Diĝir Gidim – I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening

Da un luogo “sconosciuto” notevole esordio di incompromissorio e magmatico black metal.

Entità aliene provenienti da lontani mondi, demoni sputati fuori da innominabili profondità, questo il quesito che mi sono posto ascoltando i Diĝir Gidim, duo proveniente da un luogo ignoto, che esordisce dal nulla con un opus misterioso, affascinante, per nulla di facile ascolto.

L’unica notizia è che uno dei due musicisti, Lalartu, ha esordito nel 2016 con il suo progetto black ambient Titaan, mentre Utanapistim Ziusudra, che suona tutti gli strumenti, è del tutto sconosciuto. La label italiana ATMF, sempre attenta nella ricerca di nuove emozioni black metal, li fa esordire con un full di quattro lunghe composizioni all’insegna di un black metal intenso, magmatico, cangiante, ritualistico, devoto al fascino di antichi mondi, in questo caso la Mesopotamia; il Diĝir è un simbolo cuneiforme che rappresenta la suprema divinità Anu deus otiosus, mentre Gidim rappresenta l’ombra o lo spirito della persone morte; già altre band hanno subito il fascino delle Civiltà Egizie, vedi Nile e Melechesch, ma con i Diĝir Gidim il tutto, sia a livello concettuale che a livello musicale, si spinge maggiormente in profondità scavando a fondo e generando gelide emozioni in chi si vorrà far trasportare in questo flusso infinito di note e vocals straziate.
I quattro lunghi brani costituiscono un flusso costante e continuo in cui ritualistici cori, scream feroci e incompromissori, note dissonanti di chitarre si inseguono, si confondono per creare un massa incandescente dove alcune linee melodiche sono talmente oscure da atterrire l’ascoltatore; il termine estremo in questo caso assume, per chi vi si avventura, un effetto assolutamente catartico. Le spire gelide di vortici impazziti nell’oscurità infernale del primo magnifico brano si collegano, si amalgamano con cori di dei ancestrali, adorati ma non capiti, in un continuum senza luce né speranza, in abissi infiniti dove non vi è alcun filtro ma solo nichilismo assoluto: la presenza di un dio autoritario e vendicativo nega a menti schiave qualunque forma di ribellione e affrancamento. Il sound, che trova la sua genesi nei Deathspell Omega, nei Blut Aus Nord, è ribollente, non conosce pause liberatorie, tutto si stratifica, si attorciglia, si fonde e lascia alla fine dell’ascolto una sensazione di spossante purificazione. Da assimilare a piccole dosi, ma assolutamente da sentire!

TRACKLIST
1. The Revelation of the Wandering
2. Conversing with the Ethereal
3. The Glow Inside the Shell
4. The Eye Looks Through the Veils of Unconsciousness

LINE-UP
Utanapištim Ziusudra – All instruments and Music
Lalartu – Vocals and lyrics

DIGIR GIDIM – Facebook

src=”https://bandcamp.com/EmbeddedPlayer/album=2322564852/size=small/bgcol=ffffff/linkcol=0687f5/transparent=true/” seamless>I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening by DIGIR GIDIM

Devil – To The Gallows

Riffoni pesanti, ritmiche che si mantengono robuste e regolate su mid tempo grondanti lava vulcanica ed almeno la metà dei brani di altissima qualità, fanno di To The Gallows un lavoro imperdibile per i fans dell’heavy doom tradizionale.

Chi ama l’heavy doom difficilmente potrà privarsi di un album come To The Gallows, monumento hard rock/heavy metal dalle influenze doom settantiane.

Certo, la proposta dei norvegesi Devil abbraccia un genere che di questi tempi sta tornando ad infiammare cuori e spiattellare cervelli, sotto il bombardamento di watts con gli strumenti che, ribassati, intonano danze e rituali forieri di magia occulta.
Non solo, quindi, musica per rockers nostalgici e magari avanti con gli anni, ma giovani kids con la mania per i jeans a zampa di elefante e sacchetti di pelle a tracolla dove si costudiscono i pochi averi sotto forma di tabacco ed erbe medicinali.
Il quintetto scandinavo, attivo dal 2009, arriva al terzo album sotto l’ala della Soulseller e riporta gli amanti del genere indietro nel tempo partendo come già fatto nei precedenti (Time To Repent, debutto sulla lunga distanza del 2011 e Gather The Sinner, precedente opera targata 2013), dai primi anni del periodo settantiano con l’imronta dei Black Sabbath, per avvicinarsi al nuovo millennio con influenze che vanno dai Pentagram ai Trouble, passando per gli anni ottanta e facendosi stregare dalla New Wave Of British Heavy Metal.
Un gruppo di nicchia, né più né meno, quindi da amare incondizionatamente e a prescindere dall’anno in cui lo si ascolta: per i Devil, come per molte band del genere, non credo possa valere un giudizio condizionato dal tipo di musica suonata che, ricordo, è assolutamente old school.
Ed il bello sta proprio nel loro talento per un genere che, come dovrebbe essere per tutta la musica metal, si trova al di fuori del tempo e dello spazio, una rito metallico che prende vita dalle note della title track, posta all’inizio dell’album, mettendo subito le cose in chiaro sulla qualità della musica prodotta dal gruppo.
Riffoni pesanti, ma solo a tratti ciondolanti, ritmiche che si mantengono robuste e regolate su mid tempo grondanti lava vulcanica ed almeno la metà dei brani di altissima qualità (Trenches, Reaper’s Shadows e David & Golitah, oltre alla già citata title track), fanno di To The Gallows un lavoro imperdibile per i fans dell’heavy doom tradizionale.

TRACKLIST
1. To The Gallows
2. Trenches
3. Dead Body Arise
4. Regulators
5. Reaper’s Shadow
6. Peasants & Pitchforks
7. Jumping Off The Edge Of Time
8. David & Goliath
9. Cemetary Still

LINE-UP
Stian Fossum – guitar
Ronny Østli – drums
Thomas Ljosaak – bass
Kai Wanderås – guitar
Joakim Trangsrud – vocals

DEVIL – Facebook

http://www.facebook.com/Devilband

Morast – Ancestral Void

Ancestral Void conferma quanto di buono esibito precedentemente dai Morast, senza che però avvenga il salto di qualità sensibile che forse era lecito attendersi.

Come preannunciato in occasione dell’articolo scritto per commentare la riedizione in vinile del primo demo dei Morast, è arrivato il momento dell’uscita del primo full length per la band tedesca.

Ancestral Void conferma le sensazioni avute qualche mese fa, ovvero quelle di trovarci al cospetto di una band dal sound solido e compatto, con il solo neo d’essere poco vario, pur nel suo apparire ugualmente incisivo.
Il death doom sporcato di sludge del gruppo teutonico è l’emblema di un approccio molto lineare, che non si perde in preamboli e non disperde energie nella ricerca di particolari divagazioni, puntando essenzialmente su un impatto granitico.
Crescent, brano d’apertura del lavoro, è il manifesto ideale delle caratteristiche sopra descritte, con il suo riffing oscuro, dai ritmi non eccessivamente rallentati ed una voce aspra che rifugge ogni tentazione melodica: è la rabbia, per lo più, a prevalere sulla tristezza, rappresentando una forma di reazione al passivo ripiegarsi su stesso di chi è schiacciato dal peso dell’esistenza.
Così, mentre in Sakkryfyced appaiono parvenze melodiche che rendono il brano quello relativamente più accessibile del lotto, Loss spinge maggiormente sul versante dell’incomunicabilità, con un andamento dalla lentezza molto più accentuata.
Ancestral Void è un’opera breve che si dimostra efficace per quasi tutta la sua durata, con Compulsion e la citata Loss forse meno incisive e dirette rispetto alle altre quattro tracce, e l’ossessiva title track a suggellare una prova di buon spessore ma dall’aspetto monotematico, specie per chi ha meno familiarità con il genere: viene confermato, pertanto, quanto di buono esibito precedentemente dai Morast, senza che però avvenga il salto di qualità sensibile che forse era lecito attendersi. Detto ciò, Ancestral Void è un album il cui monolitico incedere esprime ugualmente un suo certo fascino.

Tracklist:
1. Crescent
2. Forlorn
3. Sakkryfyced
4. Compulsion
5. Loss
6. Ancestral Void

Line-up:
L. – drums
F. – vocals
R. – bass
J. – guitar

MORAST – Facebook

Vitja – Digital Love

Digital Love si compone di undici brani per soli quaranta minuti di musica diretta, melodica, potentissima e sapientemente elettronica

La domanda è: cosa hanno i Vitja che le altre band che suonano metalcore non hanno?

Beh, intanto incidono per Century Media e se la potentissima label ha deciso di puntare sul gruppo di Colonia un motivo ci sarà.
E allora andiamo a scoprire il segreto di questo quartetto tedesco, nato nel 2013, anno in cui esce il primo full length (Echoes), tornato nel 2015 con l’ep Your Kingdom, ed ora pronto per fare sfracelli nei locali del centro Europa con il nuovo Digital Love, in uscita appunto per Century Media.
L’album si compone di undici brani per soli quaranta minuti di musica diretta, melodica, potentissima e sapientemente elettronica, il giusto per entrare nella track list dei dj sparsi nelle metropoli in giro per il vecchio continente, anche se giurerei che un pensierino anche agli Stati Uniti band ed etichetta lo hanno fatto.
Un metal che ha nell’urgenza del core, nelle atmosfere nu metal conferite dalla parte elettronica e l’appeal fornito da melodie sempre azzeccate, la ricetta per sfondare e davanti a mazzate violentissime come l’opener Scum o la seguente D(e)ad non si può che ripararsi da tanto fervore aspettando che melodie dal piglio dark e note di tappeti elettronici invitino l’ascoltatore a far sue le molteplici sfumature di questo lavoro, dove ha la sua importanza il cantato, vario e per niente scontato di David Beule, che non risparmia toni cangianti, dallo scream al rabbioso urlo hardcore, per finire con una clean che spalanca cuori femminei come farebbe una tempesta con le porte di un cascinale.
Roses, la devastante title track, la potenza melodica e l’appeal di Six Six Sick, l’ enorme lavoro sulla darkcore Heavy Rain sono mattoni di un muro sonoro difficile da scalfire ma clamorosamente pregno di melodie tragiche, mature al confronto con le facili altalene atmosferiche di tanti gruppi del genere.
Le ritmiche solo a tratti si contraggono parti sincopate, la parte nu metal della musica dei Vitja esce allo scoperto e fa male (Find What You Love And Kill It), mentre la sei corde mantiene un atteggiamento metallico alla Disturbed ,se mi si lascia passare il paragone scomodo.
Album che farà parlare, gruppo pronto per il salto che da promessa lo porterà ad una sufficiente notorietà per regalare ancora buone soddisfazioni.

TRACKLIST
1. SCUM
2. D(e)ad
3. No One As Master No One As Slave
4. Roses
5. Digital Love
6. Six Six Sick
7. The Golden Shot
8. Heavy Rain
9. Find What You Love And Kill It
10. In Pieces
11. The Flood
Additional tracks on Special Edition CD Digipak, LP+CD, Digital Album:
12. I’m Sorry
13. New Breed

LINE-UP
David Beule – vocals
Mario Metzler – bass
Vladimir Dontschenko – guitar
Daniel Pampuch – drums

VITJA – Facebook

Alessio Secondini Morelli’s – Hyper-Urania

Se con questo lavoro il chitarrista voleva ribadire l’immortalità della musica heavy metal e la sua ottima salute anche nel nuovo millennio, direi che la missione è andata decisamente a buon fine.

Nuovo progetto per il chitarrista Alessio Secondini Morelli (Anno Mundi, Freddy & The Kruegers) volto a reinterpretare a suo modo le sonorità classiche dell’heavy metal.

Hyper-Urania è un ep di sei brani dove il chitarrista nostrano, aiutato da numerosi ospiti tra cui Francesco Lattes (New Disorder), Freddy Rising (Acting Out, Martiria, Bible Black) e Federica Garenna (Sailing To Nowhere, She Devil) alla voce, Daniele Zangara alla batteria, Emiliano Laglia (Aibhill Striga, Invaders, Blackened, Youthanasia) al basso, rivisita il metal classico e lo consegna ai giovani ascoltatori del nuovo millennio.
Sonorità ottantiane dunque, prendendo ispirazione sia dalla corrente britannica dei primissimi anni del decennio d’oro per la musica hard & heavy, sia da quella statunitense, con i primi Savatage, ad irrobustire un sound che pesca tanto dai Saxon quanto dai Judas Priest, lasciando in disparte, almeno per una volta, gli Iron Maiden.
Ottima prova dei cantanti, a loro agio anche con brani sicuramente più classici di quelli proposti con le loro band, e grande apertura con il riff di Arkam, notevole brano dove, oltre ad un’ottima performance di Federica Garenna al microfono, si evince la bravura tecnica di Alessio Secondini Morelli e la sanguigna passione che trabocca dall’assolo graffiante a metà brano.
Da segnalare anche la bellissima cover dal taglio progressivo di Veteran Of The Psychic Wars dei Blue Blue Öyster Cult; se con questo lavoro il chitarrista voleva ribadire l’immortalità della musica heavy metal e la sua ottima salute anche nel nuovo millennio, direi che la missione è andata a buon fine.

TRACKLIST
1.Arkam
2.Lord Of The Flies
3.Fuga In Mi Minore “Del Canto Delle Valchirie”
4.Scarlet Queen
5.Veteran Of The Psychic Wars
6.Steven Shark

LINE-UP
Alessio Secondini Morelli – Guitars
Daniele Zangara – Drums
Emiliano Laglia – Bass
Freddy Rising – Vocals
Federica Garenna – Vocals
Francesco Lattes – Vocals

ALESSIO SECONDINI MORELLI – Facebook

Pallbearer – Heartless

Ascoltare Heartless è un’esperienza che ti fa essere grato di non essere morto prima di poter sentire un disco così.

Heartless è talmente bello che a volte fa paura ascoltarlo, si rimane intimoriti da cotanta grazia.

Il terzo disco dei Pallberear è qualcosa di magnifico e stordente. Questo disco contiene tutto, dal post metal al rock, dall’heavy metal più illuminato alla canzone epica, dal dark al non cosa, ma qui dentro c’è. Probabilmente i Pallbearer sono un medium attraverso i quali chissà quale entità fa scorrere la propria musica da un altro punto dell’universo. Ascoltare Lie Of Survival è un’esperienza che ti fa essere grato di non essere morto prima di poter sentire una canzone così. Heartless è ciò che è illustrato in copertina, una montagna antropomorfa che riposa inquieta. I Pallbearer prima di questa prova erano un gran gruppo, molto promettente e fautore di un’ottima musica pesante virata al doom, e di grande efficacia dal vivo. Dimenticatevi di tutto ciò. Certamente qualcosa è rimasto, sicuramente i pregi di quanto fatto prima, ma qui è un altro piano cosmico, è l’iperuranio. Questo disco lo sentirete con le orecchie ma va dritto verso i ventuno grammi che forse compongono la nostra anima. Il tempo si dilata, e i Pallbearer ci sussurrano all’orecchio di incredibili mondi che sono dentro e fuori di noi, e mentre lo fanno scorrono le vite di quello che siamo stati prima e di quello che saremo dopo, in una maliconia fatta del contrario di ciò di cui è fatta la carne. Heartless è forse un sogno, forse non esiste, ma almeno lo avremo sentito. Gli oltre undici minuti di Dancing In Madness si vorrebbe che non finissero mai, tanta è la dolcezza. Si potrebbero nominare molti riferimenti, ma non avrebbe senso, bisogna tornare a sentire la musica per amarla senza etichette, Questo disco non ha confini, si espande come l’aria fresca, dolcezza e durezza, chitarre che completano l’etere e confini abbattuti. Tra Cure, Pink Floyd, qualcosa dei Black Sabbath, e tantissimo Pallberear. Cambi di melodia, superamento di mondi lontani, abbracci fra demoni diversamente divini, tutto.
Uno dei miei dischi preferiti di sempre, immenso.

TRACKLIST
1. I Saw The End
2. Thorns
3. Lie Of Survival
4. Dancing In Madness
5. Cruel Road
6. Heartless
7. A Plea For Understanding

LINE-UP
Joseph D. Rowland – Bass
Devin Holt – Guitars
Brett Campbell – Guitars, Vocals
Mark Lierly – Drums

PALLBEARER -Facebook

Ghost Season – Like Stars In The Neon Sky

Debutto per i greci Ghost Season, band alternative sulla scia degli dei americani Alter Bridge, con Like Stars In The Neon Sky che risulta un buon ascolto in grado di ritagliarsi uno spazio nei cuori dei fans dell’hard rock moderno.

I Ghost Season sono un quartetto greco nato solo tre anni fa, autore del classico ep di rodaggio che ha portato il gruppo alla firma con Pavement Entertainment ed alla realizzazione di Like Stars In The Neon Sky, full length che darà sicuramente ottimi riscontri al gruppo ateniese, vista l’ottimo amalgama tra alternative metal e rock, un buon uso di groove nelle ritmiche e tanta ispirazione presa dagli dei del genere, gli Alter Bridge.

Da qui si parte con la consapevolezza che la band non ha nulla di originale, il loro rock/metal americano è figlio del post grunge con le chitarre che tagliano l’aria intorno a noi a colpi di solos metallici, le voci che non si spostano di un millimetro dallo stile di Myles Kennedy e, in generale, l’atmosfera che rimane melanconicamente ribelle, triste ed intimista come il grunge ha insegnato per tutti gli anni novanta.
Detto questo, l’album ha dalla sua una serie di buone canzoni, che poi è quello che a noi interessa, e la band sa dove andare a parare per piacere, facendolo con una buona dose di furbizia.
Il singolo Fade Away, Break My Chains e Vampire, brano che sembra uscito dalla colonna sonora di Twilight (la famosa trilogia sui vampiri adolescenti tratta dai romanzi di Stephenie Meyer) entrano nella testa al primo passaggio, tutto è perfettamente studiato per provare a mettere un piede più avanti rispetto alla scena underground e non è detto che il gruppo di Atene non ci riesca, con queste premesse.

TRACKLIST
1. The Reckoning
2. Sons Of Yesterday
3. Fade Away
4. Break My Chains
5. War Of Voices
6. The Highway Part I
7. The Highway Part II
8. Just A Lie
9. The Vampire
10. The Mirror
11. Of Hearts And Shadows
12. Break Me Shake Me (Bonus Track)

LINE-UP
Hercules Zotos – Vocals
Nick Christolis – Guitars/vocals
Dorian Gates – Bass/vocals
Helen Nota – Drums

GHOST SEASON – Facebook

Althea – Memories Have No Name

Il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.

I buoni riscontri che Memories Have No Name ha ottenuto qualche mese fa da varie webzine, tra le quali la nostra, ha consentito agli Althea di destare l’interesse di diverse label, tra le quali la più lesta ad accaparrarsene le prestazioni è stata la Sliptrick Records, che ha licenziato la versione fisica dell’album proprio in questi giorni.
Ci sembra opportuno, quindi, rinfrescare la memoria degli ascoltatori riproponendo la nostra recensione risalente allo scorso dicembre.

E’ durissima la vita per chi decide (spronato da una passione infinita per il mondo delle sette note), di dedicare gran parte del suo tempo ad alimentare un webzine come la nostra.

Sempre a rincorrere le tonnellate di materiale che puntualmente (e fortunatamente) arrivano alla base, con poche persone che hanno voglia di mettersi in gioco e dare una mano (anche e soprattutto nell’ambiente) e sempre i soliti che tra famiglia, l’odiato lavoro, gli scazzi di una vita sempre più difficile e gli anni che cominciano ed essere tanti sul groppone, portano inevitabilmente a quei momenti no dove tutto quello che si fa appare inutile e la voglia di mollare fa capolino nella testa.
Poi d’incanto tutto torna ad avere un senso, le dita scorrono sulla tastiera più fluide che mai mentre le note di un bellissimo album che, probabilmente, non sarebbe entrato mai nella propria sfera musicale se non fosse giunta una richiesta di ascolto da parte del gruppo protagonista di cotanta maestria musicale.
E allora pronti e via per questo viaggio in musica sulle note progressive dei nostrani Althea, quintetto lombardo fondato dal chitarrista Dario Bortot e dal bassista Fabrizio Zilio, al primo full length ma con un ep alle spalle (Eleven) risalente ad un paio di anni fa .
Memories Have No Name è un bellissimo concept di un solo brano diviso in sedici capitoli, incentrati sui ricordi e sull’impatto che questi hanno su due diversi personaggi, raccontato con il supporto della musica totale per antonomasia, il progressive.
Il sound di questo lavoro, pur mantenendo un approccio metallico alla musica progressiva, è molto più rock di quello che ad un primo ascolto si può recepire, il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.
Hard rock, AOR, metal prog ed un pizzico di rock moderno sono gli ingredienti principali di Memories Have No Name, album che sotto l’aspetto dell’emozionalità tocca vette sorprendenti.
La bravura dei musicisti coinvolti non si discute, ma sono appunto il calore e le emozioni che sprigionano dai vari capitoli a rendere l’opera un piccolo gioiello progressivo, con Paralyzed che, subito dopo l’intro, mostra la parte più metallica del sound, avvicinando il gruppo alla musica dei Dream Theater.
E allora direte voi?
Basta saper aspettare e la musica degli Althea saprà sorprendervi con un continuo ed entusiasmante cambio di atmosfere, dove i momenti topici sono quelli in cui l’anima intimista e sperimentale prende il comando dello spartito regalando momenti di ottima musica progressiva, con i vari intermezzi che non risultano riempitivi ma fondamentali momenti acustici ed atmosferici (A New Beginning, Drag Me Down e la title track) e tracce capolavoro come Halfway Of Me, Leave It For Tonight (brano progressivo dai rimandi beatlesiani), con la ballad Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E.), dallo smisurato impatto emotivo.
Parlare di influenze è riduttivo, ma il paragone a mio parere più calzante (e con le dovute differenze) è con gli Active Heed di Umberto Pagnini, specialmente nel talento innato per le melodie e per le emozioni che suscita la musica prodotta: Memories Have No Name è un lavoro imperdibile per gli amanti delle sonorità progressive.

TRACKLIST
1.Regression From Regrets
2.Paralyzed
3.A New Beginning
4.Revenge
5.Drag Me Down
6.Halfway Of Me
7.Intermediated pt. 1
8.I Can’t Control My Mind
9.Intermediated pt. 2
10.Leave it for Tonight
11.Memories Have No Name
12.The Game
13.Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E)
14.Take Me As I Am
15.Anything We’ll ever be
16.A Final Reflection

LINE-UP
Dario Bortot – Guitar
Fabrizio Zilio – Bass
Marco Zambardi – Key and Loops
Sergio Sampietro – Drums
Alessio Accardo – Vocal

ALTHEA – Facebook

Methane – The Devil’s Own

Southern metal ad alto volume, alcool e perdizione, cosa volere di più ?

Esordio sulla lunga distanza al fulmicotone per questo gruppo svedese devoto al southern metal e al metallo pulsante in generale.

Devil’s Own è un trionfo di chitarre distorte alla Pantera, incedere metallico e gran divertimento. Non parlo di Black Label Society ma di cose molto più divertenti e coinvolgenti. Nulla è statico in questo disco e tutto gira intorno al suono del diavolo. La voce è abrasiva e ci introduce in un girone infernale di sbronze cattive e sonno discinte che ci portano ancora più in basso nella scala della nostra perdizione. Il metal dei Methane è davvero notevole, con un groove dall’uncino notevole e il disco resiste molto bene ad ascolti ripetuti, anzi più lo si ascolta e maggiore è il piacere. Era da tempo che non usciva un disco così bello e ben prodotto di southern metal. Questo sottogenere del metal è una bestia che è sempre più difficile da gustare selvatica, ci sono alcuni esemplari in cattività ma non valgono nulla. Invece i Methane sono selvatici e vanno ad alta velocità senza risparmiare nulla, e la loro intensità e passione metallica è di gran livello. Gli svedesi riescono a creare un disco potente e mai ripetitivo, giocando molto bene con i codici e gli stilemi del southern metal. Alto volume, alcool e perdizione, cosa volere di più ?

TRACKLIST
1. The Devil’s Own
2. Scars and Bars
3. Blood Sweat and Beer
4. Pray for Death
5. Stone Garden
6. Spit on Your Grave
7. 72
8. Peel Off the Skin
9. Hang Me High

LINE-UP
Tim Scott – Bass, Vocals
Jimi Masterbo – Lead Guitar
Dylan Campbell – Guitar
Andreas Strom – Drums

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Roommates – Fake

Il viaggio nella frontiera americana è appena iniziato per i Roommates, partite insieme a loro con Fake

Quelle che sono sempre state le sonorità americane per antonomasia, negli ultimi anni hanno sempre preso più campo sia nell’hard rock che nel metal, tanto che è sempre diventato più facile parlare di southern metal o southern hard rock, riguardo a molte uscite discografiche degli ultimi tempi.

Una moda o qualcosa di più?
Vero è che il post grunge e lo stoner ben si adattano ad essere amalgamati con le note, molte volte malinconiche,  del southern rock puro, mentre nel metal già i Pantera avevano a loro modo giocato con il genere, poi approfondito con i vari progetti che hanno visto coinvolto Phil Anselmo.
Una premessa per presentare questo gruppo ligure, prima trio acustico, poi con l’entrata di Alessio Spallarossa degli storici deathsters genovesi Sadist, trasformatosi in una southern rock band elettrica, ma dal talento innato per le armonie semiacustiche e le atmosfere poetiche di un viaggio sulle highway americane.
L’esordio dei Roommates riesce a toccare vette emotive altissime e, per chi ama il genere e le opere dei maestri americani, risulta un piccolo gioiellino di rock americano perso tra la tradizione sudista ed accenni alle band che del genere hanno preso l’attitudine e quel tocco blues nascosto dall’elettricità del grunge o dello stoner (Kyuss/Pearl Jam), oppure ben evidenziato dalle scorribande di quella che è stata l’ultima grande rock blues band, i Black Crowes.
Così tra bellissime atmosfere di quel rock a stelle e strisce sinonimo di una libertà cercata, trovata e vissuta su strade bruciate dal sole, l’odore di pneumatici consumati in chilometri di deserto, ed una chitarra che lancia le sue note al cielo stellato, Fake trova la sua dimensione brani che non contengono appunto elettricità, ma anche delicata poesia western, come ben evidenziato dalle prime note della splendida Light.
Blow Away torna con il suo umore post grunge (mi ha ricordato non poco il southern hard rock dei napoletani Hangarvain), mentre le delicate armonie di Fakin’ Good Manners portano al rock blues dell’irresistibile Black Man Guardian, con le moto che ruggiscono di primo mattino e l’adrenalina del viaggio che sta per iniziare è alle stelle.
Le ultime tre tracce tornano a riempire la stanza di armonie delicate, con una Empty Love che è una rock ballad da antologia e On Water Wings e I Smile che sembrano dare il benvenuto alla notte e al meritato riposo.
Il viaggio nella frontiera americana è appena iniziato per i Roommates, partite insieme a loro con Fake, vi faranno sognare.

TRACKLIST
1.Light
2.Blow Away
3.Fakin’ Good Manners
4.Black Man Guardian
5.Empty Love
6.On Water Wings
7.I Smile

LINE-UP
Davide Brezzo – Guitar & Voice;
Danilo Bergamo – Guitar & Voice;
Marco Quattrocorde – Bass & Voice;
Alessio Spallarossa – Drum

ROOMMATES – Facebook

Fall Of Carthage – The Longed-For Reckoning

I musicisti hanno esperienza da vendere e si sente, ma molti dei brani proposti non vanno oltre la sufficienza, tra spunti hardcore, nu metal e violenza da scontri sui marciapiedi di metropoli allo sbando.

Tra la miriade di proposte riguardanti l’ala più moderna del metal spunta il secondo album dei Fall Of Chartage, progetto messo in piedi da Arkadius Antonik, leader dei Suidakra, Martin Buchwalter, batterista dei Perzonal War, e Sascha Aßbach.

Un assaggio di quello che i tre musicisti ci scaraventano addosso è stato Behold, primo album uscito un paio di anni fa, ora seguito da The Longed-For Reckoning, un’opera di metal moderno mastodontica, se pensiamo alla durata di quasi un’ora che per il genere è come leggere il Signore degli Anelli in un giorno.
Lungo, troppo lungo anche perché la proposta non si discosta dal solito menù: ritmiche pregne di groove, qualche accenno metallico in stile Pantera e stop and go di scuola core sviluppati su sedici brani, alcuni valorizzati dall’elettronica ed alquanto interessanti (Sick Intentions), altri che sanno di già sentito in un genere ormai con la corda tirata all’inverosimile.
Gli spunti nu metal non mancano e alzano la tensione (Swept To The Edge), i musicisti hanno esperienza da vendere e si sente, ma molti dei brani proposti non vanno oltre la sufficienza, tra spunti hardcore, nu metal e violenza da scontri sui marciapiedi di metropoli allo sbando.
Si diceva dei musicisti, di un’altra categoria (Sascha Aßbach, per il genere, è un cantante dalla personalità unica, Martin Buchwalter svolge un lavoro enorme alle pelli e la sei corde di Antonik esplode in riff sincopati e core oriented) ma è il songwriting che non decolla, forse per l’eccessiva lunghezza il cui consistente alleggerimento avrebbe reso l’album sicuramente più digeribile.
Se il metal moderno è il vostro pane, The Longed-For Reckoning potrebbe regalarvi buoni spunti, ma se il genere lo ascoltate con parsimonia passate oltre.

TRACKLIST
1.Fast Forward
2.Dust And Dirt
3.Sick Intentions
4.They Are Alive
5.Swept To The Edge
6.Complete
7.For The Soul To Save
8.Whodini Peckawood
9.Suffer The Pain
10.Down Like Honey
11.Tapeworms
12.Paint It White
13.Bury The Crisis
14.Puerile Scumbag
15.Turning Point
16.Black December

LINE-UP
Sascha Aßbach – Vocals,
Arkadius Antonik – Guitars
Martin Buchwalter – Drums

FALL OF CARTHAGE – Facebook

Skallbank – The Singles

Una band con un sound che potenzialmente può fare danni e vedremo gli sviluppi futuri: un full length di qualità simile c’è solo da augurarselo.

Rock ‘n’ Roll made in Sweden, devastante, veloce ed irresistibile e per renderlo ancora più arrembante e arrabbiato, scream e growl si danno il cambio per vomitarci addosso una sequela di belligeranti inni del rock’ n’ roll style.

Il gruppo in questione si chiama Skallbank, è nato a Karlstad nel 2014 e questo ep è la raccolta dei singoli usciti in questi anni.
Quasi tutti i testi sono in lingua madre, il rumore è assicurato a colpi di hard rock, street, melodic death metal e il tutto funziona alla grandissima, sotto cascate di birra e watts.
Basta immaginarsi i Backyard Babies e gli Hardcore Superstar che se la fanno con i Sentenced di Down, e si avrà un’idea del massacro sonoro di cui sono capaci questi cinque svedesi dalla lattina facile ma dai riff impetuosi, nella più pura tradizione scandinava.
I brani, in effetti, sono cinque potenziali hit, dall’opener Falsarium, al riff che sa tanto di primi 69 Eyes e su cui è strutturata Halvmånar och träpinnar, mentre Dödens ord accenna un arpeggio acustico per esplodere in un refrain dall’appeal irresistibile.
Gli ultimi due brani (Sagor är för barn e Lättstöttare kan ingen vara) continuano a dispensare death ‘n’ roll dalla presa immediata, tracce costruite per far male e non lasciare di certo indifferenti i rockers dai gusti selvaggi e distruttivi .
Una band con un sound che potenzialmente può fare danni e vedremo gli sviluppi futuri: un full length di qualità simile c’è solo da augurarselo.

TRACKLIST
01 – Falsarium
02 – Halvmånar och träpinnar
03 – Dödens ord
04 – Sagor är för barn
05 – Lättstöttare kan ingen vara

LINE-UP
Tömte – Vocals
Rickard – Lead guitar
Mats – Guitar
Jonzon – Bass
Jocke – Drums

SKALLBANK – Facebook

Cerebral Extinction – Necro Parasite Anomaly

I brani si succedono come una lunga suite estrema, formata da nove bestiali capitoli in cui l’influenza dei maestri statunitensi è un dettaglio, causa la personalità e l’impatto del duo italiano che non teme confronti.

Sono un duo italiano, e suonano un brutal death di devastanti proporzioni, un enorme terremoto musicale arrivato al secondo e distruttivo episodio, dal titolo Necro Parasite Anomaly.

I Cerebral Extinction sono formati nella line up ufficiale da Shon (chitarra, ex Blessed Dead) e Malshum (voce, Human Waste): nel 2014 hanno dato vita a quello che era il primo tellurico lavoro, dal titolo Inhuman Theory of Chaos, ed ora tornano in tutta la loro devastante violenza in musica con questo nuovo album, un bombardamento sonoro che farà non poche vittime tra gli amanti del brutal death metal di ispirazione statunitense, con la sua mezz’ora di esplosioni estreme che, fin dall’intro Induced Transition, si abbatte come una tempesta sulla costa e a forza di trombe d’aria metalliche sferza, distrugge, tortura ed alla fine elimina ogni forma di vita in un vasto e devastato raggio.
Questo è brutal del più feroce, con blast beat che irrompono come tornado, un growl animalesco che accompagna un tale armageddon senza soluzione di continuità, in un vortice di violenza sadica.
I brani si succedono come una lunga suite estrema, formata da nove bestiali capitoli dove l’influenza dei maestri statunitensi è un dettaglio, causa la personalità e l’impatto del duo nostrano, che non teme confronti e ribadisce l’ottima salute della scena odierna dello stivale.
Inutile ribadire che Necro Parasite Anomaly è caldamente consigliato agli amanti del genere.

TRACKLIST
1.Induced Transition
2.Logic and Conspiracy
3.Nemesis the City of Madness (Part I)
4.Collision Identity
5.Nemesis the City of Madness (Part II)
6.Obscure Portal
7.Necro Parasite Anomaly
8.Face to Face
9.The End of All Worlds

LINE-UP
Shon – Guitars
Malshum – Vocals

CEREBRAL EXTINCTION – Facebook

Morbid Flesh – Rites Of The Mangled

I Morbid Rites vengono dalla Catalogna e fanno un death metal vecchia scuola in quota svedese molto valido e ben suonato.

I Morbid Flesh vengono dalla Catalogna e fanno un death metal vecchia scuola in quota svedese molto valido e ben suonato.

Nato nel 2007 il gruppo è arrivato con questo disco al secondo episodio della loro discografia su lunga distanza. Il loro suono è un ottimo death metal in stile svedese, suonato senza fronzoli e con molta passione. I Morbid Flesh, sin dal nome, mantengono ciò che promettono, e fanno un disco molto preciso e violento, con quel tipo di approccio che tanto piace ai fans del death metal più classico. Questo tipo di suono si fa amare per la sua cattiveria e potenza, per quell’impasto sonoro così speciale e malato che si crea tra la voce, la chitarra ed il basso distorti e la batteria che viaggia. Dischi come questo sono i migliori per accompagnare la vita di un deathster, che rimarrà sempre fedele a questo sound: quello dei Morbid Flesh esce così bene grazie anche all’ottima produzione di Javi Felez, che si è occupato di tutta la produzione e masterizzazione del disco. Il gruppo catalano vi entrerà dentro, lasciandovi quel classico gran bel gusto di odio e violenza in un contesto molto marcio che è poi l’essenza del death metal: il loro macina ogni cosa, rompendo ossa e passando sopra a cadaveri ancora caldi, e il disco dura il giusto per farci assaporare in pieno queste sensazioni.
Rites Of The Mangled è un gran bel disco di death metal vecchia scuola e ogni amante di questo sono dovrebbe dargli una possibilità.

TRACKLIST
1.Circle Cursed
2.Burn The Entrails
3.Banished To Oblivion
4.Heretics Hammer
5.Feeding Mallows
6.Incantation
7.Evil Behind You

LINE-UP
Makeda – Bass
Mitchfinder General – Drums
C. – Guitars
Gusi – Guitars, Vocals (backing), Drums
Vali – Vocals

MORBID FLESH – Facebook

Presence – Masters And Following

Masters And Following rappresenta il ritorno soddisfacente di una band ritrovata, per la quale si spera che questo sia solo l’inizio di una nuova e prolifica fase della sua storia.

Il fatto stesso che una band definibile in qualche modo di culto, come lo sono i Presence, si rifaccia viva dopo un lungo silenzio costituisce di per sé un evento, per cui resta solo da valutare quanto il trascorrere del tempo abbia influito o meno sull’operato del gruppo napoletano.

Indubbiamente, se si intendesse utilizzare quale termine di paragone un lavoro come Black Opera, che portò in maniera dirompente i Presence all’attenzione del pubblico nel 1996, sarebbe un partire con il piede sbagliato: vent’anni sono un lasso temporale che non può lasciare alcunché di immutato, tanto più se i musicisti, al di là delle centellinate uscite discografiche con questo monicker, sono stai attivi in altre vesti e alle prese con sfumature musicali differenti.
Ed è proprio un’accentuata varietà stilistica l’aspetto che colpisce maggiormente al primo impatto con Masters And Following: i Presence spaziano dal progressive più classico a quello metallizzato, passando attraverso pulsioni pop e hard rock, e a tutto questo non è certo estranea la decisione di annoverare tra i 13 brani del cd contenente i brani inediti anche ben tre cover, pure queste di natura variegata se pensiamo al rock settantiano di The House On The Hill degli Audience, alla NWOBH di Freewheel Burning dei Judas Priest ed al pop danzereccio di This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us degli Sparks (versione riuscitissima questa, che peraltro mi ha indotto a rivalutare quale fosse la caratura dei fratelli Mael, snobbati all’epoca da molti di noi imberbi fans del progressive).
In Masters And Following si attraversano così in maniera naturale tutte queste anime musicali immortalate da una serie di brani a mio avviso complessivamente riusciti, grazie ai quali, volendo giocare con il titolo dell’album, l’appellativo di “masters” nei confronti dei Presence calza a pennello …
Sicuramente il lavoro (del quale ho omesso inizialmente di dire che consta di un doppio cd, il secondo dei quali ripercorre la carriera del gruppo tramite una serie di canzoni registrate dal vivo) trova il suoi meglio nella parte iniziale, visto che la title track, Deliver e Now sono tre tracce differenti quanto efficaci, e soprattutto esaustive dell’incorrotta capacità della premiata ditta Baccini, Iglio, Casamassima di creare atmosfere coninvolgenti, nelle quali la robustezza del metal si sposa con naturalezza ad un tocco tastieristico settantiano e ad una voce come quella di Sophya che, come sempre, non si risparmia.
Diciamo anche, per converso, che dopo il trittico delle cover inframmezzato dal notevole strumentale Space Ship Ghost, la tensione scema leggermente senza che il livello complessivi si abbassi a lambire livelli di guardia, ritrovando anzi un’altra notevole impennata con un brano bellissimo come Collision Course.
Detto della parte dedicata al nuovo materiale, non resta che fare un breve accenno al cd dal vivo, purtroppo inficiato da una registrazione che spesso non rende giustizia alla bellezza della musica ed al talento dei musicisti, per cui la sua presenza nella confezione riveste più un valore documentale che non artistico, benché utile forse a spingere chi non conoscesse già i Presence a recuperare le opere originali dalle quali sono tratti i brani, cominciando ovviamente dall’imprescindibile Black Opera.
Masters And Following rappresenta il ritorno soddisfacente di una band ritrovata, per la quale si spera che questo sia solo l’inizio di una nuova e prolifica fase della sua storia.

Tracklist:
CD1:
1. Masters And Following
2. Deliver
3. Now
4. Interlude
5. The House On The Hill
6. Freewheel Burning
7. Space Ship Ghost
8. This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us
9. Prelude
10. Symmetry
11. Collision Course
12. On The Eastern Side
13. The Revealing

Bonus CD:
1. Scarlet
2. The Sleeper Awakes
3. Lightning
4. The Dark
5. Eyemaster
6. Just Before The Rain
7. The Bleeding
8. Un Di’ Quando Le Veneri
9. Orchestral:
– Overture
– Hellish
– J’Accuse
– Makumba
– Supersticious
– The King Could Die Issueless

Line up:
Sophya Baccini – vocals
Enrico Iglio – keyboards, percussion
Sergio Casamassima – guitars
Guests:
Sergio Quagliarella – drums
Mino Berlano – bass

PRESENCE – Facebook

Arch Enemy – As The Stage Burn!

Live dal palco di Wacken per gli Arch Enemy, gruppo storico del death metal melodico scandinavo.

Il Wacken dello scorso anno aveva ospitato gli Arch Enemy per un concerto evento registrato con tutti i crismi, un’opera mastodontica che puntualmente arriva sugli scaffali dei negozi in vari formati, dallo spettacolare supporto video al semplice cd.

MetalEyes ha avuto l’occasione di ascoltare la versione audio digitale, un live di proporzioni ampie che va a sfiorare i settanta minuti, spettacolare esempio di death metal melodico che, nel caso del gruppo svedese, oltre a confermare l’importanza e la qualità altissima della sua musica, ci dà la possibilità di glorificare le prestazioni degli ultimi arrivati in casa Amott: il chitarrista Jeff Loomis (ex Nevermore) e la bravissima e bellissima cantante Alissa White-Gluz, tigre indomabile che non fa rimpiangere la pur brava Angela Gossow.
Death metal melodico sotto il segno della nuova vocalist dunque, davvero una belva assettata di sangue che graffia, morde, fa scempio dei cuori e dei padiglioni auricolari dei fans presenti al festival metal più importante del mondo.
Il gruppo che gli gira intorno è una macchina da guerra perfetta, con Amott e Loomis a formare una coppia d’assi alle sei corde, e la sezione ritmica che bombarda da par suo con gli storici Daniel Erlandsson alle pelli ed il mastodontico Sharlee D’Angelo al basso.
Un concerto esaltante, che esplode letteralmente dagli altoparlanti e che, ovviamente, dà maggior spazio agli ultimi due album, Khaos Legion e War Eternal, primo lavoro con la blucrinita cantante.
Non mancano i brani storici, a completare un perfetto concerto di uno dei gruppi più amati del death metal melodico scandinavo e As The Stage Burn!, lascia la sensazione di una tappa fondamentale per gli Arch Enemy, un periodo immortalato e concluso prima di riprendere il cammino fatto obbligatoriamente di un nuovo album.
Non potendo giudicare le immagini vi lasciamo con il consiglio di non perdervi comunque anche la sola versione cd, per i fans del gruppo si tratta di un live imperdibile.

TRACKLIST
01. Khaos Overture (Live At Wacken 2016)
02. Yesterday Is Dead And Gone (Live At Wacken 2016)
03. War Eternal (Live At Wacken 2016)
04. Ravenous (Live At Wacken 2016)
05. Stolen Life (Live At Wacken 2016)
06. My Apocalypse (Live At Wacken 2016)
07. You Will Know My Name (Live At Wacken 2016)
08. Bloodstained Cross (Live At Wacken 2016)
09. Under Black Flags We March (Live At Wacken 2016)
10. As The Pages Burn (Live At Wacken 2016)
11. Dead Eyes See No Future (Live At Wacken 2016)
12. Avalanche (Live At Wacken 2016)
13. No Gods, No Masters (Live At Wacken 2016)
14. We Will Rise (Live At Wacken 2016)
15. Nemisis (Live At Wacken 2016)
16. Fields Of Desolation (Live At Wacken 2016)

LINE-UP
Michael Amott – guitars
Daniel Erlandsson – drums
Sharlee D’Angelo – bass
Jeff Loomis – guitars
Alissa White-Gluz – vocals

ARCH ENEMY – Facebook

Heart Attack – The Resilience

Pur essendo condizionato da un’urgenza metallica più vicina ai generi maggiormente in voga in questi anni, il gruppo mantiene quelle caratteristiche essenziali per restare nelle grazie dei thrashers.

Questi primi anni del nuovo millennio verranno ricordati come il periodo del terrore, causato dagli attacchi infami dei terroristi religiosi di cui la Francia ha pagato, almeno in Europa, il prezzo più alto.

Gli Heart Attack, gruppo di thrash metal moderno proveniente da Cannes, dedica il nuovo album The Resilience proprio ai sconvolgenti fatti di pochi mesi fa, tornando su una questione politico/sociale e religiosa che indubbiamente hanno e continuano a segnare questo oscuro periodo storico.
Parto dalla copertina, di cui non parlo quasi mai, perché l’ho trovata fuori contesto e più adatta ad un gruppo classico, ma è l’unico neo di questo bellissimo lavoro che unisce thrash e metal moderno, colmo di groove e sfumature core.
Il gruppo estremo transalpino arriva al secondo lavoro sulla lunga distanza quattro anni dopo Stop Pretending, debutto più vicino al thrash metal classico ma niente paura, pur essendo condizionato da un’urgenza metallica più vicina ai generi maggiormente in voga in questi anni, la band mantiene quelle caratteristiche essenziali per restare nelle grazie dei thrashers: certo, di The Resilience si può dire tutto meno che sia un album old school, più che altro risulta un lavoro metal così come dovrebbe suonare nel nuovo millennio, ovvero un perfetto connubio tra suoni tradizionali, potenziati dal moderno incedere estremo.
Gli Heart Attack ci mettono del loro per far sì che certi brani (Burn My Flesh, Fight To Overcome, la devastante Feel The Fire) risultino delle bombe metalliche notevoli, aggredendo rabbiose, denunciando e rivoltandosi contro tutto e tutti dall’alto di una tecnica ed un songwriting inividiabili, ed una prestazione di altissimo livello, sia della sezione ritmica, con Tony Amato al basso ed aggressivo nella parte vocale, coadiuvato dal dirompente batterista Christophe Icard, mentre le sei corde fanno fuoco e fiamme (Christophe Cesari e Kevin Geyer) .
Non contento di cotanto ardore metallico, il gruppo lascia alla conclusiva title track il compito di alzare la qualità di questo gioiellino con uno strumentale che, nella sua lunga durata (più di otto minuti), mette non solo la parola fine ad un album intenso e bellissimo, ma ci consegna una traccia di thrash metal progressivo ed oscuro davvero sopra la media.
A questo punto la copertina diventa ovviamente un dettaglio, fortunatamente la musica di cui si compone The Resilience va ben oltre, facendo di questo lavoro un opera riuscita e coinvolgente.

TRACKLIST
1.Nocturnal Sight
2.Burn My Flesh
3.Congrats To People
4.Fight To Overcome
5.Sound And Light
6.When The Light Dies Down
7.Dead And Gone
8.Feed The Fire
9.Disorder
10.The Resilience

LINE-UP
Tony Amato – Bass guitars, Lead vocals
Christophe Cesari – Rhythm & lead guitars, acoustic and classical guitars, Keyboards, Back vocals
Kevin Geyer – Rhythm Guitars, Lead vocals
Christophe Icard – Drums & Percussions

HEART ATTACK – Facebook

Naga – Inanimate

I Naga si stabilizzano tra gli esponenti di punta di un genere che. nel nostro paese. sta producendo frutti sempre più prelibati.

Inanimate è un ep dei Naga risalente alla scorsa estate, quando è stato pubblicato solo in vinile in edizione limitata in 100 copie per Lay Bare Recordings; da poco è stata immessa sul mercato da parte della Everlasting Spew Records la versione in cd, contenente anche un brano esclusivo per tale edizione.

Pur avendo affrontato ai tempi di IYE l’ottimo Hēn, unico full length finora rilasciato dalla band napoletana, non abbiamo intercettato Inanimate all’atto della sua prima uscita per cui cerchiamo di rimediare ora, tenendo conto del fatto che i suoi contenuti sono già stati ampiamente sviscerati da più parti lo scorso anno.
Quello che si può aggiungere a quanto già si sa è che i Naga, pur con una produzione ancora di dimensioni ridotte, hanno già acquisito una caratura importante che ha consentito loro, per esempio, di aprire ai Candlemass nella recente data bresciana.
L’ascolto di Inanimate conferma che tale status si rivela tutt’altro che usurpato: l’interpretazione del doom da parte del trio partenopeo non è ovviamente tradizionale come quella dei “padri” svedesi, ma si avvale di una pesante componente sludge senza tralasciare qualche puntata di matrice black/hardcore.
Thrives, traccia d’apertura del lavoro, si rivela sufficientemente emblematica dello stile musicale dei Naga, con il suo sound denso, colmo una tensione che pare sempre sul punto di esplodere nel suo fragore ma resta, invece, pericolosamente compressa all’interno del suo caliginoso involucro.
Hyele segue uno schema non dissimile ma è intrisa di una più canonica componente doom, con riff pesanti come incudini nella sua parte discendente, mentre le accelerazioni blak hardcore di Loner sono propedeutiche all’allucinata cover dei Fang, The Money Will Roll Right In.
Il brano inedito, Worm, riporta invece alle radici dello sludge e conferma la bontà del percorso stilistico intrapreso dai Naga, stabilizzandoli tra gli esponenti di punta di un genere che. nel nostro paese. sta producendo frutti sempre più prelibati.

Tracklist:
1. Thrives
2. Hyele
3. Loner
4. The Money Will Roll Right In (Fang cover)
5. Worm

Line-up:
Lorenzo: Vocals and Guitar
Emanuele: Bass
Dario: Drums

NAGA – Facebook

Cloven Hoof – Who Mourns For The Morning Star?

Who Mourns For The Morning Star? è un album straripante, dall’impatto di un asteroide in picchiata sulla Terra, una raccolta di canzoni che non dà tregua, piena di melodie vincenti, aggressività ed epicità.

Gruppo di culto della New Wave Of British Heavy Metal, i Cloven Hoof sono tornati a nuova vita all’inizio del nuovo millennio, dopo un lungo silenzio che li aveva tenuti lontani dalla scena per ben quindici anni.

Il gruppo di Wolverhampton, tra 1982 e il 1989, regalò ai fans dell’epoca un terzetto di full length che divennero  oggetto di culto, più un live (all’epoca obbligatorio nella discografia di una band) ed un paio di demo che conquistarono le preferenze degli appassionati e degli addetti ai lavori.
Lo stop subìto prima dell’esilio dell’heavy metal negli anni novanta, ed il ritorno nel nuovo millennio con un’altra serie di album di cui questo ultimo Who Mourns For The Morning Star?  è il quarto: questa ultima uscita non tradisce, con i Cloven Hoof a regalare ancora una volta grande musica heavy, esaltante, spettacolare e nobile, metallo che lascia senza fiato per intensità e freschezza.
Il lavoro si giova peraltro della prestazione eccellente George Call, arrivato alla corte di Lee Payne dopo il precedente Resist Or Serve ed ex Omen (tra gli altri), e di un songwriting incisivo che permette al gruppo di lasciare ai posteri altre nove perle metalliche contraddistinte da una sagacia tecnica non comune, con la chitarra di Luke Hatton che urla la sua nobile appartenenza alla leggenda dell’heavy metal con solos dalle fiammeggianti melodie, mentre Chriss Coss sfodera ritmiche una più esaltante dell’altra e Lee Payne e Danny White fanno male con le loro micidiali armi (basso e batteria).
Who Mourns For The Morning Star? è un album straripante, dall’impatto di un asteroide in picchiata sulla Terra, una raccolta di canzoni che non dà tregua, piena di melodie vincenti, aggressività ed epicità: la qualità è massimale in tutti i brani, ma dovendo scegliere menziono Star Rider, Song Of Orpheus e I Talk To The Dead, la semiballad Morning Star e i due epici crescendo conclusivi, Go Tell The Spartans e Bannockburn, brano dall’inizio folk medievaleggiante che si trasforma in un crescendo maideniano, con Call a toccare vette altissime, impresa degna appunto del miglior Dickinson.
Un album bellissimo, nel genere uno dei più trascinanti degli ultimi anni. La leggenda continua.

TRACKLIST
1. Star Rider
2. Song Of Orpheus
3. I Talk To The Dead
4. Neon Angels
5. Morning Star
6. Time To Burn
7. Mindmaster
8. Go Tell The Spartans
9. Bannockburn

LINE-UP
George Call – Lead Vocals
Lee Payne – Bass Guitar and Backing Vocals
Luke Hatton – Lead Guitar
Chris Coss – Rhythm Guitar
Danny White – Drums And Percussion

CLOVEN HOOF – Facebook

Ninjaspy – Spüken

La fusione tra metal estremo e note provenienti da generi come reggae, jazz o fusion non è certo una novità appunto, ma Spüken non lascerà sicuramente indifferenti gli amanti di questo ibrido musicale.

Che fonte inesauribile di grande musica è l’underground rock/metal mondiale: non passa settimana (e mi sono tenuto largo) senza imbattersi in realtà straordinariamente affascinanti, non encessiaramente originali a tutti i costi (anche se in questo album l’inventiva non manca di certo), ma coraggiose nel modellare ed unire suoni apparentemente lontani tra loro.

La fusione tra metal estremo e note provenienti da generi come reggae, jazz o fusion non è certo una novità, appunto, ma Spüken esordio sulla lunga distanza dei tre Parent, canadesi di nascita uniti sotto il monicker Ninjaspy, non lascerà sicuramente indifferenti gli amanti di questo ibrido musicale.
Rock alternativo, deathcore ed appunto atmosfere jazz e fusion, qualche reminiscenza reggae ed il gioco è fatto, direte voi.
Beh, in teoria sembrerebbe più facile di quanto il tutto risulti effettivamente, infatti è un attimo perdere la fluidità tra le esplosioni estreme (e qui i Ninjaspy ci vanno davvero pesante) e le ariose parti strumentali dove, come in un torrente di montagna la musica scorre limpida e frizzante, ma il trio riesce incredibilmente a non perdere la bussola e regalarci momenti di musica a 360°, selvaggia, rabbiosa, piacevolmente rilassante per un attimo, per trasformarsi in un’aggressione spaventosa in quello dopo.
Sentire per credere, partendo dall’opener e singolo Speak, inizio di un viaggio pericoloso, pieno di soprese, tra momenti di tecnica strumentale di altissimo livello e brani che di scontato non hanno nulla, passando da parti estreme furiose, rock alternativo e tanta musica fuori dagli schemi.
Difficile trovare una traccia da portare ad esempio, ognuno montato e rimontato più volte senza lasciare un punto di riferimento (Dead Dock Duck, la splendida Jump Ya Bones) mentre System Of a Down, Nirvana, Meshuggah ed i generi descritti si uniscono in questo arcobaleno di musica dal titolo Spüken, consigliato agli amanti della musica rock/metal moderna e senza barriere.

TRACKLIST
1.Speak
2.Shuriken Dance
3.Brother Man
4.Dead Duck Dock
5.Become Nothing
6.What!
7.Jump Ya Bones!
8.Grip The Cage
9.Azaria
10.Slave Vehemence

LINE-UP
Joel Parent
Tim Parent
Adam Parent

NINJASPY – Facebook