Wraithmaze – Fields Of Nihilism

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.
Il sound della band, infatti, appare incentrato sull’ottimo lavoro alle tastiere del leader Janne Kielinen, ma va detto che lo strumento non finisce per debordare come sovente avviene in simili frangenti, lasciando invece il giusto spazio anche al resto della strumentazione.
Proprio l’accentuato gusto melodico è ciò che più piace in Fields Of Nihilism: i quattro brani sono decisamente scorrevoli e, in fondo, se non ci fosse il growl di Jarko Rintee ad incattivire e conferire morbosità al songwriting, l’Ep resterebbe stabilmente ancorato ad atmosfere potenzialmente fruibili anche per ascoltatori non necessariamente avvezzi al genere.
Molto azzeccato tra gli altri, il tema portante di Homeless, ma un pò tutti i brani sono disseminati di passaggi emozionanti, avvincenti, spesso accostabili alla solennità di certe colonne sonore (Battle with the Bottle ) ed eseguiti in maniera eccellente dal punto di vista tecnico.
Peccato solo che il tutto si esaurisca in poco più di venti minuti, ma chi volesse, in attesa di un nuovo album, può andarsi tranquillamente a riscoprire il precedente full-length “Adagio in Self-Destruction” senza correre il rischio di restarne deluso.
Davvero bravi i Wraithmaze, i quali, pur senza reinventare la ruota, mettono sul piatto un lavoro affascinante e di grande sostanza, ideale viatico ad un auspicabile prossimo album.

Tracklist:
1. Shrine of the Unwanted
2. Homeless
3. Battle with the Bottle
4. Funeral Autumn

Line-up :
Janne Kielinen – Guitars, Keyboards
Jarkko Rintee – Vocals
Jan Siekkinen – Guitars
Lord Angelslayer – Bass

WRAITHMAZE – Facebook

Wijlen Wij – Coronachs of the Ω

Il secondo album della band belga alterna momenti eccellenti ad altri piuttosto opachi, per un risultato complessivo soddisfacente ma non esaltante.

A sette anni dal disco d’esordio ritornano i doomsters belgi Wijlen Wij, progetto che vede coinvolto Kostas Panagiotou, conosciuto anche come leader dei più noti Pantheist.

Coronachs of the Ω esce per la Solitude, autentico marchio di garanzia per il funeral death doom e tutto sommato, anche in questo caso, tale assunto non viene smentito nonostante l’operato del trio belga sia caratterizzato da diversi alti e bassi.
L’opener … boreas apre le danze invero come meglio non si potrebbe, grazie alle sue sonorità devote ai migliori Skepticism, in virtù soprattutto del timbro tastieristico scelto da Kostas: il brano è decisamente evocativo, trascinante, dotato anche di un relativo dinamismo, con uno splendido break pianistico centrale, insomma possiede tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un disco del genere; la seguente Die Verwandlung rallenta di molto l’andatura alternando a buoni spunti chitarristici quella staticità del sound che la sua notevole lunghezza non contribuisce certo a migliorare, caratteristica, questa, che si accentua in maniera ancor più evidente in Laying Waste to the City of Jerusalem, autentica mattonata priva di qualsiasi sbocco melodico che rischia pericolosamente di affossare un lavoro nato invece sotto i miglior auspici.
Fortunatamente A Solemn Ode to Ruin…, accostabile per sonorità ai vicini di casa olandesi Officium Triste, pur essendo anch’essa un pò troppo dilatata, rimette le cose a posto mostrando atmosfere sufficientemente cariche di pathos, e la conclusiva From the Periphery è un’altra traccia decisamente riuscita con il proprio andamento dolente e malinconico.
Coronachs of the Ω è in assoluto un buon disco, che gli amanti del genere apprezzeranno senz’altro anche se, al termine dell’ascolto, resta il rammarico di non aver potuto ascoltare un lavoro nel complesso qualitativamente all’altezza della traccia di apertura, e il motivo può dipendere da vari fattori: il growl del volenteroso Lawrence Van Haecke si rivela adeguato solo al’interno delle tracce migliori, mentre appare troppo piatto per risultare incisivo quando deve assumere suo malgrado un ruolo di primo piano come in Laying Waste to the City of Jerusalem (non male invece, nel complesso, le clean vocals); la produzione non fa molto per smussare qualche imperfezione che affiora qua è là e, in particolare, non viene valorizzato al meglio il suono della chitarra solista, capace sovente di brillanti intuizioni melodiche.
In fin dei conti la sensazione che si trae dall’ascolto di Coronachs of the Ω è che i Wijlen Wij siano l’altra faccia della medaglia dei Pantheist: tanto resta radicato nella tradizione il sound dei primi, conservando quell’alone vintage che può avere un suo fascino ma pure apparire irrimediabilmente datato, quanto è stata spinta forse all’eccesso dal buon Kostas l’evoluzione stilistica dei secondi finendo per spingerli ben oltre i confini riconosciuti del doom più canonico.
In mezzo resta un territorio sufficientemente vasto per essere ulteriormente esplorato con successo da diverse band e non ci sono dubbi sul fatto che tra queste possano esserci in futuro anche i Wijlen Wij.

Tracklist:
1. …boreas
2. Die Verwandlung
3. Laying Waste to the City of Jerusalem
4. A Solemn Ode to Ruin…
5. From the Periphery

Line-up :
Kris Villez – Drums
Kostas Panagiotou – Guitars, Keyboards
Lawrence van Haecke – Vocals

WIJLEN WIJ – Facebook

Descend Into Despair – The Bearer of All Storms

La giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino fa pensare che i Desced Into Despair possiedano potenzialità per ora ancora inespresse.

Esordio dei giovani rumeni Descend Into Despair con una chilometrica prova a base di death-doom riuscita solo a tratti.

Infatti, proprio la lunghezza del lavoro si presenta come lo snodo dell’intera vicenda: per cimentarsi, al primo full-length, in un doppio cd pari ad oltre un’ora e mezza di musica per sua natura di non facile assimilazione, bisogna possedere sia una buona dose di sana follia sia una notevole autostima.
Usando come termine di paragone una band del settore che da sempre propone uscite di tali proporzioni, è evidente che i Descend Into Despair, purtroppo per loro, non possiedono ancora (e non possiamo far loro una colpa di questo) né la fluidità degli Esoteric né, soprattutto, il talento compositivo di Greg Chandler per potersi permettere di emularne le gesta, almeno dal punto di vista del minutaggio e, quindi, The Bearer of All Storms in diversi frangenti appare come il classico passo più lungo della gamba.
Detto questo, per natura tendo ad apprezzare chi osa rischiando del proprio, e per questo motivo ritengo che l’operato della band di Cluj meriti d’essere ascoltato e valutato senza pregiudizio alcuno: ho letto addirittura alcune recensioni che stroncavano il disco senza mezzi termini facendo uso anche di una stucchevole ironia, ma queste erano palesemente opera di qualcuno al quale il doom estremo, death o funeral che sia, non piace per partito preso e, pertanto, simili giudizi hanno un valore del tutto relativo.
Credo invece che sia più corretto apprezzare i molti buoni momenti che The Bearer of All Storms regala agli ascoltatori, senza nascondere i quasi altrettanti che ne appesantiscono irrimediabilmente la fruizione: sarà forse banale ma pure realistico affermare che traendo il meglio dall’album ne sarebbero venuti fuori tre quarti d’ora di musica di ottimo livello, anche se non sarebbe stato ugualmente semplice fare una cernita delle singole tracce da conservare, proprio perché ogni specifico episodio mostra al suo interno questa dicotomia tra passaggi ispirati ed altri piuttosto forzati nel loro sviluppo. Appaiono esplicativi al riguardo due tra i brani più lunghi del lotto come Triangle of Lies e The Horrific Pale Awakening, capaci di esibire melodie chitarristiche decisamente coinvolgenti alternate a troppi frangenti apparentemente interlocutori; indubbiamente i Descend Into Despair dovevano avere molte idee a livello lirico da utilizzare in quest’occasione (e lo fanno invero piuttosto bene, bisogna ammetterlo, senza apparire mai né banali né eccessivamente criptici) e ciò può averli spinti ad allungare eccessivamente anche il “brodo musicale”.
Tutto sommato la traccia più convincente, pur se neppure questa del tutto esente da pecche esecutive, riscontrabili in particolare nei frangenti atmosferici, è Plânge Glia De Dorul Meu, cantata in lingua madre (il rumeno ha una sua affascinante musicalità che ben si adatta anche a partiture più estreme, come già ampiamente dimostrato da Negura Bunget / Dordeduh) e contraddistinta da quel pathos drammatico che porta i nostri a lambire i territori dei magnifici Eye Of Solitude del connazionale Daniel Neagoe, ma anche la successiva Embrace Of Earth si rivela una chiusura degna per un disco che si colloca ben oltre la sufficienza e che, a tratti, palesa le indiscutibili doti di una band dalle potenzialità ancora tutte da scoprire.
Proprio la giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino mi fa pensare che di questi interessanti rumeni sentiremo parlare in termini ben più positivi anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Portrait of Rust
2. Mirrors of Flesh
3. Pendulum of Doubt
4. Triangle of Lies
5. The Horrific Pale Awakening
6. Plânge glia de dorul meu
7. Embrace of Earth

Line-up :
Denis Ungurean – Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars (lead), Programming, Drums, Keyboards
Iulia Bulancea – Bass
Orza Radu – Drums
Cosmin Farcău – Guitars (rhythm)
Florentin Popa – Keyboards

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Woe Unto Me – A Step into the Waters of Forgetfulness

Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.

Altro ottimo prodotto sfornato dalla sempre prolifica, anche dal punto di vista qualitativo, Solitude Prod.

Stavolta tocca ai bielorussi Woe Unto Me ad essere portati alla ribalta della scena doom europea: la band, condotta dall’eccellente Artyom Serdyuk, viene descritta come dedita al funeral doom ma è evidente, sin dalle prime note, quanto l’approccio sia decisamente più intimista, quasi soffuso a tratti, senza che il senso di palpabile malinconia che contraddistingue il genere venga comunque in qualche modo scalfito.
A Step into the Waters of Forgetfulness è in effetti un lavoro che si discosta, pur senza snaturarsi, dalla coordinate classiche del funeral, proprio perché gli Woe Unto Me optano per composizioni lunghe come da copione che mettono però in risalto particolarmente il riuscito connubio tra le clean vocals dell’ottimo Sergey Puchok e le partitura acustiche, sempre contraddistinte da una certa eleganza di fondo.
L’uso delle voci è davvero il valore aggiunto del lavoro : il growl di Artyom è centellinato il giusto ritagliandosi il ruolo di adeguata spalla alla timbrica evocativa di Sergey (in certi frangenti accostabile ad un Eric Clayton meno enfatico), e lo stesso avviene con il controcanto femminile che ha per lo più un compito di supporto. Tutto ciò si realizza nel migliore dei modi nella traccia finale, la lunga e drammatica Angels To Die, che rappresenta, tra tutti, l’episodio più rispondente all’etichetta associata alla band, mentre i primi tre brani vivono ancor più invece sull’apporto decisivo di suggestioni acustiche, specie l’iniziale Slough Of Despond, che prende avvio con tonalità cristalline prima di abbandonarsi alle più consuete ritmiche funeree.
Il valore indiscutibile di un lavoro come A Step into the Waters of Forgetfulness risiede proprio nella volontà dei ragazzi bielorussi nel cercare con continuità una via maggiormente personale per esprimere il proprio mood malinconico senza cadere con entrambi i piedi nei, comunque graditi, clichè del genere.
Un’operazione che riesce pienamente grazie alle indubbie doti tecniche esibite dal combo di Grodno: evidentemente, nonostante questo disco sia di fatto un esordio su lunga distanza, denota sicuramente un percorso musicale tutt’altro che banale compiuto dai singoli musicisti prima di cimentarsi in quest’opera.
Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.
Gran bel lavoro e altra graditissima sorpresa, è sempre un piacere rischiare di apparire ripetitivi ogni qual volta ci si trovi a lodare sperticatamente le doom band provenienti dal nordest europeo …

Tracklist:
1. Slough of Despond
2. The Gospel Reading
3. Stillborn Hope
4. 4
5. Angels to Die

Line-up :
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Sergey Puchok – male clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums
Julia Shimanovskaya – female clean vocals

WOE UNTO ME – Facebook

Gum – But Woman Monkey

Stoner doom annichilente, per il secondo bellissimo album della band toscana.

Come il lento discendere della lava dal pendio di un vulcano che inesorabilmente travolge ogni cosa al suo passaggio: questa è la sensazione primaria data dal secondo album dei fiorentini Gum, combo che suona uno stoner-doom apocalittico, inesorabile nel suo lento incedere, rabbioso e sofferto nella voce di una vittima travolta dalla lingua di fuoco.

Con sette jam che impressionano per maturità compositiva, i ragazzi toscani, forti di un songwriting eccezionale e compatti come un monolite, vanno a scomodare le migliori band del genere mantenendo però una propria e ben salda personalità.
Attivi dal 2006, dopo un paio di demo e un Ep, nel 2013 arrivano all’esordio su lunga distanza con “Agua Caliente”, bissato all’inizio di quest’anno da questo macigno sonoro che non lascia prigionieri, dalla tensione altissima; doom malato e ossessivo, alienato da una disperazione di fondo annichilente.
Un sound che trae spunto dagli Eyehategod, dallo stoner desertico dei Kyuss che appare in più di una occasione, consolidato nella bellissima title-track, il brano dalla ritmica più varia nel quale la band dimostra di saperci fare e non poco con gli strumenti e, ancora, più di un accenno ulteriormente appesantito anche a quel trip allucinato che fu il capolavoro “Sleep’s Holy Mountain”, capace oltre vent’anni fa di superare qualsiasi canone del genere.
La voce è sempre tarata su uno screaming che al primo ascolto potrebbe risultare monocorde ma che è invece l’elemento in più in grado di caratterizzare la musica di una band che non cede a qualsivoglia facile melodia.
I brani sono uno più bello dell’altro ma, oltre alla già citata title-track, a mio parere I’m The Universe, Crop Circle e la conclusiva Water sono capolavori stoner doom che vanno ad affiancarsi tranquillamente ai brani più riusciti dei maestri del genere.
Un altro grande album tutto italiano, che arriva dopo l’immenso lavoro degli Elevators To The Grateful Sky, due autentici must per il genere!

Tracklist:
1. Atomic God
2. But Woman Monkey
3. I’m the Universe
4. Children of Pripyat
5. Ferner & Cola Blues!
6. Crop Circle
7. Water

Line-up:
Boss – Vocals,bass
Gre – Guitar
Ambash – Guitar
Capitano – Drums

GUM – Facebook

Dom – Dom Vampyr

Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al funeral come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Belial (Ivan Manzano) è un musicista spagnolo che, con il monicker Dom, ha già all’attivo due full-length di realizzazione piuttosto recente.

Questa sua nuova uscita avviene invece nel formato dell’Ep, di lunghezza comunque considerevole visto che la sua durata sfiora la mezz’ora.
Dom, non solo per l’assonanza, viene considerato un progetto funeral doom, anche se tale etichetta può apparire parzialmente fuorviante: le composizioni di Belial, integralmente strumentali, sono basate essenzialmente sulle note del pianoforte che, grazie ad un indubbio gusto melodico, guida la musica per lo più su lidi ambient, e della chitarra che sovente si lascia andare in progressioni non del tutto scontate.
Nulla a che vedere quindi, sia con la versione più claustrofobica sia con quella più avvolgente e malinconica del genere: Dom Vampyr, pur mantenendo le connotazioni cupe del funeral, non ne possiede né la ritmica bradicardica nè la pulsione drammatica.
Detto questo, i tre brani si rivelano piuttosto validi e per certi versi differenti tra loro: la lunga opener A Modern Prometheus mostra il lato più sperimentale di Belial il quale, partendo da umori quasi jazzistici si lancia in una fase centrale piuttosto vivace per approdare infine ad una chiusura all’insegna di ritmiche asfissianti.
Les Avaleuses prende vita con una forte impronta Skepticism, dovuta ad un timbro simile delle tastiere, per poi lasciare spazio al consueto contenuto pianistico poggiato su spunti compostivi accostabili agli Ea.
L’episodio senza dubbio migliore e più caratterizzante è, però, The Tomb Of Ethelind Fionguala, traccia che, paradossalmente, tra tutte è proprio quella che meno ha a che vedere con il funeral: una bel giro di piano viene ripetuto per l’intero brano prima da solo, poi con l’ingresso delle tastiere finchè, attorno alla metà del brano, la chitarra solista si prende il proscenio liberandosi in uno splendido assolo di stampo classico.
Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al genere come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Tracklist:
1. A Modern Prometheus
2. Les Avaleuses
3. The Tomb Of Ethelind Fionguala

Line-up :
Iván “Belial” Manzano – Everything

A Young Man’s Funeral – Thanatic Unlife

Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.

A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.

Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica.
Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.

Tracklist:
1. Curse
2. Remorse
3. Salvation

Line-up :
A.S. All instruments
E.S. Vocals

Demon Eye – Leave The Light

Un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.

La Soulseller Records, dopo il bellissimo disco dei Bloody Hammers, entrato di diritto nella mia top ten del 2013, rilascia nei primi giorni dell’anno nuovo il debut album dei Demon Eye, band del North Carolina, con all’attivo un Ep dello scorso anno dal titolo “Shades Of Black” ,autrice di un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.

Il disco, infarcito di suoni vintage, raccoglie infatti quello che i grandi maestri del suono del destino (Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus, Trouble, Obsessed, Sleep) hanno lasciato in eredità, : qui troverete di che dissetarvi alla fonte del doom, con accenni all’occulto a livello lirico, come il verbo sabbathiano insegna. A rendere il lavoro piacevole magari a chi non è un amante dei suoni pieni e ovattati, classici di questo genere, è la produzione che restituisce un suono pulito, dando risalto al lato hard rock del combo che, nei brani più dinamici, risulta oltremodo convincente. Da Hecate, che apre la danza sabbatica, in poi è un susseguirsi di ottime song, dove i suoni più duri degli anni settanta sono interpretati dalla band con ottimo piglio, non cadendo mai nel tranello stoner, ma mantenendo una linea guida per tutta la sua durata. Shades Of Black,Song, dall’incedere ritmato, con la chitarra di Larry Burlison, protagonista di un riff trascinante, lascia spazio alla bellissima Secret Sect, dove compaiono accenni all’heavy metal, chiaramente old school; Edge a Knife, altro gran brano, torna su atmosfere più doom, mentre Witch’s Blood, aperta da un riff hard rock, è un classico brano alla Pentagram. Ancora la band di Joe Hasselvander fornisce il suo marchio in Fires Of Abalam, vero manifesto di genere, dove il plauso va al vocalist Erik Sugg, cantore messianico del combo americano. C’è ancora tempo per The Banishing, altro brano che entusiasma per melodie e ritmiche, prima che From Beyond e Silent One chiudano un album davvero molto bello, aiutato da un songwriting elevatissimo, per un ascolto mai noioso, dal buon tiro, suonato da una band preparata.

Tracklist:
1. Hecate
2. Shades of Black
3. Secret Sect
4. Adversary
5. Edge of a Knife
6. Witch’s Blood
7. Fires of Abalam
8. Devil Knows the Truth
9. The Banishing
10. From Beyond
11. Silent One

Line-up
Paul Waltz – bass
Bill Eagen – drums, vocals
Larry Burlison – guitars
Erik Sugg – guitars, vocals

DEMON EYE – Facebook

Abbotoir – Reclaim

Una proposta migliorabile ma che già oggi risulta sicuramente intrigante oltre che coraggiosa.

I nord irlandesi Abbotoir propongono una forma di funeral lontano da qualsiasi ammiccante forma di melodia e ciò, ovviamente, non ne aumenta l’appeal nei confronti di chi segue il genere in maniera marginale.

Reclaim è il titolo di questo Ep, costituito da un unico brani di circa 26 minuti (Descension), che arriva dopo il full-length d’esordio uscito lo scorso anno; stilisticamente il trio di Belfast si colloca dalle parti di un act come i Bosque, ponendosi quindi alla ricerca costante di sonorità disturbanti grazie al massiccio contributo di elementi ambient-drone.
La reiterazione pressoché ininterrotta di un riff di volta in volta accompagnato da effetti elettronici, inclusa una drum-machine e una voce filtrata, potrebbe far pensare a un qualcosa di terribilmente noioso e, oggettivamente, il rischio esiste, stante la mancanza di uno sviluppo armonico capace di restare memorizzato in qualche modo nella mente dell’ascoltatore.
Ma, se vogliamo, proprio l’apparente freddezza del sound, che pone gli Abbotoir nella posizione privilegiata di distaccati osservatori delle miserevoli vicende umane, si rivela un elemento caratterizzante capace di provocare quello straniamento che è sicuramente uno degli obiettivi della band britannica.
Un produzione volutamente intrisa di riverberi ed un sound che definire ossessivo è un eufemismo, rendono oggettivamente complessa la fruizione di Reclaim, fornendo la sensazione che talvolta gli Abbotoir travalichino quel labile confine posto tra la sperimentazione e l’autocompiacimento.
E, in effetti, a partire dal minuto 19, Descension offre quei minimi appigli, che fino a quel momento aveva pervicacemente negato, mostrando parvenze infinitesimamente umane ed è proprio su questo lato della proprio sound che gli Abbotoir potrebbero maggiormente insistere in futuro, per migliorare ulteriormente una proposta che già oggi risulta sicuramente intrigante, oltre che coraggiosa.

Tracklist:
1. Descension

Line-up :
_ – Bass
J – Guitars
D – Vocals

ABBOTOIR – Facebook

Bosque – Nowhere

Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Quattro anni dopo il disco d’esordio, riappare con un nuovo full-length la one-man portoghese Bosque.

Non che nei quasi dieci anni di esistenza della sua creatura musicale DM si sia limitato a questi soli due album, visto che la produzione a nome Bosque è disseminata di demo ed ep, ma è normale che la dimensione su lunga distanza sia sempre la più probante, specie per chi si cimenta in ambito funeral doom.
I quaranta minuti di Nowhere ci trascinano di peso, appunto, in un non luogo, nel quale la sofferenza è il sentimento prevalente, capace di soffocare ogni accenno di melodia imprigionandolo in un sound disturbante, pregno di rumorismi collocati in sottofondo.
Lo straziato canto gregoriano che cerca di farsi largo tra strutture dissonanti e strumenti distorti ai limiti del parossismo potrebbe essere l’ideale rappresentazione dell’autoflagellazione, di un dolore auto inferto andato in loop, metafora di un’esistenza costretta a trascinarsi penosamente e confinata all’interno di schemi univoci e ripetitivi.
Un accenno melodico si fa largo pietosamente grazie a una chitarra acustica che traccia linee consolatorie prima che il martirio della carne e dello spirito riprenda, culminando nell’ossessiva reiterazione dei riff in Metamorphosis, ipotetico quanto illusorio punto di svolta oltre il quale ad attenderci c’è il nulla, ben rappresentato dal titolo della traccia conclusiva e dalla ricomparsa dei cori a conferire al disco un andamento circolare, quasi a dimostrare che l’inizio e la fine sono solo effimere definizioni.
DM non mostra alcun segno di empatia verso l’ascoltatore, la sofferenza si manifesta attraverso un dolore diffuso e straziante, senza alcuna soluzione di continuità; Nowhere mostra una forma di funeral agli antipodi del versante più melodico del genere, ma non per questo va sottovalutato: è piuttosto evidente, peraltro, che la fruizione di un lavoro di queste caratteristiche è impresa per quei pochi che possiedono la pazienza e quel pizzico di masochismo necessario per lasciarsi avvolgere da suoni che fanno ben poco per rendersi gradevoli al primo impatto; un aspetto, questo, che a seconda dei punti di vista può apparire sia un pregio sia un un limite invalicabile.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Tracklist:
1. Lethargy
2. Crawling
3. Metamorphosis
4. Nothing

Line-up :
DM – all instruments

Ea – A Etilla

Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.

Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.

Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere  certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla

Hollow Leg – Instinct

La musica qui incede e incide lentamente con la potenza dell’acqua, scorrendo sotterranea e trovando sempre una via per passare.

Riedizione da parte della Argonauta Records del debutto degli Hollow Leg, disco pubblicato dalla band nel 2010 e andato ormai esaurito.

Il debutto da parte di questo gruppo schiacciasassi testimonia la nascita come duo chitarra e batteria, ovvero alla sei corde Brett e alla batteria Tim. Entrambi sono originari dell’area di Boston, dove hanno militato in svariati gruppi hardcore, dato che l’hardcore a Boston lo bevi nell’acqua. Da Boston si sono poi trasferiti e Jacksonville in Florida. Qui hanno dato vita agli Hollow Leg, che da duo sono poi diventati quartetto per incidere “Abysmal” del 2013. Ma questa è un’altra storia. Instinct è un disco poderoso, un lento incedere verso qualcosa di terribile che sta proprio oltre la strada che stiamo percorrendo. La musica qui incede e incide lentamente con la potenza dell’acqua, scorrendo sotterranea e trovando sempre una via per passare. E’ stupefacente sentire quello che possono fare due persone sole, ma con le idee molto chiare su che musica fare. Sarebbe una perdita di tempo ed un spreco di energie notevole tentare di catalogare definitivamente il suono degli Hollow Leg. Sicuramente siamo dalle parti dello sludge, in quei territori che prendono vita nell’underground, e che vivono nell’umido e traggono linfa da cose viscide. Uno dei più grossi pregi di questo disco è che non annoia mai, e fa venire voglia di schiacciare play di nuovo. Gli Hollow Leg si inseriscono quindi nel filone dello sludge americano, che ha sempre dato gioie a noi ascoltatori viziosi, ma si distinguono per un suono ed una composizione molto personale. Grande merito va dato all’Argonauta Records che ha ristampato il cd in 300 copie con un libretto lussuoso. Perchè non poter sentire questa chicca era proprio un gran peccato.

Tracklist:
1 Caretaker
2 Shattered
3 The return
4 The source
5 Bacchus
6 Nothing left
7 Spit in the fire
8 Warbeast
9 Grace
10 Wayside

Line-up:
Brett : voce e chitarre
Tim : batteria

HOLLOW LEG – Facebook

]]>

Eye Of Solitude – Canto III

Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.

La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.

Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora.
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.

Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast

Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards

EYE OF SOLITUDE – Facebook

Kuolemanlaakso – Musta Aurinko Nousee

Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.

Non posso negare che nell’avvicinarmi a questo Ep sono stato inevitabilmente attratto dalla presenza in line-up di Mikko Kotamäki, ben più noto come cantante degli immensi Swallow The Sun.

Va quindi chiarito ogni tipo di equivoco dicendo subito che, al di là della presenza del vocalist, i tratti comuni tra le due band non sono poi moltissimi, in primis perché qui il songwriting non è ad opera di Juha Raivio bensì di Markus Laakso, chitarrista e tastierista ideatore del progetto (non a caso il monicker della band è costituito parzialmente dal suo cognome).
I Kuolemanlaakso hanno esordito nel 2012 con un buon full-length e questo breve Ep, che consta di quattro brani (una delle quali è una cover), è soprattutto propedeutico al prossimo album previsto in uscita nei primi mesi dell’anno; come detto, il sound, pur potendo essere classificato a buon titolo come death-doom, non ne possiede le caratteristiche specifiche che ci si potrebbero attendere da un band finlandese.
Infatti, nonostante Laakso svolga un ruolo fondamentale con le sue tastiere nei folli symphonic-industrial blacksters Chaosweaver, in quest’occasione relega lo strumento ad un ruolo di semplice accompagnamento lasciando che a parlare siano le chitarre e, ovviamente, la voce di Kotamäki: ciò che ne scaturisce è, pertanto, un songwriting dalle diverse sfaccettature.
La prima traccia, Me Vaellamme Yössä, è quella più orecchiabile e potrebbe essere approssimativamente definibile come una versione più aggressiva degli Amorphis, con una bella linea melodica ed il growl di Mikko a condurre le danze, mentre Tulenväki e Kalmoskooppi sono decisamente meno catchy pur rivelandosi tutt’altro che piatte, privilegiando un impatto sbilanciato sul versante death, e nelle quali il vocalist sfoggia anche il suo caratteristico screaming.
L’ultima traccia potrebbe essere catalogata come la più riuscita, anche se in realtà si tratta della cover di una rock band nota in Finlandia negli anni ‘80, gli Juha Leskinen Grand Slam: Musta Aurinko Nousee, che dà anche il titolo all’Ep, era un bel brano anche nella versione originale, ma i Kuolemanlaakso ne rallentano in maniera notevole l’andatura trasformando il tutto in un episodio dal sapore gothic, con il contributo di un Kotamäki che esibisce un’inedita timbrica alla Peter Steele.
La creatura di Markus Laakso mostra un potenziale interessante e, forse, l’unico ostacolo da superare nell’approccio è proprio l’utilizzo della la lingua madre, anche se mi chiedo se abbia ancora senso nel 2013 porsi delle barriere linguistiche quando ormai esistono diversi strumenti per capire il significato di testi redatti in qualsiasi lingua.
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.

Tracklist:
1. Me vaellamme yössä
2. Tulenväki
3. Kalmoskooppi
4. Musta aurinko nousee

Line-up :
Usva – Bass
Tiera – Drums
Kouta – Guitars
Laakso – Guitars, Keyboards
Kotamäki – Vocals

KUOLEMANLAAKSO – Facebook

Slow – III Gaia

Un disco nel quale vengono sviluppate armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione.

Quando un musicista decide di chiamare la sua band Slow  difficilmente il genere che proporrà sarà speed o power metal, mentre è molto più probabile che un monicker simile si adatti alla perfezione al doom, meglio ancora se funeral, come avviene in questo caso.

Dietro al nome Slow in realtà troviamo il solo Dehà, musicista belga nel quale ci siamo già imbattuti qualche mese fa nel recensire il lavoro dei Deos; la sua avventura solista, pur restando nell’ambito dell’area death-funeral, si discosta parzialmente da quanto fatto in coabitazione con Daniel N., soprattutto perché il lavoro ha delle caratteristiche meno orientate verso il death e molto più spinte verso l’ambient-drone. III-Gaia consta di due soli brani, il primo dei quali dura ben quaranta minuti mentre il secondo si esaurisce in “solo” mezz’ora; già da questo appare piuttosto evidente quanto Dehà se ne possa infischiare di rendere più fruibile il proprio sound, e lo conferma il fatto che Gaia – Part 1 viene introdotta da oltre dieci minuti di suoni dronici, prima che la componente melodica si impadronisca del sound conducendolo con la dovuta lentezza ad un finale oggettivamente splendido. La Part 2 di fatto pare un ideale proseguimento della traccia precedente, sviluppando armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione, sulla falsariga degli Ea che, in questo momento, rappresentano decisamente un punto di riferimento condiviso per il funeral più melodico. III-Gaia è un album splendido che, purtroppo, come gran parte delle uscite relative a quest’ambito stilistico, finirà per essere ignorato dai più restando ugualmente e doverosamente consigliato a tutti coloro che, avendo dimestichezza con il genere proposto, ne sapranno trarre le dovute gratificazioni.

Tracklist:
1. Gaia – Part 1
2. Gaia – Part 2

Line-up:
Dehà – all instruments, vocals

SLOW – Facebook

Hamferð – Evst

“Evst” va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013

Sino ad oggi, musicalmente parlando, le isole Fær Øer avevano lasciato una traccia tangibile in ambito metal principalmente grazie ai Týr, la cui popolarità si è consolidata nell’ultimo decennio grazie a un solido folk metal.

Ben diverso è quanto proposto dagli Hamferð che, dalla piccola Thorshavn, capitale dell’arcipelago, ci incantano con un death-doom in grado di spiccare sulla concorrenza grazie a diversi elementi innovativi pur senza snaturare in alcun modo le coordinate del genere. Fin dall’opener Evst (che è anche il titolo dell’album) si può constatare che la band opta per uno stile vocale agli antipodi delle abitudini del death-doom più tradizionale: qui il consueto growl è affiancato da una voce stentorea quanto evocativa, il tutto regalatoci magnificamente dal solo Jón Aldará. Chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo disco degli Helllight non avrà potuto fare a meno di notare quanto la resa complessiva di un lavoro di ottima fattura sia stata penalizzata dal tentativo di utilizzare la voce pulita senza possedere una tecnica sufficientemente solida; ciò non accade affatto in Evst, dove la voce di Jón si erge protagonista indiscussa del lavoro, declamando con la giusta enfasi ed il necessario trasporto le liriche rigorosamente scritte in lingua madre. Se nei primi tre brani, che peraltro risplendono per la capacità degli Hamferð di rendere ariosa una materia musicale di norma opprimente, si palesa piuttosto evidente l’impronta degli Swallow The Sun, nel corso dell’album affiora anche una vena folk-prog che conduce i nostri alla composizione di un brano prevalentemente acustico come At jarða tey elskaðu. Sinnisloysi ci riporta ad atmosfere pregne di disperazione, con un predominio del growl sulle clean vocals che risulta però ingannevole, vista l’abilità dei faroeriani nell’imprimere svolte inattese ad un songwriting decisamente più vario rispetto alle altre band impegnate nel settore: nello specifico fa capolino una voce femminile che conferisce una certa solennità al sound, con l’aggiunta di un lavoro chitarristico impeccabile e di grande sensibilità. Dopo oltre mezz’ora di musica dalla grande intensità, la conclusiva Ytst arriva a confermare anche ai più scettici che gli Hamferð non sono certo la classica band capace di azzeccare quei tre o quattro accordi sui quali costruire un intero disco: questa traccia rappresenta lo stato dell’arte del doom-death, con un caleidoscopio di sensazioni capaci di sovrapporsi nel corso di dieci muniti dal raro impatto emotivo, ed è giusto che la pietra tombale su un disco meraviglioso lo ponga la voce di questo cantante in grado come pochi altri di far vibrare le corde dell’anima. Evst va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013 e, a chi ne è rimarrà estasiato, consiglio vivamente di andarsi a ripescare l’altrettanto valido Ep d’esordio “Vilst Er Síðsta Fet”.

Tracklist:
1. Evst
2. Deyðir varðar
3. Við teimum kvirru gráu
4. At jarða tey elskaðu
5. Sinnisloysi
6. Ytst

Line-up : Jón Aldará – vocals
John Egholm – guitar
Theodor Kapnas – guitar
Remi Johannesen – drums
Esmar Joensen – keys
Jenus í Trøðini – bass

HAMFERD – Facebook

Monolithe – IV

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena.

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena funeral doom, risalente ormai ad un decennio fa, con “I”.

La carriera della band transalpina può esser suddivisa a grandi linee in due fasi disinte: la prima con “I”, “II” e l’Ep “Interlude Premiere”, usciti tra il 2003 e il 2007, e quella attuale, con “Interlude Second” e III pubblicati l’anno scorso ed l’ultimo IV. I Monolithe del primo periodo, benché non fossero del tutto assimilabili al funeral tradizionale, operavano comunque in un ambito ad esso contiguo segnalandosi particolarmente per il ricorso ad un unico brano, normalmente tarato sui cinquanta minuti di durata, nel corso del quale venivano diluite le cupe partiture; “III”, in questo senso, ha segnato una svolta portando la band di Sylvain Begot ad avventurarsi in uno stile contrassegnato da un maggiore dinamismo, staccandosi in parte dagli stilemi tipici del funeral e mostrando apprezzabili variazioni all’interno della consueta lunghissima suite. Alla luce di questo, anche se era lecito pensare che nell’immaginario musicale della band parigina quel barlume di luce che si iniziava a scorgere stesse per trasformarsi in qualcosa in più di un’incerta fiammella, IV riporta nuovamente il suono ad immergersi nella più totale oscurità e non basta qualche sporadico coro femminile o alcuni passaggi dal tono quasi solenne a risollevare l’ascoltatore dall’abisso nel quale i nostri lo hanno fatto nuovamente sprofondare. I Monolithe in quest’occasione abbattono il primato personale di durata, spingendosi fino a ben cinquantasette minuti, contraddistinti da un’ossessivo quanto affascinante tema che, in pratica, si dipana tra l’adeguato growl di Richard Loudin e chitarre distorte e diluite fino all’inverosimile, in un quadro che talvolta assume toni apocalittici ma capace di stemperarsi in passaggi dal grande coinvolgimento emotivo. Se “III” non era certo un lavoro di agevole ascolto, IV si spinge anche oltre fino a lambire i confini dell’incomunicabilità: penetrarne l’essenza è una prova che, se superata, regala come ambito premio un’ora di rara intensità emotiva. Con questi ultimi due lavori, i Monolithe hanno di fatto creato un sound del tutto riconoscibile e mai come in questo momento il loro monicker si sposa alla perfezione con la sensazione di una musica di rara compattezza, sviluppata da una band giunta probabilmente al punto più elevato della propria parabola artistica.

Tracklist:
1. Monolithe IV

Line-up:
Benoît Blin: Bass, Guitars
Sébastien Latour: Keyboards, Programming
Sylvain Bégot: Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin : Vocals

MONOLITHE – Facebook

Lorelei – Ugrjumye Volny Studenogo Morja

Ottimo esordio per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.

L’esordio su lunga distanza dei Lorelei arriva in un momento di grande fermento della scena gothic death-doom russa.

Si rischia d’essere ripetitivi nell’affermare che le uscite proposte dalla Solitude e dalla BadMoodMan hanno ormai raggiunto un livello qualitativo tale da costituire un vero e proprio marchio di fabbrica. Dopo gli splendidi lavori di Revelations Of Rain e Shallow Rivers, Ugrjumye Volny Studenogo Morja sposta le coordinate musicali verso un gothic dai toni drammatici, enfatizzati dalla consueta dicotomia tra voce lirica e growl maschile. Quando entrambe le componenti vengono eseguite in maniera eccellente come in questo caso e il tutto va ad inserirsi in un contesto musicale raffinato e intenso come quello messo in scena dai Lorelei, ogni considerazione sulla prevedibilità di un disco simile diventa francamente superflua. I tre quarti d’ora di questo lavoro, che la band moscovita dedica al Rinascimento, con particolari riferimenti alla poetica del Petrarca (come almeno noi italiani abbiamo la possibilità di capire dal frequente inserimento di versi recitati nella nostra lingua) rappresentano qualcosa in più di un ideale “bignami” del gothic death-doom: ciò avviene grazie a brani che trasudano romanticismo da ogni nota, esaltati da un’esecuzione strumentale sobria quanto emozionante, dall’impeccabile intonazione lirica esibita da Ksenia Mikaylova e dal growl possente di E.S, (già noto nella scena come anima e voce degli Who Dies In Siberian Slush). Il disco non raggiunge vette epocali proprio perché, nel suo songwriting, è presente quel pizzico di autoreferenzialità derivante dallo stretto legame che unisce gran parte delle doom band dell’area moscovita, aspetto che inevitabilmente tende a rendere piuttosto omogenei i tratti stilistici, nonché i suoni a livello di produzione. Ma al di là di questo e del fatto che l’uso dell’idioma russo, anche qui, come nel caso dei Revelations Of Rain, finisce per precludere a questo prodotto una maggiore diffusione , non si può fare a meno di apprezzare brani, intrisi di un pathos degno dei componimenti del poeta fiorentino, come le magnifiche Ten’ju Bezlikoj … e Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali …, episodi che spiccano all’interno di un contesto complessivo comunque di assoluto valore. Ottimo esordio, quindi, per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.

Tracklist:
1. Intro
2. Holod Bezmolvnogo Zimnego Lesa…
3. Ten’ju Bezlikoj…
4. Ugrjumye Volny Studenogo Morja…
5. La Vita Fugge, Et Non S’arresta Una Hora…
6. Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali…
7. Holodnyj Prizrachnyj Rassvet…
8. Raj Poterjan…
9. Outro

Line-up :
Alexandr Grischenko – Bass
Andrey Osokin – Guitars
Alexey Ignatovich – Guitars, Vocals
Marina Ignatovich – Keyboards
Ksenia “Serafima” Mikhaylova – Vocals

Guest: E.S. – Vocals