Outrider – Foundations

Quarantadue minuti persi nel sound che, partendo dagli anni del rock di Seattle, si avvicina al nuovo millennio passando per il post grunge, raccogliendo nel suo peregrinare un tocco di southern metal, e giuntovi, si trasforma in un’oliata macchina hard rock.

Ennesimo ottimo esempio di hard rock moderno, tra citazione novantiane e retaggi dagli anni settanta, il tutto inglobato in un sound hard & heavy perfetto per chi stravede per i gruppi statunitensi usciti negli ultimi vent’anni o giù di lì.

In Italia la scena hard rock non manca certo di gruppi sul pezzo, tutti con una forte personalità e che spaziano tra l’hard rock più classico e melodico o quello più aggressivo, groovy ed oscuro, cool in questi primi decenni del nuovo millennio.
Gli Outrider sono un gruppo proveniente da Monza e dintorni, nascono nel 2008 e con solo un ep alle spalle si presentano in questa seconda parte dell’anno sotto i tentacoli della piovra Sleaszy Rider  con questo riuscito debutto dal titolo Foundations, prodotto ai Magnitude Recording Studio di Seregno da Marco D’Andrea, chitarrista dei magnifici Planethard.
E allora ecco che la musica del gruppo può finalmente colpire nel segno, con questi quarantadue minuti persi nel sound che, partendo dagli anni del rock di Seattle, si avvicina al nuovo millennio passando per il post grunge, raccogliendo nel suo peregrinare un tocco di southern metal, e giuntovi, si trasforma in un’oliata macchina hard rock., di quello senza fronzoli con dosi misurate alla perfezione di groove, essenziale per far breccia nei rocker moderni.
Foundations non ha un brano trainante, risulta più un insieme di umori che la band ci scarica sotto forma di watt e ritmiche grasse, mentre Alberto Zampolli interpreta con tono aggressivo ma senza tralasciare parti melodiche l’ottimo hard rock suonato dai suoi compagni d’avventura.
Le due chitarre (Roberto Gatti e Andrea Fossati), il basso corposo di Davide Rovelli e le pelli torturate da Federico Sala formano un muro sonoro di hard rock, con qualche rara ruvidezza metallica, ma sempre intriso dell’attitudine i estrazione statunitense.
I gruppi che hanno ispirato il sound di Foundations vanno ricercati proprio aldilà dell’oceano, mentre The Void apre le danze, A Tale From The Land la segue, così come le altre canzoni, rivelandosi tutte di ottima fattura tra grinta e melodia, e consigliate agli amanti del genere che apprezzano Alter Bridge, Soundgarden e Black Stone Cherry.

TRACKLIST
01 – The Void
02 – Sideways
03 – A Tale From The Land
04 – Get Out
05 – Stronger Than Before
06 – Down
07 – Empty Shell Of Me
08 – Kimberly
09 – Brutal Games
10 – Raindrops

LINE-UP
Alberto Zampolli – Vocals
Roberto Gatti – Guitars
Andrea Fossati – Guitars
Davide Rovelli – Bass, Backing Vocals
Federico Sala – Drums

OUTRIDER – Facebook

Demised – A Warm Place to Stay

Mantenendo un approccio diretto nelle parti più estreme, i Demised creano il loro nuovo sound, impregnato di atmosfere e sfumature dark/gothic con la voce che segue i toni classici del genere, rivelandosi profonda, a tratti teatrale e perfettamente calata nello spirito di questo A Warm Place to Stay.

La rinascita: un nuovo inizio, una consapevole trasformazione che molte volte risulta un arma a doppio taglio, specialmente se riguarda il mondo della musica.

Band più o meno famose tornano con un nuovo concept ed un nuovo sound, d’altronde con gli anni anche l’uomo subisce dei cambiamenti, ancora più evidenti se si è artisti, persone sensibili all’evolversi del mondo circostante.
Molti decidono di iniziare carriere parallele fondando nuove band. altri si avventurano nel mondo dei progetti solisti, mentre in alcuni casi la voglia di cambiamento rimane nei confini della propria realtà, l’esempio più lampante parlando di metal estremo sono sicuramente i Paradise Lost, band a cui i nuovi Demised sono sicuramente accostabili.
Fondati dal cantante/chitarrista Andrés Pestana e dal batterista Adrián Hidalgo nel 1996, il gruppo spagnolo ha iniziato la sua carriera nel mondo del metal estremo nel 1998, con l’uscita di Panthalasa, demo di quattro brani seguito dall’ep Between the Ashes & the Silence, nel 1999, dove il gruppo si cimentava in un death metal tradizionale e dalle ottime trame tecniche.
Un demo nel 2007 e poi un lungo silenzio prima di tornare quest’anno tramite la Wormholedeath con il primo album di questa nuova incarnazione che si ispira al gothic metal di scuola Paradise Lost/Moonspell, anch’essi autori nelle loro carriere di improvvise divagazioni dal loro caratteristico sound.
Mantenendo un approccio comunque diretto nelle parti più estreme, i Demised creano il loro nuovo sound, impregnato di atmosfere e sfumature dark/gothic con la voce segue i toni classici del genere, rivelandosi profonda, a tratti teatrale e perfettamente calata nello spirito di questo A Warm Place to Stay.
Le chitarre disegnano arabeschi che si inoltrano in paradisi perduti, le atmosfere gotiche tendono a rimanere potenti e maschie come nella tradizione degli anni novanta e la rinuncia pressoché totale alla voce femminile, ormai diventato un cliché nel genere, aumenta l’atmosfera pesantemente oscura delle varie Fractures & Ashes (bellissimo esempio di Paradise Lost sound era Icon), della cangiante From The Storm (melodie e parti estreme si danno il cambio in una delle canzoni più ispirate dell’album), mentre Gregor Mackintosh guida le dita sul manico della sei corde in Where We All Belong.
Una voce femminile compare in effetti, ma solo nella ballad che dà il titolo all’album, prima che le ritmiche tornino potenti ed il dark rock prenda in mano le redini della conclusiva The Mournful Flight, scrivendo la parola fine su un lavoro intenso e composto da ottimi brani.
Un nuovo inizio, ed un’ottima partenza, i Demised meritano sicuramente l’attenzione degli amanti del genere.

TRACKLIST
1.Intro
2.Fractures & ashes
3.Vastness
4.From the storm
5.My dreads, my fears
6.Where we all belong
7.Top of the path
8.Sistrum
9.A warm place to stay
10.The mournful flight

LINE-UP
Andrés Pestana – Vocals/Guitars/Keyboards
Adrián Hidalgo – Drums/Keyboards
Alex Yuste – Guitars
Paco Porcel – Bass

DEMISED – Facebook

White Skull – Will Of The Strong

Gli White Skull continuano la loro missione metallica con maestria, ed arrivati al decimo album possono sicuramente essere soddisfatti del cammino intrapreso, non perdetevi dunque un altro splendido esempio di power metal made in Italy, c’è da esserne fieri.

Sotto il simbolo del teschio bianco agisce una delle più importanti metal band italiane, magari leggermente sottovalutata per importanza rispetto ad altre, ma sicuramente tra le migliori a livello qualitativo nell’ambito della propria proposta.

I vicentini White Skull arrivano alle soglie del ventesimo anni di attività con un nuovo album di power metal, appunto alla “White Skull”, il che tradotto significa ritmiche potenti, un’attenzione maniacale per le melodie, ottime orchestrazioni e brani vincenti, epici e metallici.
Il decimo lavoro è un traguardo di tutto rispetto, specialmente in Italia, dove sono tante ed anche valide le band che mollano, magari per attendere tempi migliori, mentre il gruppo veneto ha mantenuto una costanza commovente, anche in periodi in cui il genere era praticamente ignorato dagli addetti ai lavori.
Will Of The Strong arriva dunque a festeggiare la doppia cifra, in un periodo buono per i suoni classici, quando anche nella scena tricolore veniamo travolti da reunion più o meno azzeccate e non mancano nuove leve a rimpolpare le truppe dell’esercito metallico.
Con un Alexandros Muscio in più ai tasti d’avorio (Highlord ed Opera IX), bravissimo nell’orchestrare i brani di questo Will Of The Strong lasciando la componente power ben in evidenza, ed una raccolta di brani che si mantiene su ottimi livelli per tutta la durata, gli White Skull ci regalano l’ennesimo ottimo lavoro, maturo e curato in ogni dettaglio, nel quale sette delle dodici canzoni parlano di donne che hanno avuto un peso nella storia tra cui Evita Peron, Giovanna d’Arco, l’apache Lozen, la ribelle cinese Wang Cong’er e Matilda di Canossa, ed in generale un tributo al coraggio ed al sacrificio.
Musicalmente parlando, Will Of The Strong non deluderà sicuramente i fans del gruppo e del genere: epicità, melodie, cori, fughe ritmiche, intricate parti chitarristiche ed un gran lavoro nelle orchestrazioni ci parlano di un album riuscito, intrigante, da far proprio godendo del talento di questi musicisti nostrani, garanzia di ottimo metal.
Detto di una prestazione sugli scudi della storica cantante Federica “Sister” De Boni, Will Of The Strong ha in Holy Warrior, nella doppietta composta dalla title track e Lady Of Hope, nella splendida ballata Sacrifice e nell’epica Lay Over i brani che fanno la differenza in un contesto che non mostra cadute di tono o riempitivi.
Gli White Skull continuano la loro missione metallica con maestria, ed arrivati al decimo album possono sicuramente essere soddisfatti del cammino intrapreso, non perdetevi dunque un altro splendido esempio di power metal made in Italy, c’è da esserne fieri.

TRACKLIST
1.Endless Rage
2.Holy Warrior
3.Grace O’ Malley
4.Will of the Strong
5.Lady of Hope
6.I Am Your Queen
7.Hope Has Wings
8.Metal Indian
9.Shieldmaiden
10.Sacrifice
11.Lay Over
12.Warrior Spirit

LINE UP
Alexandros Muscio – Keyboards
Alex Mantiero – Drums
Tony “Mad” Fontò – Guitars
Federica “Sister” De Boni – Vocals
Danilo “Man” Bar – Guitars
Jo Raddi – Bass

WHITE SKULL -Facebook

Arbor Inversa – Anticipatterns

Non vanno per il sottile gli Arbor Inversa, mentre la musica continua il suo viaggio tra periferie ingrigite dallo smog ghiacciato di città abbandonate al loro destino, formate da un’umanità fredda come il clima di quelle terre e che si riflette sul death metal di Anticipatterns.

Death metal proveniente dalla fredda Russia con un approccio estremo che, pur rimanendo nei canoni del genere, porta con sé un’attitudine moderna, un’anima industriale, fredda come la terra di provenienza ma assolutamente affascinate e distruttiva.

La Wormholedeath mantiene inalterata la sua ormai tradizionale fama di etichetta fuori dagli schemi e dai soliti confini e vola regno degli zar, dove ad aspettarla trova questo duo di musicisti, in pausa dalle fatiche degli Aruna Azura ed uniti sotto il monicker Arbor Inversa dallo scorso anno.
Max War-M (The Unhallowed, Aruna Azura) e Paul.G.Wicker (The Unhallowed, Aruna Azura, Deva Obida) creano questo penetrante ed intenso lavoro, dal titolo Anticipatterns, mezz’ora abbondante immersi nella frangia estrema del metal, oscuro, moderno e marziale, alternando accelerazioni e sfumature industriali, formando un sound a tratti progressivo, difficile da fare proprio ad un primo e fugace ascolto, ma che lasciato penetrare a fondo produce dipendenza.
Non vanno per il sottile i due musicisti, alle prese con chitarra, basso e batteria (Max War-M) e voce (Paul.G.Wicker) che passa da un profondo growl ad uno scream violento e terrificante, mentre la musica continua il suo viaggio tra periferie ingrigite dallo smog ghiacciato di città abbandonate al loro destino, formate da un’umanità fredda come il clima di quelle terre e che si riflette sul death metal di Anticipatterns.
Tra i brani dell’album vive un’anima oscura e violenta che fa dell’opener Philistine Manifesto, la devastante Aftertaste, la monolitica Scrounger A Matter e la progressiva Arbor Inversa (la song) ottimi esempi di metal estremo che racchiudono un’influenza dei Death portata in un contesto più moderno ed asettico, ma non per questo meno terrificante.

TRACKLIST
1. Philistine Manifesto
2. Lex Talionis
3. Aftertaste
4. Pandora’s Ambassador
5. Northunderland
6. Scrounge A Matter
7. Prot
8. Arbor Inversa
9. Lyra

LINE-UP
Max War-M – guitars/bass/drums
Paul.G.Wicker – vox

ARBOR INVERSA – Facebook

Sikth – The Future In Whose Eyes?

Momenti narranti fungono da preludio a vere esplosioni di musica moderna, un susseguirsi di trappole che si dipanano sul pentagramma e come tagliole ci afferrano senza lasciarci più.

Dopo la reunion avvenuta tre anni fa, la partecipazione a vari festival ed un tour nel Regno Unito, tornano i Sikth, diventati un sestetto con l’entrata alla seconda voce del singer Joe Rosser.

Il gruppo, ispiratore di molti gruppi progressivi moderni ed uno dei creatori del sottogenere chiamato djent, non pubblicava album dal 2006, anno di uscita del secondo ed ultimo full length Death of a Dead Day e dell’ep Flogging The Horses.
Un ritorno aspettato da un bel po’ di anni dunque, specialmente per gli amanti del metallo progressivo, modernizzato e destabilizzato da furia hardcore, partiture fuori da ogni schema ed un talento per melodie che si estrinsecano nelle trame, a loro mode estreme, di un sound originale e personale.
Certo, non siamo più nei primi vagiti di questo drammatico nuovo millennio ed anche la proposta del gruppo inglese non è una novità, rimane però ben chiara all’ascolto la sensazione di essere al cospetto di una band fuori dal comune, ed assolutamente fuori dalle chiacchiere e dalle perplessità che la reunion aveva portato in una parte degli addetti ai lavori.
Un gran lavoro è stato fatto in sede di registrazione, con le voci impresse nello studio del cantante Mikee W Goodman nei R&R Studios di Adrian Smith (Iron Maiden), mentre chitarre e batteria sono stati registrate ai Monkey Puzzle House Studios.
La produzione è stata affidata a Dan Weller, mentre il mixaggio ad Adam “Nolly” Getgood (Periphery) e lo splendido artwork di copertina dal taglio futurista è opera di Meats Meier.
Licenziato dalla Millennium Night, la nuova etichetta di proprietà di Snapper Music, The Future In Whose Eyes? risulta un album emozionate, un viaggio nel futuro dell’uomo, a volte tragico, altre caotico, sempre drammatico, in continua e spasmodica ricerca di innovazioni e perfezione.
Il sound segue, nel suo furioso andamento progressivo, questa idea di futuro, mentre i due vocalist danno letteralmente spettacolo, la sezione ritmica è qualcosa di inumano a livello tecnico e le chitarre seguono, ora con dedizione core, ora con fughe metalliche e progressivamente estreme, il tappeto musicale vario e mai banale che fa da fondamenta al muro sonoro dei Sikth.
Momenti narranti fungono da preludio a vere esplosioni di musica moderna, un susseguirsi di trappole che si dipanano sul pentagramma e come tagliole ci afferrano senza lasciarci più.
L’opener Vivid presenta i riformati Sikth e poi si parte per questo viaggio nel futuro, travolti e confusi da The Aura, Cracks Of Light ed il capolavoro No Wishbones, punto più alto di questo notevole ritorno.
Per gli amanti del genere The Future In Whose Eyes?  è un album imperdibile, assolutamente in grado di mantenere inalterata la reputazione costruita nel corso degli anni dal gruppo londinese.

TRACKLIST:
1.Vivid
2.Century of the Narcissist?
3.The Aura
4.This Shop has sailed
5.Wevers of Woe
6.Cracks of Light (feat. Spencer Sotelo)
7.Golden Cufflinks
8.The Moon’s been gone for houres
9.Riddles of Humanity
10.No Wishbones
11.Rode the Illusion
12.When it rains

LINE-UP
Mikee W Goodman – Vocalist and lyricist
Joe Rosser – Vocalist
Pin – Guitarist
Dan Weller – Guitarist
Dan Foord – Drummer
James Leach – Bassist

SIKTH – Facebook

Corroded – Defcon Zero

Un album che alterna buoni momenti, tutta potenza ed impatto, ad altri un po’ troppo studiati per piacere al pubblico delle radio rock, un peccatuccio che non inficia il giudizio buono sull’intero lavoro.

Tredici anni di attività, una notorietà cresciuta dopo aver prestato la propria musica al programma tivù “Survivor (Expedition Robinson in Sweden)” e al videogame Battlefield e, dopo cinque anni dall’ultimo State Of Disgrace, il ritorno sul mercato con Defcon Zero.

E’ di nuovo tempo di Corroded, freschi di firma con Despotz Records, e del loro sound molto americano, colmo di groove e perfetto per maciullare teste in sede live.
Gli hard rockers svedesi aggiungono alla loro proposta palate di groove, grinta e tanta melodia, carta vincente per aspirare al successo dopo gli ottimi riscontri avuti qualche tempo fa.
Niente di nuovo, ma è indubbio che la carica hard metal con cui la band affronta la materia è di quelle altamente esplosive, moderno metal/rock che fa impazzire il pubblico oltreoceano e non manca di divertire quello sparso per il vecchio continente.
Melodie post grunge, riff pesanti come incudini, ritmiche hard rock sono il pane quotidiano dei giovani rockers a cui i Corroded si rivolgono con un album che mantiene un ottimo approccio, composto da brani piacevolmente duri, ma dai chorus che si stampano in testa già dal primo passaggio ed attimi di metallo più consistente e dalla tipica pesantezza panteriana.
Leggermente prolisso in qualche frangente, Defcon Zero perde in immediatezza nei brani più lunghi, meglio quindi quando il gruppo spara atomiche metalliche dagli effetti devastanti, come in Gun And A Bullet, nel singolo Fall Of Nation e in Burn If To The Ground, mentre la ballad A Note To Me lascia qualche dubbio, vicina com’è ai brani da classifica dei Nickelback.
Un album che alterna buoni momenti, tutta potenza ed impatto, ad altri un po’ troppo studiati per piacere al pubblico delle radio rock, un peccatuccio che non inficia il giudizio buono sull’intero lavoro.

TRACKLIST
1.Carry Me My Bones
2.Gun And A Bullet
3.Retract and Disconnect
4.Fall Of A Nation
5.Vessels Of Hate
6.Day Of Judgement
7.A Note To Me
8.Burn It To The Ground
9.DRF
10.Feel Fine
11.Rust and Nail

LINE-UP
Jens Westin -Vocals, Guitar
Tomas Andersson – Guitar,Backing vocals
Bjarne Elvsgård – Bass
Per Soläng – Drums

CORRODED – Facebook

In Reverence – The Selected Breed

Death/black, oscuro e devastante, attraversato da una vena melodica che si evince nei rallentamenti ed in qualche sfumatura dark, ma furioso e tempestoso nelle parti estreme, con un growl cavernoso, qualche accenno allo scream ed un impatto da tregenda.

Attivi dal 2010 in quel di Stoccolma, gli In Reverence debuttano sulla lunga distanza con The Selected Breed, lavoro che al death metal tradizionale aggiunge parti atmosferiche e violente ripartenze al limite del black.

Death/black, oscuro e devastante, attraversato da una vena melodica che si evince nei rallentamenti ed in qualche sfumatura dark, ma furioso e tempestoso nelle parti estreme, con un growl cavernoso, qualche accenno allo scream ed un impatto da tregenda.
Un vortice di metal estremo, un tornado metallico nero come la pece che non manca di regalare attimi devastanti, turbini death/black che si spengono quando escono l’anima dark e le sfumature atmosferiche del gruppo, mentre l’oscurità domina e la luce è ormai lontana.
Bellissima e penetrante Gods Of Dehumanization, devastante la title track: le nove tracce che compongono The Selected Breed alternano metal estremo con parti atmosferiche che smorzano in parte una tensione altissima, ma che a tratti costruiscono muri su cui si infrange la tempesta di note con cui gli In Reverence ci investono senza soluzione di continuità.
Registrato, masterizzato e mixato da Sverker Widgren ai Wing Studios (October Tide, Demonical, IXXI, Diabolical) The Selected Breed si avvale della prestazione al basso di Joakim Antman (Skitarg, Ove25rtorture, The Ugly, Diatonic) in veste di ospite insieme a Joakim Mikiver (One Hour Hell, Tormention) al microfono.
Un album che non porta novità nel panorama estremo, ma sicuramente soddisferà la voglia di morte e distruzione degli amanti del death e del black metal.

TRACKLIST
1. Jahiliah
2. Gods Of Dehumanization
3. Prometheus
4. The Selected Breed
5. The Sixth Bloodletting
6. Anthropogeny
7. Red Waves
8. Gift Of Disintegration
9. Life Rejuvenate

LINE-UP
Filip Danielsson – Vocals
Pedram Khatibi Shahidi – Guitar
Oscar Krumlinde – Drums

IN REVERENCE – Facebook

Liv Sin – Follow Me

Da sparare a tutto volume come rivalsa al vicino dai gusti romantico pop da estate al mare, con Follow Me la Jagrell ci invita a seguirla nel suo mondo metallico, piacevolmente grezzo, senza compromessi, ma assolutamente perfetto per fare male senza pietà

I Sister Sin non esistono più: la band svedese diventata famosa per l’eccentrica singer Liv Jagrell, dopo tredici di onorata carriera e cinque album, tra  cui l’ultimo (Black Lotus) che aveva aperto definitivamente una breccia nella scena metallica, ha dato forfait.

Ma come una perversa e schizzata araba fenice la Jagrell rinasce dalle proprie ceneri , trasformandosi in Liv Sin, di fatto il suo progetto, aiutata da Tommy Winther al basso, da Patrick Ankermark e Christoffer Bertzell alle chitarre e Per Bjelovuk alla batteria.
Il primo lavoro si intitola Follow Me, licenziato dalla Despotz Records, prodotto da Stefan Kaufmann e Fitty Wienhold, suonato a meraviglia, duro come l’acciaio, perverso come la sua diabolica musa e letteralmente folgorante: hard & heavy potente e cristallino, una raccolta di brani da applausi e un paio di duetti che Liv si concede con Schmier dei Destruction (Killing Ourselves To Live) e Jirky 69, vampiro al microfono dei The 69 Eyes (Immortal Sin, cover dei Fight di Rob Halford).
Follow Me non deluderà i fans della Jagrell, tornata a scandalizzare con questa sua creatura che musicalmente non lascia indifferenti, regalando momenti di metal sopra le righe (The Fall, Godless Utopia), thrashy e groovy come i Machine Head più classici, pesanti come i Benedictum di Veronica Freeman era Uncreation, diabolicamente estremi e senza freni come la sua leader.
Da sparare a tutto volume come rivalsa al vicino dai gusti romantico pop da estate al mare, con Follow Me la Jagrell ci invita a seguirla nel suo mondo metallico, piacevolmente grezzo, senza compromessi, ma assolutamente perfetto per fare male senza pietà.

TRACKLIST
1.The Fall
2.Hypocrite
3.Let Me Out
4.Black Souls
5.Godless Utopia
6.Endless Roads
7.Killing Ourselves to Live
8.I’m Your Sin
9.Emperor of Chaos
10.Immortal Sin (Fight cover)
11.The Beast Inside

LINE-UP
Tommie Winther – Bass
Per Bjelovuk – Drums
Patrick Ankermark – Guitars
Christoffer Bertzell
Guitars – Liv Jagrell – Vocals

LIV SIN – Facebook

42 Decibel – Overloaded

I 42 Decibel a differenza di molti loro colleghi usano la carta del blues e fanno bene: la loro proposta si ferma a Let There Be Rock, lasciando ad altri la parte più hard rock e commerciale del sound dei fratelli Young.

Non saranno certo gli argentini 42 Decibel a cambiare le sorti del rock, ma se la nostalgia per quel sound grezzo e potente che gli Ac/Dc amalgamavano con dosi illegali di blues, negli anni in cui dietro al microfono si cimentava Bon Scott, allora il nuovo Overloaded è l’album giusto per tornare a trastullarvi come ai tempi di Whole Lotta Rosie e Let There Be Rock.

Passate direttamente alla quarta traccia (Roadkiller) e ditemi se la più famosa e lasciva The Jack del quintetto australiano non torna prepotentemente ad importunarvi, nelle serate in cui l’alcool esce dai pori della vostra pelle, sudata dal caldo estivo e dalla passione per la chica che dorme serenamente al vostro fianco.
Ma facciamo un passo indietro e presentiamo i 42 Decibel, band di Buenos Aires al terzo album dopo il debutto del 2010 intitolato Hard Rock ‘n’ Roll, ed il seguente Rolling In Town licenziato un paio di anni fa.
Il gruppo di rockers capitanato dal batterista Nicko Cambiasso torna dunque con il suo personale tributo alla più famosa band della storia del rock in arrivo dalla terra dei canguri, un monumento al genere che continua a fare proseliti, pur arrancando in sede live, dopo più di quarant’anni sul groppone.
I 42 Decibel a differenza di molti loro colleghi usano la carta del blues e fanno bene, la loro proposta si ferma a Let There Be Rock, lasciando ad altri la parte più hard rock e commerciale del sound dei fratelli Young, così da sporcare di irriverenza e attitudine alcolica la loro musica proprio come avrebbe fatto il buon Scott.
Ne esce una piacevole rivisitazione del sound settantiano del gruppo australiano, cattivo e maleducato perché nato nei locali fumosi e perversi, tra una bevuta ed un lavoretto nei bagni, tanto per fare arrotondare lo stipendio alla cameriera, mentre la chitarra accompagna il tono rauco e perdente di un Junior Figueroa, impossessato dal demone che una volta abitò nel corpo del più famoso e alcolico cantante.
Dangerous Mess, la già citata Roadkiller, la divertentissima Lost Case e Double Itch Blues spiccano, ma è tutto l’album che non risparmia emozioni e sfumature provenienti dal perdente ma tremendamente affascinate mondo del rock blues alla Ac/Dc, anzi … alla 42 Decibel.

TRACKLIST
1. Whiskey Joint
2. Dangerous Mess
3. Brawler
4. Roadkiller
5. Hot Shot
6. Half Face Dead
7. Lost Case
8. Cause Damage
9. Double Itch Blues
10. Cannon Fodder

LINE-UP
Junior Figueroa – Vocals, Guitar
Nicko Cambiasso- Drums
Billy Bob Riley – Rhythm & Slide Guitar
Matt Fraga – Bass

42 DECIBEL – Facebook

Mahakala – The Second Fall

The Second Fall si presenta come un’opera che senza tanti fronzoli ci investe dal primo minuto, travolgendo con il suo sound che esplode in riff potentissimi, brani influenzati dall’heavy metal classico e lenti rituali doom.

Religione e mitologia, oscure credenza ed altari musicali innalzati al doom metal classico: l’heavy metal continua malgrado le molte influenze ed ispirazioni moderniste ad essere la musica malvagia, epica e declamatoria per eccellenza.

Nella scena metal greca non sono poche le band devote alla musica del destino e gli ateniesi Mahakala sono una delle migliori proposte: il loro heavy doom metal, oltre ad essere pregno di atmosfere sabbathiane, porta in sé una forte componente heavy, così da creare un sound monolitico, epico e a tratti sconvolto da cavalcate devastanti.
Attivo dal 2005, il quartetto porta in dote un ep, un demo, la partecipazione ad un tributo agli Iron Maiden ed il primo full length uscito nel 2013 ed intitolato Devil’s Music.
The Second Fall si presenta come un’opera che, senza tanti fronzoli ci investe dal primo minuto, travolgendo con il suo sound che esplode in riff potentissimi, brani influenzati dall’heavy metal classico e lenti rituali doom, con lente discese nel metal liturgico di Black Sabbath e Candlemass.
Lo zio Ozzy a suo tempo si è impossessato dell’anima di Jim Kotsis, bassista e cantante a tratti dalla tonalità vocale molto vicino al sacerdote sabbathiano, mentre la musica si riempie di malvagia epicità.
Non lontano (anche se il concept è molto diverso) dai Grand Magus, il gruppo è riuscito a creare un album fresco, godibilissimo nella sua potenza, mentre oltre al gran lavoro del singer, non mancano appalusi per le due chitarre (Chris Vlachos e John T.), puro acciaio fuso sull’altare del metal.
Da segnalare Sakis Tolis dei Rotting Christ ospite sulla granitica Wrath Of Lucifer (Infidels) e le bellissime Redemption Denied e Better to Reign in Hell (Than Serve in Heaven), doom metal song tra Candlemass e Trouble e picco qualitativo dell’album.
The Second Fall risulta così un altro gioiellino in arrivo dalla scena metal greca, consigliato agli amanti delle bands citate.

TRACKLIST
1. Army of the Flies
2. Redemption Denied
3. Purgatorium
4. Better to Reign in Hell (Than Serve in Heaven)
5. Darkness in Their Eyes
6. Wrath of Lucifer (Infidels) [feat. Sakis Tolis of Rotting Christ]
7. Unholy Fight
8. Blessed Are the Dead
9. War Against Mankind

LINE-UP
Jim Kotsis – bass, vocals
John Tsiakopoulos – guitars
Mikko Chris Vlachos – guitars
hector.d – drums

MAHAKALA – Facebook

Perpetual Fire – Bleeding Hands

Hard rock, progressive metal, power e tanta raffinata attitudine neoclassica fanno di Bleeding Hands un album perfettamente in grado di ritagliarsi il proprio spazio tra le migliori uscite di questo periodo.

Di questi tempi, se nel power metal cercate qualche spunto più personale rispetto al “palla lunga e pedalare” di molte realtà d’oltreconfine, la scena nostrana regala piccoli gioiellini classici, magari poco considerati dal solito fan noiosamente esterofilo, anche se negli ultimi tempi sembra che il vento piano piano stia cambiando direzione.

Andiamo prima in terra greca, perché è qui che la Sleaszy Rider Records ha la sua base, una label che sta riscuotendo sempre più consensi licenziando album uno più bello dell’altro e molti di questi cercandoli nella nostra penisola.
Torniamo da noi, in quel di Milano per presentarvi i Perpetual Fire, quintetto capitanato da Steve Volta, chitarrista bravissimo e per molti anni al servizio di Pino Scotto, ed il loro terzo album Bleeding Hands, un lavoro italiano al 100% per bravura strumentale ed eleganza nel songwriting, un talento innato per le melodie e quel tocco progressivo diventato marchio di fabbrica della scuola nazionale.
Diciamolo una volta per tutte, ormai Vision Divine, Labyrinth e Secret Sphere sono a capo di una scena che nell’hard & heavy non ha nulla da invidiare a quelle straniere, con i loro emuli a sfornare opere di spessore ed affiancando i maggiori act che fanno faville nei generi che compongono l’universo metallico.
Tutto questo ben di Dio non sarà supportato dai numeri per quanto riguarda il versante live, ma rimane indubbio che in Italia si fa da anni grande musica metal, ed ogni uscita conferma questa tendenza con buona pace dei detrattori.
Hard rock, progressive metal, power e tanta raffinata attitudine neoclassica fanno di Bleeding Hands un album perfettamente in grado di ritagliarsi il proprio spazio tra le migliori uscite di questo periodo: Volta ha fatto tesoro delle sue esperienze e i brani escono vari, travolgenti, mai banali nelle ritmiche o nei solos, con un singer (Roby Beccalli) che adatta la sua voce alle varie atmosfere, passando da tonalità rock a quelle power per sfornare un’aggressività da leone in passaggi che si fanno estremi, con una sezione ritmica da infarto (Mark Zampetti al basso e Cisco Lombardi alle pelli) e le tastiere che ricamano tappeti di metal neoclassico o sanguigni passaggi rock blues (Tush, splendida cover degli ZZ Top).
Volta è fenomenale pur senza dare l’impressione di esagerare e rimanendo saldo nella forma canzone, con solos dinamitardi e vari, così come varie sono le sfumature di questo lavoro che non ha battute d’arresto ma almeno un trittico di brani a fare traino e differenza: Queen Of Honor, Bloody Apple e Crimson Twilight, le più progressive del lotto e vicine al sound dei gruppi citati in precedenza.
Bleeding Hands risulta così un album riuscito ed appagante per ogni fans del genere, giocando le sue carte alla pari con le ultime notevoli uscite in campo power/prog metal, non perdetevelo.

TRACKLIST
01 – Psycho Cancer
02 – Scrambled
03 – Queen Of Honor
04 – Bloody Apple
05 – Tush
06 – Look Beyond The Night
07 – When You’re Dead
08 – Crimson Twilight
09 – Let The Snow
10 – A New World Begins

LINE-UP
Roby Beccalli – Vocals
Steve Volta – Guitars
Mark Zampetti – Bass
Mauro Maffioli – Keyboards
Cisco Lombardi – Drums

PERPETUAL FIRE – Facebook

Time Lurker – Time Lurker

Time Lurker è l’ennesima opera estrema che gli appassionati del genere non possono perdere, un altro gioiellino targato Les Acteurs De L’ombre Productions.

La label transalpina Les Acteurs De L’Ombre Productions ha regalato negli ultimi tempi grande musica estrema, pregna di sonorità oniriche e mistiche, viaggi in menti destabilizzanti o esplorazioni di mondi e spazi paralleli.

Ponendo sempre la massima attenzione alla qualità delle proprie proposte, l’etichetta si è confermata come una delle più attendibili in ambito underground ed un punto di riferimento per gli amanti del black metal, atmosferico o contaminato da sonorità post metal e rock.
I Time Lurker, per esempio sono una one man band di Strasburgo attiva dal 2014 e questo debutto omonimo sulla lunga distanza raccoglie il primo ep I ed il singolo Hethereal Hands in unico cd, con l’aggiunta di quattro brani inediti.
Mick, depositario del concept Time Lurker, ci accompagna in questo viaggio ispirato dai deliri di H.P. Lovecraft e dai viaggi di Jules Verne, e il suo vagabondare per mondi e spazi conferisce alla musica una sorta di epico misticismo astrale, tra inquietanti atmosfere perse in millenni di solitudine e la pazzia dell’uomo in un mondo immobile, un mostro che accoglie tra le sue spire il male nostro: un black metal atmosferico freddo ed inquietante come il perdersi nel nulla cosmico, in compagnia delle sole menti che ormai hanno lasciato i loro corpi putrefatti da centinaia di anni, una disperazione che si tocca, solido pezzo di ghiaccio in un inferno senza fiamme.
Scritta dal polistrumentista transalpino, che si è fatto tutto da solo anche in studio, lasciando a Jack Shirley la sola masterizzazione e aiutato al microfono da ben quattro cantanti (Thibo, Tony, Cedric e Clem), Time Lurker è l’ennesima opera estrema che gli appassionati del genere non possono perdere, un altro gioiellino targato Les Acteurs De L’ombre Productions consigliato ai fans di Altar Of Plagues e Leviathan.

TRACKLIST
1.Rupture
2.Judgment
3.Ethereal Hands
4.Reborn
5.No Way Out From Mankind
6.Passage
7.Whispering from Space

LINE-UP
Mick – All Instruments

TIME LURKER – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Nad Sylvan – The Bride Said No

Valorizzato da un una serie di ospiti d’eccezione, l’album è un tuffo nella musica progressiva più elegante, dove non mancano teatralità, melodie da pomp rock e tanta poesia.

Progressive rock d’autore sulle pagine di MetalEyes con Nad Sylvan, conosciuto nell’ambiente del genere per essere il cantante di Steve Hackett e degli Agents Of Mercy.

The Bride Said No è il secondo lavoro solista per il vocalist, dopo Courting The Widow uscito un paio di anni fa.
Il progressive rock creato da Sylvan nasce tra lo spartito dei gruppi settantiani, (in particolari i Genesis) per toccare lidi new prog, sempre e comunque di derivazione britannica.
Valorizzato da un una serie di ospiti d’eccezione come Roine Stolt, Steve Hackett, Guthrie Govan, Tony Levin, Jonas Reingold, Nick D’Virgilio, Doane Perry e molti altri, l’album è un tuffo nella musica progressiva più elegante, dove non mancano teatralità, melodie da pomp rock e tanta poesia con un Sylvan ispirato e perfettamente calato nei panni di nuovo Peter Gabriel.
Ed infatti, per chi non conoscesse ancora i lavori del cantante, sia solisti che in aiuto allo storico chitarrista dei Genesis, ricordo che Gabriel rimane la sua fonte primaria d’ispirazione.
Dopo l’intro, The Quartermaster irrompe con le tastiere che seguono strade progressive alla Arena/Pendragon, quindi new prog alla massima potenza, mentre When The Music Dies è più smaccatamente pop.
The White Crown è un bellissimo brano classicamente progressive, tra Genesis e E.L .P, uno dei migliori di questo album assieme alla teatrale Crime Of Passion, sottolineata da una prestazione sontuosa del cantante.
A French Kiss An A Italian Cafe, brano altalenante, fa da preludio ai dodici minuti della title track, perfetto esempio del sound in mano al vocalist, perennemente in bilico tra tradizione settantiana e le sonorità della generazione di prog band inglesi degli anni novanta.
In conclusione, un buon ritorno per Nad Sylvan il quale, pur senza far gridare al capolavoro ed aiutato da una manciata di maestri del genere, esce con un album piacevole e ricco di sfumature ed atmosfere indimenticabili per gli amanti del migliore rock progressivo.

TRACKLIST
1 Bridesmaids
2 The Quartermaster
3 When The Music Dies
4 The White Crown
5 What Have You Done
6 Crime Of Passion
7 A French Kiss In An Italian Café
8 The Bride Said No

LINE-UP
Nad – vocals, guitars, piano, keyboards, acoustic guitar, orchestration, programming
Jade Ell – vocals
Sheona Urquhart – vocals, saxophone
Tania Doko – vocals
Steve Hackett – guitar
Roine Stolt – guitar
Guthrie Govan – guitar
Tony Levin – Chapman stick, upright- and electric bass
Jonas Reingold – bass
Nick D ́Virgilio – drums, percussion
Doane Perry – drums
Anders Wollbeck – additional sound design, keyboards, programming, orchestration
Alfons Karabuda – water phone

NAD SYLVAN – Facebook

Agresiva – Decibel Ritual

Speed/thrash metal old school, veloce e potente, dieci brani dai rimandi heavy ed efficacissimi, sparati a velocità della luce, un lavoro ritmico da applausi e chitarre che come micidiali corna che si abbattono sul vostro corpo inerme.

Una bestia enorme ed arrabbiata vi travolge senza darvi un attimo di tregua, fin che le vostre carni non saranno che poltiglia sotto i colpi degli zoccoli e delle corna.

Più o meno quello che vi succederà all’ascolto di questo travolgente gruppo madrileno, al secolo Agresiva, foriero di forti mal di testa causati dall’headbanging sfrenato a cui non potrete sottrarvi all’ascolto del nuovo Decibel Ritual.
Gli Agresiva sono un quartetto attivo da una decina d’anni, la loro discografia è composta da altri due lavori sulla lunga distanza ed un ep; questo nuovo lavoro arriva dopo tre anni dal precedente The Crime Of Our Time e offre speed/thrash metal old school, veloce e potente, dieci brani dai rimandi heavy ed efficacissimi, sparati a velocità della luce, un lavoro ritmico da applausi e chitarre che come micidiali corna che si abbattono sul vostro corpo inerme.
Intro recitata e si parte con Run Like The Wind, heavy thrash song spavalda e assolutamente old school, così come la seguente Rodents In A Wheel, uno tsunami metallico che vi scaraventa a decine di metri di distanza.
Ritmi serrati, voce pulita ed efficace, solos e riff che sanno di heavy metal, mentre lo speed adrenalinico fa macelli, in coppia con il thrash dai rimandi statunitensi in un delirio da cui non si sfugge.
Il gruppo madrileno ha davvero una marcia in più e risulta nel genere un’autentica sorpresa, Decibel Ritual non ha un momento di stanca: Void, We Stand continuano a maciullare come un toro infuriato, senza soluzione di continuità ed assolutamente nel più puro spirito old school.
Album travolgente e band da seguire, specialmente se siete amanti dello speed/thrash vecchia scuola.

TRACKLIST
01. Warning (Intro)
02. Run Like The Wind
03. Rodents In A Wheel
04. Heading For Midnight
05. Cleansing / The Aftermath
06. Void
07. Grateful
08. Under Silver Selene
09. We Stand
10. The Pantomime

LINE-UP
Samuel San Jose – Vocals
Miguel Coello – Guitars
Bastian Guarda Rozas – Drums
Miguel Martín – Bass

AGRESIVA – Facebook

Voodoo Highway – The Ordeal

Il sound di The Ordeal, nella sua classicità, risulta originale, mescolando in un pentolone con tanto di strega ai fornelli Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath con il rock di matrice novantiana.

Sembra cosa facile scrivere di un album hard rock, eppure il finire nei soliti cliché è facilissimo, specialmente se l’opera risulta ottima o quanto meno interessante.

A mggior ragione, poi, se ci si trova al cospetto di lavori di caratura sopra la media come questo nuovo lavoro dei Voodoo Highway (alzi la mano chi ha pensato al capolavoro dei Badlands), intitolato The Ordeal, in uscita tramite Sleaszy Rider (ormai diventata un punto di riferimento riguardevole per l’hard & heavy Europeo) e che dimostra ancora una volta l’ottima salute della scena nostrana e l’elevata qualità e che ha raggiunto in tre album la musica del gruppo ferrarese.
Arrivato dunque al terzo lavoro, dopo i già ottimi Broken Uncle’s Inn del 2011 e Showdown, uscito ormai quattro anni fa , il quintetto ci delizia con otto brani per mezz’ora di immersione nel suono che ha fatto risplendere gli anni settanta, tra citazioni e tributi alle band più note, ma con una personalità debordante ed un tocco moderno che risulta un’overdose di adrenalina per noi mortali ascoltatori di musica del diavolo.
Non credo di dire eresie se affermo che il sound di The Ordeal, nella sua classicità, risulta originale, mescolando in un pentolone con tanto di strega ai fornelli, Led Zeppelin, Deep Purple (lo spirito di Lord sguazza tra i tasti d’avorio senza freni), Black Sabbath  e il rock di matrice novantiana, erede di quello suonato vent’anni prima e spettacolarmente impresso nelle note dell’opener The Deal o della seguente Litha.
Ecco, nominando Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath sono anch’io caduto nel più mero semplicismo, ma è indubbio che la band parta da queste sue tre certezze per poi inventarsi un sound fatto di atmosfere cangianti, mentre il blues c’è ma rimane nascosto da un tappeto di suoni tastieristici purpleiani e ritmiche sabbathiane.
The Rule fa due passi negli anni ottanta, metallica e dura quanto basta, mentre Blue Ride corre sulle strade dell’hard blues, questa volta uscito allo scoperto per rivendicare la sua impronta indelebile sulla musica del gruppo.
Unico difetto dell’album è che la bellezza dei brani, unita alla mezz’ora scarsa di durata complessiva, ci fa arrivare in un attimo alla fine: To Ride The Tide, che chiude questo bellissimo lavoro, dura e calda, delicata e sanguigna ci dà l’arrivederci sui palchi nelle serate di questa estate da vivere in rock’n’roll style.

TRACKLIST
01 – The Deal
02 – Litha
03 – NY Dancer
04 – Quietude
05 – The Rule
06 – Blue Ride
07 – Grace Of The Lord
08 – To Ride The Tide

LINE-UP
Filippo Cavallini – bass
Federico Di Marco – vocals
Vincenzo Zairo – drums
Massimiliano Sabbadini – hammond and keyboards
Filippo Romeo – guitars

VOODOO HIGHWAY – Facebook

Loathe – The Cold Sun

Malato e contagioso il sound di questo gruppo che riesce a nobilitare nella sua terribile vena estrema un genere inflazionato come il metalcore, trasformandolo in una creatura malvagia, sadica e fredda come un sole morto.

La colonna sonora di un apocalisse,  dove il raffreddamento del Sole porta alla salita in superficie dell’inferno e delle sua distruttive fiamme, si chiama The Cold Sun, primo full length dei Loathe, misteriosa creature britannica che fino ad ora aveva licenziato un primo album (Despondent By Design) nel 2010.

Trentacinque minuti di delirio estremo, moderno e progressivo, oscuro e maturo, per un salto nell’atmosfera devastante di una fine del mondo tra sfuriate metalcore violentissime ed attimi di fredda quiete dark.
Ma non solo, nella musica estremamente teatrale del gruppo vivono le anime schiave dell’hardcore e del groove metal, le ritmiche pesantissime che diventano frustate veloci e taglienti, mentre l’elettronica aggiunge atmosfere glaciali al già freddo mood che si respira tra le note di questo originale e quanto mai estremo lavoro.
C’è metalcore e metalcore, quello dei Loathe è pregno di musica disturbante, un groviglio di umori che come serpenti si si avvolgono e si nutrono a vicenda, una musica cannibale, ingorda di suoni e sfumature che si evincono dall’ascolto di brani intensi come It’s Yours, East Of Eden o la tremenda P.U.R.P.L.E.
Malato e contagioso il sound di questo gruppo che riesce a nobilitare nella sua terribile vena estrema un genere inflazionato come il metalcore, trasformandolo in una creatura malvagia, sadica e fredda come un sole morto.
Un ottimo lavoro, non per tutti ma consigliato agli amanti del metal estremo con ampie vedute e non prigionieri di confini tra generi.

TRACKLIST
1. The Cold Sun
2. It’s Yours
3. Dance On My Skin
4. East Of Eden
5. Loathe
6. 3990
7. Stigmata
8. P. U.R.P.L.E
9. The Omission
10. Nothing More
11. Never More
12. Babylon

LINE-UP
Kadeem France – vocals
Erik Bickerstaffe – guitar & vocals
Shayne Smith – bass & vocals
Connor Sweeney – guitar & vocals
Sean Radcliffe – drums

LOATHE – Facebook

Dream Evil – Six

Tornano i Dream Evil e lo fanno con un lavoro che segue la strada dell’heavy power scandinavo, cpn suoni pieni e cristallini, una buona alternanza di ritmiche hard & heavy/power metal ed un amore sconfinato per le band che hanni visto all’opera Ronnie James Dio.

Premessa: un album come Six, sesto full length dei Dream Evil, può piacere o meno, non porterà nessuna novità nel mondo del metal classico, ma è indubbio il suo valore come album di genere, anche perchè valorizzato da suoni eccellenti.

Detto questo, presentiamo questo lavoro per il gruppo del famoso produttore Fredrick Nordstrom, qui in veste di chitarrista, ed accompagnato da quattro musicisti tecnicamente inattaccabili ed in forma smagliante.
La band svedese ha avuto il suo momento di gloria specialmente con l’arrivo del nuovo millennio e l’ entrata sul mercato con i primi due lavori (Dragonslayer ed Evilized): una popolarità che cresce e si stabilizza con The Book Of Heavy Metal, l’album più famoso, uscito nel 2004.
Il ritorno avviene con un lavoro che segue la strada dell’heavy power scandinavo, con suoni pieni e cristallini, una buona alternanza di ritmiche hard & heavy /power metal ed un amore sconfinato per le band nelle quali Ronnie James Dio ha militato nella sua leggendaria carrera (Rainbow, Black Sabbath, passando per i suoi Dio), il tutto chiaramente reso appetibile ed esaltante da suoni che esplodono letteralmente dalle casse, da chorus epico melodici, e chitarre che passano dalla pesantezza cimiteriale di Tony Iommi, ai solos melodici suonati cavalcando l’arcobaleno di Ritchie Blackmore.
Fine della storia, di lavori del genere ne avrete sentiti tanti e ne sentirete ancora (fortunatamente), rimane solo da farvi partecipi di un lotto di brani bellissimi che si mantengono su una qualità mediamente alta, con Dream Evil (il brano), Sin City e le fenomenali Hellride e Too Loud a fare di Six un album imperdibile per chiunque ami il metal di stampo classico, suonato di questi tempi anche da Astral Doors e Jorn che, con i Dream Evil, sono gli esempi più convincenti.

TRACKLIST
1. Dream Evil
2. Antidote
3. Sin City
4. Creature Of The Night
5. Hellride
6. Six Hundred And 66
7. How To Start A War
8. The Murdered Mind
9. Too Loud
10. 44 Riders
11. Broken Wings
12. We Are Forever

LINE-UP
Niklas Isfeldt – Lead vocals
Fredrik Nordström – Lead rhythm guitars
Mark U Black – Lead lead guitars
Peter Stålfors – Lead bass
Patrik Jerksten – Lead drums

DREAM EVIL – Facebook

Pigeon Lake – Barriers Fall

Barriers Fall è un gioiellino di genere, lontano dalla rabbia sincopata e molte volte adolescenziale del metalcore da classifica, e vicino alle anime travagliate che si aggirano nella la scena musicale moderna.

Rock alternativo, progressivo e melanconicamente dark, attraversato da umori metallici moderni che squarciano lo spartito, mentre l’oscurità lascia il posto a una rabbiosa disperazione.

Il quartetto norvegese chiamato Pigeon Lake torna dopo tre anni dal primo full length, Tales Of a Madman, con questa raccolta di brani, sofferti e maturi, intimisti ed atmosfericamente depressivi che formano Barriers Fall, album elegante ed intenso.
Il gruppo ha nella voce del singer Christopher Schackt il suo punto di forza, dal tono non comune e molto interpretativo, che dona ai brani un’intensità ed uno spessore che si tocca con mano, mentre il sound si rivolge agli alternative rockers amanti delle sfumature dark, progressivamente moderne.
Barriers Fall mantiene un atmosfera intrisa di depressiva malinconia, mentre la musica alterna parti grintose vicine al metal moderno a liquide atmosfere dark, passando agevolmente da un’interminabile tonalità di colori che si mantengono sul grigio per arrivare al buio totale del nero.
Un gruppo maturo che delle proprie ispirazioni si nutre, mantenendo un approccio personale ad un genere che ormai non è più una novità, ma che come in questo caso sa regalare ottima musica alternativa.
Un album da ascoltare con la dovuta calma, dandogli la possibilità di farci partecipi dei suoi umori, mentre le splendide linee vocali dell’opener Ragnarock e di Lyra ci introducono nel mondo dei Pigeon Lake e la rabbiosa parte metallica fa capolino tra le note di A Familiar Problem e Perfect Place. le tracce più estreme di questo intenso lavoro.
Consigliato agli amanti del rock/metal alternativo dalle tinte dark, Barriers Fall è un gioiellino di genere, lontano dalla rabbia sincopata e molte volte adolescenziale del metalcore da classifica, e vicino alle anime travagliate che si aggirano nella la scena musicale moderna.

TRACKLIST
1.Ragnarok
2.Lyra
3.Barriers fall
4.The Futility of You
5.Hide and Seek
6.Sunder
7.A Familiar Problem
8.Perfect Place
9.Let’s Pretend

LINE-UP
Christopher Schackt – Vocals/Guitar
Magnus Engemoen – Lead Guitar
Haakon Bechholm – Bass Guitar
Jonas Rønningen – Drums

http://www.facebook.com/PigeonLakeMusic

Iced Earth – Incorruptible

Gli Iced Earth sono tornati con uno dei lavori più intensi e riusciti degli ultimi anni, un album imperdibile per chi ama il power/thrash americano.

I continui saliscendi tra le preferenze dei fans (anche per colpa di album non completamente riusciti), i cambi di line up, specialmente dietro al microfono e i problemi di salute del leader indiscusso Jon Schaffer (operato ultimamente e per la seconda volta al collo), avrebbero disintegrato la stabilità artistica di qualsiasi band, non degli incorruttibili (come suggerisce il titolo) Iced Earth, autentico patrimonio metallico per chi li ha seguiti fin dagli esordi.

Burnt Offerings, The Dark Saga, Something Wicked This Way Comes rimane un trittico di lavori che sono e rimarranno nella storia del metal classico mondiale, uno dei picchi qualitativi più alti del power/thrash americano, nel loro essere devastanti, melodici ed oscuri come vuole la tradizione a stelle e strisce, almeno quando si parla di heavy metal.
Jon Schaffer si è guadagnato in veste di songwriter, prima ancora che in quella di chitarrista, un posto tra i grandi interpreti della nostra musica preferita, anche se in tanti anni di onorata ed “incorruttibile” carriera non sono mancate le battute d’arresto, specialmente negli ultimi anni.
Destino ha voluto che da Dystopia, album del 2011, dietro al microfono si sia posizionato Stu Block, ex singer dei notevoli Into Eternity, unico ed autorevole erede di quel Matt Barlow che fece risplendere con la sua drammatica, teatrale e personalissima voce gli album storici del gruppo americano, richiamato più volte nel regno della terra ghiacciata ma non più convincente e convinto come in passato.
Incorruptible può iniziare ad essere descritto da questa verità, Block è posseduto dal demone che tanti anni fa fece fuoco e fiamme dentro al corpo di Barlow e l’opera, oscura, spettacolare, drammatica e devastante se ne giova non poco.
Jon Schaffer ne ha passate di tutti i colori, nel frattempo ha quasi finito di costruire il suo studio personale dove è stato registrato l’album e la sua musica ne ha risentito, questa volta positivamente: non siamo ai livelli dei capolavori che incendiarono gli anni novanta, ma è indubbio che la band sia tornata a suonare grande power/thrash.
E allora fatevi travolgere dalle atmosfere dannatamente oscure e teatrali di questo ancora una volta emozionante lavoro: il marchio di fabbrica stampato in evidenza su queste nuove dieci composizioni è Iced Earth in tutto e per tutto, trattandosi di una delle poche band che al giorno d’oggi possano vantarsi d’aver creato e portato avanti negli anni uno stile inconfondibile, rimanendo sempre legati ad una ifedeltà metallica che ha del commovente.
Basta menzionare la splendida The Relic (part 1), con un Block su livelli emozionali che toccano le vette del suo storico predecessore, o lo strumentale Ghost Dance (Awaken The Ancestors) e l’immancabile ed epico brano dedicato ad un fatto storico, questa volta riguardante l’Irish Brigade e la battaglia di Fredericksburg con la clamorosa Clear The Way (December 13th, 1862).
Non mi dilungherò oltre, se non per ribadire che gli Iced Earth sono tornati con uno dei loro lavori più intensi e riusciti degli ultimi anni, imperdibile per chi ama il power/thrash americano.

TRACKLIST
1. Great Heathen Army
2. Black Flag
3. Raven Wing
4. The Veil
5. Seven Headed Whore
6. The Relic (Part 1)
7. Ghost Dance (Awaken The Ancestors)
8. Brothers
9. Defiance
10. Clear The Way (December 13th, 1862)

LINE-UP
Jon Schaffer – Rhythm, lead and acoustic guitars, Keyboards/MIDI, Vocals
Stu Block – Lead Vocals
Brent Smedley – Drums
Luke Appleton – Bass Guitar, Vocals
Jake Dreyer – Lead Guitar

ICED EARTH – Facebook

Biogenesis – A Decadence Divine

Progressive, sinfonie gotiche, power metal e death/thrash contribuiscono a rendere quest’opera la colonna sonora del diluvio universale, una punizione divina che si scatenerà quanto prima dalle note di questo splendido lavoro.

Dall’underground metallico statunitense arrivano ottimi lavori, magari fuori dai soliti cliché del metal made in U.S.A. più cool, ma sicuramente opere di spessore che MetalEyes puntualmente vi porta a conoscenza.

La label Roxx Records, specializzata in christian metal, licenzia il quarto lavoro dei Biogenesis, gruppo proveniente dall’Ohio, attivo da ormai vent’anni ed in cui milita il singer Chaz Bond, ex Jacobs Dream, power metal band fuori con una manciata di ottimi lavori nel primo decennio del nuovo millennio.
A Decadence Divine è un ottimo album che ingloba una serie di atmosfere e sfumature diverse tra loro, vari generi che, amalgamandosi, trovano un equilibrio quasi perfetto e creano questo oscuro e tragico monolite di metallo, progressivo ed orchestrale.
Il singer tra clean e growl dà prova di saperci fare, così come i musicisti che lo accompagnano in questa che, di fatto, è un’ avventura nel mondo del metal tra classico ed estremo.
La title track, l’oscura Inside The Beast, la veloce e Thrashy As Empire Falls, formano un inizio scoppiettante, con i tasti d’avorio che cuciono arabeschi di musica classica, le sei corde che imprimono un marchio di fabbrica progressive/thrash, con la sezione ritmica che sale in cattedra quando la velocità diventa sostenuta.
Molto teatrale, tanto che in alcuni momenti il sound ricorda la splendida musica dei Saviour Machine (Lines In The Sand), l’album risulta un monolito di spettacolare metallo oscuro e progressivo, colonna sonora di una decadenza che, fin dal titolo, il gruppo descrive divina, frutto di forze e volontà più grandi dell’uomo.
La sinfonica Tears Of God e la conclusiva Brood Of Vipers sono un paio di esempi di questo clamoroso lavoro che diventa sempre più intenso ogni minuto che passa, mentre Iced Earth, Symphony X e i tedeschi Crematory divengono più che semplici ispirazioni.
Progressive, sinfonie gotiche, power metal e death/thrash contribuiscono a rendere quest’opera la colonna sonora del diluvio universale, una punizione divina che si scatenerà quanto prima dalle note di questo splendido lavoro.

TRACKLIST
1. Prelude (Nocturnal Images)
2. A Decadence Divine
3. Inside the Beast
4. Bet Your Soul
5. As Empires Fall
6. Lines in the Sand
7. The Pain You Left Behind
8. Tears of God
9. Land of Confusion
10. In the Darkness I Dwell
11. Brood of Vipers
12. Silence (CD Only Bonus Track)

LINE-UP
Sam Nealeigh – Keyboards
Majennica Nealeigh – Drums
Dan Nealeigh -Bass
Luke Nealeigh – Lead/Rhytym Guitars
James Riggs – Lead/Rhythym Guitars
Chaz Bond – Lead Vocals

BIOGENESIS – Facebook