Aura Hiemis – Silentium Manium

Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva.

V. è un musicista cileno che ha fatto parte anche degli ormai disciolti Mar De Grises, forse la maggiore band di sempre partorita in ambito doom dal paese sudamericano.

Aura Hiemis è il monicker del suo personale progetto che giunge, con Silentium Manium, al quarto full
length: il genere assume sovente, qui, una forma più eterea ma nel contempo guitar oriented e ciò spinge l’album ad avere un’ampia porzione puramente strumentale.
L’approccio alla materia di V. e senz’altro più emotivo che tecnico, per cui il predominio dello strumento a sei corde è foriero di malinconici arpeggi acustici, così come di brani constraddistinti da dolenti linee melodiche di matrice solista.
Detto ciò, sono comunque i brani cantati ad assumere un ruolo chiave nell’economia dell’album in quanto sicuramente più efficaci ed più impattanti a livello emotivo: forse quello che manca un po’ è una certa continuità in tal senso, perché è indubbio che i brani strumentali, pur avendo una loro funzione all’interno dello sviluppo del lavoro, talvolta paiono spezzare la tensione che riescono a creare due gioielli come Sub Luce Maligna e soprattutto Danse Macabre, brano funeral di grande spessore
Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva e, soprattutto, intento a seguire una propria strada che porta a quelle rovine immortalate in copertina, volte a simboleggiare l’impossibilità di ricostruire ciò che il tempo e l’abbandono hanno definitivamente sgretolato.
Da notare anche la presenza di quella che dovrebbe essere una ghost track, visto che nel libretto i brani dichiarati sono dieci, mentre dopo un prolungato silenzio parte un undicesima traccia, altro brano notevole nel quale V., mette in mostra un growl di notevole profondità oltre ad una naturale propensione alla creazione di linee chitarristiche davvero evocative.
Silentium Manium è senz’altro un gran bel disco, anche se un death doom melodico ed ispirato come quello offerto per lunghi tratti dagli Aura Hiemis verrebbe ulteriormente valorizzato se sviluppato su pochi brani di consistente durata piuttosto che distribuito su una decina di tracce, cinque delle quali, quelle intitolate Maeror Demens, sono frammenti strumentali pregevoli ma che, come detto, finiscono per spezzettare eccessivamente l’incedere del lavoro.
L’album resta comunque vivamente consigliato a chi ama il genere, a patto di approcciarlo con la giusta pazienza visto che, proprio per le suddette caratteristiche, l’assimilazione viene completata solo dopo diversi passaggi nel lettore.

Tracklist:
1. Maeror Demens I
2. Cadaver Fessum
3. Maeror Demens II
4. Sub Luce Maligna
5. Maeror Demens III
6. Between Silence Seas
7. Frozen Memories
8. Maeror Demens IV
9. Danse Macabre
10. Maeror Demens V

Line-up:
V. – Vocals, Guitars, Programming
Lord Mashit – Drums, Bass

AURA HIEMIS – Facebook

Halphas – Dawn of a Crimson Empire

Dawn of a Crimson Empire è un ottimo ascolto per chi vuol farsi un pieno di rabbia iconoclasta veicolata da una forma di black metal offerta in maniera impeccabile.

Arriva dalla Germania questo nuovo gruppo dedito albBlack metal, formato da musicisti già attivi con diverse band della rinomata scena tedesca.

Gli Halphas interpretano il genere seguendo maggiormente le linee guida scandinave, inserendovi una efficace componente epico melodica ma conservando, come da trademark nazionale, l’aura solenne delle composizioni.
Il risultato è prevedibilmente positivo, visto che difficilmente ciò che proviene da quelle austere lande delude quando la materia trattata è il black metal.
Una serie di mid tempo avvolgenti, atmosferici e denotati da un’intensità magari non spasmodica ma costante introducono nel migliore dei modi nell’oscuro mondo degli Halphas, i quali anche liricamente non si discostano dalle tematiche standard del genere, anche se lo fanno mantenendosi su un piano più introspettivo e tenendosi alla larga da facili blasfemie assortite.
Pregio e, forse per alcuni, difetto maggiore dell’album è una sua certa uniformità, che per fortuna include l’aspetto qualitativo, per cui tra le sette tracce che seguono l’intro di matrice ambient riesce difficile estrarre un brano guida così come uno più debole, anche se Through the Forest appare tra tutti quello in possesso delle linee melodiche più accattivanti.
Dawn of a Crimson Empire è un ottimo ascolto per chi vuol farsi un pieno di rabbia iconoclasta veicolata da una forma di black metal offerta in maniera impeccabile.

Tracklist:
1. Summoning
2. Call From the Depths
3. Through the Forest
4. Sword of the Necromancer
5. FMD
6. Malice
7. Damnation of the Weak
8. Empire

Line-up:
Forcas – Bass
Tempestas – Drums
Thurstan – Guitars
Legatus – Vocals
Avnas – Guitars

HALPHAS – Facebook

COILGUNS

Il video di Millennials, dall’album omonimo in uscita a marzo (Hummus Records).

Il video di Millennials, dall’album omonimo in uscita a marzo (Hummus Records).

Infernotion – Habits

Habits possiede tutti i crismi per cercare di farsi largo nel mare magnum delle uscite di qualità in campo estremo, grazie anche ad un concept lirico tutt’altro che banale.

Habits è il secondo full length per la one man band tedesca Infernotion.

Il musicista che sta dietro al progetto è uno di quelli che si diverte a cambiare nome a seconda dell’ambito nel quale suona, per cui qui lo conosciamo come Peisestratos: ma al di là del dato anagrafico, di questo album intitolato va segnalata un’adesione più marcata ai modelli scandinavi rispetto a quanto normalmente avvenga in terra germanica.
Ciò non è un male, perché se viene meno un po’ di originalità come contraltare troviamo un’interpretazione all’altezza della situazione, con il berlinese che decide di andare a combattere sul terreno dei Satyricon e relativa genia senza sfigurare affatto.
Il black targato Infernotion si avvale di momenti di ampio respiro che trovano la loro sublimazione in una traccia davvero notevole come Viscious Wishes, ideale cartina di tornasole del buon talento compositivo del nostro, il quale regala un album convincente al 100% e che non fa gridare al miracolo solo perché l’adesione ai propri modelli è in effetti piuttosto fedele, ed è questo l’unico punto sul quale il musicista tedesco è chiamato a lavorare per progredire ulteriormente.
Già così, comunque, Habits possiede tutti i crismi per cercare di farsi largo nel mare magnum delle uscite di qualità in campo estremo, grazie anche ad un concept lirico tutt’altro che banale ed incentrato sull’amara constatazione che il male è annidato dentro ciascuno di noi, con la rovina dell’umanità quale ineluttabile conseguenza. Triste ma vero …

Tracklist:
1. Revelation
2. Center of the World
3. Waiting for Nemesis
4. Viscious Wishes
5. Master of Hypocrites
6. Uniform Will
7. Defective Instinct
8. Profit for the Prophet
9. Evil Incarnate

Line-up:
Peisestratos – Guitars/Vocals
Sven – Session Bassist

INFERNOTION – Facebook

Azziard – Metempsychose

Di Metempsychose colpisce la potenza che viene sprigionata da ogni singola nota , con i rari rallentamenti vicini al doom che hanno la funzione di una breve sosta, utile per riprendere il fiato prima che che la macchina si rimetta in moto con tutto il suo carico di malevola oppressione.

Terzo full length per i francesi Azziard, band alle prese da una quindicina d’anni con un’interessante interpretazione della materia black/death.

Metempsychose è cantato interamente in lingua madre ed è incentrato a livello di tematiche sull’opera del noto psicologo svizzero Carl Jung; vista la materia trattata la musica procede di conseguenza, con l’esibizione di sonorità opprimenti, claustrofobiche ma anche denotate da una produzione efficace, capace di restituire al meglio tale turbinio di sensazioni senza farlo apparire un coacervo di rumori ovattati.
Questo, a mio avviso, aumenta non poco il valore di un album la cui componente death fa approdare a più di un passaggio contraddistinto da riff piuttosto geometrici, ai quali fanno da contraltare ritmiche tipicamente black con il drumming di Anderswo decisamente in evidenza.
Musicalmente gli Azziard non sono sperimentali come gran parte delle band provenienti dalla Francia, ma non per questo il loro black metal si può considerare di semplice assimilazione: le dissonanze non mancano e comunque non viene mai meno in ciascun brano un’aura inquieta e drammatica; anche l’interpretazione vocale del fondatore della band A.S.A. è davvero molto efficace, trovando un’espressiva via di mezzo tra growl e screaming, senza dimenticare in tal senso anche l’apporto degli ospiti Julien Truchan (Benighted) e Psycho (Antilife).
Il quadro complessivo delinea senza ombra di dubbio un album dal notevole impatto e che, sicuramente, è in grado di spingersi fino alle orecchie di chi apprezza il metal estremo, pesante e pensante, al di là delle barriere di genere: Metempsychose è alla fine una gragnuola di colpi che si abbatte sull’ascoltatore senza particolare misericordia, disturbando il giusto il suo già inquieto sonno.
Così, se L’Enfer sembra da subito uno dei brani più impattanti ascoltati quest’anno, Ascension e Unus Mundus ne raggiungono puntualmente la forza dirompente e allo stesso tempo evocativa, rappresentando i picchi di un lavoro di qualità spaventosa, come lo sono la convinzione e la competenza con le quali viene gestito l’approccio al genere.
Se gli Azziard non possono essere considerati degli innovatori, nessuno può togliere loro la patente di interpreti di livello assoluto di un black/death che non ha proprio nulla da invidiare a nomi più celebrati come lo possono essere i per esempio i Behemoth: di Metempsychose colpisce la potenza che viene sprigionata da ogni singola nota , con i rari rallentamenti vicini al doom che hanno la funzione di una breve sosta, utile per riprendere il fiato prima che che la macchina si rimetta in moto con tutto il suo carico di malevola oppressione.
Un gran bel disco, per una band che pare aver trovato la sua definitiva e matura forma espressiva.

Tracklist:
1. Premier Jour
2. L’Enfer
3. L’Anachorète, Dies
4. Ascension
5. Le Meurtre du Héros
6. Second Jour
7. Archétype
8. Unus Mundus
9. Psyché
10. Le Sacrifice

Line-up:
A.S.A. : Vocals
Nesh : Guitars
Anderswo : Drums
Gorgeist : Guitars
Sarnath : Bass

AZZIARD – Facebook

Hoofmark – Stoic Winds

Per le sue caratteristiche è comprensibile che l’album proceda un po’ a strappi, ma nel complesso questo approccio non dispiace affatto per coraggio e creatività.

Il primo full length degli Hoofmark è di fatto la riedizione a cura della Ultraje, etichetta fondata dall’omonima rivista portoghese, del demo uscito nel 2016.

Se ci si chiede se tale operazione, invero molto frequente, abbia una sua valenza la risposta è affermativa, perché l’interpretazione del black metal offerta dal musicista lusitano Nuno Ramos, detentore delle chiavi del progetto, è quanto mai ricca di spunti interessanti.
Di sicuro Stoic Winds non è un album monotematico: infatti possiamo rinvenire il genere rivisto nelle sue diverse forme, tutte in maniera piuttosto convincente sia quando i ritmi si fanno più incalzanti finendo su territori crust punk hardcore, sia quando i rallentamenti spostano la barra verso il doom.
Il colpo di scena arriva però con Dust Trails, quando Nuno assume improvvisamente le sembianze di un Johnny Cash sui generis, piazzando un brano country che magari potrà apparire fuori contesto ma possiede un suo malsano fascino.
In effetti il nostro mostra un’irrequietezza compositiva della quale gli va dato atto e, se il tutto rende il lavoro chiaramente disomogeneo, ha sicuramente il grande pregio di una certa imprevedibilità.
Del resto subito dopo arriva la versione denominata Dust Trails Blazing, che riconduce il tutto su un mid tempo classico mantenendo però un’interpretazione vocale sempre piuttosto anomala per il black metal.
Con tali caratteristiche è comprensibile che l’album proceda un po’ a strappi, ma nel complesso questo approccio non dispiace affatto per coraggio e creatività, anche se l’inedito connubio tra metal estremo e country lascerà perplesso più d’uno.
Così, dopo il black’n’roll notevole di Horror Maximus, Nuno chiude le ostilità con Hoofmarks, una sorta di di manifesto del suo procedere con passo sghembo lungo un sentiero tortuoso ma foriero di scenari cangianti; senza voler spingermi a trovare significati che magari non corrispondono al vero, questo lavoro targato Hoofmark è quanto mai strano, lo-fi per indole ancor più che per resa sonora, e nonostante questo (o forse proprio per questo …) mi sono sorpreso ad apprezzarlo non poco.

Tracklist:
1. Yours Should be a Heavy Casket
2. Amongst a Sea of Darkness
3. Stoic Winds
4. Dust Trails
5. Dust Trails Blazing
6. An Arrow Long Due
7. From the Foot of God’s Throne
8. Horror Maximus
9. Hoofmarks

Line-up:
Nuno Ramos

HOOFMARK – Facebook

RUXT

Il video del brano “Heaven or Hell”, traccia di chiusura del nuovo album “Running out of Time” uscito di recente per Diamonds Prod.

Il video del brano “Heaven or Hell”, traccia di chiusura del nuovo album “Running out of Time” uscito di recente per Diamonds Prod.

Esce il video del brano “Heaven or Hell”, traccia di chiusura del nuovo album “Running out of Time” uscito di recente per Diamonds Prod. Video nato da un’idea del vocalist della band Matt Bernardi, sotto la regia di Federico Di Pane, e soprattutto grazie alla partecipazione della campionessa mondiale di pattinaggio Silvia Lambruschi. Un brano un po’ diverso dal solito stile RUXT ma spero possiate apprezzarne il significato.

Watain – Trident Wolf Eclipse

La storia parla già per i Watain, che regalano un altro monolite musicale a tutti gli amanti del black.

Il sentiero dei Watain non è mai caritatevole, ma sempre caratterizzato da una forza ed un’energia unica.

Il 2018 si apre così, con Trident Wolf Eclipse, per una band che ha già un suo posto di diritto nella storia del genere nero per definizione, il black metal.
La copertina dell’album, come spesso è consuetudine per la band svedese, si presenta con un (non)colore che più che bianco e nero è nichilisticamente e fieramente grigio. Ed è proprio questo clima di dissacrazione che ritroviamo trasportato in musica per tutto l’album.
Esattamente come un branco di lupi, i Watain mostrano ad ogni nota di essere famelici fino all’estremo. A fare da capobranco, ovviamente, la voce di Erik Danielsson, che sembra nato esattamente per occupare quel ruolo. L’ascoltatore amante della forza distruttiva del black, nonché dei Watain stessi, non potrà che essere felice di isolarsi dal mondo esterno e chiudersi in un tunnel di eccesso sonoro come quello di Trident Wolf Eclipse.
Il brano d’apertura, Nuclear Alchemy, avvisa dal primo secondo chi ascolta su quella che sarà la linea forsennata di tutto il disco. Non c’è da sorprendersi, infatti, che in ben 41 minuti non ci sia un solo secondo di stasi o di angelica riflessione, e nemmeno per qualche intermezzo più melodico. Non è nello stile dei Watain.
In questo nuovo album, la band svedese ha fatto esattamente ciò che sa fare meglio e che ha sempre fatto: eliminare e distruggere con l’odio in corpo fino allo sfinimento. Sicuramente ogni fan sarà entusiasta del fatto che, in 20 anni di carriera, l’attitudine di una band che è un punto di riferimento del genere sia rimasta la stessa.

Tracklist
1. Nuclear Alchemy
2. Sacred Damnation
3. Teufelsreich
4. Furor Diabolicus
5. A Throne Below
6. Ultra (Pandemoniac)
7. Towards the Sanctuary
8. The Fire of Power

Line-up
Erik Danielsson – voice/ bass
P. Forsberg – guitar
H. Jonsson – drums

WATAIN – Facebook

DRIVE BY WIRE

Il video di “Where Have You Been”, dall’album “Spellbound”, in uscita a febbraio (Argonauta Records).

Il video di “Where Have You Been”, dall’album “Spellbound”, in uscita a febbraio (Argonauta Records).

Man Daitõrgul – Gulkenha

L’auspicio è che Nagh Ħvaëre prosegua il suo cammino cercando di rimediare ai punti deboli evidenziatisi all’ascolto di questo full length, anche perché in quanto espresso dal progetto Man Daitõrgul ci sono diversi aspetti positivi sui quali porre le basi per ripartire.

Non è mia abitudine esprimermi in maniera poco lusinghiera su un disco sottoposto alla mia attenzione: è vero che spesso ciò non si rivela necessario, ma il motivo è che si preferisce dalle nostre parti lasciare spazio alle opere più meritevoli evitando di dedicare tempo e spazio a quello che talvolta viene visto come una sorta di accanimento nei confronti di musicisti che, a prescindere, meritano sempre e comunque il massimo rispetto come persone e come artisti.

Quando è però il musicista stesso a richiedere una recensione, bypassando quella che è la canonica trafila della mail o del comunicato proveniente da label o agenzie di promozione, è una dovere morale quello di acconsentire anche se, non necessariamente, quanto ne verrà fuori avrà connotazioni positive, con la certezza che sia sempre preferibile per chiunque ottenere un riscontro negativo, ma articolato, piuttosto che essere ignorati.
Di questo primo full length della one man band spagnola Man Daitõrgul bisogna innanzitutto dire che siamo di fronte ad un lavoro ricco di buone idee, che vanno dal songwriting al concept stesso, con tanto di lingua immaginaria (il baaldro) creata dalla fervida fantasia di Nagh Ħvaëre, purtroppo non assecondate a dovere a livello di realizzazione a causa di oggettivi e talvolta macroscopici difetti.
Il contenuto di Gulkenha è un black metal dai connotati pagan-epic che funzionerebbe discretamente se non fosse penalizzato da suoni rivedibili e decisamente scolastici per quanto riguarda la chitarra (molto meglio il lavoro tastieristico, per quanto piuttosto lineare) e da un’interpretazione vocale piatta, con un growl recitativo in stile Bal-Sagoth poco espressivo e troppo in primo piano rispetto al sottofondo musicale; purtroppo le cose non vanno meglio quando si tenta un approccio corale con voci pulite, perché per esempio le stonature in Kħazesis Gleivarka e Gulke Nagh non possono essere ignorate, pur con tutta la benevolenza possibile.
Così, alla fine, restano da salvare alcuni interessanti spunti strumentali come l’incipit della stessa Gulke Nagh, che riesce a restituire un po’ di quell’evocatività che dovrebbe essere il tratto distintivo dell’album, almeno prima che siano nuovamente le voci a riprendere il proscenio, e il ritmato incedere di Neħvreskйgaidaŋ, che essendo la traccia di chiusura lascia se non altro un ricordo piacevole del lavoro.
Spiace doverlo dire, ma Gulkenha ha poche speranze di ritagliarsi un minimo di spazio all’interno di una scena musicale cosi vasta e il più delle volte qualificata: un peccato, perché l’idea di partenza è sicuramente valida ma tale scintilla finisce per spegnersi in una trasposizione musicale che si rivela deficitaria.
L’auspicio è che Nagh Ħvaëre prosegua il suo cammino cercando di rimediare ai punti deboli evidenziatisi all’ascolto di questo full length, anche perché, ribadisco, in quanto espresso dal progetto Man Daitõrgul ci sono diversi aspetti positivi sui quali porre le basi per ripartire.

Tracklist:
1. Ħaram am Drokelйa
2. Kħazesis Gleivarka
3. Man Daitõrgul / Slăm Iƥe Kaldrath
4. Bo Sevakaëra na Drokeŋ
5. Togul Daitõren
6. Evaƥ og Ovre Voħrænŋ
7. Gulke Nagh
8. Neħvreskйgaidaŋ

Line-up:
Nagh Ħvaëre – All instruments, Vocals

MAN DAITORGUL – Facebook

GLASYA

Il video del singolo Heaven’s Demise.

GLASYA is a symphonic metal band fostered by the integration of several experienced musicians from the Portuguese metal scene, by the founder guitarist Hugo Esteves, the voice of Eduarda Soeiro (also in Nightdream – Portuguese official tribute to Nightwish), the keys of Portuguese-Dutchman Davon Van Dave (ex-Urban Tales, ex-Shadowsphere, ex-Heavenly Bride), solo guitarist Bruno Prates (ex-Enchantya, Paradigm State), Manuel Pinto bass (ex-Enchantya, Paradigm State) and Bruno Ramos drums (ex-My Deception).
At the end of December 2017, was published on their official Facebook and Youtube the teaser of the band’s presentation and are in full countdown for the release of the Single “Heaven’s Demise” and its Videoclip on January 10, 2018.
The theme is the first single from the upcoming EP to be released in the first half of 2018. It is characterized by its powerful orchestra and contagious rhythm, enhanced by the magnificent voice of Eduarda Soeiro. In the remaining themes of the EP you will be able to find strong melodies orchestrated by a wide cultural diversity, always embraced by the strength of the guitars, a cohesive rhythm section and the imposing voice of Eduarda Soeiro.

Facebook – https://www.facebook.com/GlasyaOfficial/
Youtube – https://www.youtube.com/channel/UCRdYZ1M0rdT6jI6GhYsdXrw

Steve Hackett – Wuthering Nights: Live in Birmingham

Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett non c’è molto da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.

Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett ci dovrebbe essere francamente poco da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.

Per cui non resta che descrivere quello che, più o meno, è contenuto in questo Wuthering Nights: Live in Birmingham, lavoro che esce anche nel formato Dvd/Blue Ray oltre a quello in doppio cd: a grandi linee ci troviamo di fronte alla scaletta che Steve, con la sua band, ha portato in tour anche dalle nostre parti la scorsa estate, rispettando la stessa ideale suddivisione in due parti, con la prima dedicata ai brani della produzione solista e l’altra a quelli storici dei Genesis.
Rispetto al concerto che ho visto in quel di Vigevano a luglio, ho potuto almeno godermi la prima parte riuscendo ad ascoltare i brani senza dovermi preoccupare di difendermi dai nugoli di zanzare che avevano reso i miei connotati simili a quelli di The Elephant Man (e credo che anche lo stesso Hackett se lo ricordi, visto che a tratti lo si vedeva gesticolare sul palco manco fosse stato il Pete Townsend dei bei tempi …).
In questa prima sessione va rimarcata la riproposizione del brano capolavoro della produzione solista del chitarrista inglese, Shadow Of The Hyerophant, qui con l’apporto sul palco della voce femminile di Amanda Lehmann, oltre a diverse altre ottime canzoni (su tutte Every Day, da Spectral Mornings) e con la chiusura affidata a Eleventh Earl Of Mar, prima delle tracce tratte da Wind And Wuthering, l’album dei Genesis omaggiato nell’occasione per il suo quarantennale.
Il secondo cd è del tutto appannaggio della produzione dello storico gruppo, con la giusta attenzione al lavoro celebrato all’uopo, un disco la cui complessiva sottovalutazione da parte degli stessi fan dei Genesis è dovuta all’inevitabile paragone con quei 5-6 capolavori usciti precedentemente piuttosto che al suo oggettivo valore; e, in effetti il motivo di curiosità è appunto la riproposizione di brani che di solito non trovano molto spazio nelle scalette dei concerti, come Blood On The Rooftops, In That Quiet Earth e One For The Vine, più quella Inside And Out che finì fuori da Wind And Wuthering per essere relegata all’Ep Spot The Pigeon, mentre non è certo una novità l’evergreen Afterglow, che va a fare compagnia alle immortali Firth Of Fifth, The Musical Box e Dance On A Volcano, con il gran finale rappresentato come sempre da Los Endos.
La band che accompagna Hackett è quella ormai rodata da tempo, con magnifici musicisti capaci di assecondarne il sempre magico tocco chitarristico: in particolare, l’idea di rafforzare diverse parti di chitarra con l’ausilio dei fiati si rivela piuttosto azzeccata, andando ad enfatizzare il sound senza penalizzarne l’intensità.
L’unico dubbio in un simile contesto è la voce di Nad Sylvan, la cui timbrica sembra più adatta ai brani risalenti all’epoca Gabriel che non a quella successiva con Phil Collins nel ruolo di cantante e, indubbiamente, nel confronto con questi due giganti il pur bravo vocalist finisce inevitabilmente per soccombere, facendo scemare in alcuni frangenti la magia evocata da molte delle pietre miliari poc’anzi citate.
In ogni caso l’opera, in qualsiasi formato la si voglia prendere in considerazione, è dedicata ai fans più accaniti che non vogliono perdersi proprio nulla del loro musicista preferito; magari qualcuno avrà da eccepire sul fatto che Steve continui a incentrare i suoi concerti principalmente sui brani dei Genesis, ma credo che ne abbia tutti i diritti, non fosse altro che per la credibilità costruitasi nel corso di una carriera sempre foriera di soddisfazioni per gli appassionati, anche grazie ad album di inediti tutt’altro che superflui per qualità e voglia di esplorare nuove frontiere sonore.
Poi sappiamo bene che la dimensione live è una sorta di rito collettivo, nel corso del quale si versa più che volentieri qualche lacrima di commozione nell’ascoltare i classici suonati da chi ha contribuito fattivamente a farli diventare tali, sperando sia chiaro a tutti che ciò può essere solo avvicinato e mai eguagliato dalle pur ottime cover band che continuano a predicare fedelmente il verbo dei Genesis.
Il mito non si discute, si ama:  appunto …

Tracklist:
Disc 1
1. Every Day
2. El Niño
3. The Steppes
4. In The Skeleton Gallery
5. Behind The Smoke
6. Serpentine Song
7. Rise Again
8. Shadow Of The Hierophant
9. Eleventh Earl Of Mar

Disc 2
1. One For The Vine
2. Acoustic Improvisation
3. Blood On The Rooftops
4. In That Quiet Earth
5. Afterglow
6. Dance On A Volcano
7. Inside And Out
8. Firth Of Fifth
9. The Musical Box
10. Los Endos

Line-up:
Steve Hackett – Guitar, Vocals
Roger King – Keyboards
Nad Sylvan – Vocals, Tambourine
Gary O’Toole – Drums, Percussion, Vocals
Rob Townsend – Saxophone, Woodwind, Percussion, Vocals, Keyboards, Bass Pedals
Nick Beggs – Bass, Variax, Twelve String, Vocals
Guests:
John Hackett
Amanda Lehmann

STEVE HACKETT – Facebook

INTER ARMA

Il video di “An Archer in the Emptiness”.

Il video di “An Archer in the Emptiness”.

Richmond’s INTER ARMA share the live video for “An Archer in the Emptiness” on a new episode of Overcoast Music’s Sessions series. Filmed and recorded live on-location inside Richmond’s beautifully haunting Byrd Park Pumphouse, the performance serves a powerful testament to the city’s creative, innovative, and artistic heartbeat as well as its connection with a deep and rich cultural history. The episode of Overcoast Sessions is in support of the Virginia Tourism Corporation’s “Virginia Is For Lovers” campaign.

Watch the full live video for “An Archer in the Emptiness” on Overcoast Music’s YouTube channel AT THIS LOCATION.

A full collection of INTER ARMA videos and live performances is available via YouTube HERE.

Paradise Gallows is out now on CD/2xLP/Digital via Relapse Records. Physical orders, including limited vinyl colors and bundles, are available via Relapse.com at this location, and digital orders can be found at Bandcamp HERE. Watch their music video for “Summer Drones” HERE.

INTER ARMA are:
T.J. Childers – Drums, guitars, lap steel, keyboards, synthesizers, noise, vocals
Trey Dalton – Guitars, keyboards, vocals
Joe Kerkes – Bass
Mike Paparo – Vocals
Steven Russell – Guitars

Pissboiler – In The Lair Of Lucid Nightmares

I Pissboiler possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità.

Gli svedesi Pissboiler sono un’altra delle interessanti novità portati alla luce dalla Third I Rex.

Il trio scandinavo esordisce su lunga distanza con questi In The Lair Of Lucid Nightmares, lavoro la cui base di partenza è un funeral doom che viene ampiamente contaminato da una componente sludge, oltre che da pulsioni droniche che trovano eccellente sfogo nell’ultima traccia.
L’interpretazione dei Pissboiler  è comunque abbastanza ortodossa nell’opener Ruins of the Past, dove il sound si trascina con tutto il suo penoso carico di dolore , senza far venire meno la caratteristica principale del genere che è la reiterazione di accordi dolentemente melodici.
Questi svedesi, però, possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità, e il tutto viene evidenziato nei disturbati dieci minuti di Pretend It Will End, nel corso dei quali i suoni si fanno più aspri ma senza che scemi l’atmosfera ottundente che avvolge l’intero lavoro.
La lunga traccia finale Cutters, come detto, è un delirio drone rumoristico che attrae e respinge allo stesso tempo, un aspetto che diviene tratto comune quando la componente claustrofobica finisce per soffocare gli sporadici spunti melodici.
Ma questo è un modo di intendere la materia funeral che non fa sconti, andando a scavare nelle carni esacerbando il dolore invece che lenirlo: i Pissboiler con In The Lair Of Lucid Nightmares dimostrano che non c’è un modo giusto od uno sbagliato di approcciare il genere, perché a fare la differenza è sempre il filo sottile, eppure ugualmente solido come quelli tessuti da un ragno, che riesce indissolubilmente a unire il sentire dei musicisti con quello degli ascoltatori.

Tracklist:
1. Ruins of the Past
2. Stealth
3. Pretend It Will End
4. Cutters
Line-up:
Pontus Ottosson – Guitars
Karl Jonas Wijk – Drums, Guitars
LG – Vocals (lead), Bass

PISSBOILER – Facebook

Sufffer In Paradise – Ephemere

I Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Dopo il bellissimo esordio su lunga distanza This Dead Is World, risalente al 2016, che riprendeva in parte il materiale edito nel demo uscito all’inizio di questo decennio, i Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Come era prevedibile, anche per l’appartenenza ad un filone musicale nel quale non si è molto inclini a soverchie variazioni sul tema (e per chi lo ama questo è pregio e non difetto), il trio russo si stabilizza sulle coordinate del precedente lavoro, prendendo quali riferimenti maestri del genere quali Ea, Skepticism e Profetus e per restare in area ex sovietica, anche i mai abbastanza rimpianti Comatose Vigil.
Ephemere si rivela così un album di rara bellezza e profondità, con i ragazzi di Voroneh che si dimostrano in grado di imprimere ad ognuna delle sei lunghe tracce (più outro) quel dolente afflato melodico che eleva il funeral a forma d’arte musicale suprema: se la title track, posta in apertura, rappresenta l’ideale manifesto musicale dei Suffer In Paradise, è affidato alla successiva My Pillory il compito di scaraventare l’ascoltatore in quegli abissi di disperazione propedeutici ad una catartica risalita.
The Swan Song of Hope inizia portando con sé il marchio dei migliori Worship, con il valore aggiunto di arrangiamenti tastieristici che sono il tratto comune fondamentale dell’intero lavoro e che, nello specifico, rende questo brano qualcosa di una bellezza a tratti insostenibile; con The Wheels of Fate il sound si inasprisce nella parte finale mentre The Bone Garden e Call Me to the Dark Side riconducono il tutto ad un piano di funesta accettazione di un dolore che, seppur latente, è compagno fedele dell’esistenza di ciascuno.
Posso solo aggiungere che, a fini statistici, è un peccato che nel suo lungo peregrinare attraverso l’Europa il cd inviato dalla Endless Winter sia arrivato solo poco prima della fine dell’anno, perché Ephemere avrebbe meritato l’inserimento nella lista delle miglior uscite del 2017, con menzione quale opera di punta del settore funeral, ma in fondo chi se ne importa: quello che importa è l’aver ricevuto la conferma che i Suffer In Paradise hanno tutti i crismi per raccogliere l’eredità dei Comatose Vigil e degli Abstract Spirit (sperando sempre che entrambe le band si rifacciano vive, prima o poi), perpetuando la tradizione di recente consolidamento del funeral doom russo.

Tracklist:
1. Ephemere
2. My Pillory
3. The Swan Song of Hope
4. The Wheels of Fate
5. The Bone Garden
6. Call Me to the Dark Side
7. Outro

Line-up:
A.V. – Guitars, Vocals
Defes Akron – Keyboards, Drum programming
R. Pickman – Bass