Confermando l’attitudine senza compromessi della band, l’album esplode in una tempesta di suoni velocissimi ed arrembanti
Peccato non avere più informazioni su questo trio russo, perché il loro full length è un devastante e quanto mai aggressivo album di thrash metal, violentato da un’attitudine hardcore sopra le righe.
Il gruppo è al secondo lavoro, che segue di due anni il debutto del 2013, le songs sono state scritte nell’arco di tre anni (dal 2012 al 2015) per una durata che supera di poco i venti minuti, ma la carica violenta ed il songwriting ispirato ne fanno un piccolo gioiello di genere.
Tutto scritto in lingua madre, a confermare l’attitudine senza compromessi della band, l’album esplode in una tempesta di suoni velocissimi ed arrembanti; i musicisti del gruppo possiedono tecnica da vendere e i brani risultano uno più bello e massacrante dell’altro.
Gli А.П. sono formati da Eugene (chitarra e voce), Yura (basso e voce) e Diman (batteria), il loro sound svaria tra l’hardcore e il punk, con ottime intuizioni thrash metal, così che Быть выше, può tranquillamente sollazzare tanto gli amanti dell’hardcore/punk, quanto i metallari dai gusti estremi.
La voce travalica i generi, passando da uno scream cavernoso, al classico tono hardcore, la chitarra incendiano lo spartito con ritmiche fulminanti e la sezione ritmica è un mostro di velocità e precisione.
Spirito underground ed antisociale, il gruppo tramite il fondatore Eugene va avanti dal 2004, anche se è dal 2011 che la line up odierna gira a far danni per i locali della terra madre: А.П. è un combo che non lascia trasparire nessun compromesso ed è dotato di enorme talento, per i fans del genere un ascolto consigliato.
TRACKLIST
01. Быть выше
02. После нас
03. Выйди из игры
04. Враги солнца
05. Не откладывай на завтра
06. Стадо
07. Грёзы о будущем лучшего мира
08. Взрослеть – это больно
09. Быть овцой – тоже выбор
10. Постапокалипсис
LINE-UP
Eugene – guitar/vocals
Yura – bass/vocals
Diman – drums
Opera che rasenta il capolavoro, il secondo album di Gabriels è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese
La label genovese Diamonds Prod., dopo aver licenziato il bellissimo album del progetto Odyssea di Pier Gonella e Roberto Tiranti, pesca un altro gioiello metallico, il secondo lavoro solista del musicista e compositore siciliano Gabriels, che torna sul mercato tra anni dopo il notevole Prophecy, un concept ispirato ai fatti dell’undici settembre 2001.
Gabriels si contorna, come nel primo album, di un manipolo agguerrito di talenti della scena metallica nazionale e non solo, portando in musica le gesta dei protagonisti del manga e anime Hokuto No Ken di cui il musicista è cultore. Fist Of Steel è il primo capitolo di una trilogia intitolata Fist Of The Seven Stars, dunque un concept oltremodo ambizioso e, almeno in questa prima parte, il risultato è quantomai eccellente.
I musicisti che hanno aiutato Gabriels in questa avventura sono tanti, chi come membro fisso della line up, chi come special guest, contribuendo a rendere l’album un manifesto sontuoso di musica fieramente metallica, melodica e orchestrale.
Da Wild Steel, Marius Danielsen, Dario Grillo, Dave Dell’Orto e Ida Elena splendidi interpreti al microfono, all’apporto strumentale dei vari Glauber Oliveira (Dark Avengers), Stefano Calvagno (Metatrone), Francesco Ivan Sante’ Dall’O tra gli altri alla sei corde, Andrea “Tower” Torricini dei Vision Divine al basso e chitarra, tanto per citare alcuni dei musicisti impegnati, rendono quest’opera un’escalation di emozioni, capitanati ovviamente dai tasti d’avorio di Gabriels, alle prese con hammond, synth e pianoforte accompagnandoci nel mondo eroico della leggenda di Hokuto No Ken, famosissima in tutto il mondo.
Il sound si discosta leggermente dal mood del primo lavoro, che a più riprese ricordava l’hard rock orchestrale dei danesi Royal Hunt: Fist Of Steelrisulta più power oriented, specialmente nella prima parte con la title track e She’s Mine che fanno decollare l’album fino ad elevate vette qualitative con la melodica Seven Stars e la power A New Beginning, song che avvicina il sound ai primi lavori dei tedeschi Edguy.
Il cuore dell’album è lasciato a tre brani superbi per intensità e prestazioni vocali: Break Me, My Advance e To Love, Ever Invain, mentre Black Gate ci riporta su ritmiche power metal. Revenge Invain e Decide Your Destiny chiudono questo primo capitolo al meglio, con un’apoteosi di suoni orchestrali, nobile metallo sinfonico, cori epici ed emozioni che crescono a dismisura, mentre le note che le dita di Gabriels fanno scaturire dalle tastiere, formano arcobaleni di scale melodiche sopraffine.
Opera che rasenta il capolavoro, la prima parte di quello che diventerà un lavoro monumentale è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese; è davvero l’ora di tagliare il cordone ombelicale che vi lega ai sempre più imbolsiti dinosauri di ere passate tuffandovi nella musica del nuovo millennio che, con rispetto, guarda al passato ma vive nel presente ed è pronta per un roseo futuro: scegliere questo lavoro per farlo sarebbe il migliore inizio.
TRACKLIST
1) Fist of Steel
2) She’s mine
3) Mistake
4) Seven Stars
5) A new beginning
6) Break me
7) My Advance
8) To love, ever invain
9) Sacrifice
10) Black Gate
11) Revenge invain
12) Decide your destiny
LINE-UP
Gabriels: All the Keyboards, Piano, Synth, Hammond and background vocals
Wild Steel : Vocals
Dario Grillo : Vocals
Marius Danielsen: Vocals
Ida Elena : Vocals
Dave Dell’Orto : Vocals
Iliour Griften : Background Vocals
Glauber Oliveira : Guitars
Stefano Calvagno : Guitars
Giovanni Tommasucci : Guitars
Francesco Ivan Sante’Dall’O : Guitars
Angelo Mazzeo : Guitars
Tommy Vitaly : Guitars
Dino Fiorenza : Bass
Christian Cosentino : Bass
Simone Alberti : Drums
Guests:
Andrea “Tower” Torricini : Bass and Guitars
Davide Perruzza : Guitars
Il sound dei Mourning Soul, nonostante provenga dalla calda Trinacria, è gelido quanto quello dei Behemoth o dei “confratelli” scadinavi, ma racchiude in sé una drammaticità di fondo tutta mediterranea, un’inquietudine che si esplicita tramite passaggi acustici, voci recitate, sampler, che di volta in volta vengono investiti da una colata lavica di note possenti.
Dopo una decina d’anni di attività, i siciliani Mourning Soul giungono al full length d’esordio sotto l’egida della Dolorem Records.
La prima cosa che emerge fin dall’ascolto delle prime note dell’album è che, sicuramente, tutto il tempo che il trio di Enna si è preso prima di arrivare questo appuntamento è stato ben speso: il black death che viene riversato in questo lavoro è, infatti, di un livello tecnico e compositivo inattaccabile, esaltato poi dalla scelta di affidare il lavoro di registrazione a Magnus Andersson (già all’opera sugli ultimi album di Marduk e Ragnarok, tra gli altri) presso gli Endarker Studio in quel di Norrköping.
Furia controllata, rallentamenti, inserti acustici, un growl di matrice tipicamente death, sono gli elementi che, perfettamente coesi, rendono l’album un prodotto di respiro internazionale, meritevole quindi di uscire dai nostri angusti confini “metallici”.
Il sound dei Mourning Soul, nonostante provenga dalla calda Trinacria, è gelido quanto quello dei Behemoth o dei “confratelli” scadinavi, ma racchiude in sé una drammaticità di fondo tutta mediterranea, un’inquietudine che si esplicita tramite passaggi acustici, voci recitate, sampler, che di volta in volta vengono investiti da una colata lavica di note possenti. Ego Death – Ritual non mostra cedimenti, quindi, piuttosto che di punti deboli, bisogna necessariamente parlare di picchi compositivi, rinvenibili per esempio in una traccia formidabile come Weltschmerz, con la quale si viene sballottati tra il black più oscuro ed atmosferico, il depressive ed il doom, o nella conclusiva e drammatica The Judgement Of Gehenna, che si chiude rievocando momenti del massacro di Jonestown (o almeno è quanto mi pare di cogliere, in assenza di note più esplicite in tal senso).
Un sentimento fortemente antireligioso è, del resto, ciò che gronda in maniera copiosa da queste note, ma ciò non avviene mai in maniera becera bensì in una forma matura, compiuta e convincente; in sintesi, Ego Death – Ritual è uno dei migliori esempi di black/death metal sfornati in questo primo scorcio di 2016 (con buone chance di restare tale anche a fine anno), per cui chi ama il genere ha il dovere di farlo proprio.
Tracklist:
1. Salvation (To The Temple Of Knowledge)
2. Resurrection Through The Serpent’s Light
3. The Cold Embrace Calls Me
4. Weltschmerz (The Heavyness Of Sin)
5. Chamber Of Bones
6. Bleeding By Thorns
7. Moribunds
8. Ultima Solitudo
9. The Judgement Of Gehenna
Tumultuosa e caotica eggregora di death e black metal, che cresce come una bestia senza controllo per lo spazio di tre canzoni che segnano più di album interi.
Tumultuosa e caotica eggregora di death e black metal, che cresce come una bestia senza controllo per lo spazio di tre canzoni che segnano più di album interi.
Dall’underground metallico neozelandese arriva questa bestia demoniaca che porta il nome di Veneficium, e che qui ci colpisce con il suo primo demo in cassetta. La proposta dei Veneficium porta il segno demoniaco, ed è fatta di metal in lo fi ma con gusto, ovvero l’analogico è al servizio dell’effetto finale, e non è esso stesso un fine. Tre pezzi pesanti e sporchissimi, che lasciano sperare in un’agonia finale su lunga distanza. Non si risparmiano i Veneficium e non lasciano tregua all’ascoltatore, che dovrà calarsi in tenebrosi abissi che lo faranno godere alquanto.
La saturazione sonora è quasi al limite ma ciò non infastidisce poiché i Veneficium trovano sempre qualcosa di valido e bestiale per andare avanti. Un demo che lascia basiti per quanta cattiveria e caos contiene, ma anche per la sagacia metallica con la quale è composto. Molto bestiale, molto bello.
Prodotto benino, Rise Of The Fallen va valutato per quello che è, un buon album di metal classico in cui i musicisti immettono varie sfumature, rendendo l’ascolto impegnativo ma soddisfacente.
La Pure Steel, label tedesca dedita ai suoni metal classici e hard rock, è un vulcano musicale attivo che erutta album su album, molti che richiamano il metal tradizionale, mantenendo una qualità medio alta e questo non può che far piacere ai tanti amanti del genere.
I gruppi sono davvero tanti, pescati in ogni parte del mondo, dalla terra natia, agli stati vicini come l’Italia, l’Austria e la Svizzera, senza dimenticare la musica aldilà dell’oceano e l’U.S metal.
I Distant Past sono svizzeri, tra le loro fila non manca un musicista nostrano (il bassista Adriano Troiano, ex Emerald) e suonano heavy metal classico, ispirato ai suoni ottantiani, ma reso elegante da divagazioni prog ed aggressivo da accenni di ruvido thrash metal.
Fondati in quel di Berna nel 2002 arrivano con Rise of the Fallen al quinto album sulla lunga distanza, dal debutto del 2003 Science Reality, passando per Extraordinairy Indication of Unnatural Perception e Alpha Draconis, rispettivamente usciti nel 2005 e nel 2010, fino al precedente Utopian Void, licenziato due anni fa.
Tanta melodia, aggressività ragionata, accelerazioni e grande tecnica al servizio di sfumature progressive, sono le qualità maggiori del sound dei Distant Past che, se strizza l’occhiolino ai gruppi ottantiani, non manca certo in personalità.
Un album che, nel suo insieme, risulta un ottimo lavoro, colmo di quelle peculiarità che fanno grande la nostra musica preferita, anche se forse mancano uno o due brani trainanti, i classici singoli (tanto per intenderci).
E infatti Rise Of The fallensi avvicina ad un’opera progressiva, concettualmente parlando: le songs si assaporano dopo qualche ascolto, così da entrare appieno nel sound maturo ed elegante che il gruppo confeziona, senza perdere un’oncia in quanto a durezza metallica.
Sunto del lavoro è la bellissima Road To Golgotha, heavy metal progressivo, drammatico ed oscuro, con un inizio classico, acellerazione devastante in thrash style e armonie acustiche sul finale, cinque minuti in cui viene riassunto il credo musicale dei Distant Past.
Prodotto benino, Rise Of The Fallen va valutato per quello che è, un buon album di metal classico in cui i musicisti, senza perdere la bussola, immettono varie atmosfere e sfumature, rendendo l’ascolto impegnativo ma soddisfacente, almeno per chi continua ad amare i suoni tradizionali.
TRACKLIST
1. Masters of Duality
2. Die as One
3. End of the World
4. Ark of the Saviour
5. Scriptural Truth
6. Redemption
7. The Road to Golgotha
8. Heroes Die
9. The Ascension
10. By the Light of the Morning Star
Nell’ora abbondante in cui si sviluppa, URSA non mostra alcun cedimento qualitativo, a dimostrazione del fatto che i Novembre non sono tornati solo per uniformarsi alla moda delle reunion o della rievocazione di ciò che è stato
Trovarci tra le mani l’album che segna il ritorno, dopo molti anni, di una della band italiane più influenti degli ultimi vent’anni provoca sensazioni contrastanti: da una parte c’è il desiderio di ascoltare nuovo materiale inedito controbilanciato dal timore che una pausa così lunga possa averne, in qualche modo, annacquato la vis compositiva.
Australis, brano d’apertura di URSA(che, oltre al suo più immediato significato in latino è, soprattutto, l’acronimo di Union des Républiques Socialistes Animales, richiamando così l’orwelliana “La Fattoria degli Animali”), riparte da dove il discorso si era interrotto: i Novembre sono di nuovo tra noi, con il loro magistrale incontro tra doom, death, dark e post rock (sotto genere questo, dei quali i nostri sono degli antesignani suonandolo già quando nessuno si era ancora sognato di definirlo in tale maniera). Rispetto al passato forse l’elemento di discontinuità maggiore non è musicale bensì a livello di organico, perché non si può fare a meno di notare la “rumorosa” assenza di Giuseppe Orlando (ormai in pianta stabile nei The Foreshadowing): la band oggi è, quindi, più che mai nelle mani del solo Carmelo Orlando, appoggiato dalla stabile e fondamentale presenza di Massimiliano Pagliuso alla chitarra; a completare una line-up di tutto rispetto troviamo altri due ottimi musicisti della scena romana come Fabio Fraschini (Degenerhate) al basso e David Folchitto (Stormlord e Nerodia, tra le altre) alla batteria. URSAsciorina con una continuità impressionante brani fluidi, ispirati, nel quale il tipico incedere vocale, all’apparenza indolente, di Orlando si alterna con il growl, stile al quale i corrispettivi scandinavi hanno da tempo rinunciato: a mio parere, l’innesto di vocals più aspre, se dosato sapientemente come avviene in questo caso, aumenta non poco l’impatto del sound, fornendo un sbocco drammatico al senso di soffusa malinconia che viene invece evocato dalle clean vocals.
A livello lirico URSA fornisce uno spaccato dell’umanità che non lascia presagire nulla di buono per il futuro del pianeta, laddove la specie dominante piega alle proprie esigenze, sfruttandola, qualsiasi altra forma di vita senza farsi sfiorare da alcun dubbio di natura etica; il tema trova, peraltro, una sua magnifica rappresentazione grafica grazie alla copertina creata dal celeberrimo Travis Smith.
L’umore dell’album ne risente, pur senza toccare le vette tragiche del doom più estremo, scegliendo di comunicare tali sensazioni tramite un sound che, come da trademark dei nostri, si ammanta di tonalità per lo più autunnali, screziate però da frequenti accelerazioni.
Nell’ora abbondante in cui si sviluppa, URSAnon mostra alcun cedimento qualitativo, a dimostrazione del fatto che i Novembre non sono tornati solo per uniformarsi alla moda delle reunion o della rievocazione di ciò che è stato: Orlando in tutti questi anni ha continuato a comporre e, nel 2016, ha messo sul piatto l’album che chiarisce quali siano i ruoli di leader e followers della scena, non solo italiana; la scelta di affidare la produzione a Dan Swanö costituisce la consueta garanzia di successo, anche perché è ben difficile trovare un lavoro prodotto dal genio svedese che non sia all’altezza della situazione e, tutto sommato, sembra quasi che i Novembre, con il singolo Annoluce, intendano in qualche modo omaggiarlo, visto che il brano ricorda per umori gli Edge of Sanity di Crimson (da segnalare, qui, la partecipazione di Anders Nyström dei Katatonia). URSAsi muove come un flusso unico, nonostante ogni traccia possieda una sua peculiarità: ad esempio la citata Annoluce sfuma in Agathae , splendido e lunghissimo episodio pressoché strumentale di matrice folk, nel quale Pagliuso rievoca brillantemente gli umori e la tradizione di quella Sicilia che ai nostri ha dato i natali: il brano si trasforma via via in un caleidoscopio di emozioni e sfumature musicali, passando fluidamente per il progressive, il death ed il black, il tutto rivestito da un’eleganza e da un talento compositivo non comune.
Altre due canzoni che impressionano per il loro impatto melodico ed evocativo sono Umana, forse il momento maggiormente accostabile al death/doom dell’intero album, ed Oceans Of Afternoons, sei minuti di pathos in costante crescendo progressivo, sigillati dall’intervento finale di un sax.
Più melodici degli Opeth e meno algidi degli ultimi Katatonia, i Novembre dimostrano in maniera chiara quale sia la fonte alla quale si sono abbeverati molti dei più recenti campioni emersi all’interno di questo segmento stilistico; rispetto a questi, però, la seminale band italiana possiede quel background estremo che, pur se esplicitato in maniera ridotta, rappresenta l’ingrediente capace di donare ulteriore profondità al sound rendendolo, infine, qualcosa di unico.
Tracklist:
1. Australis
2. The Rose
3. Umana
4. Easter
5. URSA
6. Oceans of Afternoons
7. Annoluce
8. Agathae
9. Bremen
10. Fin
Continua senza freni il percorso musicale di Guilherme De Alvarenga e i suoi D.A.M, dopo i fasti seguiti all’uscita di due ottime opere come l’ep Phantasmagoria ed il full length The Awakening.
Continua senza freni il percorso musicale di Guilherme De Alvarenga e i suoi D.A.M, dopo i fasti seguiti all’uscita di due ottime opere come l’ep Phantasmagoria ed il full length The Awakening.
La band brasiliana ha vissuto un crescendo qualitativo entusiasmante, iniziato nel 2013 con l’ep Possessed ed il primo full lenght Tales Of The Mad King, ed in poco tempo è arrivata ad uno status molto alto per un gruppo underground, confermandosi a suon di esplosivo power/melodic death metal come una delle realtà più interessanti del genere.
Rigorosamente autoprodotto, anche questo nuovo ep conferma il talento del gruppo verde oro e del suo leader, aiutato come sempre dal buon Edu Megale, alla sei corde e dal bassista Caio campos, più un paio di graditi ospiti come Jéssica Delazare, singer sulla bellissima Untouchable, così come Marina Guimarães alle prese con i cori. Premonitions, prodotto dallo stesso De Alvarenga con l’aiuto di David Fau, potrebbe tranquillamente essere considerato un full length, visto la durata che sfiora i quaranta minuti e la qualità delle songs di cui è composto.
Ancora una volta il gruppo ci delizia con una scarica di death metal melodico, dove il synth di De Alvarenga fa il bello ed il cattivo tempo, le ritmiche veloci, le atmosfere oscure, il growl straripante e quelle cavalcate dal sapore neoclassico, tanto care alla band, ci trasportano nel mondo fatato, ma pericolosissimo dei D.A.M.
Grande partenza con la titletrack, dieci minuti di scale vorticose alla velocità della luce, dove il gruppo si ripresenta all’ascoltatore mettendo sul piatto tutto il suo credo musicale, composto da metal classico ed estremo, perfettamente bilanciati e uniti insieme da melodie dall’appeal straordinario.
L’alternanza tra furia death, potenza power, ed atmosfere mistiche ed oscure, danno modo di entrare in un altro mondo, come un’Alice nel paese delle meraviglie in versione horror.
Si passeggia in questo mondo parallelo, guardandoci intorno, mentre prima The Cage e poi la stupenda Untouchable ci travolgono con una tempesta di suoni metallici, mentre una musa ci avverte dei pericoli che incontreremo nel proseguimento del nostro peregrinare.
De Alavarenga da letteralmente spettacolo, le sue dita scivolano tra i tasti d’avorio a velocità proibitive, la tensione rimane altissima, i vari passaggi sono curatissimi e i cori in cleans donano quel gustoso tocco power, al quale la band non rinuncia neanche in queste nuove songs.
Chi segue iyezine, dovrebbe ormai conoscere i D.A.M, visto che li si segue dall’esordio, ma per chi non ha ancora avuto la fortuna di ascoltare la musica di Guilherme de Alvarenga ricordo che nel loro sound confluiscono i migliori, Children Of Bodom, Stratovarius e primi In Flames, il tutto elevato alla massima potenza melodica. Changing the Directions e Frustration, chiudono alla grande questa ennesima prova di forza da parte di una band unica, una delle migliori nel genere, regalando nella song che chiude il lavoro atmosfere che ci portano al periodo settantiano, tra prog e accenni blues, il tutto in un contesto metallico che rimane aggressivo ed oscuro, un capolavoro.
Inutile dire che Premonitionsè un album bellissimo che non può mancare tra gli ascolti dei fan del genere, un grande ritorno dopo il clamoroso full lenght di due anni fa.
TRACKLIST
1. Premonitions… (Under the Tree of Regrets)
2. The Cage (Breaking the Paradigms)
3. Untouchable (My Past Mistakes…)
4. Anorexic Dysphoria (AElegy for the Brainless)
5. Changing the Directions (Unresolved)
6. Frustration (Imprisoned Dreams)
LINE-UP
Edu Megale – Guitars
Guilherme de Alvarenga – Vocals, Keyboards
Caio Campos – Bass
Tirate fuori dall’armadio i vostri vecchi pantaloni di pelle, fornitevi di cinturone e cappello e partite all’avventura nel far west con i nostrani Redwest ed il loro primo lavoro, Crimson Renegade.
Tirate fuori dall’armadio i vostri vecchi pantaloni di pelle, fornitevi di cinturone e cappello e partite all’avventura nel far west con i nostrani Redwest ed il loro primo lavoro, Crimson Renegade.
Nato intorno all’area milanese nel 2009, il quartetto di cow boy dal grilletto facile, propone un interessante hard rock dalle atmosfere western, una commistione di metal, southern e suoni che si rifanno alle colonne sonore del maestro Morricone, molto affascinante e ben fatto.
Arrivano a questo debutto dopo due mini cd, Spaghetti Western Metal del 2009, seguito da Play Your Hand del 2012, ed ora Il Lurido, La Straniera, Il Randagio, ed Il Losco sono pronti per investirci con il loro sound proveniente dalla frontiera, dove la vita non vale un dollaro bucato e non vengono risparmiati né buoni, né brutti, né cattivi, mentre Ringo è sempre in cerca della sua vendetta.
Riuscito ed originale, il sound prodotto rivela un buon talento per le atmosfere da cinema di genere, quel spaghetti western tutto italiano, che tante soddisfazioni ha dato, non solo nel mondo del cinema, ma con le colonne sonore del grande Morricone anche nella musica.
Sembra davvero di camminare lungo la via di un paese sperduto nella frontiera americana, dove entrare in un saloon per bere un goccio può rivelarsi una pessima idea e incocciare lo sguardo sbagliato, si può solo risolvere con un duello allo scoccare del mezzogiorno, mentre il caldo ed il sudore fanno scivolare le mani sulla colt, unica compagna fidata di una vita appesa al filo delle pallottole. Crimson Renegade scorre che è un piacere, le ritmiche metal rock, ben si amalgamano alle atmosfere western create dal gruppo e le songs risultano varie e dal buon appeal.
Si passa infatti da brani più ruvidi, a altri dove ci si addentra nelle armonie acustiche molto southern, che i Redwest sono maestri nel arricchire di gradevoli trame folk e cinematografiche, con citazioni eccellenti (A Fistful Of Dollars, al maestro Morricone), riusciti duetti vocali tra Il Lurido e La Straniera (la titletrack), riffoni metallici dal buon impatto (C.H.F.), ed allegre ballate solari come la conclusiva Poker, song da serate festaiole nei saloon, dove birra e whiskey scorrono a fiumi ed i pistoleri si possono sollazzare sotto le gonne di prorompenti signorine strette nei corpetti che fanno esplodere i seni prosperosi.
Appunto Poker chiude questo ottimo lavoro, molto originale (non sono molte le band che uniscono metal/rock a suoni western, mi vengono in mente i soli power metallers Spellblast, ed i rockers tedeschi Skip Rock) e davvero ben eseguito, lanciando il gruppo milanese come convincenti portabandiera del western metal.
Ed ora, dopo l’ennesimo duello si sale in sella al vecchio ronzino, l’appuntamento è qualche miglio più in la, un altro paese, con nuove avventure ed altre bottiglie di whiskey da svuotare.
TRACKLIST
1. Crimson Renegade
2. C.F.H.
3. The Ballad Of Eddie W
4. Morning Ghost
5. Fire
6. Bullet Rain
7. Eternity
8. The Dreamcatcher
9. A Fistful Of Dollars
10.Golden Sands
11.Poker (bonus track)
LINE-UP
Il Lurido – Vocals & Harmonica
La Straniera – Backing Vocals
Il Randagio – Guitars
Il Losco – Bass
Metal Machine potrebbe trovare qualche estimatore solo nei fans più accaniti dei suoni old school provenienti dal nuovo continente
I Corners Of Sanctuary ci invitano all’ascolto di un lavoro impregnato sul sound storico della scena metallica statunitense, genere che ha regalato molte soddisfazioni ai true metallers, specialmente negli anni a cavallo tra il decennio ottantiano e quello successivo.
Metal Machine non si discosta di una virgola dalle opere passate (Breakout nel 2012, Harlequin del 2013 ed Axe to Grind uscito tre anni fa), il loro metal che richiama i Metal Church tira dritto per la sua strada, non concedendo nulla sul piano del songwriting, che risulta una buona proposta di genere senza grossi picchi a livello di qualità.
Il quartetto si dichiara una New Wave of Traditional American Heavy Metal band, ed in effetti non si può dargli torto, Metal Machine è una onesta rivisitazione del sound americano, improntato su chitarre incendiarie, ritmiche col pilota automatico ed un cantante sufficientemente capace, ma al quale la produzione molto old school non rende giustizia, lasciando la voce lontana dagli strumenti.
La virtù principale dell’U.S. metal sono le atmosfere oscure delle quale per primi i Metal Church furono maestri, insieme ai Savatage dei primi album e che su Metal Machine vengono a mancare, favorendo un approccio più ruvido ed in your face.
Peccato, perché così le songs tendono ad assomigliarsi un po troppo, mantenendo la stessa linea per tutta la durata del disco, che fa fatica a decollare proprio per la mancanza di un briciolo di varietà ed idee in più.
L’album comunque si accaparra una larga sufficienza per l’attitudine senza compromessi e la grinta che non viene mai a mancare, grazie anche ad una manciata di brani oltremodo onesti e fieramente metallici come la title track, Left Scarred, Tomorrow Never Comes e Wrecking Ball. Metal Machine potrebbe trovare qualche estimatore nei fans più accaniti dei suoni old school provenienti dal nuovo continente.
TRACKLIST
1. Turn It On
2. Metal Machine
3. Like It Matters
4. Left Scarred
5. In Blood We Shall Fight
6. The Return
7. Souls Without Shout
8. Monster
9. Tomorrow Never Comes
10. Wrecking Ball
11. Killswitch
LINE-UP
Frankie Cross – vocals
Sean Nelligan – drums
James Pera – bass
Mick Michaels – guitars
Violenta sferzata quella inferta dai francesi Volker, band che nei pochi minuti a disposizione in questo ep di debutto immette più idee di quanto facciano miriadi di gruppi in un’intera discografia.
Violenta sferzata quella inferta dai francesi Volker, band che nei pochi minuti a disposizione in questo ep di debutto immette più idee (condite da una non comune intensità ) di quanto facciano miriadi di gruppi in un’intera discografia.
Alla riuscita dell’operazione contribuisce in maniera decisiva una vocalist come Jen Nyx (ex-Noein), capace di variare nell’arco dei diversi brani più registri vocali, trasformandosi a seconda delle circostanze in puttana, acerba adolescente, feroce dominatrice o sensuale sirena: in poche parole, una prestazione a dir poco mostruosa all’insegna di una versatilità raramente riscontrabile.
Oltre all’intro 375-405, in questo breve lavoro omonimo dei Volker troviamo il furioso black/death’n’ roll di Bitch, il dark/blues dalle derive doom della stupefacente Pavor Nocturnus e, per finire, il deathcore melodico di Zombie Heart.
Detto che i degni compari della donzella (corrispondenti a ¾ degli ottimi blacksters Otargos) ci danno dentro come se non ci fosse un domani, fondendo mirabilmente tecnica ed energia, va senz’altro tenuta d’occhio questa bomba (anche sexy nella persona di Jen) pronta in futuro ad esplodere, fortunatamente senza fare vittime ma attirando semmai nuovi adepti.
Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.
Con i Paragon si torna a parlare di true power metal made in Germany, infatti la band di Amburgo oltre ad essere considerata ormai un gruppo storico del genere, è una di quelle che più ha mantenuto fede alla tradizione metallica del suo paese d’origine, dove la scena metal classica è diventata nel corso degli anni un punto di riferimento influenzando non poco le nuove generazioni di gruppi alle prese con i suoni heavy.
Nati nel 1990, i Paragon non hanno mai raggiunto il successo dei gruppi considerati i padri del genere, come Accept ed Helloween negli anni ottanta e poi i vari Gamma Ray, Grave Digger e Rage, nel decennio successivo, ma la loro discografia si è comunque sempre mantenuta su una buona qualità, tanto da non passare inosservati ai fans dei suoni heavy/power, anche grazie ad album di assoluto valore come la triade Steelbound , Law Of The Blade e The Dark Legacy, usciti tra il 2001 ed il 2003, anni ancora grassi per il genere, almeno in Europa.
Il tempo scorre inesorabile anche per il gruppo del chitarrista Martin Christian, siamo giunti al traguardo dell’undicesimo album, non male per una band che ha continuato per tutti questi anni a portare avanti la sua missione: suonare power/speed/heavy metal, veloce, devastante, epico e senza compromessi.
Prodotto da un monumento del power europeo come Piet Sielck , mastermind degli Iron Savior, il nuovo lavoro non deluderà i defender rimasti fedeli alle linee classiche del metal: Hell Beyond Hell è pregno di quel sound a metà strada tra l’heavy forgiato nell’acciaio dei Primal Fear ed il power ruvido e senza compromessi dei Grave Digger.
Senza riempitivi, l’album scorre nei cliché del genere, ma una produzione cristallina, energia a volontà e un lotto di buoni brani splendidamente metallici, non tradiscono le aspettative, confermando i Paragon come ottimi rappresentati dell’heavy metal di matrice teutonica.
Si passa da brani dall’andatura sostenuta ad altri dove le ritmiche rallentano e le atmosfere si colmano di epicità metallica, le asce tagliano l’aria con solos dirompenti e i chorus sono potenti inni al dio metallico: una tempesta di suoni, valorizzata dalla prova tutta grinta di Andreas Babuschkin al microfono e dai solos taglienti della coppia Christian/Bertram, mentre Jan Bünning al basso e Sören Teckenburg alle pelli, formano un muro di cemento armato metallico invalicabile.
Tanta epicità ed uno straordinario lavoro di Sielck alla consolle, che valorizza potenza e melodia, specie in brani come Rising Forces, Heart Of The Black, Stand Your Ground e Buried In Blood, mantengono Hell Beyond Hell su un’ottima qualità generale, consentendo ai Paragon di uscire vincitori anche dall’undicesima fatica.
Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.
TRACKLIST
1. Rising Forces
2. Hypnotized
3. Hell Beyond Hell
4. Heart Of The Black
5. Stand Your Ground
6. Meat Train
7. Buried In Blood
8. Devil’s Waitingroom
9. Thunder In The Dark (Bonustrack)
10. Heart Of The Black (Edit Version / Bonustrack)
LINE-UP
Andreas Babuschkin – Lead Vocals
Martin Christian – Guitars, Backing Vocals
Jan Bertram – Guitars, Backing Vocals
Jan Bünning – Bass, Backing Vocals
Sören Teckenburg – Drums
Al confine tra hardcore e metal questo gruppo milanese fa molto casino e regala belle soddisfazioni.
Possente ed ignorante hardcore metallico con forti rimandi ad eroi metropolitani come Biohazard e Sick Of It All. Al confine tra hardcore e metal questo gruppo milanese fa molto casino e regala belle soddisfazioni.
Le coordinate sono quelle di cui sopra ma c’è molto di più, perché i Law 18 ci mettono molto di loro, e con doppia voce e tanta cultura metal ci portano in posti dove i calci volano come polline a primavera e dove ci sono elementi di vari generi, tutti messi insieme validamente. La produzione è buona, ma potrebbe essere migliore, perché lascia giusto intravedere l’enorme potenziale del gruppo, ma è comunque sufficiente per rendere questo lavoro assai divertente. I Law 18 fanno canzoni ben al di sopra della melodia, con aperture vocali e tanto lavoro sotto, con fatica e passione.
I nostri sono persone che amano ed ascoltano molta musica e ciò lo si sente chiaramente, ma sono anche un gruppo che ambisce a qualcosa in più per quanto riguarda il discorso musicale. Un disco che è un ottimo inizio, e le pedate continueranno, rimanete in zona.
TRACKLIST
1.Dwarfs & Cowboys
2.You Blind
3.Hollow Earth Society
4.Dominus Caeli
5.Dirty of Blood
6.Leather’s Wreck
7.Mirror Reflections
8.Rage Against Me
9.2010
LINE-UP
Davide C – Lead Guitar, Voice
Lorenzo Colucci – Bass
Luca Ferrario – Drums, Voice
Alessandro Mura – Voice, Harmonica
Lorenzo Perin – Voice, Rhythm Guitar
Il death metal dei nostri soldati estremi risulta più americano che scandinavo, in realtà, oscuro e devastante e violentato da suoni sintetici di matrice industriale che sottolineano ancora di più il contenuto lirico dei brani.
Eccoci qua, ancora una volta a parlare di Rogga Johansson, polistrumentista e compositore svedese che non ne vuol sapere di prendersi una pausa e continua ad invadere il mercato dell’ underground estremo con le sue proposte, sempre di ottima qualità e che hanno nel loro DNA il death metal old school.
Meno male aggiungerei, visto che anche questo progetto chiamato Megascavenger, porta con sé musica di alto livello.
Fondati da Rogga intorno al 2012, anno in cui usciva il primo ep, i Megascavenger arrivano quest’anno al terzo full length, dopo Descent of Yuggoth del 2012 ed il precedente At the Plateaus of Leng, uscito un paio di anni fa.
A far coppia con prezzemolino Johansson troviamo alla batteria Brynjar Helgetun, anche lui alle prese con svariati progetti come Axeslasher, Crypticus, Johansson & Speckmann, Just Before Dawn, Liklukt e The Grotesquery, insomma un altro instancabile protagonista dell’underground estremo proprio come il buon Rogga.
Il concept che gira intorno ai brani dell’album parla di tematiche fantascientifiche ed horror, ben evidenziate nella copertina raffigurante un Terminator stile Schwarzenegger ormai distrutto da una terribile guerra futurista.
Il death metal dei nostri soldati estremi risulta più americano che scandinavo, in realtà, oscuro e devastante e violentato da suoni sintetici di matrice industriale che sottolineano ancora di più il contenuto lirico dei brani.
Rogga questa volta non molla neppure il microfono, il suo growl è di quelli cavernosi ed animaleschi, chitarra e basso suonano oscuri, le linee industriali sono soffocanti, mentre il lavoro alle pelli è altamente distruttivo.
I soldati in lega d’acciaio, con gli occhi infuocati di un rosso freddo come l’espressione di una macchina per uccidere, si aggirano in paesaggi di distruzione, i martellanti e marziali rintocchi industriali creano un’atmosfera di terra disumanizzata, mentre i nostri confezionano una colonna sonora davvero efficace.
Mezz’ora, non di più, e As Dystopia Beckons crea un’aura terrificante che non abbandona l’ascoltatore neanche dopo la fine dell’album, straziato da ottime songs di death old school amalgamato all’industrial.
Non manca la ciliegina sulla fantascientifica torta: The Harrowing of Hell è una dark song che vede come ospite Kam Lee, vocalist con Johansson nei magnifici The Grotesquery, nonchè ex di una band storica come i Massacre.
Un altro ottimo lavoro firmato dal musicista svedese, sempre alle prese con il suo amato death metal, ma con proposte che variano sia per il concept che nel sound, a dimostrazione del suo inossidabile talento.
TRACKLIST
1. Rotting Domain
2. The Machine That Turns Humans into Slop
3. Dead City
4. As the Last Day Has Passed
5. The Hell That Is in This World
6. Dead Rotting and Exposed
7. Steel Through Flesh Extravaganza
8. The Harrowing of Hell
9. As Dystopia Beckons
Album che cresce con gli ascolti, Yard è un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016
L’invasione di gruppi dediti ai suoni stonati nel nostro paese non conosce ostacoli, ormai da nord a sud, isole comprese, le danze sabbatiche si sprecano e con queste anche le ottime band intente a proporre, ciascuna a modo loro, sound monolitici e magmatici.
Elevators To The Grateful Sky, Desert Hype, Mutonia, sono solo alcuni dei gruppi che, negli ultimi tempi, hanno realizzato ottimi lavori, chi amalgamando il genere con suoni psichedelici, chi con l’alternative e chi, come i Veuve, con il sound settantiano di sabbatiana memoria. Yardè il primo lavoro sulla lunga distanza per il trio di Spilimbergo, che arriva pesante come un meteorite in caduta libera sulla Terra, dopo un ep e la firma con The Smoking Goat Records.
Lunghe litanie in cui armonie acustiche lasciano spazio a violente e potenti esplosioni di lento incedere doom metal, una voce delicata che, come l’immagine angelica risvegliata da un fantastico e celestiale trip, ci accompagna tra i deserti bruciati dal sole, dove i miraggi ed i flash visivi sono gli unici compagni del nostro girovagare per ritrovare la strada perduta: questo è ciò che evoca il sound dei Veuve, caratterizzato da un basso che, come il battito di un cuore allo stremo, si accoppia con il drumming, un tappeto di ritmiche dal lento incedere, che a tratti varia di poco la velocità per accompagnare la sei corde, ora urlante riff stonati, ora più noise oriented, ma soprattutto protagonista di bellissime armonie acustiche.
L’album si sviluppa come una danza sabbatica, interrotta da tempeste e sfuriate di metallo stonato, il gruppo compatto ci invita alla sua jam lunga più di una quarantina di minuti dove i brani si susseguono, prima lungo un sentiero tranquillo, mentre susseguentemente, col passare dei minuti l’aggressività si fa arrembante, il dolce trip si trasforma in un incubo in cui fantasmi settantiani trasformano le dolci armonie vocali in grida di disperata ricerca di quella pace ora lontana; la sensazione di drammaticità diventa soffocante nelle ottime trame delle varie, Yeti, Witchburner e Pryp’jat’, un’escalation di heavy, doom, stoner emozionante che ha preso il posto dell’aura sognante dell’opener We Are Nowhere, ormai lontana anni luce dal mood intenso e cluastrofobico di questo esaltante trittico finale.
Album che cresce con gli ascolti, Yardè un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016.
TRACKLIST
1. We Are Nowhere
2. Days Of Nothing
3. Mount Slumber
4. 40.000 Feet
5. Flash Forward
6. Yeti
7. Witchburner
8. Pryp’jat’
LINE-UP
Andrea Carlin – Drums
Felice di Paolo – Guitar
Riccardo Quattrin – Bass & Vocals
Transience è un disco di buona fattura. al quale manca solo la capacità di evocare quelle vibrazioni emotive che, in lavori di band più note vengono esibite con maggior continuità.
Mi capita di rado, specialmente per i generi che tratto normalmente, di parlare di musica proveniente dal Giappone.
In effetti, quelle poche band dedite a generi estremi che ho avuto occasione di ascoltare non è che mi abbiamo mai impressionato più di tanto, così non è che mi sia avvicinato con grande convinzione a questo lavoro dei Funeral Moth.
Come spesso (e fortunatamente) accade, mi sono dovuto ricredere visto che l’interpretazione del funeral doom fornita dalla band nipponica è piuttosto convincente e competente.
Il quartetto è attivo da circa un decennio, ma il primo passo su lunga distanza risale a due anni fa (Dense Fog): Transienceè la prima uscita senza uno dei due membri fondatori, il bassista Nobuyuki Sentou, il che lascia le redini nelle mani del solo Makoto Fujishima, chitarrista, vocalist e, cosa non da poco, titolare della Weird Truth, label specializzata in doom che vede nel proprio roster nomi del calibro di Ataraxie, Mournful Congregation, Profetus e Worship, tra gli altri.
Lo stile attuale dei Funeral Moth è prossimo proprio a quello dei tedeschi Worship, quindi si parla di una forma di funeral molto asciutta ed essenziale e dall’incedere per lo più bradicardico, ma in questo caso il suono si rivela ancor più rarefatto, lasciando che spesso siano minimali contributi dei singoli strumenti a guidare lo sviluppo dei due lunghi brani che vanno a comporre Transience.
La band di Tokyo forse indulge troppo su questo aspetto della propria proposta, visto che il contributo vocale di Fujishima, dotato di un buonissimo e intelligibile growl, è però piuttosto parco e ciò rende il tutto ancor più statico di quanto normalmente ci si possa aspettare da un disco di funeral doom ma, nel contempo, non viene mai meno quel senso di ineluttabile tragedia che comunemente si cela dietro ogni singola nota di un album catalogabile all’interno del genere.
Detto ciò, Transienceè comunque un disco di buona fattura al quale manca solo la capacità di evocare quelle vibrazioni emotive che, in lavori di band come i già citati Worship o gli stessi Mournful Congregation, vengono esibite con maggior continuità; due brani come la title track e Lost, alla fine, risultano un ascolto apprezzabile per chi ha una certa familiarità con questi suoni, meno per chi predilige il versante più melodico e atmosferico del funeral.
Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.
Sono svariate e tutte affascinati le strade da percorrere nel mondo del metal/rock: per esempio il sound alternative degli anni novanta, da molti considerato colpevole di aver messo nell’ombra i suoni metallici classici, ha invece aperto nuove porte ed orizzonti, specialmente nell’ambito progressivo, ancora ancorato alla tradizione settantiana.
Molte band in questi anni hanno seguito il sentiero impervio tracciato da gruppi geniali come i Tool o i Pain Of Salvation, rompendo le catene che imprigionavano il genere, fermo (più per colpa degli appassionati che degli stessi musicisti) agli storici nomi i cui primi passi sono prossimi a compiere il mezzo secolo, per esplorare nuovi modi di proporre musica fuori dagli schemi.
I greci Poem sono una di queste ottime realtà: nati nella capitale intorno al 2006, licenziano il secondo lavoro, Skein Syndrome, che segue il debutto The Great Secret Show, lavoro che ha portato loro molte meritate soddisfazioni e la possibilità di confrontarsi on stage con nomi altisonanti del mondo metallico come il madman Ozzy Osbourne, i Paradise Lost ed i Pain Of Salvation.
Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.
Ottimo l’uso della voce, che richiama il post grunge statunitense alla Creed, per intenderci, mentre il sound rimane in tensione per tutta la durata dell’album, non mancando di toccare vette emozionali altissime (Fragments, Weakness), portando nelle cascata di note progressive molto della lezione impartita dal gruppo di Daniel Gildenlöw e dell’intimista drammaticità di Anathema e Katatonia.
Stati Uniti ed Europa, due modi diversi di intendere il rock che si è affacciato sul nuovo millennio, vengono fatti vivere in simbiosi nello spartito di questo bellissimo gioiellino che risulta Skein Syndrome, dove il nuovo progressive viene fagocitato ed aggredito dalle fiere alternative e metal per un banchetto a base di oscura e drammatica musica matura e terribilmente ipnotizzante. Remission Of Breath, brano conclusivo del cd, funge da perfetto sunto del credo musicale del gruppo greco, con un’interpretazione al microfono del chitarrista George Prokopiou che da buona diventa colma di sontuosa e dolorosa teatralità.
Gran bel lavoro dunque, le attese dopo il debutto di ormai otto anni fa sono state giustificate dalla qualità di questa cinquantina di minuti, tutti da vivere sotto l’effetto emozionale che il gruppo non manca di riservare a più riprese lungo il corso di un album assolutamente da avere.
TRACKLIST
01. Passive Observer
02. Fragments
03. The End Justifies the Means
04. Bound Insanity
05. Weakness
06. Desire
07. Remission of Breath
Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.
Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.
Gli Split Heaven sono una metal band molto conosciuta in patria, con tanto di mascotte maideniana (il pistolero in copertina) ed una già nutrita discografia.
Attivo dai primi anni del nuovo millennio, il gruppo messicano arriva con questo ottimo Death Rideral quarto full length, dopo l’esordio licenziato nel 2008 (Psycho Samurai) ed un paio di lavori molto apprezzati nell’underground metallico, Street Law del 2011 ed il precedente The Devil’s Bandit, uscito tre anni fa.
Il nuovo lavoro porta con sé un’importante novità: l’entrata nel gruppo del vocalist Jason Conde-Houston, sostituto di Giancarlo Farjat, singer sul precedente lavoro. Death Ridercontinua la tradizione della band, il cui sound mantiene tutte le qualità di un heavy speed metal, influenzato tanto dalla new wave of british heavy metal, quanto dal U.S. metal, con chitarre che si lanciano in solos sempre ben in evidenza, sezione ritmica potente ed elegante ed un vocalist dalla timbrica old school, che non mancherà di fare proseliti tra i più legati alla tradizione. Death Riderè composto da un lotto di brani coinvolgenti, che alternano cavalcate maideniane, rasoiate speed che possono ricordare i Primal Fear e l’eleganza tutta americana di band come gli Helstar.
Il nuovo singer si guadagna la pagnotta con una performance di qualità, anche se sono le chitarre che nell’album fanno la differenza (Carlo “Taii” Hernandez e Armand Ramos), due pistole che sparano proiettili metallici senza soluzione di continuità.
L’album ha nelle bellissime trame metalliche della title track, di Battle Axe, di Sacrifice e di Talking With The Devil, ottimi esempi di come si possa ancora suonare heavy metal tradizionale, risultando freschi e convincenti.
Se siete amanti dell’heavy metal classico, non perdetevi questo ottimo lavoro.
TRACKLIST
1. Death Rider
2. Awaken the Tyrant
3. Battle Axe
4. To The Fallen
5. Speed Of The Hawk
6. Ghost Of Desire
7. Sacrifice
8. Talking With The Devil
9. Descarga Letal
10. Destructor
LINE-UP
Jason Conde-Houston – vocals
Carlo “Taii” Hernandez – guitars
Tomas Roitman – drums
Armand Ramos – guitars
The Art To Disappear costituisce un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.
Ritroviamo i francesi Spektr, a tre anni da Cypher, alle prese con il loro apocalittico mix tra industrial, ambient e black metal.
A livello di sonorità poco è cambiato: The Art To Disappear è decisamente, come il suo predecessore, un lavoro di ardua decrittazione, ma la sensazione è quella che il duo composto da kl.K. e Hth sia riuscito a focalizzare meglio la propria vis sperimentale.
L’album mostra sempre una qualche dispersività, che è connaturata all’indole avanguardistica dei suoi autori, ma nel contempo i vari tasselli paiono essere meglio collocati al loro posto: i passaggi più contorti sono maggiormente funzionali e connessi alle sfuriate tipicamente black e, cosa fondamentale, The Art To Disappear riesce a non annoiare nonostante i nostri poco o nulla facciano per risultare più ammiccanti.
Indubbiamente, i due musicisti transalpini centrano il bersaglio quando si lasciano andare alle sfuriate black/industrial, con micidiali ordigni quali From the Terrifying to the Fascinating e Your Flesh Is a Relic, per esempio, o con la summa della loro musica costituita dalla conclusiva title track, che tra il terzo e il quinto minuto regala persino una spaventosa accelerazione di matrice black’n’roll.
Se Cypher in più di una circostanza non convinceva del tutto, questa nuova fatica degli Spektr sgombra molte di quelle nubi in virtù di una sintesi raggiunta grazie al maggior equilibrio e coesione tra le parti ambient-rumoriste e quelle di matrice black metal. The Art To Disappear costituisce, quindi, un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.
Tracklist:
1. Again
2. Through the Darkness of Future Past
3. Kill Again
4. From the Terrifying to the Fascinating
5. That Day Will Definitely Come
6. Soror Mystica
7. Your Flesh Is a Relic
8. The Only One Here
9. The Art to Disappear
Altra reunion di una band storica dell’heavy power olandese, i Martyr, tornati sul mercato con l’ottimo Circle Of 8 del 2011, album che li vedeva tornare dopo ben 25 anni di silenzio, dal secondo lavoro Darkness at Time’s Edge, datato 1986.
Band nata nel lontano 1982, i Martyr seguivano i canoni dell’allora new wave of british heavy metal, dando alle stampe, nel 1985 il primo album, For The Universe.
Prima la Metal Blade con il precedente Circle Of 8, ed ora la Pure Steel, hanno dato credito a questa reunion, ed il quintetto di Utrecht si ripresenta dopo cinque anni in forma smagliante, confezionando un macigno heavy power thrash davvero potente .
Confermando il trend del precedente lavoro, i Martyr hanno spostato il tiro della loro proposta, verso un sound più ruvido ed arcigno: questo nuovo lavoro, pur garantendo uno stilema old school, è ben prodotto e contiene quelle atmosfere thrash che rendono il tutto pesante, a tratti devastante, lasciando che il mood classico si sposi con la grinta e la pesantezza del thrash dai richiami power.
Mai troppo veloce, ma dall’andamento monolitico, con tra i solchi un gran lavoro delle sei corde, protagoniste con la prova del singer Rop van Haren, un mostro di personalità debordante al microfono, You Are Next si trova esattamente a metà strada tra il power teatrale dei fenomenali Angel Dust di Border Of Reality ed i primi Testament.
Ne esce un album che, a tratti, entusiasma, forte di un ottimo songwriting e dell’abilità dei protagonisti, certo non dei novellini e dotati di un’esperienza trentennale messa al servizio di metallo aggressivo, dall’impatto terremotante, ma, allo stesso tempo, dotato di un’eleganza tutt’altro che nascosta dalle cascate di riff e solos che i due axeman (Rick Bouwman e Marcel Heesakkers) riversano sullo spartito di questa raccolta di brani, alcuni davvero eccellenti.
Questi vecchietti con il viziaccio di suonare metal con la M maiuscola mi hanno letteralmente stupito: il loro suono risulta potente e fresco, le songs marciano spedite, già dall’opener Into The Darkest Of All Realms, introdotta dalla voce di un bimbo, mentre le chitarre esplodono e la sezione ritmica tiene il passo con mestiere (Wilfried Broekman alle pelli e Jeffrey Bryan Rijnsburger al basso).
Enorme Van Haren al microfono: personale, teatrale, potente e dannatamente coinvolgente, mette a ferro e fuoco i padiglioni auricolari con una prova d’applausi, mentre l’album prende il volo con Infinity, altro pezzo da novanta di You Are Next, e non si ferma più, rimanendo ad altezze elevate in fatto di qualità e coinvolgimento. Monster e Mother’s Tear, la velocissima e violentissima In The End, sono gemme di heavy power, sparate da un cannone metallico, mentre il singer dàletteralmente spettacolo nell’inno ottantiano Don’t Need Your Money, posto a chiusura del disco ed esempio di come si suona l’heavy metal old school nel 2016.
Un ritorno esaltante, fatelo vostro.
TRACKLIST
1. Into The Darkest Of All Realms
2. Infinity
3. Inch By Inch
4. Souls Breathe
5. Unborn Evil
6. Monsters
7. Crawl
8. Mother’s Tear
9. In The End
10. Don’t Need Your Money
LINE-UP
Rick Bouwman – guitars
Rop van Haren – vocals
Wilfried Broekman – drums
Jeffrey Bryan Rijnsburger – bass
Marcel Heesakkers – guitars
Un bombardamento sonoro che non lascerà indifferente sia chi predilige il death tout court, sia chi è propenso ad ascolti più in linea con il sound degli ultimi anni e che non nasconde una predisposizione insana per il thrash moderno.
La Bakerteam, oltremodo dotata di un gran fiuto per gruppi dall’alto spessore artistico, ci invita a fare dell’headbanging sfrenato con Awaken, nuovo lavoro dei veneti Sinphobia.
Il primo album autoprodotto, risalente a due anni fa, qui viene riproposto per intero con l’aggiunta di un’intro e due bonus track, dando vita ad un’ottimo lavoro che spazia tra death metal, thrash e soluzioni moderne, molto statunitense nel sound e dall’impatto di un carro armato.
Convincono a più riprese i quattro musicisti nostrani, il loro album risulta un assalto sonoro di notevole intensità, compatti ed affiatati, non lasciano punti deboli in balia di chi ascolta, grazie alla notevole prova del vocalist (Conso), al gran lavoro di una sezione ritmica che non risparmia blast beat a manetta, ritmiche dal groove micidiale, ed a tratti potenti bordate moderniste che incollano al muro (Darkoniglio al basso e Falsi alle pelli).
Una forza della natura il chitarrista Vain, punto di forza di questo quartetto di distruttori sonori: la sua prova, specialmente nelle ritmiche, è da applausi, contribuendo ad alzare un muro sonoro invalicabile di potenza estrema.
Un lavoro con gli attributi, senza fronzoli, un bombardamento sonoro che non lascerà indifferenti sia chi predilige il death tout court, sia chi è propenso ad ascolti più in linea con il sound degli ultimi anni e che non nasconde una predisposizione insana per il thrash moderno (Lamb Of God).
Il groove rimane sempre a livelli altissimi così come la tensione, i riff rompono ossa e triturano carni, il basso esplode sotto i colpi inferti da Darkoniglio sulle quattro corde, mentre le bacchette scintillano sulle pelli abrase dalla forza di Falsi.
Non manca qualche brano che spicca sul resto dell’album, a cominciare da Prayer To Wacry, la death metal Thread Of Salvation, il moderno groove di Respect e l’elaborata March Of The Lambs, tra velocità e rallentamenti , in una tempesta di suoni estremi molto ben congegnati.
Ottimo lavoro e gruppo che si candida come una delle sorprese dell’anno nel genere proposto: siamo in Italia, quindi supportare realtà meritevoli come i Sinphobia diventa un dovere per chiunque si professi un amante del metal estremo.
TRACKLIST
1. Fearless Horde (Intro)
2. Prayer to Warcry
3. Guilty of Downfall
4. The Punishing Hand
5. Thread of Salvation
6. Respect
7. Face Your Mirror
8. March of the Lambs
9. Tetra (Raw version)
10. Labyrinth (Elisa cover)