Párodos – Catharsis

La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Anche se il monicker Párodos è una novità nella scena metal italiana, si tratta in realtà del prodotto dell’unione di musicisti già attivi in diverse band dell’area salernitana.

Catharsis dimostra in ogni passaggio d’essere frutto di un lavoro di squadra nel quale nulla è stato lasciato al caso, partendo dal pregevole songwriting per arrivare alla realizzazione curata da Marco Mastrobuono ai Kick Recordings Studio di Roma, in quella che si può considerare la fucina sonora per eccellenza del metal italiano centro-meridionale.
L’etichetta di avantgarde/post black attribuita ai Párodos può starci anche se, come spesso accade, vuol dire tutto e niente, visto che qui troviamo certamente qualche accelerazione di matrice black, ma anche una ricerca melodica che spinge spesso il sound su versanti heavy progressive, mantenendo quale tratto comune un’oscurità di fondo che ben si addice ai contenuti lirici dell’album.
Catharsis, infattiscaturisce dall’elaborazione di un lutto entrando a far parte di quella categoria di dischi che, oltre ad essere riusciti da un punto di vista prettamente artistico, racchiudono quella scintilla di creatività derivante dalla volontà di omaggiare qualcuno che non c’è più ottenendo, appunto, il desiderato effetto “catartico”.
L’album è brillante in ogni sua parte, a partir dall’interpretazione vocale versatile di Marco Alfieri, per arrivare all’elegante ed  incisivo lavoro tastieristico di Giovanni Costabile, passando per la puntualità ritmica della coppia Gianpiero “Orion” Sica (basso) ed Alessandro Martellone (batteria), e per il sobrio ed efficace lavoro chitarristico di Francesco Del Vecchio: è notevole l’equilibrio che i Párodos riescono a mantenere tra la tensione drammatica e l’impatto melodico, che sovente squarcia con decisione il velo di oscurità che attanaglia un album di grande intensità emotiva.
Space Omega, la title track e Metamorphosis sono i brani che spiccano in un contesto di spessore talvolta sorprendente, e gli ospiti illustri nelle persone dello stesso Marco Mastrobuono (Hour Of penance), Massimiliano Pagliuso (Novembre) e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalyspe) arricchiscono del loro personale marchio di qualità un’opera che si dimostra già dopo pochi ascolti ben superiore alla media.
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Tracklist:
1. Prologue
2. Space Omega
3. Catharsis
4. Heart of Darkness
5. Stasima
6. Black Cross
7. Evocazione
8. Metamorphosis
9. Exodus

Line-up:
Marco “M.” Alfieri – Vocals
Giovanni “Hybris” Costabile – Synth & Keyboards
Francesco “Oudeis” Del Vecchio – Guitars
Gianpiero “Orion” Sica – Bass
Alessandro “Okeanos” Martellone – Drums & Percussions

Special Guests :
Marco Mastrobuono – fretless bass in “Space Omega”, “Black Cross”, “Evocazione”
Massimiliano Pagliuso – guitar solo in “Black Cross”
Francesco Ferrini – “Stasima”, fully arranged and composed

PARODOS – Facebook

Ruxt – Running out Of Time

Una perfetta simbiosi tra i maestri (Rainbow, Dio, Whitesnake) e i loro eredi (Lande, Astral Doors), questo è se Running Out Of Time, secondo imperdibile album dei Ruxt.

Neppure il tempo di archiviare le bellissime trame power di Metalmorphosis, opera licenziata dagli Athlantis di Steve Vawamas, che la Diamonds Prod. sforna il secondo lavoro dei Ruxt, band hard & heavy che, oltre al bassista in forza pure a Mastercastle, Bellathrix ed Odyssea, vede all’opera Stefano Galleano ed Andrea Raffaele (Snake, Rock.It), il batterista Alessio Spallarossa (Sadist) ed il talentuoso vocalist Matt Bernardi (Purplesnake).

Ed è ancora una volta, tra gli stretti vicoli di una Genova mai così metallica, che si consuma il secondo rito targato Ruxt, un altro riuscito esempio di nobile metallo, pregno di atmosfere hard’n’heavy che, di questi temp,i molti preferiscono chiamare old school ma che è invece semplicemente classico.,
Certo, probabilmente il sound del gruppo è il più ottantiano tra quelli in dote alle band che gravitano intorno alla scena sviluppatasi nei dintorni del capoluogo ligure, ma per gli amanti dell’ hard & heavy targato Rainbow, Dio, Whitesnake, Lande, ed Astral Doors, anche Running Out Of Time. come il primo Behind The Masquerade (uscito lo scorso anno) risulterà una vera cavalcata tra le sonorità che hanno reso famose questi grandi interpreti della nostra musica preferita.
Un songwriting di alto livello, accompagnato da una prova esemplare del buon Matt “Jorn” Berardi, fanno sussultare dalla poltrona più di un fans del metal/rock classico, tra arcobaleni, serpenti bianchi, folletti dal cognome religiosamente importante, talentuosi omoni nordici dal microfono facile e porte astrali, che si aprono su un mondo dove le sei corde squarciano il cielo, con solos che sono tuoni e fulmini nel tramonto, oscure e drammatiche trame dal flavour epico che a suo tempo fecero storia e chorus che sprizzano orgoglio metallico.
Un album più diretto rispetto al debutto, un mastodontico pezzo di granito hard & heavy che risveglia gli appetiti dei fans legati alla tradizione con una serie di brani pesanti, colmi di epica tragicità e che regala nel suo insieme tanta buona musica, anche se la title track, posta in apertura e perfetto ed esplosivo brano alla Lande che ci invita all’ascolto dell’album, il nuovo singolo e video Everytime Everywhere, con Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle, Vanexa, Odissea, Athlantis) in veste di ospite, l’accoppiata Leap In The Dark/Let Me Out, e lo spettacolare mid tempo Queen Of The World sono i pezzi pregiati che troverete in questo ennesimo scrigno da aprire senza indugi per coglierne i tesori.
Una perfetta simbiosi tra i maestri (Rainbow, Dio, Whitesnake) e i loro eredi (Lande, Astral Doors), questo è Running Out Of Time, secondo imperdibile album dei Ruxt.

Tracklist
1.Running out of Time
2.Legacy
3.In the Name of Freedom
4.Everytime Everywhere
5.Scars
6.Leap in the Dark
7.Let me Out
8.My Star
9.Queen of the World
10.Heaven or Hell

Line-up
Matt Bernardi – Vocals
Stefano Galleano – Guitars
Andrea Raffaele – Guitars
Steve Vawamas – Bass
Alessio Spallarossa- Drums

RUXT – Facebook

Elmo Karjalainen – Age Of Heroes

Quarto album solista per Elmo Karjalainen, ex chitarrista dei melodic rocker finlandesi Deathlike Silence, che con Age Of Heroes è protagonista di un buon lavoro di metal strumentale, leggermente prolisso ma consigliato agli amanti dei guitar heroes.

Quarto lavoro strumentale per l’ex chitarrista del Deathlike Silence, gruppo hard rock melodico pregno di atmosfere horror e gotiche, che nel 2009 licenziò il bellissimo ed ultimo album Saturday Night Evil.

Del sestetto di Turku abbiamo purtroppo perso le tracce, mentre il suo axeman dal 2012 ha intrapreso la carriera solista con una serie di lavori strumentali di ottima fattura.
Poco conosciuto fuori dal territorio nazionale, Elmo Karjalainen giunge al quarto album, interamente scritto da lui, una lunga jam strumentale di settanta minuti (forse troppi) dove il metal e l’hard rock incontrano varie soluzioni stilistiche, sognanti atmosfere pinkfloydiane tra musica dura e progressiva.
Le influenze del musicista finlandese sono da attribuire ai maghi delle sei corde che tanto hanno fatto parlare in passato gli addetti ai lavori (Paul Gilbert, Joe Satriani e Yngwie J. Malmsteen), quindi l’opera è adatta ai palati metallici, anche se in così tanti minuti troverete riferimenti a più di un’ icona del rock /metal mondiale.
Age Of Heroes ha nella sua eccessiva durata il punto debole, anche se la musica suonata da Karjalainen non si avvolge su se stessa come quella di molti suoi colleghi.
How Can Less Be More, The Grassy Gnoll, la doppietta composta dalla title track e dalla speed metal song A Meeting Of The Gods (And This Guy), sono i momenti più interessanti di un album che rischia di passare inosservato come i suoi predecessori, mentre meriterebbe più di attenzione da parte degli amanti del genere, anche se come detto il minutaggio non gioca a favore della fruibilità, importantissima in lavori come Age Of Heroes.

Tracklist
1. Warm Welcome
2. How Can Less Be More
3. The Colour of Greed
4. Chikken Noodul
5. A Fertile Discussion
6. The Grassy Gnoll
7. Blue Eyes
8. Party Political Speech
9. Age of Heroes
10. A Meeting of the Gods (And This Guy)
11. Sunset
12. Return of the Silly English Person
13. Falling for Falafels
14. Lost In a Foreign Scale
15. Three Days of Peace
16. Limiting Rationality
17. Breathe

Line-up
Derek Sherinian – Keyboards on “The Colour of Greed”
Mattias IA Eklundh – Gutiar solos on “A Fertile Discussion” and “Falling for Falafels”
Janne Nieminen and Emil Pohjalainen – Guitar solos on “A Meeting of the Gods (And This Guy)”
Vesa Kolu – Drums on “A Fertile Discussion”, “Blue Eyes”, “Falling for Falafels”, “Three Days of Peace”, and “Limiting Rationality”
Christer Karjalainen – Drums on “Chikken Noodul” and “Sunset”
Elmo Karjalainen – everything else

ELMO KARJALAINEN – Facebook

The Watchers – Sabbath Highway

I The Watchers sono come un tornado in mezzo al deserto, un vortice di sonorità hard & heavy che si abbattono sulla campagna americana, un twister selvaggio dal titolo Sabbath Highway.

Torniamo indietro fino alla metà degli anni novanta, il decennio più importante della storia del metal/rock dopo gli anni settanta, facciamoci ancora del male con i primi lavori di Zakk Wilde e dei suoi Black Label Society, aggiungiamoci i Soundgarden di Louder Than Love e i Corrosion Of Conformity nella versione più stonerizzata (Wiseblood/America’s Volume Dealer) ed avremo ottenuto una ricetta musicale da veri Masterchef del rock, oppure saremo molto vicini alla proposta di questi clamorosi rockers statunitensi, i The Watchers.

Sabbath Highway, ep uscito qualche tempo fa, ci consegna un gruppo davvero interessante, pronto per licenziare il primo lavoro sulla lunga distanza che si preannuncia come una bomba sonora, almeno per chi apprezza queste sonorità.
Niente di nuovo, chiariamolo subito, ma senz’altro convincente, con i Sabbath che compaiono nel titolo e fanno da padrini al quartetto composto da Tim Narducci alla voce, Jeremy Von Eppic alla chitarra, Cornbread al basso e Carter Kennedy (Orchid) alla batteria.
Esaltanti ed irresistibili, i The Watchers sono come un tornado in mezzo al deserto, un vortice di sonorità hard & heavy che si abbattono sulla campagna americana, un twister selvaggio dal titolo Sabbath Highway.
E selvagge sono le note che escono a tratti violente dalla title track o dalla monumentale Call The Priest, spettacolare brano tra Soundgarden e Black Sabbath, dove Narducci fa il Cornell d’annata.
I nostri picchiano duro anche in Today, veloce come una Harley lanciata all’impazzata e nella conclusiva Just A Needle, mid tempo potente e cadenzato, un carro armato hard rock con la scritta B.L.S. sulla fiancata.
Ripple Music è l’etichetta responsabile dei danni inferti ai padiglioni auricolari degli amanti del genere da parte del gruppo, in attesa di un full length che si preannuncia dinamitardo.

Tracklist
1.Sabbath Highway
2.Requiem Intro
3.Call The Priest
4.Today
5.Just A Needle

Line-up
Carter Kennedy – Drums
Cornbread – Bass
Jeremy Von Eppic – Guitars
Tim Narducci – Vocals

THE WATCHERS – Facebook

Noturnall – 9

9, ultimo lavoro dei Noturnall, conferma la tradizione brasiliana per i suoni heavy power metal ed è consigliato ai fans di Angra ed Almah.

Brasile: terra di calcio, samba ed heavy metal.

Tramite la Rockshots Records arriva in questo infuocato autunno il nuovo album degli heavy/prog metallers Noturnall, band che vede all’opera gli ex Shaman Thiago Bianchi (voce), Fernando Quesada (basso), Léo Mancini (chitarra), con il supporto di Juninho Carelli alle tastiere e l’ex Angra Aquiles Priester alla batteria.
Continua la tradizione brasiliana nei suoni classici e progressivi, 9 è il terzo full length del gruppo, attivo dal 2013, quindi molto attivo nelle uscite discografiche che si completano con un live ed un singolo.
Il sound del gruppo di San Paolo risulta molto più heavy che prog, a dire il vero, anzi le cavalcate power sono il punto di forza di un metal tagliente e duro come l’acciaio, dove le chitarre ricamano solos classici, le tastiere orchestrano il tutto e la voce di Bianchi segue le orme dei vari Andrè Matos ed Edu Falaschi, mostrandosi melodica e varia nell’approccio, brillando a livello emozionale.
Si diceva delle ritmiche power, prevalenti in molti dei brani che si rivelano diretti ed a tratti esaltanti e qui il plauso va tutto a Priester e Quesada, coppia d’assi ritmica al servizio della riuscita di 9.
L’opener Hey!, la violentissima Change, Moving On che sa tanto di ultimi Angra, l’heavy power metal di cui è splendidamente rivestita What You Waiting For, colorano di grigio acciaio l’atmosfera di un album sempre in bilico tra potenza (tanta) e melodia.
Se parliamo di influenze o ispirazioni il sound vive delle sfumature insite negli album degli Angra (quelli con Falaschi) e Almah, con un occhio in terra tedesca e la sua tradizione metallica, con gli Edguy in testa.
Un ottimo lavoro, sicuramente consigliato ai fans dei gruppi citati e riprova di quanto bene si suoni il genere in Brasile, nazione guida del metal sudamericano.

Tracklist
1.Hey!
2.Change
3.Wake Up
4.Moving On
5.Mysterious
6.Hearts As One
7.What You Waiting For
8.Shadows
9.Pain

Line-up
Fernando Quesada – Bass
Aquiles Priester – Drums
Léo Mancini – Guitars
Junior “Juninho” Carelli – Keyboards
Thiago Bianchi – Vocals

NOTURNALL – Facebook

Procession – Doom Decimation

Doom Decimation costituisce un piccolo passo indietro a livello di ispirazione, ma non va dimenticato che ciò dipende più dalla bellezza degli album precedenti che non dall’effettivo valore di quello attuale, che resta ugualmente, comunque la si voglia mettere, una tra le migliori espressioni del classic doom uscite quest’anno.

Partiamo dal presupposto che c’è doom e doom; troviamo quello classico, che prende le mosse dai Black Sabbath per poi sublimarsi in band come Candlemass e St.Vitus, oppure la sua successiva derivazione più estrema e funebre che tre linfa da Thergothon e subito dopo Skepticism, per poi diramarsi in rivoli catacombali oppure dolorosamente melodici.

Personalmente, quando mi autodefinisco appassionato di doom faccio riferimento a questa seconda frangia, ma non posso ovviamente negare la mia devozione verso quelle storiche band che hanno ammantato di epica oscurità l’heavy metal ottantiano.
Tra i degni eredi dei maestri svedesi e americani sicuramente tra i più credibili apparsi nel nuovo secolo troviamo i cileni Procession, autori di due magnifici album come Destroyers Of The Faith e To Reap Heavens Apart: guidati da Felipe Plaza, chitarrista dotato di un timbro vocale evocativo e personale, i nostri, pur essendosi trasferiti da tempo in Svezia ci tengono a ribadire con forza quanto risiedano in Sudamerica le radici del loro doom, tanto che hanno deciso di registrare questo nuovo album, intitolato Doom Decimation, proprio a Santiago Del Cile.
Come sono solito ripetere, non è certo in questo genere che si devono ricercare spinte innovative, visto che il focus per l’ascoltatore è rappresentato dalla capacita dei musicisti di toccare le giuste corde emotive: la consolidata coppia Plaza/Botarro (assieme anche negli ottimi è più epici Capilla Ardiente) ha ampiamente dimostrato in passato d’essere in grado di raggiungere tale obiettivo, centrandolo anche in quest’occasione benché vada detto, in tutta onestà, che Doom Decimation appare leggermente più opaco rispetto ai due predecessori non fosse altro per la mancanza del brano capolavoro che segnava, invece, Destroyers Of The Faith (Chant Of The Nameless) e To Reap Heavens Apart (Far From Heart).
Grazie anche al fatto che l’interpretazione di Plaza è in grado di esaltare qualsiasi brano, il lavoro scorre ottimamente non scendendo mai sotto il livello medio al quale la band cilena ci ha piacevolmente abituato, con i suoi picchi  rinvenibili in All Descending Suns, tipica traccia che cresce di pari passo con l’enfasi delle parti vocali, nel singolo Lonely Are The Ways Of Stranger e nella conclusiva One By One They Died, dalla struggente melodia chitarristica, non a caso i brani più doom nel senso classico del termine all’interno di una scaletta che vede diversi episodi maggiormente orientati ad un robusto heavy metal (When Doomsday Has Come, As They Reached The Womb).
Come detto, Doom Decimation costituisce un piccolo passo indietro a livello di ispirazione, ma non va dimenticato che ciò dipende più dalla bellezza degli album precedenti che non dall’effettivo valore di quello attuale, che resta ugualmente, comunque la si voglia mettere, una tra le migliori espressioni del classic doom uscite quest’anno.

Tracklist:
1. The Warning
2. When Doomsday Has Come
3. Lonely Are The Ways Of Stranger
4. Amidst The Bowels Of Earth
5. Democide
6. All Descending Suns
7. As They Reached The Womb
8. One By One They Died

Line-up:
Felipe Plaza – guitars, vocals
Jonas Pedersen – guitars
Claudio Botarro – bass
Uno Bruniusson – drums

PROCESSION – Facebook

Appice – Sinister

Sinister si può certamente considerare un buon lavoro, dedicato a chi con i due fratelli americani di origine italiana è cresciuto e giusto tributo ad una carriera nel mondo del rock e del metal di altissimo livello.

E fu così che anche i fratelli Appice, signori della batteria, si ritrovarono a scrivere un album assieme dopo tanti anni di musica heavy rock alle spalle, con Vanilla Fudge, Cactus e Ozzy Osbourne (Carmine) e Dio, Black Sabbath e Heaven And Hell (Vinny), tanto per nominare i nomi più importanti di due carriere invidiabili che, a distanza di una decina d’anni (Vinny è più giovane di undici anni), hanno dato lustro ad un cognome da paisà facendogli calcare i palchi di mezzo mondo.

Sinister è il risultato di questo album scritto in famiglia e suonato dai numerosi ospiti che hanno tributato i due martelli americani con le loro performance, e il risultato non può che essere buono, specialmente per chi ama l’hard & heavy di stampo ottantiano.
Prodotto benissimo, Sinister vive di questi notevoli contributi che vedono alternarsi tra gli altri Paul Shortino (Quiet Riot) e Chas West (Linch Mob) al microfono, Joel Hoekstra (Whitesnake), Craig Goldy (Dio, Giuffria) ed Eric Turner (warrant) alla sei corde, Tony Franklin (Blue Murder, The Firm), Phil Soussan (Ozzy) e Johnny Rod (Wasp, King Cobra) al basso.
E la musica se ne giova di conseguenza, grazie ad un songwriting che mette in evidenza l’esperienza dei musicisti in azione, calati nell’opera e a disposizione dei fratelli Appice per far risplendere di grintoso hard & heavy molti dei brani dell’album.
Rock duro di origine controllata, in alcuni casi riuscito alla grande, in pochi altri sui generis, ma suonato ed interpretato come meglio non si può: in Sinister, troviamo richiami ai migliori Whitesnake e Black Sabbath a comporre un quadro completo della carriera dei due batteristi nella loro versione metallica, con lo spirito di Dio che sorride ai tanti tributi offertigli.
L’album si sviluppa in più di un’ora ma ha il pregio di non annoiare, anche se i brani migliori come Monsters And Heroes, con Shortino alla voce, Killing Floor, lasciata tra le corde vocali di un Chas West debordante, e il mid tempo sporcato di blues di Suddenly sono tutti nella prima metà del cd, che si conclude con un mix di brani storici dei Black Sabbath intitolato Sabbath Mash.
Sinister si può certamente considerare un buon lavoro, dedicato a chi con i due fratelli americani di origine italiana è cresciuto, nonché giusto tributo ad una carriera nel mondo del rock e del metal di altissimo livello.

Tracklist
01. Sinister
02. Monsters And Heroes
03. Killing Floor
04. Danger
05. Drum Wars
06. Riot
07. Suddenly
08. In The Night
09. Future Past
10. You Got Me Running
11. Bros In Drums
12. War Cry
13. Sabbath Mash

Line-up
Carmine Appice – drums & vocals
Vinny Appice – drums

Jim Crean – vocals
Paul Shortino – vocals
Robin McAuley – vocals
Chas West – vocals
Scotty Bruce – vocals
Craig Goldy – guitar
Bumblefoot – guitar
Joel Hoekstra – guitar
Mike Sweda – guitar
Erik Turner – guitar
David Michael Phillips – guitar
Tony Franklin – bass
Phil Soussan – bass
Johnny Rod – bass
Jorgen Carlson – bass
Erik Norlander – keyboards

Cardinals Folly – Deranged Pagan Sons

I Cardinals Folly producono di nuovo uno dei dischi dell’anno in ambito doom e heavy.

Dalla patria dei suoni estremi arriva questa gran band di doom classico, suonato un po’ più velocemente rispetto al canone.

I Cardinals Folly sono una sicurezza per gli amanti dei suoni più tenebrosi e lascivi, con riff che compiono cerchi perfetti, con il marchio di fabbrica del doom classico. Cambi di tempo, suoni granitici e momenti più lenti e tenebrosi, tutto il repertorio del doom classico specialmente quello anni ottanta ma anche molto di più. Sotto le ceneri dei Cardinals Folly cova molto di più, dato che è ben presente l’heavy metal specialmente nella sua variante NWOBHM, ma anche qualche momento tendente al black metal classico, il tutto fatto benissimo. Certamente la spina dorsale del disco è composta da un doom classico e monolitico, dei St.Vitus più veloci e penetranti, possessori di indubbio talento. Dischi come Deranged Pagan Sons danno sensazioni molto forti, e si fa ascoltare dall’inizio alla fine, perché le canzoni hanno molte cose dentro di loro. Questa coproduzione Nine Records e Argonauta Records è fino ad ora il loro punto più alto, ed è senza punti deboli, molto solido, ben suonato e ben prodotto. Le chitarre sono clamorose anche nei momenti più lenti e meditativi, dove esce il fortissimo legame con i Black Sabbath, ma è un punto di partenza perché poi i Cardinals Folly sviluppano musica da par loro, ed è un bellissimo sentire. Queste chitarre, con un suono molto doom classico e la voce forte, possente ma melodica che entra in questo modo sono davvero una gioia, e non solo per i palati fini del genere, ma anche per chi subisce il terribile fascino della musica tenebrosa, anche se non è facile spiegare l’amore per il doom, perché è una cosa da provare.
I Cardinals Folly producono di nuovo uno dei dischi dell’anno in ambito doom e heavy.

Tracklist
1.Worship Her Fire
2.Dionysian
3.Deranged Pagan Sons
4.The Island Where Time Stands Still
5.Three-Bladed Doom
6.Suicide Commando
7.I Belong In The Woods
8.Secret of the Runes

Line-up
Mikko Kääriäinen – bass, vocals
Juho Kilpelä – guitar
Joni Takkunen – drums

CARDINALS FOLLY – Facebook

PÄNZER – The Fatal Command

The Fatal Command non è un album qualsiasi, è la bibbia dell’hard & heavy tradotta nella lingua di Schmier, ovvero heavy thrash metal tripallico fornito da una band autrice di un a prova d’insieme da bucare montagne con la sola potenza degli strumenti.

Prendi una manciata di musicisti storici della scena heavy/thrash, mettili in una saletta con strumenti, carta e penna, e il disco è servito: potente, veloce, epico e melodico, tagliente come una katana ed assolutamente metallico come nella migliore tradizione del genere.

Pura goduria per le orecchie di un vecchietto cresciuto a pane e metal (ma non solo) e che quando si ritrova al cospetto di queste sonorità sgrana gli occhi, comincia a dimenarsi e la pelle accenna un colore verdognolo come un famoso super eroe della Marvel.
A proposito di super, con i Panzer siamo nella lunga lista dei super gruppi ed i protagonisti sono: Schmier (basso e voce) dei Destruction, Pontus Norgren (chitarra) in forza agli svedesi Hammerfall, Stefan Schwarzmann (batteria) ex di Accept, Helloween e Running Wild e V.O. Pulver (chitarra).
The Fatal Command non è un album qualsiasi, è la bibbia dell’hard & heavy tradotta nella lingua di Schmier, ovvero heavy thrash metal tripallico fornito da una band autrice di un a prova d’insieme da bucare montagne con la sola potenza degli strumenti.
Non un assolo che non si accompagni davanti allo specchio in un esaltante momento di ignoranza metallica alla massima potenza, non un brano che non abbia un riff, una ritmica o un chorus incalzante, questo è The Fatal Command e la sua track list che fin dall’opener Satan’s Hollow vi terrà inchiodati davanti allo specchio a scimmiottare pose da guitar heroes o ad urlare chorus, con pugno chiuso e fierezza che esplode da tutti i pori.
We Can Not Be Silenced, Afflicted, il mid tempo potentissimo di Skullbreaker, Mistaken ma dovrei nominare tutta la track list ben evidenziata sotto l’articolo: The Fatal Command è vietato ai deboli di cuore, tutti gli altri sono invitati alla battaglia metallica, parola di MetalEyes.

Tracklist
1. Satan’s Hollow
2. Fatal Command
3. We Can Not Be Silenced
4. I’ll Bring You The Night
5. Scorn And Hate
6. Afflicted
7. Skullbreaker
8. Bleeding Allies
9. The Decline (And The Downfall)
10. Mistaken
11. Promised Land

Line-up
Stefan Schwarzmann – Drums
Schmier – Bass, Vocals
Pontus Norgren – Guitars
V.O. Pulver – Guitars

PANZER – Facebook

Sound Storm – Vertigo

Amanti delle metal opera e del power sinfonico fatevi sotto, perché Vertigo risulta un mastodontico lavoro dove il metal incontra le orchestrazioni e la musica da film, in un perfetto connubio che porta all’ascolto di un lavoro privo di qualsiasi difetto.

La scena metal nazionale non smette di regalare sorprese e dopo gli ottimi album arrivati in redazione negli ultimi mesi e che coprono praticamente tutto il mondo metallico con le sue tante sfaccettature, arriva dalla Rockshots il terzo lavoro dei piemontesi Sound Storm, un’opera metal totale, la colonna sonora di quello che di fatto è una serie dalle tematiche steampunk ideate dal gruppo e diretta da Taiyo Yamanouchi.

In questo nuovo lavoro la band ingloba nuovi membri che vanno a comporre una line up che vede, oltre alla coppia storica formata da Valerio Sbriglione (chitarra) e Massimiliano Flak (basso), Alessandro Bissa (batteria), Rocco Mirarchi (chitarra), Elena Crolle (tastiere) ed il bravissimo Fabio Privitera (voce).
Amanti delle metal opera e del power sinfonico fatevi sotto, perché Vertigo risulta un mastodontico lavoro dove il metal incontra le orchestrazioni e la musica da film, in un perfetto connubio che porta all’ascolto di un lavoro privo di qualsiasi difetto, magniloquente e pregno di evocativa epicità come nella migliore tradizione classica.
Ovviamente non stiamo parlando di originalità ed altre chimere, il power metal e le sinfonie orchestrali non sono certo la prima volta che si incontrano, ma in Vertigo sono portate ad un livello talmente alto da guardare le migliori opere passate direttamente negli occhi.
Eviterò di descrivervi la tecnica sopraffina di cui i musicisti sono dotati, in questo lavoro è il songwriting, accompagnato da un talento per le atmosfere magniloquenti, che fa la differenza, lasciando che le ispirazioni del gruppo si riflettano positivamente su una splendida opera.
La storia riguarda un compositore che, fallite le sue aspettative musicali, si diletta con la scienza, scivolando sempre più in un baratro di pazzia: la musica è drammatica, tragica ed epica, intimista in molti passaggi pianistici che ricordano i Savatage o la Trans Siberian Orchestra, mentre le parti orchestrali unite al power raccolgono gli insegnamenti del nostro Luca Turilli, maestro indiscusso di queste sonorità.
Abbiate cura di questo lavoro e fatevi cullare dalle emozionanti sfumature che i ricami tastieristici della Crolle rendono eleganti e raffinati, senza dimenticare gli assoli che a tratti ci investono con il loro gusto neoclassico, le cavalcate metalliche, gli esaltanti crescendo orchestrali e l’interpretazione fuori categoria di Privitera, che mette l’accento su questo enorme lavoro.
The Dragonfly, Original Sin, la devastante Gemini sono episodi da segnalare, ma se riscrivessi l’articolo nominerei magari altre tra le tracce che compongono questa bellissima opera, tanto per rendere l’idea dello spessore qualiativo di tutta la tracklist.

Tracklist
1. Vertigo
2. The Dragonfly
3. Metamorphosis
4. Forsaken
5. Original Sin
6. The Ocean
7. Spiral
8. Gemini
9. Alice
10. The Last Breath

Line-up
Fabio Privitera – Vocals
Valerio Sbriglione – Guitars
Rocco Mirarchi – Guitars
Elena Crolle – Keyboards
Massimiliano Flak – Bass
Alessandro Bissa – Drums

SOUND STORM – Facebook

Cradle Of Filth – Cryptoriana-The Seductiveness of Decay

Piacciano o meno a prescindere, questa volta i Cradle Of Filth hanno messo sul piatto argomenti a sufficienza per tacitare i detrattori per partito preso, riproponendosi al meglio nella loro veste di legittimi progenitori del symphonic metal estremo, gotico e romantico.

I Cradle Of Filth appartengono a quel novero di band che, ad ogni nuova uscita, vengono “simpaticamente” attese con i fucili puntati da parte di appassionati ed addetti ai lavori.

Del resto, anche negli anni del massimo fulgore, quelli corrispondenti ai primi quattro album, la divisione tra chi li amava e chi li odiava era netta e a questo ha sempre contribuito la presenza di un leader scomodo come Dani Filth, personaggio abbastanza sopra le righe e vocalist che non è mai stato apprezzato in maniera unanime per il suo caratteristico screaming “paperinesco”.
Ormai è passato quasi un quarto di secolo da quando il folletto britannico e la sua band impressero una svolta gotica e grandguignolesca al black metal, con un album sorprendente come The Principle Of Evil Made Flesh e successivamente con il capolavoro Dusk And Her Embrace. Gli album che seguirono, Cruelty And theBeast e Midian, si mantennero su un buon livello per poi veder scemare progressivamente la qualità, sia pure ancora con qualche sussulto, fino ad arrivare alle opere di questo decennio che hanno fornito decisi segnali di ripresa confermati pienamente da questo ottimo Cryptoriana – The Seductiveness of Decay.
Del resto il grafico qualitativo dei Cradle Of Filth non è dissimile da quello di illustri connazionali come Paradise Lost e My Dying Bride: una prima manciata di dischi eccellenti, un calo più o meno evidente ma generalizzato nella fase centrale della carriera ed un nuovo impulso creativo negli anni ‘10, con un ultimo album all’altezza dei fasti del passato.
Con Cryptoriana, i Cradle Of Filth ritornano ad esplorare quell’immaginario vittoriano che hanno sempre adorato, ammantandolo di un’aura gotica ovviamente esasperata ma confinata entro i limiti del buon gusto, il tutto poggiato su un tappeto sonoro thrash/black intriso delle consuete aperture sinfoniche e di azzeccate melodie, arricchite per di più da un efficace lavoro solista della chitarra.
Nonostante una persistente verbosità, il vocalist pare aver stemperato definitivamente il suo screaming abbinandolo ad un efficace growl, sorretto in diversi momenti dalla voce di Lindsay Schoolcraft: d’altra parte se, l’eccessiva “volatilità” della line-up è stato uno dei problemi che Dani ha sempre dovuto affrontare nel corso degli anni, non si può fare a meno di notare come per la prima volta la formazione sia rimasta immutata tra un full length e l’altro, con Richard Shaw e Marek “Ashok” Šmerda confermati alle chitarre, Daniel Firth al basso ed il tentacolare Martin “Marthus” Škaroupka alla batteria (oltre che alle tastiere in studio).
Forse è un caso, fatto sta che i tasselli spesso dispersi qua e là che hanno costituito il sound dei Cradle Of Filth per gran parte del nuovo millennio, paiono essere andati tutti al loro posto, come testimonia ampiamente un brano del livello di Heartbreak and Seance , anticipato giustamente come singolo e caratterizzato da linee melodiche di rara efficacia; Wester Vespertine si snoda furiosa ed incalzante, pur se punteggiata da parti corali, mentre The Seductiveness of Decay è l’altro picco del lavoro, con il suo tipico sviluppo colmo di cambi di tempo ma infiorettato da un ciclico assolo maideniano che ci si ritrova tra capo e collo senza alcun preavviso ma con un effetto trascinante.
L’ottima You Will Know the Lion by His Claw e Death and the Maiden chiudono il lavoro nella sua versione standard, mentre quella in digipack e in doppio vinile offrono anche due bonus track, tra le quali va segnalata la cover di Alison Hell degli Annihilator.
Piacciano o meno a prescindere, questa volta i Cradle Of Filth hanno messo sul piatto argomenti a sufficienza per tacitare i detrattori per partito preso, riproponendosi al meglio nella loro veste di legittimi progenitori del symphonic metal estremo, gotico e romantico.

Tracklist:
1. Exquisite Torments Await
2. Heartbreak and Seance
3. Achingly Beautiful
4. Wester Vespertine
5. The Seductiveness of Decay
6. Vengeful Spirit
7. You Will Know the Lion by His Claw
8. Death and the Maiden
9. The Night At Catafalque Manor
10. Alison Hell

Line up:
Dani Filth – Vocals
Marthus – Drums, Keyboards
Daniel Firth – Bass
Rich Shaw – Guitars
Ashok – Guitars
Lindsay Schoolcraft – Vocals (female), Keyboards

CRADLE OF FILTH – Facebook

Celesterre – The Wild

Il sound dei Celesterre convince soprattutto nei momenti in cui il sound si fa più epico ed evocativo, un po’ meno negli altri frangenti: resta comunque apprezzabile l’approccio non convenzionale della band olandese, che ha il merito di provare a svincolarsi dagli schemi consolidati.

Primo full length per questa band olandese denominata Celesterre, che si cimenta con un heavy doom dai tratti epici uscendo parzialmente dagli schemi stilistici più cupi ed estremi ai quali ci hanno abituato la Naturmacht e la sua sub-label Rain Without End.

Il sound della band di Den Haag è abbastanza arioso, pur conservando la cadenza tipica del classic doom, complice anche un’interpretazione sentita e stentorea del cantante/chitarrista/bassista Wouter Klinkenberg e di una serie non così scontata di assoli dallo splendido impatto melodico.
The Wild è un album strano, nel senso che il più delle volte sembra intraprendere strade imprevedibili per poi riportarsi in un alveo più tradizionale, lasciando però sempre la sensazione che queste divagazioni siano funzionali nel rendere più efficace il cammino all’interno dei sentieri sicuri e conosciuti.
Complessivamente il lavoro gode di una prima parte davvero brillante, grazie ad un pugno di brani intensi, melodici e venati di un’epicità che costituisce un deciso valore aggiunto: in Burst Into Life e Ramfight At Sundown, soprattutto, tali schemi compositivi vengono eseguiti in maniera brillante, mentre la più pacata ed acustica Endure The Cold è una piacevole oasi prima che l’istrionica (e forse un po’ fuori contesto) title track inauguri una fase del lavoro meno ispirata, pur mantenendosi su livelli più che accettabili, fino alla conclusiva e nuovamente efficace A Celebration Of Decay.
Di collocazione non semplice ma sicuramente dotato di una sua impronta personale, il sound dei Celesterre convince soprattutto nei momenti in cui il sound si fa più epico ed evocativo, un po’ meno negli altri frangenti: resta comunque apprezzabile l’approccio non convenzionale della band olandese, che ha il merito di provare a svincolarsi dagli schemi consolidati dimostrando una vis compositiva foriera di sviluppi interessanti nel presente e, ancor più, in futuro.

Tracklist:
1. Burst Into Life
2. Instinct
3. Ramfight At Sundown
4. Endure The Cold
5. The Wild
6. Hunger
7. The Pecking Order
8. A Celebration Of Decay

Line up:
Tim Zuidema – Drums
M. – Vocals (female)
Wouter Klinkenberg – Vocals, Guitars, Bass
Floris Kerkhoff – Guitars

CELESTERRE – Facebook

Jag Panzer – The Deviant Chord

The Deviant Chord è un lavoro riuscito a base di puro metal statunitense e regge il confronto con gli album passati del gruppo, sorprendendo in positivo con una manciata di brani potenti e melodici.

Gli anni passano, i primi anni ottanta sono ormai solo un ricordo di giovinezza per molti di noi, ma il metal classico continua a mietere vittime, magari non come in passato ma con il vigore dei tempi migliori.

Lo storico gruppo del Colorado è una delle realtà nate negli anni d’oro del metal classico, ed oggi arriva con il nuovo album a toccare la doppia cifra per quanto riguarda i lavori ufficiali di una discografia neanche troppo ampia ma che, specialmente tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, ha avuto il suo massimo splendore con una manciata di album che hanno marchiato a fuoco il nome dei Jag Panzer come una tra i più importanti d’oltreoceano, almeno nel genere suonato.
La band torna con The Deviant Chord, un lavoro che più classico non si può, pregno di quella drammatica oscurità che aleggia sul genere suonato negli States, valorizzato dallo stato di grazia della coppia d’asce Tafolla/Briody, da una prova tutta grinta ed esperienza di Conklin al microfono e dalla sezione ritmica (Rikard Stjernquist alle pelli e John Tetley al basso) che accompagna i tre fuoriclasse con un’anima progressiva impressa ai molti cambi di tempo che sono la parte nobile del sound, insieme a qualche solo dal sapore neoclassico.
La copertina ricorda temi sci-fi (in verità bruttina) e il sound non perde un colpo, arcigno ma nobile, foriero di tempeste heavy/power e solcato da un’anima prog che si veste di nero per andare incontro ai colleghi che con i Jag Panzer hanno fatto la storia del genere.
The Deviant Chord è un lavoro riuscito a base di puro metal statunitense e regge il confronto con gli album passati del gruppo, sorprendendo in positivo con una manciata di brani potenti e melodici come Born Of The Flame, la title track, la progressiva Divine Intervention e l’inarrestabile Salacious Behavior.
Complimenti a questi cinque veterani  dell’heavy metal americano, tornati in forma come in passato con questo ultimo lavoro.

Tracklist
1.Born Of The Flame
2.Far Beyond All Fear
3.The Deviant Chord
4.Blacklist
5.Foggy Dew
6.Divine Intervention
7.Long Awaited Kiss
8.Salacious Behavior
9.Fire Of Our Spirit
10.Dare

Line-up
Harry Conklin – vocals
Mark Briody – guitars
Joey Tafolla – guitars
John Tetley – bass
Rikard Stjernquist – drums

JAG PANZER – Facebook

Vulture – The Guillotine

Nel genere, The Guillotine si difende bene e il metal suonato dal gruppo convince con soluzioni che ricordano i primi passi dei gruppi storici della scena power/speed tedesca, con i Judas Priest a fare da imprescindibili tutori.

Band nuova ma sound vecchio, per gli amanti dell’heavy metal old school, arrivano i tedeschi Vulture, quattro musicisti in trip per lo speed metal anni ottanta.

Heavy, speed, oggi ci siamo abituati ad usare una marea di aggettivi per descrivere quello che altro non è che heavy metal, veloce, diretto e senza compromessi.
La produzione segue il trademark dell’album, con la voce che rimane ovattata ed in secondo piano rispetto alle ritmiche, e le sei corde che partono sgommando per chissà quali mete, tra cavalcate e solos che tagliano come lame appena affilate.
Il quartetto è attivo da un paio d’anni ed ora entra nel roster della High Roller Records ad infoltire l’esercito di gruppi dediti al metal old school.
Nel genere, The Guillotine si difende bene e il metal suonato dal gruppo convince con soluzioni che ricordano i primi passi dei gruppi storici della scena power/speed tedesca, con i Judas Priest a fare da imprescindibili tutori.
L’opener Vendetta, da cui è tratto un video, apre le ostilità e The Guillotine non si ferma più tra ritmiche straordinariamente veloci, ottimi solos e tanta attitudine vecchia scuola, assolutamente perfetta per sollucherare l’appetito degli amanti dei suoni underground anni ottanta.
Stiamo parlando di un lavoro dignitoso ma assolutamente per appassionati del genere, quindi si astenga chi stravede per il decennio d’oro del metal classico.

Tracklist
1. Vendetta
2. Clashing Iron
3. Triumph Of The Guillotine
4. Electric Ecstasy
5. Adrian’s Cradle
6. (This Night Belongs) To The Dead
7. Paraphiliac
8. Cry For Death

Line-up
L. Steeler – Vocals
M. Outlaw – Guitars
S. Genozider – Guitars & Drums
A. Axetinctor – Bass

VULTURE – Facebook

Wait Hell In Pain – Wrong Desire

Un lavoro riuscito e personale, che prende forza da più generi per trovare il suo equilibrio in un metal moderno e progressivo, senza rinunciare a sfumature estreme come il tema trattato: Wrong Desire è tutto questo, e non è poco.

Torniamo a parlare della Revalve Records, label sempre attenta alle realtà rock e metal che si aggirano sul nostro territorio, in occasione dell’uscita del debutto sulla lunga distanza dei Wait Hell In Pain, quintetto proveniente dalla capitale attivo da una manciata d’anni.

E’ infatti il 2011 l’anno di nascita del gruppo da un’idea della coppia di musicisti formata dal chitarrista Stefano Prejanò e della cantante Kate Sale.
I soliti avvicendamenti nella line up, che attanagliano molte band agli inizi, portano all’attuale formazione ed alla creazione di Wrong Desire, album scritto nel 2016 ed ora sul mercato a portare un po’ di freschezza a quello che di fatto è un buon esempio di metallo progressivo, moderno e contaminato da sfumature alternative e hard & heavy.
Incentrato su tematiche forti come l’abuso e la violenza sulle donne (anche dal lato psicologico), Wrong Desire risulta un album duro, pressante ma splendidamente melodico, dove hard rock, dark e prog metal si uniscono per donare alla protagonista May la forza di liberarsi dal suo aguzzino, mentre le chitarre sono corde che si strappano dai polsi, le tastiere tessono ricami progressivi o tappeti elettronici (la parte più moderna del sound) e la sezione ritmica lavora di potenza mantenendo il lavoro, nel suo complesso, entro i confini del metal.
Kate Sale, senza prendere strade liriche, interpreta i brani con trasporto, graffia quandoi testi descrivono scenari di ribellione, tragici momenti di un’anima tormentata, mentre la musica racconta a modo suo le vicende (anche interiori) della protagonista.
Metal che si fa alternativo e melodico per poi esplodere in rabbiose ripartenze dove i tasti d’avorio fanno da struttura moderna al gran lavoro di chitarra, basso e batteria: questo è  il sound di cui è composto Wrong Desire e le sue nove tracce, tra le quali l’opener Behind The Mask è il singolo in cui le caratteristiche peculiari della musica dei Wait Hell In Pain sono in bella mostra, mentre New Moon è il momento più intenso e She Wolf quello della consapevolezza di non essere più preda, ma splendida predatrice.
Un lavoro riuscito e personale, che prende forza da più generi per trovare il suo equilibrio in un metal moderno e progressivo, senza rinunciare a sfumature estreme come il tema trattato: Wrong Desire è tutto questo, e non è poco.
Tracklist
1.Behind The Mask
2.Castaway
3.Get It Out
4.Lost In Silence
5.New Moon
6.Rain Of May
7.She Wolf
8.The Confession
9.The Last Trip

Line-up
Kate Sale – vocals
Stefano Prejano’ – guitar
Marco “Vonkreutz” Novello – keyboards
Alfonso Pascarella – bass
Stefano “Black” Rossi – drums

WAIT HELL IN PAIN – Facebook

Air Raid – Across The Line

La produzione rende giustizia alla musica creata dal gruppo ed Across The Line può sicuramente trovare il suo spazio nelle discografie dei metallari dai gusti classici e tradizionali.

Heavy metal classico di scuola scandinava è quello che ci propongono gli Air Raid, quintetto svedese proveniente dalla capitale e attivo dal 2009.

Across The Line è il terzo lavoro sulla lunga distanza licenziato dal gruppo capitanato dal chitarrista Andreas Johansson, dopo un primo ep e due album, usciti rispettivamente nel 2012 e nel 2014, che confermano la bravura degli Air Raid nel riproporre una formula collaudatissima in auge negli anni ottanta e poi vissuta nell’ombra negli anni successivi, cullata e valorizzata nelle terre scandinave ed in Giappone.
Hard & heavy quindi, ritmicamente graffiante, sostenuto da chitarre affilate come rasoi, in poche parole la glorificazione del semplice ma sempre piacevole genere nella sua veste old school, tra tradizione britannica e statunitense che in Svezia hanno fatto loro accentuando quel tocco neoclassico apparentemente nascosto tra riff e solos.
Il songwriting di Across The Line, pur non toccando vette clamorose, risulta di ottima qualità, così che l’album vola spedito tra i cieli in tempesta, alternando buone ritmiche e canzoni dai chorus accattivanti a forme metalliche più vicine all’heavy epico e neoclassicom come la doppietta Entering The Zone Zero, strumentale dai rimandi malmsteeniani, e Hell And Back, canzone dura come l’acciaio ed inno metallico di questo lavoro.
Il gruppo convince e consegna agli amanti del genere un piccolo gioiellino, magari fuori dai normali ascolti anche in campo classico, ma sicuramente appagante per chi ha un minimo di confidenza con queste sonorità.
La produzione rende giustizia alla musica creata dal gruppo ed Across The Line può sicuramente trovare il suo spazio nelle discografie dei metallari dai gusti classici e tradizionali.

Tracklist
1. Hold The Flame
2. Line Of Danger
3. Aiming For The Sky
4. Cold As Ice
5. Entering The Zone Zero
6. Hell And Back
7. Northern Light
8. Raid Or Die
9. Black Dawn

Line-up
Fredrik Werner – vocals
Andreas Johansson – guitars
Magnus Mild – guitars
Robin Utbult – bass
David Hermansson – drums

AIR RAID – Facebook

Unreal Terror – The New Chapter

The New Chapter è un lavoro di heavy metal tradizionale che non rinuncia a piccoli dettagli tali da renderlo appetibile sul mercato di questo nuovo millennio, con la band nostrana che si destreggia perfettamente con la materia e con infinita esperienza tra le trame del genere classico per antonomasia.

Tornano dopo più di trent’anni con un album nuovo di zecca i pescaresi Unreal Terror, storico gruppo heavy metal nostrano.

Infatti è dal 1986, anno di uscita del primo ed unico full length Hard Incursion, che del gruppo si era parlato solo per alcune ristampe uscite negli anni, mentre quest’anno è giunto il momento dell’uscita del tanto atteso successore di quello storico album e di altri due lavori minori, il demo del 1982 e Heavy & Dangerous, ep licenziato nel 1985.
Il gruppo abruzzese ha visto i suoi natali addirittura sul finire degli anni settanta con il monicker U.T. per poi adottare quello di Unreal Terror dal 1982, anno di uscita del demo: in quegli storici anni alla chitarra si destreggiava anche Mario Di Donato, storico personaggio del metal tricolore successivamente nei Requiem e soprattutto nei The Black.
Dell’iconico artista abruzzese in tutti questi anni è stato fedele compagno il bassista Enio Nicolini, che ritroviamo qui assieme agli due membri fondamentali del gruppo come il singer Luciano Palermi ed il batterista Silvio “Spaccalegna” Canzano, ai quali si aggiungono i nuovi chitarristi Iader D. Nicolini e Paolo Ponzi (Arkana Code): con questa configurazione la band ci conduce indietro nel tempo, fino alla metà degli anni ottanta, con un sound  definibile hard & heavy al 100%.
Il nuovo capitolo di questa lunga storia non poteva che essere proprio un ritorno al metal tradizionale, valorizzato da una buona produzione che però non tradisce lo spirito old school dell’opera, risultando moderna ma rispettosa dei suoni che i musicisti del gruppo hanno creato senza allontanarsi da quello che sono sempre stati gli Unreal Terror.
The New Chapter è un lavoro che non rinuncia a piccoli dettagli tali da renderlo appetibile sul mercato di questo nuovo millennio, con la band nostrana che si destreggia perfettamente con la materia e con infinita esperienza tra le trame del genere classico per antonomasia, senza esagerare con i watt ma dando dimostrazione di classe.
L’album infatti alterna cavalcate in stile NWOBHM a brani in cui l’elemento heavy si scontra con parti hard o progressive, con uno splendido lavoro delle sei corde e sfumature oscure che non fanno scendere l’attenzione neppure nelle tracce più ragionate, mentre lo storico cantante interpreta i brani con la giusta determinazione e le ritmiche variano lasciando ad altri facili compitini.
Il gruppo ha esperienza da vedere e si sente, i brani al secondo giro nel lettore si incollano nella mente grazie ad una serie di refrain davvero azzeccati, con il brano Time Bomb (scelto per l’anteprima dell’album), The Fall, The Thread e Lost Cause a spingere l’album verso un giudizio positivo.
The New Chapter sarà un ritorno gradito per i rockers di vecchia data e potrebbe diventare una bella sorpresa per i più giovani consumatori di musica dura

Tracklist
1. Ordinary King
2. Time Bomb
3. All This Time
4. Fall
5. The Thread
6. One More Chance
7. Trickles of Time
8. It’s the Shadow
9. Lost Cause
10. Western Skies

Line-up
Luciano Palermi – Vocals
Enio Nicolini – Bass
Iader D. Nicolini – Guitars
Arcanacodaxe – Guitars
Silvio “Spaccalegna” Canzano – Drums

UNREAL TERROR – Facebook

Jack Starr’s Burning Starr – Stand Your Ground

Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Colpaccio della High Roller che licenzia in questa torrida estate Stand Your Ground,  uno degli album heavy metal dell’anno firmato da Jack Starr, ex chitarrista dei Virgin Steele.

Opera maestosa, il settimo sigillo del musicista americano si presenta con un artwork classicamente epico disegnato da Ken (Rainbow, Kiss, Manowar), prodotto da Bart Gabriel, con Kevin Burnes (Dokken, Raven) al mix e Patrick W.Engel al master.
Lo storico chitarrista americano affiancato da un’altra icona del metal classico statunitense, l’ex Manowar Rhino alle pelli e con due assi come il singer Todd Michael Hall ed il bassista Ned Meloni, sforna un album spettacolare che per più di un’ora immerge nelle atmosfere epiche, guerresche e gloriose tipiche del metal nato nel nuovo continente, spogliato da inutili orpelli power e rivestito di armature d’acciaio.
Un apoteosi di riff e solos forgiati da fabbri nel cuore di montagne dimenticate dal tempo, una serie di chorus da cantare al cielo rosso del sangue degli dei, in un delirio metallico chiamato Stand Your Ground, questo ci regalano i Jack Starr’s Burning Starr e questo vorremmo sentire sempre, almeno quando ci avviciniamo da un album heavy epic metal.
Todd Michael Hall è protagonista di una performance straordinaria, trattandosi di un singer dotato di una voce metal fuori dal comune e perfetto narratore delle storie leggendarie e delle epiche avventure che il gruppo mette in musica fin  dall’opener Secrets We Hide, passando per l’epica cavalcata che dà titolo all’opera, brano di una bellezza commovente per intensità, talento melodico e cori che spaccano il cielo per arrivare direttamente agli dei.
Ariosa e dal piglio hard rock è Destiny, dal refrain irresistibile e dal chorus che entra in testa al primo passaggio, mentre arriviamo al brano numero sette prima di riposarci da giorni di battaglia, con la super ballad Worlds Apart che ci accompagna all’accampamento, luccicante delle fiamme dei falò che rischiarano la notte.
L’inizio maideniano di Escape From the Night arriva giusto per non perdere l’altro picco di questo splendido lavoro, We Are One, un crescendo di epica e fiera musica metal che esplode nelle due guerresche tracce (Stronger Than Steel e False Gods) che fanno da preludio alla conclusiva semi ballad To The Ends, intensa, drammatica ed epica conclusione di questo straordinario lavoro.
Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Tracklist
1. Secrets We Hide
2. The Enemy
3. Stand Your Ground
4. Hero
5. Destiny
6. The Sky Is Falling
7. Worlds Apart
8. Escape From The Night
9. We Are One
10. Stronger Than Steel
11. False Gods
12. To The Ends

Line-up
Todd Michael Hall – lead and backing vocals
Jack Starr – guitars
Ned Meloni – bass guitar
Kenny “Rhino” Earl – drums

Kevin Burnes – additional rhythm, harmony and acoustic guitars

JACK STARR’S BURNING STARR

https://www.youtube.com/watch?v=fwbmQN5YHs8

Kliodna – The Dark Side…

Il quintetto di Minsk affronta con ottima determinazione il genere, cercando di bilanciare orchestrazioni e parti metalliche e confezionando un prodotto assolutamente in grado di soddisfare i palati degli ancora molti amanti del power metal sinfonico.

Attivi dal 2012, i bielorussi Kliodna sono una nuova band che va a rimpolpare le truppe del power metal sinfonico tra il folto rooster della Wormholedeath.

Il quintetto di Minsk affronta con ottima determinazione un genere che sembra all’apparenza aver detto tutto e sicuramente non visto più di buon grado dalle riviste di settore, cercando di bilanciare orchestrazioni e parti metalliche e confezionando un prodotto assolutamente in grado di soddisfare i palati degli ancora molti amanti del power metal sinfonico.
Come tutte le realtà provenienti dall’est europeo, anche i Kliodna si fanno apprezzare per un approccio elegante, innato in gente cresciuta in paesi che danno da sempre molta importanza alla musica nell’educazione quotidiana.
Con una cantante perfetta per il ruolo di sirena metallica (Helena Wild, alla quale è poi subentrata Natalia Senko) e dotata di un’ottima voce operistica, la band tiene schiacciato il piede sull’acceleratore, almeno per i primi tre brani, preceduti dalla solita intro di rito e che sfoggiano solida potenza power, orchestrazioni non troppo pompose e un buon songwriting .
Al quarto brano in scaletta di questo ottimo The Dark Side…, il gruppo fa centro con Night Symphony, semi ballad metallica molto suggestiva seguita dalla ripartenza power orchestrale di Blood In The Sea.
Col passare dei minuti la prova della Wild al microfono diventa assolutamente da sottolineare (le sue muse ispiratrici sono sulla scia della solita Turunen), mentre la potenza power lascia spazio a solos di estrazione neoclassica.
Dead Princess Dreams è orchestrata a meraviglia e dona un intervento chitarristico da applausi, mentre l’album si avvia verso la fine, in tempo per godere della ballad Frozen Soul, a ribadisce l’influenza dei Nightwish sulla musica dei Kliodna.
Un buon lavoro dunque, da non farsi scappare se siete amanti del metal sinfonico e se, quando volete ascoltare qualcosa del genere, la scelta cade sempre sui primi lavori dei maestri finlandesi.

Tracklist
1.Intro
2.Kliodna
3.Road to Anywhere
4.I’ll Do the Haunting
5.Night Symphony
6.Blood in the Sea
7.Dead Princess Dreams
8.Northern Wolf
9.Frozen Soul
10.Set Me Fre

Line-up
Helena Wild- Vocals
Alexandr Korobov – Guitar
Anton Michailovskiy – Guitar
Vasily Silura – Bass Guitar
Ilya Konopelko – Drums

KLIODNA – Facebook

Die Apokalyptischen Reiter – Der Rote Reiter

Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e all’insegna di una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.

I Die Apokalyptischen Reiter arrivano al loro decimo full length, un traguardo ragguardevole per una band dalla storia ultraventennale, tanto più se all’insegna dell’anticonvenzionalità unita ad un elevato livello medio.

Probabilmente l’effetto sorpresa che rendeva irrinunciabili lavori come Samurai e Riders Of The Storm è venuto un po’ meno, complice anche un progressivo indurimento del sound che ha portato i nostri in più di un frangente ad avvicinare stilisticamente i connazionali Rammstein, dai quali comunque divergono per un approccio più scanzonato e in generale più rock oriented.
In ogni caso Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e contraddistinto da una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
Come per le migliori band, quello che fa la differenza è un’impronta personale che resta a prescindere dal diverso approccio che si può riscontrare prendendo in esame i singoli album, e questo viene confermato fin dalle prime note di Wir sind zurück, brano DAR al 100%, furiosamente melodico ed accattivante, mentre la più violenta ed anche cupa title track rappresenta uno dei corrispettivi più metallici del lavoro.
Con Auf und nieder si torna a quelle melodie chitarristiche vagamente folk che fungono da prologo ad una struttura fortemente orecchiabile ed esibiscono in maniera più esplicita il trademark della band, che poi si lascia andare ad un’altra traccia fortemente rammsteiniana come Hört mich an, dove comunque sia l’utilizzo della chitarra in fase solista e la grande versatilità vocale di Fuchs mantengono il sound a distanza di sicurezza da quello tipico del gruppo berlinese.
Del resto se, in The Great Experience of Ecstasy, l’ingannevole punk hardcore iniziale prelude ad un finale altamente evocativo, con la magnifica Herz In Flamme si finisce addirittura dalle parti del death melodico, mentre la solennità del chorus all’interno del disturbato incedere di Ich nehm dir deine Welt prelude alla chiusura rappresentata dalla gradevole ballata Ich werd bleiben.
I Die Apokalyptischen Reiter fanno parte di quella categoria di band che non lasciano indifferenti, nel bene o nel male: personalmente, oltre ad amare in maniera illogica l’idioma tedesco applicato al rock ed al metal (pur non capendone una parola) ho sempre apprezzato questo bizzarro combo, considerandolo quale portatore di un’espressione fresca ed originale e, sicuramente, Der Rote Reiter non mi farà recedere da tale giudizio.

Tracklist:
1. Wir sind zurück
2. Der rote Reiter
3. Auf und nieder
4. Folgt uns
5. Hört mich an
6. The Great Experience of Ecstasy
7. Franz Weiss
8. Die Freiheit ist eine Pflicht
9. Herz in Flammen
10. Brüder auf Leben und Tod
11. Ich bin weg
12. Ich nehm dir deine Welt
13. Ich werd bleiben

Line up:
Volk-Man – Bass
Dr. Pest – Keyboards
Fuchs – Vocals, Guitars
Sir G. – Drums
Ady – Guitars

DIE APOKALYPTISCHEN REITER – Facebook