Kaipa – Children Of The Sounds

Children Of The Sounds è un lavoro suggestivo, un ritorno alle armonie ed alle melodie dei grandi del passato ma con un taglio moderno.

Preparatevi a sognare, lasciatevi prendere per mano dalla ragazzina in copertina ed entrate senza indugi nel mondo fatato del bellissimo ultimo lavoro della storica band progressive svedese Kaipa, che prosegue  una storia nata a metà degli anni settanta e proseguita fino ai giorni d’oggi all’insegna di un elegante rock progressivo.

Quella che è probabilmente la migliore e più longeva tra le band della tradizione progressiva scandinava torna con Children Of The Sounds, album d’altri tempi, un viaggio tra il progressive rock britannico, classico e derivativo quanto volete, ma che sprigiona classe da tutti i pori.
Stupende fughe tastieristiche, verve elettrica dai rimandi new prog britannici, un lavoro al microfono straordinario, con le due voci (Patrik Lundström e Aleena Gibson) che si alternano nel raccontare questo viaggio fantastico nel paese delle meraviglie della musica progressiva.
Children Of The Sounds è un lavoro suggestivo, un ritorno alle armonie ed alle melodie dei grandi del passato ma con un taglio moderno, che si evince da una produzione cristallina, e con qualche tocco più duro in alcune soluzioni chitarristiche che portano il sound in zona Arena e Threshold, ma tenendo ben stretto il cordone ombelicale che lega il gruppo svedese ai sui primi passi negli anni settanta (Genesis e Yes).
Come si faceva una volta, ai Kaipa bastano cinque brani, lunghe suite progressive nelle quali sfogare il proprio talento senza far perdere, neanche per un attimo, all’ascoltatore la giusta attenzione per seguire gli intrecci disegnati su uno spartito d’altri tempi, una pergamena d’oro dove nascoste tra le pieghe si intravedono le note delle splendide On The Edge Of New Horizons (diciassette minuti di perfezione progressiva) e Like A Serpentine.
Un’opera sontuosa, assolutamente imperdibile per gli amanti del progressive rock dal taglio classico.

Tracklist
1. Children of the Sounds
2. On The Edge of New Horizons
3. Like A Serpentine
4. The Shadowy Sunlight
5. What’s Behind The Fields

Line-up
Hans Lundin – Keyboards & vocals
Per Nilsson – Electric & acoustic guitars
Morgan Ågren – Drums
Jonas Reingold – Electric basses
Patrik Lundström – Vocals
Aleena Gibson – Vocals

KAIPA – Facebook

The Dark Red Seed – Stands With Death

Tosten Larson ci offre un sound tipicamente americano, con un incedere cantautorale e venato di blues che nasconde una vena inquieta e malinconica.

The Dark Red Seed è il nuovo progetto solista promosso dal chitarrista di Portland Tosten Larson, appartenente alla band che accompagna dal vivo l’estroso King Dude: come sempre la Prophecy porta alla luce realtà che si muovono lungo i confini del rock e del metal, fornendo interpretazioni per lo più di grande interesse e che hanno anche il pregio di consentire ai più curiosi di ampliare la propria gamma di ascolti.

Il breve ep intitolato Stands With Death, come si può intuire dal titolo, verte sul rapporto dell’uomo con la morte; un argomento, questo, che in molti hanno già sviscerato ma che offre sempre sfaccettature mai banali a seconda delle angolazioni dal quale lo si guarda: Larson offre una sua visione che vorrebbe essere di serena accettazione ma che non nasconde, però, quel velo d’inquietudine corrispondente all’isolata nuvoletta che improvvisamente oscura il sole in una giornata apparentemente serena.
Il musicista statunitense veicola tutte queste sensazioni attraverso un sound tipicamente americano, con l’incedere cantautorale e venato di blues soprattutto nel primo brano The Antagonist, mentre già in The Tragedy of Ålesund una prima parte più rarefatta viene percossa da un improvvisa sfuriata elettrica; molto più robusta senz’altro la conclusiva The Master and the Slave, che dopo un inizio non esaltante si immerge nella sua seconda metà in un’apprezzabile atmosfera psichedelica.
Personalmente prediligo il bravo Larson quando assume le sembianze di un moderno Johnny Cash, come fa ottimamente nella prima parte di questo breve lavoro: vedremo cosa sarà in grado di offrirci quando nella prossima estate dovrebbe essere realizzato un primo full length a nome The Dark Red Seed, alla luce delle buone basi gettate con Stands With Death.

Tracklist:
1.The Antagonist
2.The Tragedy of Ålesund
3.The Master and the Slave

Line up:
Tosten Larson

THE DARK RED SEED – Facebook

Radio Moscow – New Beginnings

Tornano dopo tre anni i Radio Moscow e lo fanno con New Beginnings, che conferma il loro valore rafforzandone la solida posizione ai vertici del genere.

Ho ancora negli occhi e soprattutto nelle orecchie la sensazionale performance che i Radio Moscow regalarono agli astanti in quel di Varazze (cittadina rivierasca ligure) nell’estate del 2015 in occasione del Riviera Summer Fest.

Il trio di rockers capitanati dal chitarrista Parker Griggs, musicista eccezionale e songwriter sopra le righe,  prese per mano quelli che ebbero ebbe la fortuna di fermarsi ad ascoltare, per portarli direttamente nel mondo del rock psichedelico e dell’hard rock dai rimandi agli anni settanta.
La mia recensione del bellissimo Magical Dirt non si fece attendere sulle pagine di InYourEyes, mentre il gruppo dell’Iowa continuava a calcare palchi e l’attesa tra il precedente lavoro e questo nuovo album fu inframezzata da Live! In California che immortalava la band sul palco nel corso dello scorso anno.
Tornano quindi dopo tre anni i Radio Moscow e lo fanno con New Beginnings, che conferma il loro valore rafforzandone la solida posizione ai vertici del genere.
La title track ci dà il benvenuto nell’arcobaleno psichedelico che la sei corde di Griggs disegna nel cielo, uno spettacolo di suoni rock, la pura essenza di quello che il genere dall’arrivo sulla terra di Jimi Hendrix ha donato ai suoi seguaci, inebriati di riff e sostanza illegali, trasportati oggi in altre dimensioni dalle atmosfere che i Radio Moscow riescono a creare.
Con chitarra, basso e batteria, niente di più e niente di meno, e la stoffa nel suonare un genere sempre in bilico tra il già sentito ed il capolavoro, i Radio Moscow partiti nel 2003, quando il rock vintage era roba per pochi intimi, continuano la loro missione nel divulgare il verbo psichedelico, sporcato di blues acido, southern e hard rock hendrixiano, mentre i Led Zeppelin e i Black Sabbath prendono a braccetto lo spirito del grande chitarrista e lo lasciano entrare nel corpo indemoniato di Parker Griggs, assoluto dominatore di questo prezioso scrigno di colori, note e forme.
Una jam lunga quaranta minuti, questo in conclusione risulta il nuovo album del gruppo statunitense, una scatola musicale psichedelica da cui estrarre ogni singola nota.

Tracklist
01. New Beginning
02. Deceiver
03. Woodrose Morning
04. Driftin’
05. No One Knows Where They’ve Been
06. Last To Know
07. New Skin
08. Pacing
09. Pick Up The Pieces
10. Dreams

Line-up
Parker Griggs – guitars, vocals
Anthony Meier – bass
Paul Marrone – drums and percussion

RADIO MOSCOW – Facebook

Giacomo Voli – Prigionieri Liberi

Con un sound raffinato ed elegante come ci ha abituato in tutte le opere che lo hanno visto protagonista, Giacomo Voli si dimostra talento sopraffino anche tra le note più leggere di Prigionieri Liberi.

Nuova proposta solista del talentuoso Giacomo Voli, con un passato a cantare una buona fetta della storia del rock, una fortunata apparizione a The Voice Of Italy nel 2014 dove ha ottenuto il secondo posto e, soprattutto, le ottime prove con i Teodasia ed i Rhapsody Of Fire.

Voli non si annoia di certo e continua a cantare metal o, come in questo caso rock, con il suo secondo lavoro solista, dopo l’ottimo Ancora Nell’Ombra uscito un paio di anni fa.
Questo nuovo album intitolato Prigionieri Liberi lo ha visto collaborare con Daniela Ridolfi per la scrittura dei testi, mentre l’opera è stata finanziata grazie a MusicRider.
Cantato in lingua madre e suonato da una manciata di musicisti del panorama metal/rock nazionale, Prigionieri Liberi conferma il talento del cantante nostrano, soprattutto con il rock melodico, comunque pregno di soluzioni metalliche negli arrangiamenti chitarristici, tra rabbia ed una via di fuga dalla prigionia, mentre si fa spasmodica la ricerca della felicità, espressa da brani emozionanti ed interpretati con trasporto da un Voli che, a tratti, lasciati i panni del vocalist metal, si trasforma nel Francesco Renga dei primi Timoria, specialmente nelle due bellissime canzoni Non Ci Pensi Mai e Il Libro Dell’Aassenza.
In Prigionieri Liberi troviamo rock italiano, musica d’autore che si nutre di melodie così come dell’elettricità di frustate hard rock, con il vocalist che, accompagnato da preparatissimi musicisti, sfoggia una performance splendida, con vette emotive davvero alte, come nella bellissima cover di Ti Sento dei Matia Bazar.
Con un sound raffinato ed elegante come ci ha abituato in tutte le opere che lo hanno visto protagonista, Giacomo Voli si dimostra talento sopraffino anche tra le note più leggere di Prigionieri Liberi.

Tracklist
1.Esasperante
2.Segni di Tregua
3.Non ci Pensi Mai
4.L’Ultimo Frame
5.Prigionieri Liberi
6.Templi Moderni
7.Ti Sento
8.Il Libro dell’Assenza

Line-up
Giacomo Voli – Voce, cori, composizione e arrangiamenti, produttore.
Riccardo Bacchi – Chitarre
Federico Festa – Basso
Demis Castellari – Batteria
Mattia Rubizzi – Elettronica e tastiere
Daniela Ridolfi – Testi

GIACOMO VOLI – Facebook

Ariadna Project – Novus Mundus

Un album che conferma come le terre del Sudamerica siano ricche di talenti ed ottima musica metal, continuando una tradizione nei suoni classici che dura e prosegue nel regalare enormi soddisfazioni a chi ama il metal più melodico ed elegante.

Grande musica metal si è suonata e si continua a suonare in Sudamerica, ma questa volta invece del quasi scontato Brasile (specialmente per quanto riguarda i suoni classici) si vola in Argentina, dove sono tornati a produrre musica dopo dieci anni dall’ultimo lavoro gli immensi Ariadna Project, gruppo magari poco conosciuto se non si è cultori attenti del power metal melodico.

La band ha ampiamente dimostrato in passato il proprio talento con la versione internazionale del primo album Mundos Paralelos, uscito nel 2005 e poi trasformato in Parallel Worlds due anni dopo.
Il quintetto argentino torna tramite la sempre più efficace label greca Sleaszy Rider, con questa monumentale opera dal titolo Novus Mundus, un arcobaleno di note heavy power sinfoniche dalle gustose melodie aor mixato da Timo Tolkki (Stratovarius) e Santtu Lehtiniemi (Revolution Renaissance) ai Tolkki Studio in quel di Helsinki e masterizzato da Svante Forsbäck (Rammstein, Apocalyptica, Stratovarius, Sonata Arctica) ai Chartmakers Studios, sempre nella capitale finlandese.
L’album vive di una naturale predisposizione per la melodia, dimostrandosi vincente in ogni frangente, con un’alternanza di brani power/prog eccezionali ed altri in cui l’hard rock melodico prende la mano ai musicisti, con il vocalist Emanuel Gerban che ci delizia con parentesi da arena rock a dir poco entusiasmanti.
Un piccolo capolavoro questo Novus Mundus, molto più Royal Hunt che Stratovarius (tanto per intenderci) ma dove non mancano neppure la grinta, i solos graffianti e le ritmiche che risultano cavalcate in cui le tastiere ricamano sinfonie eleganti ed il singer intona chorus che si stampano in testa al primo ascolto.
Anche se riesce davvero difficile lasciare indietro qualche brano, sicuramente vanno citate la spettacolare ed oscura title track (l’unica traccia atmosfericamente ombrosa del lotto), e poi la cavalcata power sinfonica Unleash Your Fire che apre l’album, le melodie aor di Run Like The Wind e la spettacolare The End Of The Dark, ottimi esempi del fastoso sound del gruppo di Buenos Aires, ma sono sicuro che tra un paio di giorni ne nominerei un altra manciata, talmente alta è la qualità di questo lavoro.
Un album che conferma come le terre del Sudamerica siano ricche di talenti ed ottima musica metal, continuando una tradizione nei suoni classici che dura e prosegue nel regalare enormi soddisfazioni a chi ama il metal più melodico ed elegante.

TRACKLIST
1.Apocalypse 050
2. Unleash Your Fire
3. Run Like The Wind
4. Face My Destiny
5. The End Of The Dark
6. Shining Through Eternity
7. Age Gone Wild
8. Always With Me
9. As I Close My Eyes
10. The Fury Of Your Hate
11. Novus Mundus
12. Dreams Never Die (bonus track)

LINE-UP
Emanuel Gerbam – Vocals
Rodrigo Gudina – Guitars
Alexis Espinosa – Bass
Jorge Perini – Drums
Hernan Vasallo – Keyboards

ARIADNA PROJECT – Facebook

Waterdrop – Waterdrop ep

I brani sono piacevoli e hanno un tocco raffinato che induce a pensare di essere al cospetto di musicisti giovani ma attenti a quello che è successo nel rock da un trentina d’anni a questa parte.

Partiamo da un considerazione importante, che poi è il fulcro e giudizio di questo articolo: il primo ep omonimo dei Waterdrop è un bel lavoro, curato nei minimi dettagli, con un copertina bellissima e composto da sei brani alternative rock che guardano al passato ma rappresentano il presente con uno sguardo al futuro per questi giovani musicisti in arrivo dalla provincia di Brescia.

Il quartetto lombardo, che nel frattempo ha sostituito il cantante Nicola Bergamo con Claudio Trinca, si diletta in un rock alternativo smosso da fremiti elettrici e da liquidi tappeti elettronici, due facce della stessa medaglia o per meglio dire della stessa anima, oscura ma aperta alla speranza, elegantemente tragica nel suo alternare chitarre pregne di sofferte sfumature moderne ed appunto alternative, senza mai dare l’impressione di andare oltre, mantenendo la parte elettronica e l’aspetto melodico in bella mostra.
I brani sono piacevoli e hanno un tocco raffinato che induce a pensare di essere al cospetto di musicisti giovani ma attenti a quello che è successo nel rock da un trentina d’anni a questa parte, con la new wave parte integrante del sound di Triumph e Insane (i primi due singoli) ma soprattutto delle notevoli My Addiction e Chemistry, appunto un buon mix di new wave e alternative rock alla Linkin Park.
Un buon inizio per il gruppo bresciano, è presto per dire dove potranno arrivare ma la strada è quella giusta anche se impervia.

Tracklist
1. Drift Away
2. My Addiction
3. Triumph
4. What’s Meant To Be
5. Chemistry
6. Insane

Line-up
Nicola Bergamo – Vocals
Alessandro Bussi – Guitar
Nicolas Pelleri – Bass
Francesco Bassi – Drums

WATERDROP – Facebook

The Quartet OF Woah! – The Quartet Of Woah!

Un album intenso e affascinante, un viaggio psichedelico attraverso i generi che più hanno valorizzato il rock degli ultimi decenni concentrato in quattro lunghe jam.

Ecco un altro album per cui vale la pena spendere gran parte del proprio tempo libero per una webzine come la nostra: il classico lavoro della band sconosciuta, in arrivo da un paese ai confini delle mappe del music business eppure talmente affascinante da non passare inosservato, almeno per chi della musica underground ne fa una questione di stimoli.

Perché è chiaro che in queste quattro jam stoner/psichedeliche targate The Quartet Of Woah! c’è tanta musica da riempire un’enciclopedia: stonata, psichedelica, alternativa e profonda come un trip con il quale veniamo scaraventati in un deserto pinkfloydiano dove David Gilmour presta il suo talento ai Kyuss per poi darsi appuntamento al calar delle tenebre con mezza Seattle, oppure scagliati nella metà degli anni novanta quando i Trouble arricchivano il loro doom metal di hard rock e i Tea Party ci avvolgevano nelle trame del loro capolavoro The Edges Of Twilight.
Attiva dal 2010 e con il debutto Ultrabomb uscito ormai cinque anni fa, la band di Lisbona porta lo stoner rock ad un livello altissimo, adulto, maturo e dannatamente drogato di psichedelia progressiva molto anni settanta, mentre il poker di brani ci avvicina ai confini di un abisso che comunica direttamente con il centro della Terra.
In fondo The Quartet Of Woah! è un album assolutamente terrestre, con la sabbia calda del deserto che arroventa i piedi, con i passi che si fanno lenti e strascicati seguendo il lento incedere, prima che il sound esploda in fuochi stoner/alternative come in Forth By Light o A Flock Of Leaves.
Le ritmiche funky rock di Days Of Wrath farebbero impallidire il Flea di turno, in un delirio di hard rock progressivo e stonerizzato, lungo tredici minuti: un mezzo capolavoro.
Un album intenso e affascinante, un viaggio psichedelico attraverso i generi che più hanno valorizzato il rock degli ultimi decenni concentrati in queste quattro lunghe e dopate jam.

Tracklist
1.As In Life
2.Forth By Light
3.A Flock Of Leaves
4.Days Of Wrath

Line-up
Gonçalo Kotowicz – vocals, guitars
Rui Guerra – vocals, keyboards
Miguel Costa – vocals, drums
André Gonçalves – vocals, bass

THE QUARTET OF WOAH – Facebook

Caligula’s Horse – In Contact

Licenziato da Inside Out, una garanzia nei suoni progressivi, In Contact risulta un album con più luci che ombre ma con diversi dettagli da registrare per la band australiana, che a mio parere ha da fare ancora un po’ di strada prima di arrivare ad ambire ad un posto al sole nel panorama progressivo odierno.

Questa volta non posso esimermi da fare una considerazione per alcuni antipatica: il progressive moderno, che poi in molti casi non è altro che rock/metal alternativo dilatato e con soluzioni ritmiche prese in prestito dal tanto vituperato prog metal (alla Dream Theater, per intenderci) che ormai si può tranquillamente definire classico, sta arrivando ad un punto di non ritorno.

Mentre viene sempre più accettato nell’ambiente del prog che conta, le band che veramente fanno la differenza si contano sulle dita di una mano: il resto è buona musica, a tratti intimista e lasciata in balia delle tempeste alternative.
Gli australiani Caligula’s Horse si posizionano perfettamente tra le realtà che ambiscono ad un posto di primo piano nel nuovo progressive mondiale e quelle che rischiano inevitabilmente di cadere in uno stagno da dove rimane difficile riemergere, musicalmente e concettualmente parlando.
Attivi da ormai sette anni, i nostri arrivano al traguardo del quarto album con In Contact, un lavoro che come si diceva rimane incastrato tra il progressive moderno ed il metal, un palazzo di note che crolla ed imprigiona il sound in schemi ormai abusati da gruppi più o meno noti e giunti alla ribalta negli ultimi tempi.
Grande preparazione strumentale, ghirigori ritmici, qualche buona idea ma un sentore di già sentito pervade l’ascolto già dalle prime note dell’opener Dream the Dead.
Non fraintendetemi, In Contact è un buon lavoro e non mancherà di trovare estimatori negli amanti del rock progressivo e di band come Karnivool e Tesseract, però manca l’ispirazione vincente, quella che porterebbe a giudicare con più entusiasmo brani già di per sé buoni come Songs For No One, Fill My Heart o la conclusiva suite Graves.
Licenziato da Inside Out, una garanzia nei suoni progressivi, In Contact risulta un album con più luci che ombre ma con diversi dettagli da registrare per la band australiana, che a mio parere ha da fare ancora un po’ di strada prima di arrivare ad ambire ad un posto al sole nel panorama progressivo odierno.

Tracklist
01. Dream the Dead
02. Will’s Song (Let the Colours Run)
03. The Hands are the Hardest
04. Love Conquers All
05. Songs for No One
06. Capulet
07. Fill My Heart
08. Inertia and the Weapon of the Wall
09. The Cannon’s Mouth
10. Graves

Line-up
Jim Grey – lead vocals
Sam Vallen – lead guitar
Adrian Goleby – guitar
Dave Couper – bass & vocals
Josh Griffin – drums

CALIGULA’S HORSE – Facebook

Ace Frehley – Anomaly-Deluxe

Il Frehley solista non si discosta poi granché dal sound dei Kiss, se non per una più marcata vena heavy, spostando il sound dal rock’n’roll ipervitaminizzato e melodico del gruppo mascherato ad sound più duro e diretto, crudo ed americano fino al midollo.

Qui si fa la storia dell’hard rock americano,  perché potremmo metterci a discutere per giorni su quanto possano piacere i Kiss, ma è indubbio che i volti mascherati più famosi del rock abbiano avuto un’importanza assoluta sul rock duro mondiale.

Il loro più famoso chitarrista solista, membro originale con la maschera dello Spaceman e sul palco con la band fino al 1981, all’uscita del controverso Music From The Elder, e poi tornato nel gruppo nella seconda metà degli anni novanta in tempo per registrare con i suoi vecchi compagni il bellissimo Kiss Unplugged ed il dignitoso Psycho Circus, ha avuto una carriera in proprio di tutto rispetto con l’esperienza Frehley’s Comet, durata solo un paio d’anni e tre album, un’infinità di collaborazioni in veste di ospite e otto uscite a nome Ace Frehley tra le quali questo ottimo Anomaly risulta il quinto album di inediti, uscito originariamente nel 2009.
Anomaly Deluxe esce rimasterizzato e con l’aggiunta di tre bonus track tra cui due brani (Hard For Me e Pain In The Neck) scritti per i Kiss e mai pubblicati.
Il Frehley solista non si discosta poi granché dal sound dei Kiss, se non per una più marcata vena heavy, spostando il sound dal rock’n’roll ipervitaminizzato e melodico del gruppo mascherato ad sound più duro e diretto, crudo ed americano fino al midollo.
Continuando sulla strada del paragone con la band madre direi che Anomaly (non me ne voglia il buon Ace) si avvicina di più al periodo senza maschere di Simmons e Stanley, inserendo nel sound di brani come Outer Space, Too Many Faces o Sister quegli elementi ritmici grassi tipici del rock poi sviluppatosi negli anni novanta.
Il rock’n’roll è ben rappresentato dall’irresistibile verve di Fox The Run (il brano più Kiss oriented di tutto l’album), mentre la voce di Ace risulta vera, regalando ai brani quell’atmosfera da musicista condannato ad una vita per il rock (e non solo).
Da applausi sono le due ballad, l’elettrica Change The World e l’acustica A Little Below The Angels, dove Ace duetta con un coro di bambini e profuma di cieli lavati dalla tempesta nei deserti del nuovo continente.
Bene ha fatto la Steamhammer/SPV ha dare un’altra chance a questo bellissimo lavoro di un artista che è parte essenziale della storia del rock.

Tracklist
1. Foxy & Free
2. Outer Space
3. Pain In The Neck
4. Fox On The Run
5. Genghis Khan
6. Too Many Faces
7. Change The World
8. Space Bear
9. A Little Below The Angels
10. Sister
11. It’s A Great Life
12. Fractured Quantum
13. Hard For Me (previously unreleased)
14. Pain In The Neck (slower version, previously unreleased)
15. The Return Of Space Bear (first time on CD)

Line-up
Ace Frehley – Guitars, Lead Vocals, Bass
Anthony Esposito – Bass
Anton Fig – Drums
Derrek Hawkin – Guitars
Scot Coogan – Drums
Marti Frederiksen – Keyboards, Guitars

ACE FREHLEY – Facebook

Church Of Void – Church Of Void

Il gruppo ha un suono trasversale che accoglie molti generi, e che può quindi essere apprezzato da amanti di diverse sonorità metalliche.

Finalmente sono tornati i maestri del doom finlandese, i Church Of Void.

Questi ultimi sono uno dei gruppi più influenti e validi del genere, e basta ascoltare questo disco per venire rapiti dal loro doom che va a braccetto con un hard rock molto anni settanta. I Church Of Void nascono nel 2010 in Finlandia per opera del cantante Magnus Corvus e di G.Funeral, ex membro degli Horna e dei Battlelore. Dopo il primo ep Winter Is Coming, pubblicano nel 2013 il loro debutto sulla lunga distanza per la migliore etichetta finnica, la Svart Records. Il disco fu accolto molto bene sia dalla critica che dal pubblico, anche perché il gruppo ha un suono trasversale che accoglie molti generi, e che può quindi essere apprezzato da amanti di diverse sonorità metalliche. Il cuore del loro suono è il doom classico, leggermente più veloce di altri gruppi simili, ma i giri di chitarra sono sempre poderosi e magniloquenti e sono la struttura principale delle canzoni. Il disco ha un suo sviluppo naturale, i temi trattati sono le tenebre e i residui di certe antichità che sono state molto più grandi della civiltà attuale. C’è anche una canzone su Lovecraft, che è un’ottima lettura mentre si ascolta questo disco, anche se H.P. è una buona lettura a prescindere. Oltre al doom qui ci sono robusti innesti di hard rock anni settanta che rendono il suono ancora più potente, e non manca una psichedelia molto funzionale al tutto. L’incedere è lento e maestoso ma non troppo, perché come detto sopra, nell’ossatura è presente l’hard rock. Certamente i Black Sabbath sono un’influenza e non potrebbe essere altrimenti, ma qui si va bene oltre, elaborando una nuova poetica. Una delle cose che stupisce maggiormente del doom classico è come possa essere vario e melodico se fatto bene, innalzando un muro di suono nel quale però è sempre ben riconoscibile una melodia. Un disco di ottima qualità da sentire a volume molto alto.

Tracklist
1. Prelude
2. Passing the Watchtower
3. Harlot’s Dream
4. Moonstone
5. Lovecraft
6. Beast Within
7. World Eater

Line-up
Magus Corvus -Voice
G. Funeral – Lead Guitar
A. D. – Lead Guitar
H. Warlock – Bass Guitar, Bc Vox.
Byron V.- Drum Attack

CHURCH OF VOID – Facebook

Jaw Bones – Wrongs On A Right Turn

Quarantacinque minuti in pieno deserto, anche se le sfumature psichedeliche sono ridotte al lumicino in favore di soluzioni melodiche dirette e sostenute, questo sì, dalle ormai irrinunciabili ritmiche groove.

Stoner rock, e grunge, due dei generi che più hanno condizionato il mercato negli amati/odiati anni novanta, sono indubbiamente fonti inesauribili di influenze d ispirazioni per il novanta per cento delle rock band del nuovo millennio.

L’invasione del nuovo stoner che guarda al southern da una parte ed al grunge dall’altra, per trovare strade alternative alla solita formula, non ha risparmiato la vecchia Europa, ed in particolare i paesi che si affacciano sul mediterraneo, tradizionalmente più “americani” dei metallici stati centro/nord europei.
Da Salonicco arrivano i Jaw Bones, al primo full length licenziato dalla Sliptrick, con un concentrato di esplosivo stoner metal dalle sfumature grunge ed alternative.
Quarantacinque minuti in pieno deserto, anche se le sfumature psichedeliche sono ridotte al lumicino in favore di soluzioni melodiche dirette e sostenute, questo sì, dalle ormai irrinunciabili ritmiche groove.
on voce urlata ed un’attitudine che non nasconde una certa vena hardcore, i Jaw Bones si sono costruiti il loro muro sonoro di pietra stonerizzata e pesante, metal/rock diretto, forse leggermente monocorde, ma perfetto per sbattere capocciate a destra e a manca sotto il palco di qualche festival estivo.
Da segnalare, tra i brani, Communication, The Ride To Nowhere e la conclusiva Song Of The Nightingale, il brano più ricercato dell’album, valorizzato da sfumature che rimandano ai Tool e che chiudono con un’atmosfera progressiva Wrongs On A Right Turn.

Tracklist
01. Communication
02. Disciple
03. Ego Tripper
04. Don’t Bring Me Down
05. Fear
06. Sugar Daddy
07. The Ride to Nowhere
08. Should Know Better
09. Song of the Nightingale

Line-up
George Cobas – Vocals
Jelly Nano – Guitar
Bill – Guitar
Michael Tzoumas – Bass
Vangelis – Drums

JAW BONES – Facebook

Tuna De Tierra – Tuna De Tierra

Le canzoni si protraggono mediamente molto di più rispetto alle durate tradizionali, ma qui il tempo è un concetto davvero relativo e superfluo, bisogna immergersi in queste musiche desertiche senza fretta o cognizione dell’esterno.

Dalla sempre musicalmente fertile Napoli arrivano i Tuna De Tierra con il loro stoner rock desertico, piacevole e psichedelico.

Il loro suono è un’ambientazione sonora di un tramonto nel deserto, o l’esatta descrizione di un viaggio lisergico, con molti riferimenti ai maestri del genere quali sono i Kyuss, i quali hanno asfaltato le strade desertiche per poterle farle percorrere ad altri. Tutto il resto è però opera dei Tuna De Tierra, che hanno un tocco di classe superiore nella loro musica, un gusto quasi bizantino per la perfetta unione tra accordi di chitarra e sezione ritmica, con una voce ipnotica che parla al nostro subconscio. Musica pesante eppure molto eterea e dolce, un ritorno a qualcosa di atavico che vive dentro di noi e che quotidianamente seppelliamo sotto tonnellate di merda. I Tuna De Tierra fanno fondamentalmente musica da meditazione, ci si perde in questo suono pieno di vita e di segreti da scoprire. Il gruppo nasce dalla lunga amicizia fra Alessio De Cicco, alle chitarre e voce, e Luciano Marra al basso, agli albori con Jonathan Maurano alla batteria, poi sostituito da Marco Mancaniello. Il loro esordio discografico è stato l’ep del 2015 EPisode I: Pilot, che già aveva in nuce molto di ciò che possiamo ascoltare qui. Da quell’ep i Tuna De Tierra sono cresciuti dando un maggiore respiro alle loro composizioni, ampliando maggiormente il loro spettro compositivo, trovando sempre soluzioni diverse per i loro suoni. Le canzoni si protraggono mediamente molto di più rispetto alle durate tradizionali, ma qui il tempo è un concetto davvero relativo e superfluo, bisogna immergersi in queste musiche desertiche senza fretta o cognizione dell’esterno. Questa è musica fatta per il piacere di esplorare, e per il piacere del musicista e dell’ascoltatore. Il deserto c’è anche a Napoli, ed è un gran bel deserto.

Tracklist
1.Slow Burn
2.Morning Demon
3.Out of Time
4.Long Sabbath’s Day
5.Raise of the Lights
6.Mountain
7.Laguna

Line-up
Alessio De Cicco – guitar and vocals
Luciano Mirra – bass
Marco Mancaniello – drums

TUNA DE TIERRA – Facebook

Otherwise – Sleeping Lions

Sleeping Lions è un album dalle potenzialità enormi, l’opera della vita per gli statunitensi Otherwise, staremo a vedere se bastera per arrivare in cima alle preferenze dei rockers dai gusti mainstream.

Riusciranno gli Otherwise a far saltare il banco dell’alternative metal mondiale con questo candelotto di nitroglicerina che, ad ogni brano, esplode e distrugge lasciando solo vittime tra i rockers che bazzicano sul pianeta in questo inizio millennio?

La risposta arriverà con il tempo, vero è che con Sleeping Lions la Century Media piazza sul mercato un esempio di metal alternativo sorprendentemente accattivante, suonato e prodotto come meglio non si potrebbe e sostenuto da una raccolta di canzoni che non lasciano scampo, una più riuscita dell’altra, almeno se pensiamo all’hard rock ed al metal in uso nei circuiti mainstream.
Sleeping Lions arriva come un tornado metallico a rivalutare una scena internazionale in affanno, ancora alla ricerca del gruppo da un milione di dollari, ed è clamoroso come questo arrivi da un gruppo con più di dieci anni sulle spalle ed una manciata di lavori alle spalle.
Il gruppo di Las Vegas se ne esce con l’album della vita, la classica opera dove tutto funziona perfettamente, dall’alternanza tra il fervore metallico e le ruffiane soluzioni dell’alternative rock, che in Sleeping Lions sanno tanto di hard, duro come un’incudine e poco di rock, melodicamente moderno con qualche ispirazione numetal in ritmiche dal sapore groove, ed il singer Adrian Patrick che non sbaglia una strofa o un chorus, risultando l’asso nella manica della band.
Asso pigliatutto, accattivante e grintoso, dall’appeal straordinario che  offre ai giovani rockers mondiali una prestazione scintillante, mentre Ryan Patrick (chitarra/voce), Tony Carboney (basso/voce) e Brian Medeiros (batteria) prendono in mano la scena con soluzioni efficaci, tanta voglia di far male ed un stato di grazia per melodie che non lasciano scampo.
Niente di nuovo, questo è bene chiarirlo, perché gli Otherwise si muovono agevolmente tra il metal/rock statunitense degli ultimi anni, un po’ Alter Bridge, un po’ Linkin Park e tanto hard rock, anche se l’elevata qualità di canzoni come l’opener Angry Heart, l’esplosiva title track o Close To The Gods (Nickelback e U2 uniti sotto la bandiera dell’hard rock) seguite dalle altre nove fialette di nitroglicerina sballottate ed inevitabilmente esplose tre le mani del gruppo, fanno di Sleeping Lions un album dalle potenzialità enormi: staremo a vedere se basterà per arrivare in cima alle preferenze dei rockers dai gusti mainstream.

Tracklist
01. Angry Heart
02. Sleeping Lions
03. Suffer
04. Nothing To Me
05. Weapons
06. Crocodile Tears
07. Close To The Gods
08. Dead In The Air
09. Beautiful Monster
10. Blame
11. Bloodline Lullaby
12..Won’t Stop (bonus track)

Line-up
Adrian Patrick – lead vocals
Ryan Patrick – guitar/vocals
Tony Carboney – bass/vocals
Brian Medeiros – drums

OTHERWISE – Facebook

Bug – O’Brien Shape

Il ponte che unisce la musica rock degli anni settanta, attraversa il decennio successivo e tocca territori novantiani, è ben saldo nella musica dei Bug, autori di un lavoro che lascia presagire ottime potenzialità oltre ad un’originalità di idee che spaziano dal progressive all’alternative.

Si continua ad incontrare ottima musica rock alternativa nella scena underground dello stivale, magari poco seguita o molte volte del tutto ignorata dagli ascoltatori ma indubbiamente foriera di opere di valore.

Noi che di musica underground scritta ne abbiamo fatto una missione, cerchiamo di farvi partecipi dei movimenti musicali che si muovono nel sottobosco italiano ed internazionale, stupendoci ogni volta dell’alta qualità della musica rock creata specialmente sul nostro territorio.
Uscito da un po’ ma arrivato a MetalEyes IYE solo ora, vi presentiamo il primo lavoro dei Bug, quintetto lombardo nato tre anni dalle menti di Jacopo Rossi (chitarra) e Patrick Pilastro (batteria), raggiunti in seguito da Andrea Boccaruso (chitarra, voce), Giorgio Delodovici (voce) e Mattia Gadda (basso).
O’Brien Shape è il loro primo album in versione ep, sei brani per mezzora circa attraversati da umori che vanno dal grunge di Seattle al rock degli anni settanta, per tornare poi all’alternative in una congiunzione di suoni più vicini di quello che molti possano credere.
Quindi il ponte che che unisce la musica rock degli anni settanta, attraversa il decennio successivo e tocca territori novantiani, è ben saldo nella musica dei Bug, autori di un lavoro che lascia presagire ottime potenzialità oltre ad un’originalità di idee che porta a brani come The Tide e O’Brien Shape, tra Pearl Jam e Pink Floyd, mentre gli Alice In Chains dopo la cura Bug passano dall’essere la band più metal della scena grunge (specialmente nei primi due lavori) ad una camaleontica realtà progressiva.
Twice sposta le turbolenze progressive sui Pearl Jam, mentre le ritmiche si muovono tra il funky ed il crossover tipico di metà anni novanta.
Il suono è perfetto, l’album è curato nei minimi dettagli e il gruppo dimostra di saperci fare sia con il songwriting che con i ferri del mestiere, motivo in più per fermarvi, voltarvi all’indietro e cercare O’Brien Shape, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.March of the Worms
2.The Tide
3.Chain Stemmed
4.O’ Brien Shape
5.Twice
6.This Flood

Line-up
Patrick Pilastro – Drums
Giorgio Delodovici – Vocals
Jacopo Rossi – Guitars
Andrea Boccarusso – Guitars, Vocals
Mattia Gadda – Bass

BUG – Facebook

Sparzanza – Announcing The End

Difficile immaginare se questa svolta possa rivelarsi un male o un bene per gli Sparzanza, che sicuramente hanno ha optato per un approccio molto più melodico che in passato, caratteristica che si evince fin dalle prime battute dell’album.

Degli Sparzanza ricordavo la forte componente groove e la furia panteriana incanalata in un sound debitore della scena hard rock statunitense a cavallo tra gli ultimi anni del secolo scorso e questo inizio del nuovo millennio.

D’altronde la storia parla del 1996 come inizio delle attività del gruppo di Karlstad e un esordio discografico targato 2001 (Angels Of Vengeance), una lunga strada che l’ha ha portato fino ai nostri giorni e all’uscita di Announcing The End, nono lavoro di una carriera senza interruzioni ma perennemente nel limbo dell’underground.
La Despotz Records licenzia dunque questa raccolta di brani che fanno del quintetto una nuova hard rock band dalle facili melodie, magari ancora vivacizzate da una leggera componente metal, ma sicuramente più vicina al post grunge che al groove metal dei precedenti lavori.
Difficile immaginare se questa svolta possa rivelarsi un male o un bene per la band, che sicuramente ha optato per un approccio molto più melodico che in passato, caratteristica che si evince fin dalle prime battute dell’album.
Lasciato indietro il groove metal, gli Sparzanza del 2017 puntano il mirino sugli Stati Uniti, da sempre patria musicale del gruppo e brani come Whatever Come May Be o Breathe In The Fire provano a centrare il bersaglio del rock mainstream, in parte riuscendoci.
Chiaramente il meglio arriva dalle tracce in cui il gruppo si ricorda delle sue prime influenze, ed è così che escono potenti canzoni hard & heavy come Damnation e The Dark Appeal.
Quando decidono di andarci giù pesante gli Sparzanza sono una garanzia, tra Pantera, Metallica periodo Black Album, mentre l’anima melodica più evidente in questo lavoro prende spunto dal post grunge, magari non melenso come quello da classifica ma pur sempre pregno di facili melodie radiofoniche.
Una sterzata decisa per provare dopo tanti anni a raggiungere gli ascoltatori del rock che sul mercato conta davvero, ma dagli esiti incerti, specialmente per chi proviene da un passato underground.

Tracklist
1. Announcing The End
2. Damnation
3. One Last Breath
4. Whatever Come May Be
5. Vindication
6. The Dark Appeal
7. Breathe In The Fire
8. The Trigger
9. The One
10. We Are Forever
11. Truth Is A Lie

Line-up
Calle Johannesson – Guitar
Anders Åberg – Drums
Johan Carlsson – Bass
Fredrik Weileby – Vocals
Magnus Eronen – Guitar

SPARZANZA – Facebook

Steven Wilson – To The Bone

Detto senza alcuna remora, To The Bone è rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti.

Steven Wilson condivide la sorte di quelli che, quando eravamo ragazzini, venivano costantemente elogiati da professori o dagli altri genitori come esempi di dedizione allo studio, educazione ed ulteriori virtù assortite, finendo loro malgrado per risultare antipatici a più di qualcuno.

Del resto il suo stesso aspetto professorale e la nomea di nuovo Re Mida del prog rock fanno sì che la voglia di coglierlo in fallo superi talvolta la speranza di ascoltare buona musica: con questo suo nuovo album solista, intitolato To The Bone, il musicista inglese prova a fornire altri spunti ai suoi abituali detrattori, abbandonando del tutto o quasi ogni ortodossia di stampo progressive per concedersi digressioni verso i generi più disparati, spingendosi in qualche caso persino ad un utilizzo del falsetto degna della disco music dei tempi d’oro.
La mia impressione è che Wilson, dopo aver ammaliato noi appassionati (anche) di metal con il formidabile In Absentia, nella restante produzione con i Porcupine Tree e in altri progetti abbia sempre goduto di una buona stampa che andava ben oltre l’effettivo valore di album ricchi di forma più che di sostanza, sebbene fosse dotato di una classe superiore alla media non sempre sfruttata a dovere per colpire ed emozionare realmente gli ascoltatori; così, con il fucile ben carico e spianato, mi sono immerso nell’ascolto di quest’album che, come da copione quando si parte armati di cattive intenzioni, mi è piaciuto invece molto proprio in virtù della sua varietà e di una certa voglia di osare.
In sede di presentazione dell’album è stato ipotizzato un parallelismo tra Wilson e Peter Gabriel, accomunando l’approccio stilistico del primo in To The Bone alla svolta che fece a suo tempo l’ex vocalist dei Genesis con So: un paragone, questo, che lì per lì può sembrare quasi un delitto di lesa maestà ma che, a ben vedere, ci può stare a livello di attitudine, ferme restando la diversa caratura complessiva dei due musicisti e soprattutto una differente incisività a livello interpretativo; poi, se la splendida Pariah è un po’ la Don’t Give Up gabrieliana, con relativo supporto di una voce femminile e tematiche non del tutto dissimili, Permanating, con il suo incedere danzereccio può equivalere a Sledgehammer, anche se in realtà sembra trovare più le sue radici nei migliori Style Council.
Qui, in fondo, finisce il gioco dei parallelismi e comincia invece la necessità di valutare con onestà l’operato di un musicista che, effettivamente, possiede la capacità innata di creare melodie fruibili, apparentemente leggere ma capici invece di occupare più a lungo del previsto ampi spazi nella memoria di chi ascolta.
Oltre alle canzoni citate, anche la title track, la hogarthiana Refuge, la tenue Blank Tapes, secondo duetto dopo quello di Pariah con un’interprete entusiasmante come Ninet Tayeb (sempre sia lodato Steven per averci fatto scoprire questa meravigliosa cantante israeliana), la progressiva nel senso più autentico del termine Detonation e la conclusiva Song Of Unborn vivono di un’intensa luce propria, perché se è vero che Wilson in più di un frangente può ricordare questa o quella band più in singoli passaggi che per interi brani (per esempio alcuni break vocali in The Same Asylym richiamano gli Yes di 90125), è innegabile che grazie al suo talento il tutto appare ben lontano dall’essere solo un abile lavoro di taglio e cucito.
Forse l’unico momento dell’album nel quale il nostro esce fuori dal seminato è una inoffensiva Song Of I, con il suo pseudo trip hop, mentre il resto è, diciamolo pure senza remore, una rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti (con esclusione forse delle fasce più retrive di progsters che vedevano in Wilson un possibile successore dei grandi del passato).
To The Bone non è un’opera che lascerà segni profondi nella storia della musica ma è un disco brillante e a suo modo onesto, proprio perché Steven Wilson non si nasconde dietro ad un approccio cervellotico o intellettualoide per giustificare (perché mai dovrebbe?) una svolta decisa verso sonorità più dirette ma tutt’altro che di valore trascurabile.

Tracklist:
1.To The Bone
2.Nowhere Now
3.Pariah
4.The Same Asylum As Before
5.Refuge
6.Permanating
7.Blank Tapes
8.People Who Eat Darkness
9.Song Of I
10.Detonation
11.Song Of Unborn

Line up:
Steven Wilson – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Paul Stacey – Guitars
Adam Holzman – Hammond, Piano
Pete Eckford – Percussions
Jeremy Stacey – Drums
Ninet Tayeb – Vocals on 3. 7.
Sophie Hunger – Vocals on 9.
Mark Feltham – Harmonica on 1. 5.

STEVEN WILSON – Facebook

Buzzøøko – Giza

Noise fatto in maniera intelligente, mai ovvia e con una grande ricerca musicale: potrebbe essere questa in poche parole la sintesi della musica dei Buzzøøko.

Noise fatto in maniera intelligente, mai ovvia e con una grande ricerca musicale: potrebbe essere questa in poche parole la sintesi della musica dei Buzzøøko.

Il loro noise nervoso e frammentato, mai troppo distorto secondo la lezione dei Don Caballero, è frutto di un lavoro certosino e si va a collocare nel solco della scuola noise italiana, che deve molto ai mostri di oltreoceano ma anche a gruppi nostrani, come gli Zu per esempio. Qui la melodia è data dalla somma dei componenti, in un fluttuare continuo tra accelerazioni e sospensioni del tempo. Il basso lancia acuti, mentre le chitarre lanciano segnali mai uguali e la batteria traccia solchi per contenere il tutto. Vi sono molte sfaccettature in questo disco, e per apprezzarlo fino in fondo bisogna riascoltarlo tutto più e più volte, cogliendo sempre di più le sfumature che compongono il disco. In alcuni momenti si può anche ascoltare la rielaborazione personale del grunge da parte dei Buzzøøko, substrato importante di un certo noise. Certamente nel discorso sui generi si può anche nominare il math perché è presente, ma il risultato ed il fine ultimo è il noise, ovvero quel frazionare la melodia e ricostruire il tutto, facendo un cut up sull’originale. In questo i Buzzøøko sono molto bravi, poiché partendo da territori diversi riescono a dare un organicità al loro lavoro. Giza è un disco profondo e con diversi livelli di lettura, i quali esistono a discrezione dell’ascoltatore e dei suoi pregiudizi in fatto di musica. Inoltre i Buzzøøko danno l’impressione di avere tutti i mezzi per fare ancora meglio di questo disco, essendo presenti potenzialità molto forti che danno sicurezza per il futuro. Non è semplice il discorso musicale che portano avanti, soprattutto negli odierni tempi dell’appiattimento musicale e non. Strade sconnesse e tanto da scoprire, questo è quello che ci offrono i Buzzøøko.

Tracklist
1.Jerry The Joker
2.Love Is Indie Hair
3.Gettin’ Sick
4.Lady Led
5.Hollow Man
6.P.s.h.
7.The Riot

Line-up:
Simon – guitar, vocals
Marco – bass
Lorenzo – drums

BUZZOOKO – Facebook

Old James – Speak Volumes

Mezzora abbondante, quanto basta per premere nuovamente il tasto play e rituffarci in questa tempesta di suoni vintage.

Debutto adrenalinico di questo giovane trio canadese chiamato Old James che, con sfrontata irriverenza, ci colpisce ai bassifondi con Speak Volumes, un concentrato di hard rock vecchia scuola tripallico, deliziosamente funky e blues quanto basta per risultare a tratti irresistibile.

Mezzora abbondante, quanto basta per premere nuovamente il tasto play e rituffarci in questa tempesta di suoni vintage: ne esce un album perfetto nella sua scolastica dinamica, che tradotto vuol dire far divertire con il volume a manetta e una buona vena ritmica che varia come la voce, ora grintosa ora più sorniona ma pronta ad esplodere.
I riff sono devoti ai mostri settantiani, mentre l’approccio moderno ne fa un giusto compromesso ed un ottimo ascolto sia per le vecchie che per le nuove generazioni di rocker.
Brian Stephenson (voce e basso), Andy Thompson (chitarra) e Chris Stephenson (batteria) ci presentano un primo album che fa intravedere ottime potenzialità, piacevole all’ascolto e ruffiano il giusto nel saper amalgamare tra le note delle varie Don’t Put It on Me, Words as Weapons e Salutations, Led Zeppelin e Red Hot Chili Peppers, Deep Purple e Van Halen nello stesso candelotto di dinamite con la miccia accesa da una scintilla hard & heavy.
In un periodo nel quale un certo tipo di hard rock ha ripreso a viaggiare a mille sul mercato discografico, gli Old James sono pronti a ritagliarsi il loro spazio.

Tracklist
1. Don’t Put It on Me
2. Lemons
3. Words as Weapons
4. So Real
5. Salutations
6. Bass-Ik Instincts
7. Kill Off the Rose
8. Master Imploder
9. Eugene
10. Speak Volumes

Line-up
Brian Stephenson – Lead Vocals, Bass Guitar
Andy Thompson – Lead Guitar
Chris Stephenson – Drums/Backing Vocals

OLD JAMES – Facebook

Airbound – Airbound

Airbound non delude le attese e ci regala un lotto di brani frizzanti e vivaci, splendidamente melodici e legati alla tradizione, ma con uno spirito moderno che lo accompagna tra le impervie vie del nuovo millennio musicale.

Nel nostro paese si suona dell’ottimo hard rock melodico, ne abbiamo avuto la conferma quest’anno con una serie di uscite che sono risultate delle vere gemme per gli appassionati del genere, due fra tutte i bellissimi lavori omonimi degli Shining Line (ristampato dalla Street Symphonies Records) e dei Viana, uscito anch’esso per la label nostrana.

Una nuova etichetta (Art Of Melody Music) è  stata fondata dai ragazzi dell’Atomic Stuff proprio per dare spazio ai suoni AOR e il primo lavoro che riempirà di calde note melodiche l’autunno dei melodic rockers in giro per Europa e Giappone (dove uscirà via AnderStein Music) è il debutto omonimo degli Airbound.
Prodotto dal gruppo con l’aiuto di Oscar Burato, responsabile di mixaggio e masterizzazione, Airbound risulta un ottimo ritorno tra le braccia dell’hard rock melodico di ispirazione statunitense, tra chitarre graffianti, aperture melodiche da arena rock e letali e pompose tastiere che impreziosiscono ed accompagnano la straordinaria voce del singer Tomàs Borgogna, in passato al microfono dei Borgogna Band con un album licenziato per Steelheart Records.
Per questo debutto il gruppo non si è fatto mancare niente e a valorizzare questa raccolta troviamo una manciata di ospiti, tutti musicisti della scena melodica come Sven Larsson (Street Talk, Raintimes, Room Experience), Davide “Dave Rox” Barbieri (Wheels Of Fire, Raintimes, Charming Grace, Room Experience), Mario Percudani (Hungryheart, Shining Line, Ted Poley, Axe) e Josh Zighetti (Hungryheart, Charming Grace).
L’album non delude le attese e ci regala un lotto di brani frizzanti e vivaci, splendidamente melodici e legati alla tradizione, ma con uno spirito moderno che lo accompagna tra le impervie vie del nuovo millennio musicale, pieno di contraddizioni e sconvolto da un’urgenza legata alle migliaia di uscite che investono il mercato nell’era del web.
Allora non rimane che sedersi, chiudere gli occhi e provare a sognare tra le note dell’opener Have A Good Time, dell’emozionante Till The End, dell’iper melodica Don’t Fade Away e dell’atmosferica Runaway.
La parola fine a questo piccolo gioiellino la mette Seven Seas, ballata che fa battere il cuore e che ci riporta all’inizio dell’album: impossibile non premere nuovamente il tasto play per tornare a godere di questo bellissimo debutto.

Tracklist
01. Have A Good Time
02. The Sun Tomorrow
03. Till The End
04. You Live & You Learn
05. Don’t Fade Away
06. Zhaneta
07. Runaway
08. Wasted World
09. She’s A Girl
10. Seven Seas
11. Till The End (Cinematic Version – Japanese Bonus Track)

Line-up
Tomás Borgogna – Vocals & Backing Vocals
Lorenzo Foddai – Guitars & Backing Vocals
Angelo Sasso – Bass & Backing Vocals
Alessandro Broggi – Keyboards & Backing Vocals
Riccardo Zappa – Drums & Percussions

AIRBOUND – Facebook

, pieno di contradizioni e sconvolto da un’urgenza legata dalle migliaia di uscite che investono il mercato nell’era del web.

Big Wolf Band – A Rebel’s Story

Portato in alto dai Big Wolf Band da Birmingham (Inghilterra), monicker scritto in bella mostra sull’artwork ispirato alla vecchia scuola, il blues è come chi lo suona, fiero come il grande Lupo, famelico di carne e sangue.

Signore e signori, stasera sul palco virtuale di MetalEyes IYE si suona rock blues, di quello che farebbe smuovere il fondoschiena di un elefante, sanguigno e prepotente come lo sguardo lascivo di una matura “signora” incontrata in quei locali dove la musica accompagna le effusioni ambigue degli astanti, tra l’odore di whiskey e tabacco.

Portato in alto dai Big Wolf Band da Birmingham (Inghilterra), monicker scritto in bella mostra sull’artwork ispirato alla vecchia scuola, il blues è come chi lo suona, fiero come il grande lupo, famelico di carne e sangue.
Attiva dal 2014 e nata per volere del chitarrista cantante Jonathan Earp, la band debutta con un album entusiasmante, blues che si allea con il rock per viaggiare tra l’inghilterra e gli States dove tutto nasce, un’ora di musica tra il diavolo e Mephisto, persi nella penombra, prima che le magiche note che escono a fiumi dagli strumenti di questo fenomenale chitarrista e dai suoi compari che rispondono ai nomi di Tim Jones (batteria), Mick Jeynes (basso) e Paul Brambani alle tastiere, ci faccia alzare e sbattere ciondolanti tra i tavoli, trovando un appiglio sicuro nei seni della signora dai lineamenti solcati da troppi anni di vita.
Chitarra che parla, urla, sbraita e fa le coccole, tasti d’avorio che partono come treni verso il nulla per tornare come tappeti dove basso e batteria inventano tempi e dettano regole.
Ma queste sono storie di ribelli e allora anche la sei corde taglia le corde che la legano ad uno spartito per farci sognare, mentre la voce di Earp racconta, per mezzo di un lotto di brani bellissimi come l’opener Heaven’s Got The Blues e Done Wrong By You, inizio bruciante di A Rebel’s Story.
Hot Blooded Woman è un rock adrenalinico che il blues rivolta come un calzino, mentre Earp fa il fenomeno con la sei corde, per poi regalare tragiche ed intimiste emozioni con la soffusa Darkest Of My Days.
Long Time Mary è un irresistibile blues/soul dove le pazzie sono da attribuire al piano di Brambani e l’album viaggia che è un piacere, alternando un sound vicino a Bonamassa ad un’emozionante musica nera in arrivo da strade polverose che portano alla perdizione.
Rolling With Thunder, One More Time, Love That Hurts riempiono la stanza di sapori metallici, classici quando l’odore del sangue si mischia con manici di chitarre sudate e il grande lupo ci regala ancora emozioni, prima di guardarci negli occhi un’ultima volta ed allontanarsi, ci sono territori da conquistare e ribelli a cui raccontare le proprie storie con l’aiuto del blues.

Tracklist
1.Heaven’s Got The Blues
2.Done Wrong By You
3.Hot Blooded Woman
4.Darkest Of My Days
5.Long Time Mary
6.Rolling With Thunder
7.One More Time
8.A Rebel’s Story
9.Been Here Too Long
10.Love That Hurts
11.I Don’t Love You
12.Love Isn’t free
13.If I Ever Loved Another Woman

Line-up
Jonathan Earp—Guitar / Vocals
Tim Jones—Drums
Mick Jeynes— Bass
Paul Brambani— Keyboards

BIG WOLF BAND – Facebook