterness, mostra una certa  appaiono le più peculiarità, laddove, ad un avvio che lascia poco spazio alla melodia per offrire libero sfogo ad una certa veemenza, segue un addolcimento del sound con l’apparizione, a tratti, anche di quell’hammond che fu in grado di fare la differenza in un brano epocale come la title track di Remorse.
The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, con i picchi rinvenibili in brani melodici e malinconici come Open the Doors to Red e The Perfect Cut, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere ma, d’altro canto, per riuscirci appieno è necessario utilizzare quale termine di paragone Trail for the Broken e non sicuramente Remorse o ancor più Life Is Too Short for Learning to Live.
Del resto, quella degli Ordog e stata un’evoluzione stilistica naturale e simile a quella di molte altre band del settore: è possibile che chi ama il funeral nelle sue forme più esasperate possa non esserne del tutto convinto, ma alla fine si tratta solo di valutare l’operato in base a quanto prodotto nel presente, lasciando per quanto possibile da parte il passato.

Tracklist:
1. Open the Doors to Red
2. Sundered
3. In the Looming Bitterness
4. The Perfect Cut
5. Wings in Water
6. The Grand Wall

Line-up:
Valtteri Isometsä – Guitars
Aleksi Martikainen – Vocals (lead)
Jussi Harju – Keyboards
Opie – Bass, Vocals (backing)
Tapio Hautalampi – Drums

ORDOG – Facebook

Era Decay – Inritum

Gli Era Decay sono autori di una prestazione convincente, compatta e priva di particolari sbavature anche se, almeno per ora, incapace di scalare lo spesso gradino che separa l’album bello da quello imprescindibile.

I rumeni Era Decay, nonostante siano attivi solo dal 2008, con Inritum arrivano già al loro quinto full length, una produzione quindi già corposa rispetto alla media.

Anche se sovente viene sottovalutato, questo è un aspetto del quale bisogna tenere conto nel momento in cui si devono esprimere delle valutazioni dopo l’ascolto di un album: ne deriva, pertanto che, da band al primo o secondo disco si tollererà maggiormente una mancanza di originalità, ricercando piuttosto la freschezza compositiva, mentre, al contrario, a chi ha già una discografia abbastanza cospicua alle spalle verrà richiesta con più rigore una manifestazione di personalità.
Gli Era Decay si trovano in una situazione un po’ spuria, in tal senso, visto che se il loro fatturato discografico è già pari a certe band di ultraquarantenni, sono ancora piuttosto giovani e quindi con intatte possibilità di sviluppare ulteriormente il proprio percorso musicale.
La peculiarità della band rumena è quella di muoversi in uno spazio stilistico che sta a metà strada tra il melodic death ed il death/doom, e non sempre l’equilibrio è perfetto anche se, indubbiamente, ciò evita loro di apparire fotocopie sbiadite di gruppi più famosi appartenenti all’una o all’altra scena.
A mio avviso, rispetto a quanto mi sarei atteso, la componente doom non è così marcata ed è proprio quando ciò avviene che ne vengono fuori i colpi migliori (splendide sia Sharp Words che Restlessness), facendo pensare che, spingendo un po’ di più su quel versante, un disco già buono sarebbe potuto diventare eccellente.
Penso sia sostanzialmente una questione di gusti, perché di certo chi predilige il melodic death la penserà diversamente da me, con più di una buona ragione, dato che i ragazzi rumeni sono autori di una prestazione convincente, compatta e priva di sbavature anche se, almeno per il mio metro di giudizio, incapace di scalare lo spesso gradino che separa l’album bello da quello imprescindibile.
A mio avviso, gli aspetti sui quali gli Era Decay possono sicuramente migliorare (e l’avere dei margini di miglioramento quando si è già piuttosto bravi va visto solo in un’ottica positiva) sono due: il primo è la riduzione della forbice esistente tra i due brani citati, ottimi esempi di death doom, ed altri come Ferocious e Syncope, episodi molto più diretti e di matrice death nel vero senso del termine, mentre il secondo potrebbe essere un ricorso ragionato alle tastiere con il compito di legare il sound nei brani più melodici, perché talvolta il risultato che ne scaturisce è un po’ troppo asciutto ed essenziale.
Detto questo, Inritum è un lavoro che merita d’essere ascoltato a prescindere dal genere assegnatogli in sede di presentazione, anche perché etichettarlo come death/doom rischia d’essere fuorviante, andando a discapito degli stessi Era Decay.

Tracklist:
01 – Intro
02 – Beyond Delirium
03 – Ferocious
04 – Perfidious
05 – Sharp Words
06 – Repugnance
07 – Restlessness
08 – Syncope
09 – The Past is Mine to Bear
10 – Faker
11 – Becoming Unstoppable
12 – Coming for You (The day I die)

Line-up:
Sandru Serban – vocals
Calin Colo – lead guitars
Adrian Galbau – drums
Alexandru Tipa – bass
Frij Vladimir Petrut – rythm guitars

ERA DECAY – Facebook

Sorrowful Land – Of Ruins …

Con questo suo progetto solista, il musicista ucraino può dare sfogo ad un’indole che lo porta ad avvicinare il death doom di matrice svedese.

Avevamo già potuto apprezzare il talento compositivo di Max Molodtsov in occasione delle due uscite del 2014 targate Edenian, dove con il nickname di Eternal Tom si cimentava in un gothic doom con tanto di voce femminile, sulla scia dei Draconian.

Con questo suo progetto solista, il musicista ucraino può dare sfogo ad un’indole che lo porta ad avvicinare il death doom di matrice svedese, in scia ai When Nothing Remains (non a caso Peter Laustsen fa capolino in On Another’s Sorrow) e i Doom Vs. di quel Johan Ericson che, per Molodtsov, costituisce sicuramente un modello dal punto di vista chitarristico, vista la notevole affinità di tocco già evidenziata nei lavori degli Edenian.
Con questi riferimenti e le già riconosciute doti tecniche di prim’ordine da mettere sul piatto, era fin troppo facile prevedere la riuscita di quest’esordio dei Sorrowful Land: grandi melodie, splendido lavoro chitarristico, vocals convincenti ed atmosfere pregne di dolente malinconia, nulla che non vada, insomma.
Se proprio vogliamo trovare il classico pelo nell’uovo, Of Ruins … in certi tratti potrebbe davvero essere scambiato per un nuovo album dei When Nothing Remains, ma alla fine chi se ne importa, quando nel lettore scorrono cinquanta minuti di death doom melodico di prima qualità: noi appassionati del genere chiediamo essenzialmente ai musicisti di emozionarci, e lasciamo volentieri la ricerca della pietra filosofale (sotto forma di originalità) a chi possiede menti meno semplici e lineari delle nostre …
Con gli indizi che ho fornito mi pare superfluo spiegare ulteriormente i contenuti del lavoro: chi ama le band citate si immerga senza indugio nell’ascolto dei brani grondanti emozioni contenuti in Of Ruins …

Tracklist:
1. A Reminiscence
2. Requiescat
3. On Another’s Sorrow
4. Of Ruins
5. In The Tyme Of Tyrants
6. Echoes Of Endless Silence

Line-up:
Max Molodtsov

SORROWFUL LAND – Facebook

Mammoth Weed Wizard Bastard – Y Proffwyd Dwyll

La band sostiene d’essere “la colonna sonora ideale per il nostro prossimo viaggio intergalattico”. Da sentire.

Dal Nord del Galles (Wrexham) discende questo immane flusso di energia doom con flavour psichedelico e cosmico; sono in quattro con stellare voce feminile (Jessica Ball) e sono emersi nel 2015 con un monolite nero (Nachthexen) di trenta minuti, replicato nello stesso anno con il full “Noeth ac Anoeth” che continua a definire il “loro” doom aggiungendo due ulteriori lunghe tracce ipnotiche e stordenti.

E ora nel settembre 2016 esplode, è proprio il caso di dirlo, questo nuovo lavoro con sei brani dal minutaggio più contenuto (in media 8-9 minuti) rispetto al precedente; il loro sound di una pesantezza trascendentale si alimenta di pachidermici riff accompagnati, sovrastati dalla ultraterrena voce della bassista e vocalist Jessica; il synth suonato un po’ da tutti i musicisti proietta il suono verso orizzonti cosmici sconfinati ed inesplorati, avvolgendo il tutto in spire scure e profonde.
A differenza della prima opera, dove spiccava il suddetto monolite nero di trenta minuti, qui i brani, tutti di simile alto valore, appaiono come una “massa” cangiante, inarrestabile nel suo scorrere che può ricordare il kraut rock degli anni 70′, con gocce ben udibili di suoni hawkindiani in alcuni tratti., il tutto sempre con spiccata sensibilità doom.
La band in questi 2 anni ha elaborato il suo suono, con diversi concerti in terra albionica e oltre mare suonando con gruppi come Monolord, Ramesses, All Them Witches, tutte realtà che profumano di doom “mutante”, non disdegnando di misurarsi anche con enormità come gli immensi Napalm Death e i polacchi Behemoth.
Accompagnato anche da un bella confezione apribile a formare una croce, il consiglio è quello di “assaggiare” il disco più e più volte per assaporare a fondo il viaggio intrapreso da questi ragazzi che, spero, decidano di farsi ascoltare “live” anche nelle nostre terre !

TRACKLIST
1. Valmasque
2. Y Proffwyd Dwyll
3. Gallego
4. Testudo
5. Osirian
6. Cithuula

LINE-UP
Paul M.Davies – lead guitar, moog synth, sampletron
Jessica Ball – bass,vocals, cello, sampletron
Wes Leon – rhythm guitar, moog synth
James Carrington – drums, moog synth

MAMMOTH WEED WIZARD BASTARD – Facebook

Clouds – Departe

Departe è uno dei capolavori dell’anno, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom.

Quando qualche anno fa Daniel Neagoe, tra un capolavoro e l’altro dei suoi Eye Of Solitude, mise in piedi il progetto denominato Clouds, c’era la sensazione che potesse trattarsi di un progetto estemporaneo, per quanto splendido, alla luce di una line-up composita dal punto di vista logistico.

Oggi, anche se le redini compositive sono sempre ben salde nelle mani del musicista rumeno, con il secondo full length intitolato Departe, i Clouds fanno quel definitivo salto di qualità che conferma e rafforza il valore espresso con il precedente Doliu, facendolo apparire ancor più frutto del lavoro di una vera e propria band, e che band …
La definizione di supergruppo del funeral/death doom qui ci sta tutta e nessuno la può contestare: possiamo definire altrimenti un combo che presenta, oltre al proprio mastermind, il suo storico sodale Déhà (Deos, Slow, Imber Luminis, Yhdarl, We Al Die Laughing, e altri mille), Mark Antoniades (Eye Of Solitude), Jón Aldará (Hamferd, Barren Earth) Pim Blankenstein (Officium Triste), Natalie Koskinen e Jarno Salomaa (Shape Of Despair), Kostas Panagiotou (Pantheist, Wijlen Wij) e Shaun MacGowan (My Dying Bride)?
Non sempre la somma dei valori in campo corrisponde al prodotto finale, ed è proprio su questo punto che Departe ribalta le carte in tavola, riuscendo paradossalmente a spingersi anche oltre.
Clouds nasce come un progetto dedicato a chi non è più tra noi e questo, dal lato compositivo, si percepisce in ogni singola nota tramite la quale l’ascoltatore viene sommerso dalla commozione, il dolore ed il rimpianto, tutti sentimenti espressi da brani di bellezza irreale.
How Can I Be There è la prima gemma che si palesa alle nostre fortunate orecchie: una lunga e soffusa introduzione prepara il terreno al climax, che sopraggiungerà al momento dell’esplosione del growl di Daniel all’unisono con gli strumenti in sottofondo, seguendo un modus operandi non dissimile da quello degli Eye Of Soitude: nulla di strano, quando la mente compositiva è la stessa, ma nel sound dei Clouds è la malinconia, che questa traccia riesce a produrre a profusione, a prevalere sulla disperazione.
Migration è semplicemente uno dei brani più belli e toccanti mai ascoltati nella mia già abbastanza lunga vita di musicofilo: la voce spettacolare di Jón Aldará è il valore aggiunto, grazie a superlative clean vocals  che fungono da contrappeso ad un growl catacombale e a una struttura musicale che non lacera con il suo penoso incedere, bensì penetra e si insinua sottopelle con tutto il suo carico di nostalgico rammarico.
In The Ocean Of My Tears, interpretata da Natalie Koskinen, è un altro esempio di poesia musicale, introdotta da atmosfere dal sapore folk: ciò che nel brano si perde in drammaticità, si acquisisce in levità grazie alla voce della cantante finlandese e, in fondo, si rivela un mezzo diverso per evocare ugualmente quel senso di abbandono che nell’album non viene mai meno.
In All This Dark è uno dei sempre più frequenti brani in cui le clean vocals sono utilizzate in maniera consistente da Daniel Neagoe in alternativa al growl, a conferma di una crescita esponenziale negli ultimi anni della sua tecnica vocale, il che lo ha portato ad essere una delle migliori voci del metal odierno, non solo del genere specifico: anche quest’episodio conserva un livello di pathos non comune, pur mantenendo caratteristiche quanto mai atmosferiche.
E’ uno dei decani della scena, Pim Blankestein, storica voce degli Officium Triste, a prendere la scena nella magnifica Driftwood, assieme all’inconfondibile tocco chitarristico di Salomaa, che tesse nel finale una tela di passaggi indimenticabili.
La chiusura è affidata a I Gave My Heart Away, ed è inutile sottolineare quanto si tratti dell’ennesima gemma musicale, regalata a chi ne sa godere, contenuta in quest’album: chitarra, tastiere e violino producono un insieme che va a creare un contrasto esaltante con il growl, a sua volta appoggiato su un tappeto sonoro che, per quanto toccante, mostra fiochi barlumi di luce.
I Clouds rappresentano l’altra faccia della medaglia degli Eye Of Solitude, a ben vedere: se questi ultimi raffigurano in maniera tragica ed aspra il malessere esistenziale e la conseguente reazione all’ineluttabilità di un destino già scritto, i primi prefigurano una sorta di rassegnata accettazione di tutto questo, esprimendola con un sound più atmosferico e soffuso, dai toni consolatori.
Se vogliamo, anche il passaggio dal lutto (Doliu) alla lontananza (Departe) porta su un piano differente l’elaborazione del dolore: nel primo caso si descrivono la fase del distacco e le inevitabili lacerazioni che esso provoca, mentre nel secondo chi è scomparso fisicamente viene idealizzato spiritualmente in un non-luogo, il che consente di conservarne con nitidezza il ricordo, finendo per esacerbare ancor più il rimpianto .
Departe è uno dei capolavori dell’anno, e questo sia chiaro, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom. Qui siamo di fronte ad un’opera d’arte musicale che travalica generi e mode, peccato per chi pensa che la musica debba essere solo allegra, con la finalità di far muovere le membra umane in una grottesca e plastificata simulazione di felicità; i Clouds, al contrario, conducono ad un’estasi raggiungibile necessariamente tramite una catarsi emotiva indotta dalla tristezza.
Qualcuno ha scritto che un essere umano incapace di emozionarsi fa paura: sottoscrivo in pieno.

Tracklist:
1. How Can I Be There
2. Migration
3. In the Ocean of My Tears
4. In All This Dark
5. Driftwood
6. I Gave My Heart Away

Line-up:
Daniel Neagoe – Drums, Vocals
Jarno Salomaa – Guitars
Déhà – Guitars, Bass
Kostas Panagiotou – Keyboards
Jón Aldará – Vocals
Pim Blankenstein – Vocals
Eek – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Natalie Koskinen – Vocals
Shaun MacGowan – Violin

CLOUDS – Facebook

The Burning Dogma – No Shores Of Hope

No Shores Of Hope è un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.

Uno pensa: chi te lo fa fare di passare gran parte del tempo libero a tenere in piedi, assieme a qualche altro malato di mente, una webzine dalla quale non ci si guadagna nulla ?

La risposa sta, come il veleno, nella coda: chi l’ha detto che non ci si guadagna? Per esempio, se non fossero stati gli stessi The Burning Dogma ad inviarmi il promo del loro disco ai fini di una recensione, quante probabilità avrei avuto di ascoltarlo? Diciamo ben poche.
Ecco, la vera ricompensa di chi si dedica ad un (non) lavoro come questo è proprio quella di scoprire e godersi realtà ai più sconosciute ma capaci di produrre musica del tutto all’altezza di nomi ben più pubblicizzati.
No Shores Of Hope è il primo full length di questa band bolognese che, già da qualche anno, prova ad agitare i sonni dell’apparentemente placida Emilia con un death metal dai tratti progressivi e sinfonici e, probabilmente, l‘essere giunti alla prova della lunga distanza senza aver affrettato i tempi deve aver giovato non poco alla resa finale del lavoro.
Il sound dei The Burning Dogma è nervoso, oscuro e cangiante, a volte quasi in maniera eccessiva a causa di fulminei cambi di tempo che possono disorientare l’ascoltatore meno scafato o, comunque, meno propenso ad approfondire i contenuti di un album complesso ma dotato di grande fascino.
Un umore disturbante che si addice a No Shores Of Hope, un concept che affronta temi magari non nuovissimi ma sempre attuali, come il degrado dell’umanità e la necessità di lottare affinché tale deriva si arresti, in modo da poter trascorrere al meglio un esistenza destinata prima o poi ad una fine ineluttabile: la rappresentazione di tutto questo avviene tramite un death metal tecnico, che si sviluppa tra pulsioni melodico/sinfoniche e rallentamenti di matrice doom, arricchito da inserti elettronici presenti per lo più nei brevi intermezzi strumentali.
Lo screaming quasi di matrice black esibito da Andrea Montefiori viene talvolta alternato ad un più canonico robusto growl, ed anche questa varietà vocale finisce per costituire un ulteriore elemento di discontinuità in un album che è ricco di sorprese e di spunti eccellenti, oltre che di una serie di brani la cui pesantezza è stemperata sia dalla tecnica, che i musicisti mettono al servizio del songrwriting (e non viceversa), sia dagli spunti melodici che segnano un po’ tutti brani.
Spiccano, in una tracklist priva di punti deboli, la più catchy Skies Of Grey, ammorbidita da una bella voce femminile, la spigolosa Nemesis e No Heroes Dawn, parte centrale della trilogia Dawn Yet To Come, dove viene riproposto un frammento tratto da Inpropagation, traccia d’apertura della pietra miliare Necroticism …, quale doveroso omaggio ad una band come i Carcass alla quale sicuramente i The Burning Down si ispirano, specie nelle piuttosto ricercate evoluzioni chitarristiche.
No Shores Of Hope, quindi, si rivela un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.

Tracklist:
01. Waves Of Solitude
02. The Breach
03. Enigma Of The Unknown
04. Skies Of Grey
05. Feast For Crows
06. Burning Times
7. Distant Echoes
08. Hopeless
09. Dying Sun
10. Nemesis
11. Dawn Yet To Come – 1. Drowning
12. Dawn Yet To Come – 2. No Heroes Dawn
13. Dawn Yet To Come – 3. Uscimmo A Riveder Le Stelle

Line-up:
Maurizio Cremonini – Lead Guitar
Diego Luccarini – Rhythm Guitar
Giovanni Esposito – Keys
Antero Villaverde – Drums
Simone Esperti – Bass
Andrea Montefiori – Vocals

THE BURNING DOGMA – Facebook

Revelations Of Rain – Akrasia

L’ennesimo magnifico parto di una scena russa composta da una moltitudine di band in grado di elevare il funeral/death doom ai suoi massimi livelli.

Giunti al loro quinto full length, i russi Revelations Of Rain (o Otkroveniya Dozhdya, come sono conosciuti nella loro lingua) regalano agli appassionati di death doom un lavoro di elevato spessore, in grado di racchiudere quanto di meglio la scenda estrema della musica del destino ha offerto in questi ultimi anni.

Rispetto al precedente Deceptive Virtue, che già si segnalava come un magnifico disco, la band proveniente da Podolsk inasprisce non poco un sound che trovava le sue fondamenta nell’essenza più melodica del genere (My Dying Bride, Saturnus, Swallow The Sun, Ea) attingendo ad elementi di dissonanza che rimandano agli Esoteric, a certe aperture riconducibili ai Monolithe, oltre che alla cupa indole nichilista dei Comatose Vigil.
Certo, del funeral qui c’è più un’attitudine che la forma vera e propria, visto che i ritmi non sono quasi mai soffocanti ma semmai lo sono le strutture dei brani, che restano arcigni pur se pervasi da splendide melodie.
Proprio questo suo essere algido e nel contempo emozionale è il punto di forza di Akrasia, un lavoro che al primo impatto lascia più di una perplessità e al quale, pertanto, bisogna assolutamente dare il tempo di crescere, ascolto dopo ascolto, giorno dopo giorno.
Poi, sarà anche perché dopo tre anni ci abbiamo ormai fatto l’abitudine ad album cantati un po’ in tutte le lingue, il fatto che i Revelations Of Rain continuino ad utilizzare il loro idioma natio non costituisce più un problema, anzi, forse consente loro di aumentare l’impatto e la convinzione con cui si propongono anche al pubblico straniero.
Come in Deceptive Virtue, l’elemento predominante è la chitarra solista di Yuriy Ryzhov, capace di sfornare quasi a getto continuo melodie splendide e dolenti, supportato al meglio dal growl massiccio del fondatore (nonché chitarrista) Ilya Remizov e, fatto salvo l’ordinario strumentale Instead Of A Thousand Words, Akrasia è uno scrigno colmo di gioielli preziosi, tra i quali i più splendenti sono una magistrale In Joy And Sorrow e l’accoppiata finale Root Of All Evil e On Snow Wings.
Più ombroso rispetto al predecessore, l’ultimo album dei Revelations of Rain appare però più profondo e capace di reggere in maniera prolungata gli ascolti, mostrandosi, in ogni caso, l’ennesimo magnifico parto di una scena russa composta da una moltitudine di band in grado di elevare il funeral/death doom ai suoi massimi livelli.

Tracklist:
1. Altar’ Bludnic – Altar Of Whores
2. Skvoz’ Noch’ Fobetora – Through Phobetor’s Night
3. Jeshafot – Scaffold
4. V Grusti I Radosti – In Joy And Sorrow
5. Vmesto Tysjachi Slov – Instead Of A Thousand Words
6. Demony Miloserdija – Demons Of Mercy
7. Koren’ Vseh Bed – Root Of All Evil
8. Na Snezhnyh Kryl’jah – On Snow Wings

Line-up:
Olesya Muromskaya – Bass
Ilya Remizov – Vocals, Guitars
Denis Demenkov – Drums
Yuriy Ryzhov – Guitars

REVELATIONS OF RAIN – Facebook

Uncoffined – Ceremonies of Morbidity

Un album che ribadisce con forza, semmai l’avessimo dimenticato, quale sia la vera patria del genere.

Sicuramente, se si cerca del death doom della vechcha scuola suonato con proprietà e competenza, l’approdo in terra albionica è una sorta di certificato di garanzia.

Gli Uncoffined provengono, appunto, da Durham ed esprimono in maniera ideale questo stile musicale: Ceremonies of Morbidity è il loro secondo full length che conferma il buon livello già raggiunto con il precedente Ritual Death and Funeral Rites, grazie alla coesione di un gruppo di musicisti capaci di mettere a frutto l’esperienza maturata in passato.
Il motore della band è la cantante batterista Kat Shevil, attiva nella scena britannica fin dai primi anni novanta, guida del manipolo di dannati che ne accompagna l’efferato rantolo; Ceremonies of Morbidity è un lavoro che, con soli cinque brani, supera l’ora di durata ma tutto sommato il peso di tutto ciò non si avverte più di tanto: se si apprezza il genere non sarà un problema convivere con il sound pachidermico ma sufficientemente dinamico offerto dal quartetto.
Grazie ad una produzione efficace ma che lascia al sound quella “sporcizia” che ben gli si addice, l’album lascia il segno, mantenendo una sua drammaticità di fondo, dovuta anche all’inserimento di numerosi samples che rimandano agli horror in bianco e nero dello scorso secolo, e si pone una spanna al di sopra delle uscite di stampo analogo che mi è capitato di commentare ultimamente, alle quali mancava quella profondità che, invece, gli Uncoffined riescono ad imprimere con forza al lavoro.
Della tracklist segnalo gli ultimi due brani, Ill Omens of Death and Disease e Awakened from Their Dormant Slumber, che forse più degli altri si snodano lungo le coordinate che preferisco, quando il death doom volge lo sguardo ai dsichi d’esordio di Cathedral e Anathema, o all’unico splendido full length pubblicato dagli effimeri Decomposed: qui gli Uncoffined esprimono il meglio, ma non demeritano assolutamente anche nel resto di un album che ribadisce con forza, semmai l’avessimo dimenticato, quale sia la vera patria del genere.

Tracklist:
1. The Horrors of Highgate
2. Plague of the Uncoffined
3. Ceremonies of Morbidity
4. Ill Omens of Death and Disease
5. Awakened from Their Dormant Slumber

Line-up:
K.Shevil – Vocals, Drums
G.Hall – Guitars
Jonny Rot – Guitars
Gory Sugden – Bass

UNCOFFINED – Facebook

Soliloquium – An Empty Frame

An Empty Frame è un album sorprendente, se non per spunti innovativi, sicuramente per la qualità compositiva esibita da musicisti capaci di spaziare, con grande disinvoltura, fra diverse sfumature ed umori.

An Empty Frame è il full length d’esordio degli svedesi Soliloquium, un duo attivo dall’inizio del decennio e che, dopo l’accordo con la label americana Transcending, qualche mese fa aveva pubblicato una compilation (Absence) nella quale venivano racchiusi i brani contenuti nel demo e nei due ep usciti tra il 2012 ed il 2013.

Stefan Nordström e Jonas Bergkvist sono attivi anche in due death band, i Desolator e gli Ending Quest, e con i Soliloquium spostano il loro raggio d’azione verso suoni ben più malinconici, andandosi a muovere su terreni cari a connazionali quali Katatonia, October Tide e When Nothing Remains, senza perdere di vista ovviamente la scuola inglese del death doom.
Ciò che ne scaturisce, An Empty Frame, è così un album sorprendente se non per spunti innovativi, sicuramente per la qualità compositiva esibita da musicisti capaci di spaziare, con grande disinvoltura, fra diverse sfumature ed umori.
Così si passa in un attimo dall’opener Eye of the Storm, in pieno stile Novembers Doom, quindi una cavalcata death doom piuttosto arcigna, alle atmosfere liquide e rarefatte di Earthly Confine, canzone splendida nella quale si possono apprezzare le clean vocals di Nordström, per poi proseguire con brani che fondono sapientemente i due aspetti, attingendo ovviamente alla tradizione scandinava ma senza disdegnare appunto sconfinamenti oltreoceano, tra Novembers Doom e Daylight Dies (The Sorrow Path, With or Without, The Observer e Procession) e chiudere infine con lo strumentale Fear Not, dai tratti sognanti che ne spingono le note ai confini del postmetal.
An Empty Frame è un lavoro di grande pulizia esecutiva, ben costruito e ricco di ottimi spunti disseminati in ciascuna traccia: ci sono tutti i motivi, quindi, per ascoltarlo e farlo proprio.

Tracklist:
1. Eye of the Storm
2. Earthly Confine
3. The Sorrow Path
4. With or Without
5. The Observer
6. Procession
7. Fear Not

Line-up:
Stefan Nordström – vocals, guitars
Jonas Bergkvist – bass
Mortuz – drums
Mike Watts – electronics

SOLILOQUIUM – Facebook

Doomed – Anna

Doomed è ormai un marchio di qualità all’interno della scena doom, così come lo è la tipica copertina a sfondo verde che contraddistingue ogni sua uscita.

I Doomed, creati da Pierre Laube cinque anni fa, sono diventati in poco tempo uno dei nomi più interessanti della scena death doom europea.

A questo non ha contribuito solo la prolificità del musicista tedesco che, in media, ha pubblicato un full length all’anno, ma anche e soprattutto la qualità dei suoi lavori ai quali si unisce una indubbia peculiarità sonora.
Con Anna, i Doomed (tecnicamente un progetto solista di Laube, il quale ricorre però a diverse collaborazioni al momento dell’incisione dei dischi, diventando una band vera e propria in sede live) raggiungono il picco della loro produzione, grazie ad un songrwiting aspro ed intenso e ad un’esecuzione di grande spessore esaltata da una produzione perfetta.
L’album ruota attorno ad un concept piuttosto crudo che, descrivendo la storia di Anna, bambina che ha visto morire il padre durante la deportazione nazista, prende in esame il dramma della guerra visto e subìto dalla parte dei bambini, un argomento ben presente, purtroppo, in ogni fase della storia dell’umanità.
Il sound risente a livello di umore dei temi trattati, anche se per assurdo i momenti melodici persistono ugualmente e tutto sommato in misura non minore rispetto al passato: il fatto è che questi sono perfettamente inglobati all’interno di un mood drammatico, a tratti così violento da restituire pari pari la rabbia ed il dolore che l’argomento riesce ad evocare.
Il fulcro di Anna lo si ritrova nella sua parte centrale, quando due brani magnifici quanto differenti come The Weeping Trees e Withering Lives tratteggiano un’immagine nitida delle doti compositive di Pierre Laube: se nella prima traccia l’effetto straniante viene provocato da un intreccio vocale tra il nostro e la cognata Daniela, tra dissonanze ed aperture melodiche (qui l’assolo di chitarra è magnifico), la seconda è una vera e propria mazzata che si concretizza tramite una ritmica squadrata, riff pesantissimi e lo screaming dell’ospite Kris Clayton (Camel Of Doom) che ne moltiplica il livello di efferatezza.
Come detto anche in passato, il death doom dei Doomed è sovente sbilanciato sulla prima componente a livello sonoro, ma della seconda è del tutto intriso l’umore di un sound compresso da un livore sordo che ben esprime la reazione dell’artista nei confronti degli avvenimenti descritti.
Doomed è ormai un marchio di qualità all’interno della scena, così come lo è la tipica copertina a sfondo verde che contraddistingue ogni sua uscita, diventata ormai un appuntamento fisso in grado di ricordarci che il doom può essere anche una forma di reazione decisa nei confronti delle brutture che ci circondano, e non solo un malinconico e disperato ripiegarsi su sé stessi che è, invece, il leit motiv della sua frangia più melodica.
Entrambe le opzioni, comunque, sono assolutamente gradite, anzi, direi di più, necessarie …

Tracklist:
1. Your Highness The Chaos
2. Anna
3. As The Thoughts Began To Be Tarnish
4. The Weeping Trees
5. Withering Leaves
6. Roots Remain
7. The Frozen Wish

Line-up:
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

Guest musicians:
Ed Warby (Hail Of Bullets / Ayreon / The 11th Hour, ex-Gorefest) – lead vocals on “The Frozen Wish”
Markus Hartung (Panzerkreuzer) – add. vocals on “Your Highness The Chaos”
Kris Clayton (Camel Of Doom, ex-Esoteric) – add. vocals on “Withering Leaves”
Daniela Laube – add. backing vocals on “The Weeping Trees”
Uwe Reinholz (Oak Ridge) – add. solo guitar on “Wither Leaves

DOOMED – Facebook

Atten Ash – The Hourglass

The Hourglass non cede mai per intensità emotiva e stupisce per la sua qualità a prova di comparazione: non c’è infatti un solo brano che non meriti d’essere ricordato o che non contenga momenti di memorabile ed evocativo lirismo.

Non è mai troppo tardi per recuperare un bel disco, anche se questo è stato edito per la prima volta come autoproduzione nel 2012, per essere poi riproposto tre anni dopo dalla Hypnotic Dirge: The Hourglass, infatti, è in assoluto uno dei migliori lavori scaturiti dalla scena doom death statunitense nell’ultimo decennio.

Va premesso subito che nascondere o negare le affinità degli Atten Ash con i Daylight Dies è piuttosto difficile e, anche se volessimo passare sopra alle caratteristiche del sound, troviamo una stessa provenienza geografica (il North Carolina) e addirittura un membro in comune (il chitarrista Barry Gambling).
Dopo di che, fatte le debite premesse, l’ascolto di The Hourglass regala il doom death melodico alle sue massime potenzialità, con tanto di certificato sonoro da esibire alla bisogna come See Me… Never, una canzone a dir poco meravigliosa che ricorda non tanto qualcuno ma qualcosa, ovvero quanto questo genere musicale sia inimitabile nel suo offrire emozioni a profusione.
The Hourglass non cede mai per intensità emotiva e stupisce per la sua qualità a prova di comparazione: non c’è infatti un solo brano che non meriti d’essere ricordato o che non contenga momenti di memorabile ed evocativo lirismo.
Se non siamo ai livelli di A Frail Becoming (che uscì nello stesso anno), poco ci manca, e anche per questo non serve parlare oltre di questo disco, che va solo ascoltato e goduto in ogni suo attimo in attesa che gli Atten Ash ritornino alla ribalta con un nuovo e sospirato full length (che, a quanto pare, dovrebbe essere in via di realizzazione).

Tracklist:
1. City in the Sea
2. See Me… Never
3. Not as Others Were
4. Song for the Dead
5. Born
6. First Day
7. Waves of Siloam
8. The Hourglass

Line-up:
Barre Gambling – Guitars, Keyboards
James Greene – Vocals (clean), Guitars, Bass, Drums
Archie Hunt – Vocals (harsh)

ATTEN ASH – Facebook

The Ghost I’ve Become – Hollow

Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Hollow è un breve ep che costituisce il passo d’esordio dei finlandesi The Ghost I’ve Become.

Trattandosi di un lavoro immerso mani e piedi nel gothic death doom melodico, la provenienza geografica dei suoi autori rimanda automaticamente agli imprescindibili Swallow The Sun e susseguente genia, ma sarebbe riduttivo limitarsi a questo semplice paragone, specialmente quando il livello compositivo esibito è elevatissimo come in questo caso.
E’ da rimarcare, infatti, come la band proveniente dal nord della Finlandia (Oulu, nella parte alta del Golfo di Botnia) in questi intensi venti minuti metta a frutto sicuramente la lezione degli influenti connazionali, prendendo però anche il giusto dalla scuola americana (Daylight Dies) ed esibendo un gusto melodico ed una sensibilità di tocco che rimanda ai grandi Hamferð.
Ne consegue che, grazie a tale mirabile sintesi stilistica, questo breve ep si preannuncia come la probabile epifania di un’altra stella nel panorama del doom estremo: il quintetto finnico mette in mostra una tecnica solidissima, al servizio di uno stile compositivo che non prevede passaggi interlocutori ma soltanto momenti ricchi di malinconico pathos.
Da notare la presenza in line-up di Waltteri Väyrynen, giovane batterista che da quest’anno fa parte in pianta stabile niente meno che dei Paradise Lost, il che depone a favore di capacità tecniche oltre la media, ma i suoi compagni non sono affatto da meno, a partire dal bravissimo Jomi Kyllönen, a suo agio sia con evocative clean vocals che con un roccioso growl.
Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Tracklist:
1.Forever Gone
2.Cold, My Sweet Delight
3.Behind the Curtain

Line-up:
Vocals – Jomi Kyllönen
Guitars – Lauri Moilanen
Guitars – Joonas Kanniainen
Bass – Aku Varanka
Drums – Waltteri Väyrynen

THE GHOST I’VE BECOME – Facebook

Krypts – Remnants of Expansion

La quintessenza della malignità che si fa musica e autentica colonna sonora delle più terrorizzanti evocazioni lovecraftiane

Ecco, quando qualcuno, incuriosito dalle nostre strambe (per lui …) preferenze musicali, ci chiedesse di fargli ascoltare qualcosa, per esempio, definibile come death doom, questo nuovo album dei Krypts sarebbe perfetto.

Lontano dall’indole malinconica e consolatoria della sua frangia melodica, il genere interpretato dal gruppo finlandese diviene la quintessenza della malignità che si fa musica e autentica colonna sonora delle più terrorizzanti evocazioni lovecraftiane, tanto che il nostro ipotetico interlocutore ne resterà forse irrimediabilmente attratto oppure, molto più probabilmente, dal giorno dopo ci eviterà come la peste …
Una magnifica Arrow Of Entropy apre un lavoro che, fin dalle prime note, fa capire che non deluderà, attirandoci fatalmente nei propri abissi in cui funesto vate si rivela Antti Kotiranta (anche al basso), con il suo growl impietoso; i suoi degni compari Otso Ukkonen (batteria), Ville Snicker e Jukka Aho (chitarre) lo assecondano con il loro maelstrom sonoro che miscela Morbid Angel, Incantation e Asphyx da una parte, ed Evoken, Thergothon e Colosseum dall’altra.
Il risultato è un monolite dai tratti spaventosi il cui nome è comunque Krypts, al di là di ogni possibile riferimento passato e presente; a differenza di tanti tentativi, lodevoli ma spesso fallaci, di riportare a galla queste sonorità che trovarono linfa nei ’90 soprattutto, i quattro finnici non si limitano certo a sbraitare in un microfono su un tappeto sonoro ruvido, essenziale e spesso prodotto alla bell’e meglio: Remnants of Expansion è lo stato dell’arte del death doom ed ha un solo difetto, quello di durare appena mezz’ora, anche se per la sua veemenza in realtà appare molto più lungo.
I nostri non sono affatto solo dei biechi macinatori di riff assassini, ma sanno infatti creare atmosfere sospese ma disturbanti né più né meno di quando, con grande sapienza, erigono muraglie sonore di rara densità.
Come detto, in poco più di mezz’ora Remnants of Expansion compie il proprio annichilente percorso di morte, lasciando storditi per un intensità che va ben oltre la mera potenza esecutiva: non c’è una sola nota superflua in questa opera mefitica, ma ritengo Entrailed To The Breaking Wheel uno dei migliori brani che il genere ci ha offerto nel nuovo secolo, esibendo in poco più di cinque minuti il contenuto virtuale di un’ora di musica.
Nient’altro da dire, resta solo da calarsi con i Kyrpts in putridi meandri che la loro musica rende tangibili come il solitario di Providence riusciva a fare, circa un secolo fa, grazie alla sua tormentata penna …

Tracklist:
1. Arrow Of Entropy
2. The Withering Titan
3. Remnants Of Expansion
4. Entrailed To The Breaking Wheel
5. Transfixed

Line-up:
Otso Ukkonen – Drums
Ville Snicker – Guitars
Antti Kotiranta – Vocals, Bass
Jukka Aho – Guitars

KRYPTS – Facebook

Abske Fides – O Sol Fulmina a Terra

Gli Abske Fides si rendono autori di un lavoro che li porta di prepotenza alla ribalta della vivace scena doom brasiliana.

In occasione della recensione dell’omonimo full length d’esordio degli Abske Fides, esprimevo la sensazione che il lavoro costituisse ancora un momento i passaggio, alla luce delle diverse influenze che andavano ad intaccare la solida base doom.

Proprio questa apparenza ondivaga, unita ad un ricorso frequente a clean vocals quanto meno rivedibili, mi aveva lasciato leggermente perplesso e, quindi, non posso che esprimere la massima soddisfazione nel costatare che, con questo O Sol Fulmina a Terra, la musica del destino torna ad ammantare in toto il sound del gruppo brasiliano stendendovi sopra il suo velo luttuoso e la sua pesante ineluttabilità.
O Sol Fulmina a Terra, fin dal titolo, non lascia presagire nulla di buono per il futuro di un’umanità allo stremo e impotente di fronte all’inevitabile resa finale: la bravura del trio paulista, in questo caso, risiede nel riuscire a rendere in maniera magistrale questo senso di soffocamento e disperazione, senza rinunciare ad una costruzione melodica sempre efficace, questa volta abbinata ad un growl efficace che lascia spazi ridottissimi a vocalità pulite.
Anche se ogni tanto qualche scelta sonora non convince appieno, come certe dissonanze chitarristiche nella pur bellissima opener Na Planície Vermelha, gli Abske Fides si rendono così autori di un lavoro che li porta di prepotenza alla ribalta della vivace scena doom brasiliana: l’incedere sofferto di Árido Homem e della conclusiva Terra Vazia rappresenta in pieno la drammaticità di un death doom che non fa sconti, rendendo quasi visibile la disperazione di chi si aggira, ultimo superstite, su una Terra che il Sole, dopo aver cullato per eoni con il suo calore, ha deciso di annientare in maniera definitiva.
L’iniziale afflato melodico di Imóveis Ares è uno dei pochi momenti in cui è possibile collegare l’operato dei nostri a quello dei concittadini HellLight, tanto è differente l’approccio delle due band alla stessa materia, ma è solo un momento, appunto, visto che poi il brano riprende il suo dipanarsi plumbeo per poi rarefarsi nella parte finale e sfociare nell’inquietante strumentale Interregno.
Personalmente sono molto soddisfatto di questa prova, non solo per il suo valore intrinseco, ma soprattutto perché, nel momento in cui una doom band comincia a farsi attrarre da sonorità post metal o progressive, la considero quasi persa alla causa pur comprendendone il desiderio di evolversi verso altre forme musicali: gli Abske Fides dimostrano, con O Sol Fulmina a Terra, che fare un passo indietro talvolta equivale a farne tre avanti, e chi ama questo genere musicale unico non potrà che convenirne con me …

Tracklist:
1. Na Planície Vermelha
2. Árido Homem
3. Imóveis Ares
4. Interregno
5. Terra Vazia

Line-up:
K. – Drums, Bass, Vocals
Nihil – Guitars
N. – Guitars, Vocals

ABSKE FIDES – Facebook

Dwell – Desolation Psalms

Il death doom del gruppo di Aarhus è asciutto, molto più votato alla prima delle due componenti, ma senza disdegnare rallentamenti o aperture melodiche contraddistinte da un buon lavoro chitarristico.

Interessante uscita per i danesi Dwell, band che pubblica questo ep di quattro brani in attesa di presentare il primo album su lunga distanza.

Il death doom del gruppo di Aarhus è asciutto, molto più votato alla prima delle due componenti, ma senza disdegnare rallentamenti o aperture melodiche contraddistinte da un buon lavoro chitarristico.
In tal senso emerge quale traccia più efficace Teeth Gnawing, segnata da una ritmica accelerata, così come l’opener March of the Leeches, mentre il vero brano 100% doom è la conclusiva e più cupa None but my Bones (The Inevitable Absence of Time è invece un bello strumentale di natura ambient).
Nulla per cui strapparsi i capelli ma neppure un lavoro da sottovalutare: Desolation Psalms gode di una buona prova complessiva, con un’interpretazione vocale ruvidamente efficace di Jens B. Pedersen e un tocco chitarristico malinconico il giusto da parte di Morten Adsersen.
I Dwell si segnalano per il loro impatto, valorizzato da una produzione di livello, evento tutt’altro che casuale anche per l’esperienza dei musicisti coinvolti: per tutti questi motivi l’ep va ascoltato anche in proiezione del futuro full length.

Tracklist:
1. March of the Leeches
2. Teeth Gnawing
3. The Inevitable Absence of Time
4. None but my Bones

Line-up:
Jens B. Pedersen – Vocals
Quentin Nicollet – Bass
Morten Adsersen – Guitars
Kenneth Holme – Keyboards
Andreas Joen – Drums

DWELL – Facebook

Self-Hatred – Theia

Theia appare solidamente intriso dell’umore tragico dei Swallow The Sun così come del lirismo malinconico dei Saturnus, meritandosi il plauso degli appassionati.

Sono trascorsi circa due anni dalla recensione dell’esordio degli Et Moriemur, band ceca capace di inserirsi con autorità tra le realtà più promettenti del doom death melodico, ed oggi tocca ad un altro gruppo proveniente da quella nazione a cercare di farsi largo.

Si tratta dei Self-Hatred, che con i connazionali precedentemente citati hanno in comune due elementi, il batterista Michael “Datel” Rak ed il chitarrista Aleš Vilingr, oltre ad uno stesso sentire nell’esprimere le proprie inclinazioni musicali.
Rispetto agli Et Moriemur, i Self-Hatred differiscono soprattutto in alcuni particolari, tra i quali il più evidente è l’utilizzo sia di un abrasivo scream alternato al growl, da parte del bravo Kaťas, sia di vocalizzi femminili efficaci quando si limitano ad interventi in stile Natalie Koskinen, un po’ meno quando indulgono in prolungati gorgheggi lirici.
Nel complesso il disco è di buonissimo livello, grazie ad una serie di brani eseguiti e prodotti senza sbavature, tra i quali spiccano l’opener Guilt, dai tratti soffocanti in avvio ed in conclusione, Slither, gratificata da una linea melodica drammatica, e la conclusiva Memories, traccia che si rivela emblematica di un talento compositivo tutt’altro che trascurabile.
E’ sempre bene ricordare che in questo genere nulla si crea e nulla si distrugge, per cui Theia appare solidamente intriso dell’umore tragico dei Swallow The Sun così come del lirismo malinconico dei Saturnus, meritandosi il plauso degli appassionati, come spesso accade per le uscite marchiate Solitude.
Tenendo conto anche dell’ultimo splendido lavoro dei Quercus, i Self-Hatred dimostrano come, nella scena metal ceca, certe sonorità stiano trovando sempre più spazio con uscite di assoluta qualità.

Tracklist:
1. Guilt
2. Theia
3. Slither
4. Attraction
5. No Judgement
6. Self-reflection
7. Memories
Line-up:

Štěpán Eret – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Pavel Janouškovec – Guitars
Michal Šanda – Keyboards
Kaťas – Vocals

SELF-HATRED – Facebook