Kal-El – Pakal

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia. Dalla città di Stavanger arriva questo rumoroso combo norvegese che ci propone uno stoner rock in rigoroso stile Kyuss, Monster Magnet e Slo Burn.

Niente di nuovo ed eccezionale, ma sicuramente un buon album, che dà una certa carica. Ormai raramente capita di ascoltare un album di stoner bene fatto e suonato decentemente. I Kal – El sono al di sopra della media e si sente. Infatti questa è la prima uscita stoner della WormHoleDeath, etichetta che ha finora spaziato nei territori metal. Per tutta la durata del disco lo spirito del rock è tangibile, i ragazzi hanno passione e stile, e non sono per nulla presuntuosi ma, anzi, lavorano molto di olio di gomito. Forse la loro non più verdissima età li rende molto più maturi e consapevoli rispetto ad altre band più giovani. Lo stoner c’è, ed è anche un album divertente.

Tracklist:
1 Falling Stone
2 Upper Hand
3 Spaceman
4 Solar Windsurf
5 Quasar
6 Qp9
7 Fire Machine
8 Black Hole

Line-up:
Ulven – Voce
Roffe – Chitarra
Liz – Basso
Bjudas – Batteria

]]>

Mournful Congregation – Concrescence of the Sophia

“Concrescence of the Sophia” è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

A quasi tre anni dall’uscita di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation si rifanno vivi con del materiale inedito grazie a questo EP nel quale propongono, è quasi superfluo dirlo, mezz’ora di magnifico funeral doom.

La vena compositiva mostrata nell’ultimo full-length è ampiamente confermata in quest’occasione, del resto lo stile della band australiana non prevede ampie concessioni melodiche ma neppure una totale chiusura o spunti sperimentali portati alle estreme conseguenze: come avevo avuto occasione di scrivere, parlando proprio di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation appartengono al filone dei discepoli più credibili nonché legittimi dei Thergothon, pur affinandone le ruvidezze alla luce di capacità tecniche di altissimo livello. Concrescence of the Sophia consta di due soli brani: la title-track, splendida dimostrazione di classe, capace di protrarsi per oltre venti minuti senza cali di tensione grazie ad un lavoro chitarristico esemplare per pulizia e contemporanea capacità evocativa, mentre la più breve Silence of the Passed appare come un ideale prosecuzione della traccia precedente pur non eguagliandola, probabilmente, in quanto a coinvolgimento emotivo. Ammesso che ne esista per qualcuno una simile versione, il funeral dei Mournful Congregation non può essere considerato di facile ascolto e si colloca quale perfetta sintesi tra la corrente orientata verso tonalità più malinconiche ed immediate e quella nella quale si fa più esplicito il senso di incomunicabilità e di estraniamento dalla vita reale. A chi magari si attendeva un nuovo album, resta sicuramente la consapevolezza che una delle band simbolo del movimento non ha perso un’oncia della propria dolente vena compositiva, il che rende questo lavoro molto più di una momentanea panacea od un semplice assaggio di qualcosa ancora di là da venire: Concrescence of the Sophia è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

Tracklist:
1. Concrescence of the Sophia
2. Silence of the Passed

Line-up:
Damon Good – Vocals, Bass, Guitars
Justin Hartwig – Guitars
Ben Newsome – Bass

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook

Sonus Mortis – Propaganda Dream Sequence

Sonus Mortis è l’ennesima entusiasmante scoperta all’interno di un underground metal che sforna a getto continuo autoproduzioni di livello assoluto.

Se il monicker catacombale ed alcuni riferimenti biografici parrebberro indirizzare i Sonus Mortis verso territori death-doom, è sufficiente, dopo aver dato una rapida occhiata alla copertina dai tratti futuristici, ascoltare le prime note dell’opener The Cyber Construct per capire che verremo immersi a viva forza in un symphonic industrial doom sorprendente e, a tratti, addirittura entusiasmante.

Kevin Byrne, conosciuto (si fa per dire … non me ne voglia) fino ad oggi per essere il bassista dei melodic deathsters irlandesi Valediction, si dimostra un musicista dallo spessore inatteso e, facendo tutto da solo, spara oltre un’ora di musica capace di innestare su un mood tendente al malinconico gli influssi di band seminali quali ultimi Samael (soprattutto), Nine Inch Nails e Fear Factory, aggiungendoci quel pizzico di (in)sana follia alla Devin Townsend, la vis creativa dei magnifici americani Mechina e orchestrazioni che rimandano ai più recenti lavori dei Septicflesh.
Il death-doom, se vogliamo, lo possiamo rinvenire nella cappa di oscurità che tutto sommato aleggia costantemente su un lavoro che, a voler cercare il pelo nell’uovo, è forse un po’ troppo lungo per un genere che, con le sue ritmiche squadrate, un growl spesso filtrato e le frequenti incursioni sinfoniche mette talvolta a dura prova i padiglioni auricolari dell’ascoltatore.
Difetto minimo, se comparato all’abilità di Kevin nel costruire brani ricchi di spunti melodici mai banali, che raggiungono le vette dell’eccellenza nella già citata The Cyber Construct, nella doppietta centrale composta dall’allucinata The Flock Obscenity e dalla solenne Automated Future, nel sinfonico crescendo della title-track ma, soprattutto nel coinvolgente lirismo di Decompression Countdown, dove i ritmi rallentano e i suoni vengono avvolti da un’aura drammatica, e nella caleidoscopica Scolecophagous, traccia che riesce mirabilmente a fondere tutte le fonti alle quali il musicista ha attinto per comporre la propria opera.
The Ephemeral Sempiternity of Time chiude nel migliore dei modi un lavoro che nella sua fase discendente assume sicuramente tonalità più cupe ma che non perde mai di vista l’equilibrio tra la parti aggressive e quelle più melodiche.
La versione in cd prevede anche due bonus track, l’ultima delle quali è la cover di Valentines Day di Marlyn Manson: entrambi i brani sono senz’altro riusciti ma, alla fine, nulla aggiungono al valore di Propaganda Dream Sequence, anzi, per certi versi rischiano di risultare controproducenti allungando ulteriormente la durata di un lavoro che, come detto, già di suo sia attesta sui sessanta munti.
Poco male, però, quando un album riesce ad essere così intenso, ricco e tutt’altro che scontato, attentandosi a cavallo di stili musicali differenti ma amalgamati con naturalezza disarmante da un musicista nuovo per questi palcoscenici come Kevin Byrne.
Sonus Mortis è l’ennesima entusiasmante scoperta all’interno di un underground metal che sforna a getto continuo autoproduzioni di livello assoluto come questa che, se finisse, nelle sapienti mani delle maggiori label di settore, potrebbe anche ottenere un insperato successo a livello commerciale.

Tracklist:
1. The Cyber Construct
2. Propaganda Dream Sequence
3. To Lament, Mourn and Regret
4. Enter Oblivion
5. The Flock Obscenity
6. Automated Future
7. A Doctrine for the End Times
8. Decompression Countdown
9. And the Foundations Start to Decay
10. Scolecophagous
11. The Ephemeral Sempiternity of Time
12. Children of Dune
13. Valentines Day

Line-up:
Kevin Byrne – All instruments, Vocals

SONUS MORTIS – Facebook

Luna – Ashes to Ashes

Sicuramente valido dal punto di vista musicale, “Ashes to Ashes” lascia qualche perplessità per la sua adesione pressochè totale ai canoni stilistici già esibiti da Ea e Monolithe

Parlare di questo disco presenta diversi trabocchetti, non ultimo quello di rischiare di contraddirsi più volte nel corso della stessa recensione.

Il problema è che questo Ashes to Ashes, album d’esordio della one-man band ucraina Luna, in pratica fonde senza mezzi termini gli ultimi lavori di Ea e Monolithe, attingendo a piene mani dalla formula che ha reso peculiari queste due grandi realtà del funeral-death doom, a partire dalla presenza nella tracklist di una sola, lunghissima, traccia. Le affinità non finiscono certamente qui, infatti lo stile compositivo esibito da DeMort, il musicista che sta dietro quest’operazione, non si discosta di un millimetro da quello espresso dalle due band citate, grazie alla sovrabbondanza di atmosfere evocative guidate per lo più da un solenne lavoro di tastiera, sovente dal tocco orchestrale, oppure da un uso minimale del pianoforte che va a tracciare linee melodiche semplici ma coinvolgenti, appoggiate su uno schema basato su un’alternanza quasi matematica tra riff e interventi delle batteria. Insomma, messa così ce ne sarebbe abbastanza per scagliare indignati le cuffie urlando al plagio (o giù di lì), se non fosse che Ashes to Ashes, nonostante la lunghezza e un’innegabile ripetitività di fondo, si rivela un ascolto assolutamente gradevole, in particolare per chi ama sia i misteriosi figuri privi di un nome ed un volto, sia i più riconoscibili ma altrettanto schivi transalpini. L’unica differenza, non da poco ai fini delle sua resa finale, è la matrice strumentale dell’album, il che ne rende inevitabilmente più faticoso l’ascolto, oltre a farlo sembrare, di fatto, un sorta di disco ambient sul quale siano stati innestati abilmente pesanti riff di chitarra e le percussioni. Per il resto nulla da dire sull’abilità di DeMort nel costruire quasi un’ora di musica credibile, riuscendo nel contempo a tenersi sufficientemente alla larga da quella stucchevolezza che, in simili circostanze, rischia di prendere in ogni attimo il sopravvento; positivo anche il fatto che, tutto sommato, Ashes To Ashes prenda quota nel suo quarto d’ora finale, quando però gli Ea diventano decisamente qualcosa in più di una semplice influenza. Insomma, prendendo questo lavoro così com’è, fingendo d’aver perso temporaneamente la memoria, potremmo godercelo senza alcuna remora; purtroppo non è così e, pur non essendo un maniaco dell’originalità a tutti i costi, non posso fare a meno di proporre un paragone alpinistico: c’è colui che apre una nuova via e c’è invece quello che, successivamente, la utilizza faticando indubbiamente molto meno; poi si potrà dire che entrambi sono arrivati comunque in vetta, ma nessuno dovrà mai dimenticare che ciò è avvenuto con tempi e modalità ben differenti.

Tracklist:
1. Ashes to Ashes

Line-up:
DeMort – Everything

Decembre Noir – A Discouraged Believer

Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati.

Il disco d’esordio dei Decembre Noir ci consegna una band death-doom decisamente di buon livello da un paese come la Germania invero non particolarmente prolifico rispetto al genere in questione.

Il gruppo proveniente da Erfurt cita diverse influenze che vanno a scomodare gran parte dei nomi di punta del settore, tra i quali ne mancano curiosamente due che verrebbero istintivamente in mente nell’ascoltare il disco: Daylight Dies e Novembers Doom, in quest’ultimo caso soprattutto per il growl di Lars piuttosto vicino quello di Paul Kuhr In effetti il death-doom dei Decembre Noir possiede una matrice più statunitense che non europea, in virtù della rinuncia sostanziale alle melodie tastieristiche per lasciare spazio ad un impatto più ruvido dove a fare la differenza sono fondamentalmente le armonie create dalla chitarra. Emblematica in tal senso la traccia autointitolata, forse quello più immediata nonché riuscita della tracklist, con i ragazzi tedeschi a mantenere per il resto del lavoro, ad eccezione del finale evocativo e struggente di Stowaway, una certa uniformità stilistica dall’inizio alla fine, laddove l’unica variabile è la velocità impressa ai diversi brani, . Tutt’altro che un male, questo, considerando che il livello medio è decisamente elevato e ciò rimuove qualsiasi dubbio sulla bontà di un lavoro come A Discourage Believer. Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati. Una band che può crescere ulteriormente e non poco.

Tracklist:
1. A Discouraged Believer
2. Thorns
3. The Forsaken Earth
4. Decembre Noir
5. Stowaway
6. Resurrection
7. Escape to the Sun

Line-up:
Mike – Bass
Kevin – Drums
Martin – Guitars
Lars – Vocals
Sebastian – Guitars

DECEMBRE NOIR – Facebook

Clouds – Doliu

Il dolore della perdita, la malinconia che si fa strada tra le pieghe del ricordo, la consapevolezza della caducità dell’esistenza ed il conseguente sgomento che ci travolge, sono gli ingredienti dei quali si nutre ogni singola nota di un disco sicuramente non facile, ma che non delude in alcun modo le aspettative derivanti da una line-up d’eccezione.

“The music is dedicated to departed ones, loved ones who now, are no longer amongst us.”

Parlare di supergruppo in generi musicali che si trovano agli antipodi della commercialità mi è sempre parso fuori luogo, anche perché, di solito, l’unione di musicisti di spicco provenienti da band diverse non sempre produce una somma pari al valore dei singoli e addirittura, molto spesso, il tutto si riduce ad una sterile ed autoreferenziale esibizione delle proprie capacità individuali.
Ma, se proprio dovessimo usare questo termine in ambito funeral-death doom, difficilmente potrebbe esserci un caso più appropriato di questo nel quale, per l’occasione, vengono riuniti sotto il monicker Clouds alcuni dei nomi più in vista della scena attuale e passata.
Daniel Neagoe, il terrificante cantore della trasposizione musicale dell’opera dantesca nel capolavoro degli Eye of Solitude, ha chiamato a raccolta il suo compagno nei Deos, Déhà (anche Slow ed Imber Luminis), il magnifico vocalist dei faeroeriani Hamferð, Jón Aldará, Kostas Panagiotou di Pantheon ed Aphonic Threnody, oltre a due nomi storici della scena quali Pim Blankenstein degli Officium Triste e Jarno Salomaa dei seminali Shape of Despair.
Con l’intento di dedicare l’album a tutte le persone a noi care, scomparse lasciandoci di loro solo uno struggente ricordo, Daniel si è occupato in toto della composizione di questo altro gioiello musicale che, pur richiamando parzialmente ed inevitabilmente quando fatto magnificamente con gli Eye of Solitude, spinge maggiormente verso un approccio intimista spesso ai confini dell’ambient, laddove è il pianoforte lo strumento incaricato di veicolare le emozioni che Doliu dona a profusione.
Il dolore della perdita, la malinconia che si fa strada tra le pieghe del ricordo, la consapevolezza della caducità dell’esistenza ed il conseguente sgomento che ci travolge, sono gli ingredienti dei quali si nutre ogni singola nota di un disco sicuramente non facile, ma che non delude in alcun modo le aspettative derivanti da una line-up d’eccezione.
Un ennesimo capolavoro che vede coinvolto questo magnifico musicista rumeno, capace di mettere sul piatto un’altra ora di musica che sgorga direttamente dal cuore, splendida in ogni frangente e con un brano fuori categoria per la sua sconvolgente bellezza come The Deep Vast Emptiness, dove le tastiere tratteggiano atmosfere di una drammaticità quasi insostenibile a livello emotivo prima che il caratteristico tocco di Jarno e il superbo growl di Daniel ci facciano sprofondare nei gorghi di una malinconia struggente, in un crescendo emozionale che sembra poter durare all’infinito.
Il resto dei brani si attesta come detto su atmosfere più soffuse ma ugualmente capaci di sorprendere, come in A Glimpse of Sorrow dove, dopo alcuni minuti di ambient strumentale affine al Brian Eno più ispirato, irrompe sulla scena il growl di Pim a squarciare l’atmosfera mestamente rilassata che era venuta a crearsi.
Difficile francamente attendersi di meglio e chi, come me, ritiene “Canto III” il disco funeral-death doom definitivo, solo evitando di fare l’inevitabile confronto può godere pienamente di questa nuova esibizione di talento e sensibilità compositiva di quello che, in questo momento, è in assoluto uno dei migliori musicisti nel genere specifico (e forse non solo …).

P.S. Parte dei proventi ottenuti con la vendita del disco (Clouds Bandcamp) verranno utilizzati per le cure alle quali deve essere sottoposta Annika, una ragazza affetta da una gravissima malattia. Semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, ecco un altro buon motivo per acquistare Doliu

Tracklist:
1. You Went so Silent
2. If These Walls Could Speak
3. Heaven Was Blind to My Grief
4. A Glimpse of Sorrow
5. The Deep Vast Emptiness
6. Even If I Fall

Line-up:
Jarno Salomaa – Guitars
Daniel Neagoe – Drums, Vocals
Déhà – Guitars, Bass
Kostas Panagiotou – Keyboards
Jón Aldará – Vocals (track 2)
Pim Blankenstein – Vocals (track 4)

CLOUDS – Facebook

Imber Luminis – Imber Aeternus

Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si intristiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.

Ci sono al mondo persone particolarmente in gamba, capaci di ottimizzare al massimo il proprio tempo per dedicarsi a molteplici attività, e il fatto che ci riescano pure con buoni risultati crea un senso di leggera frustrazione a chi fatica nell’organizzarsi in maniera decente una normalissima esistenza.

Il caso in esame è quello del musicista belga Déhà, che i lettori dotati di migliore memoria ricorderanno d’aver trovato anche nelle recensioni dei Deos, degli Slow e dei C.O.A.G..
Il fatto sorprendente non è solo che tutti questi lavori fossero accomunati da una qualità non comune ma risiede soprattutto nella varietà dei generi trattati, aspetto che depone a favore della versatilità compositiva di Déhà: infatti, se nei Deos, in compagnia di Daniel Neagoe, il genere prescelto era un death-doom di ottima fattura, con il monicker Slow spostava le coordinate sonore verso un funeral altrettanto convincente mente come C.O.A.G., in maniera invero sorprendente, si cimentava con le velocità esasperate del grindcore.
Imber Luminis ci mostra un ulteriore volto del musicista di Mons e, anche se è sempre il doom la base di partenza, in effetti questo è, tra tutti i lavori citati, quello che mostra le maggiori sfaccettature stilistiche.
Due brani lunghissimi, ciascuno ben oltre i venticinque minuti, conducono l’ascoltatore in un viaggio che prende l’avvio con le note dai tono quasi sognanti, ai confini dello shoegaze, di Imber, per poi spostarsi progressivamente, sia nel corso dello stesso brano sia in particolare con la successiva traccia Aeternus, verso una sofferenza priva di filtri, urlata nel vero senso del termine, facendo impallidire in tal senso anche i più estremi esponenti del depressive.
Un’interpretazione vocale sentita, volutamente eccessiva fino a lambire i confini del kitsch, porta l’album a livelli di disperazione quasi parossistici, il tutto assecondato da un impianto sonoro che mette costantemente in primo piano l’impatto emotivo, per un risultato finale francamente stupefacente.
Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si incupiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.
Un altro lavoro splendido per l’indaffarato musicista belga e, peraltro, questa degli Imber Luminis non è detto che sia l’ultima delle sue molteplici incarnazioni; quantità e qualità, non sono invero in molti ad unirle con tale disinvoltura in campo artistico …

Tracklist:
1. Imber
2. Aeternus

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Abysmal Grief – We Lead the Procession

“We Lead the Procession” nulla aggiunge e nulla toglie alla grandezza degli Abysmal Grief ma la possibilità di ascoltare brani inediti, recenti o più datati, costituisce una ragione più che valida per spingere gli appassionati a fare propria la raccolta.

Circa un anno dopo aver parlato del loro magnifico ultimo album “Feretri”, gli Abysmal Grief tornano sul mercato con questa interessante raccolta retrospettiva intitolata We Lead the Procession.

Uscito in diversi formati (vinile, cd e anche musicassetta, tanto per rimarcare quanto l’immaginario estetico e musicale della band genovese sia fortemente radicato negli anni settanta), il lavoro è molto di più di una semplice compilation in quanto racchiude sia tracce inedite sia versioni alternative di brani già pubblicati.
Come sempre, qualsiasi prodotto marchiato Abysmal Grief non tradisce, visto che nessuno oggi, nemmeno nomi ben più celebrati e portati in palmo di mano dalla stampa specializzata, è in grado di proporre con uguale maestria un dark doom orrorifico di tale levatura.
La musica dei nostri evoca gli effluvi penetranti dei piccoli cimiteri, l’odore di muffa di antiche foto in bianco e nero estratte da uno scatolone rimasto dimenticato per decenni sullo scaffale di una cantina, rivelandosi l’ideale colonna sonora di quei film e sceneggiati televisivi capaci di provocare pathos e autentico terrore senza neppure dover ricorrere a costosissimi effetti speciali.
We Lead the Procession, ovviamente, nulla aggiunge e nulla toglie allo status degli Abysmal Grief, ma la possibilità di ascoltare ottimi brani come le più recenti riedizioni di Open Sepulchre e Mors Eleison, e documenti che paiono davvero registrati e riprodotti con un mangianastri di settantiana memoria (Bara), costituisce una ragione più che valida per spingere gli appassionati a fare propria la raccolta.

Approfitto della tempestiva pubblicazione di questo articolo per segnalare a chi risiede a Genova e dintorni che gli Abysmal Grief, per una volta, giocheranno in casa esibendosi sabato 24 maggio presso L’Angelo Azzurro (Via Borzoli 39): un’occasione da non perdere assolutamente …

Tracklist:
1. Open Sepulchre
2. Fear of Profanation
3. Raise the Dead
4. Exsequia Occulta
5. Procession
6. Bara
7. Profanation
8. Mors Eleison

Line-up:
Lord Alastair – Bass
Regen Graves – Guitars, Drums
Fog – Drums
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Doomed – Our Ruin Silhouettes

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Attestatosi ormai stabilmente bel prestigioso roster della Solitude, Pierre non tradisce le coordinate di base che hanno caratterizzato il suo death-doom sia nell’esordio “The Ancient Path” sia nel successivo “My Own Abyss” ma, in quest’occasione, il sound si concede in diverse occasioni aperture melodiche capaci di attenuare l’effetto claustrofobico che fino a ieri ne era contemporaneamente trademark e parziale limite.
La chitarra infatti si lascia andare a passaggi capaci di segnare i singoli brani, proprio ciò che veniva meno nei lavori precedenti dove invece veniva privilegiato un impatto di matrice death, senza dubbio efficace ma alla lunga privo del necessario cambio di marcia.
Non che i Doomed siano diventati di punto in bianco dei discepoli dei Saturnus, intendiamoci, il doom della one-man band teutonica è sempre piuttosto corrosivo e scevro di soluzioni di facile presa, ma la rabbiosa aggressività del recente passato lascia maggiormente spazio a una chitarra che trasmette più amarezza che malinconia, in ogni caso.
La scelta di aprire il disco ospitando alla voce uno dei cantanti simbolo del death-doom melodico europeo, ovvero Pim Blankenstein degli Officium Triste, denota anche a livello di intenti un maggiore ammorbidimento del sound, aspetto che a mio avviso permette ai Doomed di compiere un decisivo salto di qualità.
When Hope Disappears è infatti forse il brano migliore scritto da Pierre in questo biennio, non solo grazie al contributo vocale dell’ospite (del resto il musicista tedesco dispone egli stesso di un growl ben più che adeguato) ma, soprattutto, per la presenza di una chitarra capace di disegnare melodie sufficientemente dolenti; lo stesso accade anche in fondo anche in The Last Meal, dove in questo caso l’ospite è il meno noto Andreas Kaufmann, e nella conclusiva What Remains, per un trittico di brani che mostra il lato più melodico dei Doomed.
Il resto di Our Ruin Silhouettes si assesta sui livelli e sulle coordinate dei precedenti lavori, ma è indubbia la percezione di un lavoro di scrittura più definito e in qualche modo più aperto e non è da escludere che, essendo divenuti i Doomed, almeno dal vivo, una band a tutti gli effetti, Pierre ne abbia risentito positivamente anche in fase di composizione.
Ancora una volta, quindi, non si può che accogliere con soddisfazione una nuova uscita del musicista tedesco che, senza fare troppi proclami, prosegue con teutonica regolarità la sua marcia d’avvicinamento ai vertici del death-doom.

Tracklist:
1. When Hope Disappears
2. In My Own Abyss
3. A Reccurent Dream
4. The Last Meal
5. My Hand in Yours
6. Revolt
7. What Remains

Line-up:
Pierre Laube – All Instruments, Vocals

DOOMED – Facebook‎‎

Forgotten Tomb – Darkness in Stereo: Eine Symphonie des Todes – Live in Germany

Ogni appassionato di metal che si rispetti non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di ascoltare il primo documento live ufficiale della formidabile band emiliana, che in quest’ora scarsa propone alcuni dei propri cavalli di battaglia

In occasione dell’uscita del loro nuovo DVD Darkness in Stereo: Eine Symphonie Des Todes – Live in Germany i Forgotten Tomb fanno un gradito omaggio ai loro fan offrendo in free download la registrazione del concerto tenuto in occasione del Kings Of Black Metal Festival del 2012 in quel di Ansfeld (Germlania).

Ogni appassionato di metal che si rispetti non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di ascoltare il primo documento live ufficiale della formidabile band emiliana, che in quest’ora scarsa propone alcuni dei propri cavalli di battaglia, come i più datati Todestrieb, Solitude Ways e Disheartenment e i più recenti Reject Existence, Shutter e Spectres over Venice ma, ovviamente, molti altri potranno essere apprezzati all’interno del DVD che contiene ben 3 spettacoli tenuti dai Forgotten Tomb in Germania nel corso del 2012 . Il concerto, ripulito il giusto a livello di suoni senza minimamente snaturarne l’essenza, mostra Herr Morbid e soci in piena forma, capaci di catturare il pubblico con una serie di brani eccezionali all’insegna del caratteristico black-doom impreziosito da un lavoro chitarristico dall’innato gusto melodico. L’occasione per fare proprio questo ottimo documento musicale è ghiotta ma, mentre i fan più affezionati difficilmente si faranno sfuggire l’opportunità di procurarsi il DVD, soprattutto chi non conoscesse ancora una delle migliori band tricolori in circolazione ha la possibilità di colmare tale grave lacuna, magari andandosi anche a recuperare in seguito alcune delle pietre miliari del nostro metal estremo quali “Songs To Leave” e “Springtime Depression”.

Tracklist:
1. Springtime Depression
2. Reject Existence
3. Shutter
4. Solitude Ways
5. Todestrieb
6. Spectres over Venice
7. Disheartenment

Line-up:
Ferdinando “Herr Morbid” Marchisio – guitar, vocals
Andrea “A.” Ponzoni – lead guitar
Alessandro “Algol” Comerio – bass
Kyoo Nam “Asher” Rossi – drums

FORGOTTEN TOMB – Facebook

]]>

Kaunis Kuolematon – Kylmä Kaunis Maailma

“Kylmä Kaunis Maailma” è un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.

Dopo aver recensito per ben due volte i Kuolemanlaakso eccoci alle prese con un monicker piuttosto simile come quello dei Kaunis Kuolematon; inutile dire che anche qui ci troviamo immersi mani e piedi nella magnifica terra dei mille laghi alle prese con un’altra band che potrebbe rivelarsi tra le scoperte più eccitanti dell’anno.

L’uso del condizionale non è riferito a dubbi sul contenuto musicale di Kylmä Kaunis Maailma bensì proprio alla difficoltà che avrete avuto (almeno che non abbiate ascendenze finniche) nel pronunciare correttamente il titolo; il ricorso integrale alla lingua madre rischia, infatti, di rivelarsi un ostacolo per quelle fasce di ascoltatori meno forniti di pazienza e di apertura mentale.
Superato questo relativo scoglio risulta però facile innamorarsi perdutamente dei Kaunis Kuolematon, capaci di comporre un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.
Lo spettro nobile quanto ingombrante dei Swallow The Sun aleggia inevitabilmente sul disco, e non è escluso che l’artificio linguistico sia anche un modo per rendere meno automatici certi accostamenti, ma va detto che, al di là di similitudini più o meno evidenti, i nostri mantengono quale tratto comune con i loro maestri soprattutto la stupefacente capacità di comporre melodie difficilmente accantonabili, inserendole in un contesto sonoro robusto ma sempre dotato del giusto equilibrio.
La prestazione vocale di Olli Saakeli Suvanto è eccellente, priva com’è di sbavature nelle parti in growl e in screming (sulla falsariga quindi del miglior Kotamaki), così come quella di Mikko Heikkilä, il quale in aggiunta alle sei corde si occupa anche delle evocative clean vocals, utilizzate a profusione nei brani più rilassati e in quelli dai tratti epicheggianti.
Il livello complessivo ben oltre la media non impedisce a qualche traccia di spiccare sulle altre, in particolare la splendida En ole mitään, dal tasso emotivo irresistibile e abbinata anche ad un video strappalacrime, o la successiva Sieluni sirpaleet, senza dimenticare la superlativa Aamu.
Anche se i Kaunis Kuolematon si fanno preferire nei frangenti più emozionali, pure quando spingono sull’acceleratore risultano coinvolgenti spostandosi decisamente sul versante death melodico, ma in ogni singolo momento dell’album la band finnica dimostra una spiccata personalità che riesce a farle superare con disinvoltura i limiti imposti dal genere e le inevitabili comparazioni con i nomi più pesanti del settore.
Come detto in avvio, la scelta di cantare in lingua madre temo che possa comportare la chiusura di diverse porte nei confronti dei Kaunis Kuolematon, almeno al di fuori dei confini patri, mentre, per loro fortuna, sul fronte interno si trovano ad avere a che fare con una popolazione numericamente esigua ma incredibilmente ricettiva verso generi musicali che altrove (qualcuno ha detto Italia ?) non vengono minimamente presi in considerazione a livello mediatico (ci tengo a ricordare che nel 2006 la Finlandia trionfò all’Eurofestival mandando in propria rappresentanza nientemeno che i Lordi)
Ma, al di là di tutte queste considerazioni, Kylmä Kaunis Maailma resta a mio avviso uno dei migliori dischi usciti in questo primo terzo del 2014 e tanto deve bastare per spingervi a fare una piacevole full-immersion di finlandese.

Tracklist:
1. Pimeyden valtakunta
2. Itsestään kuollut
3. Kivisydän
4. Kuolematon
5. En ole mitään
6. Sieluni sirpaleet
7. Pahan kasvot
8. Aamu
9. Haudasta hautaan

Line-up:
Jarno Uski – Bass
Miika Hostikka – Drums
Olli Saakeli Suvanto – Vocals
Ville Mussalo – Guitars
Mikko Heikkilä – Guitars, Vocals (clean)

KAUNIS KUOLEMATON – Facebook

Ordog – Trail For The Broken

Probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà apprezzabile quest’album, ma chi volesse capire da dove nasce la mia parziale delusione vada a riascoltarsi “Remorse”.

I finlandesi Ordog solo tre anni fa si erano rivelati con un disco straordinario come “Remorse”, nel quale fornivano un interpretazione del funeral doom del tutto personale, sia per i suoni prescelti sia per l’approccio decisamente naif alla materia.

Pertanto mi sono avvicinato speranzoso a questo nuovo Trail for the Broken, quarto full-length della loro discografia, ricevendone in cambio una parziale delusione.
Intendiamoci, il disco di per sé non è affatto disprezzabile e contiene, anzi, diversi episodi di ottima fattura; il fatto è, però, che delle sonorità plumbee e sofferte del suo predecessore non è rimasto quasi più nulla visto che quello che potremo ascoltare in questo frangente è un gothic-prog-doom dai tratti sempre piuttosto anticonvenzionali ma ben lontano dall’evocare le atmosfere malate o dal riprodurre gli spunti geniali del suo predecessore.
Se gli Ordog, finchè erano alle prese con il funeral sghembo di “Remorse”, riuscivano a sopperire ad alcune lacune di stampo esecutivo grazie alla loro particolare sensibilità compositiva, con l’approdo a sonorità più fruibili si spingono in territori nei quali non sempre si trovano a proprio agio, specie per l’uso di clean vocals non all’altezza che affossa in più parti il disco anche quando vengono espressi spunti strumentali di indubbio spessore.
La voce di Aleksi Martikainen è infatti troppo piatta e talvolta neppure sufficientemente intonata per fare presa su un pubblico più ampio, come si presume sia stato l’intento dei finnici con questo evidente salto stilistico, ed il virtuale accantonamento del più consono growl non si rivela una scelta azzeccata.
L’album vive così di sprazzi di buona musica nei quali l’abilità dei nostri nell’imbastire melodie struggenti non viene meno, il tutto però è caratterizzato da un’eccessiva discontinuità e, laddove si centra il bersaglio con due brani segnati da un bel lavoro di tastiera come Devoted to Loss e Enter The Void, oppure come con I Ceased to Dream, che si risolleva dopo un avvio poco incisivo grazie a un finale decisamente riuscito, bisogna fare i conti anche con un episodio invero sconcertante per la sua piattezza come Abandoned.
Ma forse io sono severo per troppo amore nei loro confronti e, probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà comunque apprezzabile quest’album che, come già detto, non sarebbe corretto liquidare come un qualcosa di negativo; se vogliamo tracciare un parallelismo, il loro percorso rassomiglia non poco, anche come esito, a quello dei Pantheist, partiti come i finnici da una base funeral-death doom, poi abiurata per approdare a sonorità più marcatamente gotiche e progressive.
Semplicemente, chi ne avesse voglia, vada a riascoltarsi la title track di “Remorse” quando, dopo tredici minuti di autentica agonia basati su passaggi pianistici minimali

ed un riff distorto all’inverosimile, il brano esplode in un delirio psichedelico degno dei migliori Bigelf: l’esperienza di questo ascolto varrà più di mille parole per spiegare in maniera chiara e netta chi erano gli Ordog nel 2011, una band in grado di raggiungere magari pochi intimi ma capace di regalare loro momenti indimenticabili, e quello che sono oggi, un gruppo che piacerà senz’altro a molte più persone senza riuscire probabilmente a lasciare una traccia tangibile nel cuore di alcuno.

Tracklist:
1. The Trail
2. Scythe
3. The Swarm of Abhorrence
4. Devoted to Loss
5. Enter the Void
6. I Ceased to Dream
7. Abandoned
8. The Crows of Towerpath

Line-up :
Valtteri Isometsä – Guitars, Drums, Vocals (backing)
Aleksi Martikainen – Vocals
Jussi Harju – Keyboards
Ilkka Kalliainen – Bass

ORDOG – Facebook

Dread Sovereign – All Hell’s Martyrs

Anche se qui non stiamo parlando dei Primordial, inevitabilmente i fan della storica band irlandese non si faranno sfuggire la possibilità di apprezzare l’ora abbondante di musica di qualità contenuta in “All Hell’s Martyrs” .

Alan Averill (Nemtheanga) non è tipo che ami stare fermo a dormire sugli allori.

Nonostante l’ultimo disco dei suoi Primordial non sia recentissimo continua ad calcare i palchi di mezza Europa (è solo dello scorso febbraio l’eccellente esibizione al Rock’n’Roll di Romagnano Sesia) e, non contento, propone questo suo progetto doom denominato Dread Sovereign, assieme al fido drummer Simon O’Laoghaire ed al chitarrista Bones dei misconosciuti Wizards of Firetop Mountain.
Anche se non nuovo ad incursioni nel genere, dopo aver prestato dieci anni or sono la propria voce al magnifico “Human Antithesis” dei romani Void of Silence, etichettare semplicemente come doom questo nuova avventura di Alan non sarebbe corretto: tale definizione è ineccepibile per brani come Thirteen Clergy e Cthulhu Opiate Haze, nei quali la band appare come una versione dei The Wounded Kings con voce sacerdotale maschile anziché femminile, e per i primi minuti di diverse altre tracce nelle quali il sound prende successivamente sfumature che esulano ampiamente dagli schemi della musica del destino (la sulfurea ritualità dell’allucinata Pray to the Devil in Man, le derive quasi in stile paradiselostiano nelle parti finali di We Wield the Spear of Longinus e Cathars to Their Doom)
Ma tali riferimenti, alla fine, vengono manipolati e stravolti da Alan con tonalità particolarmente velenose ed anche inconsuete per il suo tipico range vocale, poggiandosi su un tappeto musicale sufficientemente dinamico quanto non di semplicissima lettura.
Va detto che una base ritmica lineare ma efficace, a cura dello stesso Nemtheanga al basso e di Sol Dubh, supporta alla perfezione il lavoro chitarristico di Bones, piuttosto originale e capace di esibire suoni inconsueti per il genere, mostrando talvolta un tocco dai tratti vicini alla darkwave ottantiana, come nella splendida Scourging Iron; un aspetto decisamente anomalo, e che a molti non sarà sfuggito, è comunque il reiterarsi in momenti diversi del disco degli stessi accordi chitarristici che si rivelano, però, un artificio utile nel fornire ai brani una ritmica ed un fascino del tutto particolare.
Come si può intuire All Hell’s Martyrs non è un lavoro di semplicissima fruizione, tanto che non lo definirei del tutto adatto agli appassionati del doom più tradizionale; qui i fantasmi di Sisters Of Mercy e Fields Of The Nephilim si aggirano inquietanti tra le partiture del lavoro, donandogli un’aura a suo modo unica: la conclusiva e lunghissima All Hell’s Martyrs, Transmissions from the Devil Star sembra davvero una traccia suonata dagli autori di “Elizium” in preda ad una sorta di trip space-gothic-doom, con esiti magnifici.
Su tutto il lavoro però si staglia inequivocabile la voce unica per capacità evocativa di Alan Averill che, senza nulla togliere all’ottimo lavoro dei musicisti che lo hanno accompagnato in tutte le sue avventure musicali, si rivela da sempre l’elemento capace di elevare all’eccellenza anche dischi che con un altro cantante sarebbero stati considerati buoni e nulla più.
I Dread Sovereigns con questo lavoro ripagano parzialmente chi aveva ritenuto “Redemption at the Puritan’s Hand” un gradino sotto a un capolavoro come “To the Nameless Dead” e, anche se qui non stiamo parlando dei Primordial, inevitabilmente i fan della storica band irlandese non si faranno sfuggire la possibilità di apprezzare l’ora abbondante di musica di qualità contenuta All Hell’s Martyrs .

Tracklist:
1. Drink the Wine
2. Thirteen Clergy
3. Cthulhu Opiate Haze
4. The Devil’s Venom
5. Pray to the Devil in Man
6. Scourging Iron
7. The Great Beast
8. We Wield the Spear of Longinus
9. Cathars to Their Doom
10. All Hell’s Martyrs, Transmissions from the Devil Star

Line-up :
Nemtheanga – Bass, Vocals
Sol Dubh – Drums
Bones – Guitars

DREAD SOVEREIGN – Facebook

Aphonic Threnody & Frowning – Of Graves, of Worms, and Epitaphs

Questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tempo di split album per gli Aphonic Threnody, i quali, dopo l’ottimo “Immortal In Death”, in coppia con i georgiani Ennui, sempre sotto l’egida della GS Production ci regalano altre due splendide tracce, questa volta condividendo gli spazi con la meno conosciuta one man band tedesca Frowning.

Rispetto a “Ruins”, contenuta nella predente uscita, spicca l’assenza di Kostas sicchè anche le tastiere vengono curate da Riccardo Veronese, il che rende il sound decisamente molto più guitar oriented e, a mio avviso, ancor più efficace rispetto alla già rimarchevole precedente uscita.
Scorched Earth è un brano dall’elevato tasso drammatico, nel quale la band, supportata dall’illustre ospite Jarno Salomaa (Shape Of Despair) rallenta ulteriormente il passo creando atmosfere avvolgenti grazie a riff che combinano impatto e melodia, il tutto esaltato da una magnifica prestazione vocale di Roberto Mura.
La successiva The Last Stand Against the Gloom non si rivela affatto inferiore, esaltando ancor più se possibile l’ispirato trademark classico del death-doom d’oltemanica, tanto che viene spontaneo chiedersi come mai gli Aphonic Threnody non abbiano fatto uscire un intero lavoro a proprio nome, mettendo assieme questi tre eccellenti brani per un minutaggio complessivo di quasi tre quarti d’ora, invece di spalmarli su due split album.
Poco male, comunque, quando la musica è di questo livello, la maniera scelta per veicolarla passa necessariamente in secondo piano.
Come detto, la seconda parte dello split è affidata ad un nome nuovo, Frowning, progetto solista funeral di Val Atra Niteris, musicista tedesco di estrazione black che ha all’attivo un album con gli Heimleiden.
Portandosi inevitabilmente appresso alcune delle caratteristiche tipiche delle one man band, il suono in questo caso è più minimale rispetto a quello di una band vera e propria come gli Aphonic Threnody, ma il risultato non è affatto disprezzabile, anzi: Funeral March è un brano decisamente in linea con gli standard del genere, esibendo una struttura compositiva capace di evocare il giusto pathos, mentre più composita appare In Solitude, dotata com’è di una toccante intro pianistica, e mostrando nel complesso il lato più riflessivo di Val.
Due brani piuttosto convincenti che costituiscono la maniera ottimale per presentarsi agli appassionati in attesa del full-length di prossima uscita .
In definitiva, questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai i quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Scorched Earth
2. Aphonic Threnody – The Last Stand Against the Gloom
3. Frowning – In Solitude
4. Frowning – Funeral March

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo – Guitars, Bass, Keyboards
Roberto – Vocals, Lyrics
Abel – Cello
Marco – Drums

Frowning
Val Atra Niteris – Everything

APHONIC THRENODY – Facebook

Crypt Of Silence – Beyond Shades

Esordio soddisfacente ma non eccezionale, difficilmente però la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Gli ucraini Crypt Of Silence si presentano al passo d’esordio per la Solitude con un solido album di death doom piuttosto ossequioso alla tradizione ma non per questo da sottovalutare a priori.

Indubbiamente la band di Mikhael Graver non si va a collocare sui livelli di eccellenza raggiunti da diversi loro compagni di scuderia negli ultimi tempi, difettando rispetto a questi sia in drammaticità che in gusto melodico, ma resta il fatto che ogni appassionato che si rispetti non dovrebbe ignorare questo buonissimo disco, all’insegna di un sound molto essenziale, nel quale spicca soprattutto l’assenza delle tastiere e quindi, di quelle armonie capaci spesso di fare la differenza in un genere dai tratti monolitici come quello in questione.
In sede di presentazione da parte della label viene citato curiosamente un singolo album come principale fonte di ispirazione, ovvero quel “The Sullen Sulcus” che è sicuramente stato il migliore degli album prodotti dai Mourning Beloveth fino all’uscita dello splendido Formless, ma non parliamo certo di un lavoro capace di segnare la storia del genere; sicuramente tali riferimenti non sono campati per aria (in particolare nelle conclusiva End of Imaginary Line ) ma qui siamo di fronte, soprattutto, ad una band relativamente giovane che intende proporre un death doom scarno ma dall’immutato impatto malinconico senza cercare facili scorciatoie.
Le quattro lunghe tracce portano Beyond Shades a sfiorare i cinquanta minuti, snodandosi in maniera sofferta ma sufficientemente coinvolgente, con qualche assolo di chitarra e diversi passaggi acustici ad incrinare il muro sonoro eretto dai quattro ragazzi ucraini.
E’ da considerare quindi più che sufficiente questo lavoro dei Crypt Of Silence, considerando appunto che si tratta pur sempre di un esordio, in particolare per l’integrità dimostrata e per il coraggio nel proporre con efficacia un modello stilistico leggermente superato; difficilmente la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Tracklist:
1. Walk with My Sorrow
2. Bleeding Her Eyes
3. The Wrath Song
4. End of Imaginary Line

Line-up :
Andriy Buchinskiy – Drums
Roman Kharandyuk – Guitars (rhythm), Vocals
Roman Komyati – Guitars (lead)
Mikhael Graver – Vocals, Bass, Lyrics

CRYPT OF SILENCE – Facebook

Kuolemanlaakso – Tulijoutsen

Viene confermata l’impressione di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere.

Il secondo album dei finnici Kuolemanlaakso arriva dopo un ep di recente uscita (Musta Aurinko Nousee) del quale abbiamo parlato qualche mese fa su queste pagine .

Il lavoro su lunga distanza conferma l’impressione ricavata in tale circostanza, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere, e questo pur potendo annoverare in formazione uno come Mika Kotamaki, vocalist dei Swallow The Sun, il che farebbe presupporre sonorità in qualche modo ricondicibili a quella band.
In realtà croce e delizia del disco è la relativa disomogeneità della proposta che, se da un parte ha il pregio di mostrare diverse sfaccettature stilistiche, dall’altra tenta con qualche difficoltà di far convivere all’interno del lavoro brani tra di loro agli antipodi come per esempio la rocciosa opener Aarnivalkea e la discutibile “swing-doom” Glastonburyn Lehto.
La stessa Me vaellamme yössä, che avevamo già trovato in apertura di “Musta Aurinko Nousee” in versione “edit”, in questa sua veste integrale si conferma canzone di sicuro impatto e dal buon potenziale commerciale, ma inserita tra la pesantezza dei riff delle ottime Verihaaksi e Arpeni finisce per apparire persino come un brano troppo “leggero”.
Ma, a conti fatti, se escludiamo la sola Glastonburyn Lehto, eccessivamente fuori dagli schemi per poter essere realmente apprezzata, Tulijoutsen è decisamente un buon disco che oltre ad avvalersi delle sempre efficaci vocals di Kotamaki mette in luce le eccellenti doti compositive di Laakso, in grado di produrre brani convincenti sia quando calca la mano sul versante più cupo e intimista (Arpeni) sia quando riesce a trovare un equilibrio ideale tra la robustezza del sound e le aperture melodiche, come avviene nella conclusiva Tuonen Tähtivyö, impreziosita anche da una gradevole voce femminile.
Kuolemanlaakso si rivela quindi un disco meritevole di attenzione, per quanto non troppo accessibile in tempi brevi in particolare per il ricorso alla lingua madre in sede di stesura dei testi; la sensazione è però quella che Laakso stia ancora testando sul campo la resa effettiva del suo progetto, come farebbe pensare l’elevata frequenza delle uscite (due full-length e un Ep) in un lasso di tempo relativamente breve.

Tracklist:
1. Aarnivalkea
2. Verihaaksi
3. Me vaellamme yössä
4. Arpeni
5. Musta
6. Glastonburyn lehto
7. Tuonen tähtivyö

Line-up :
Usva – Bass
Tiera – Drums
Kouta – Guitars
Laakso – Guitars, Keyboards
Kotamäki – Vocals

KUOLEMANLAAKSO – Facebook

Aphonic Threnody & Ennui – Immortal In Death

Per entrambe le band ci troviamo probabilmente di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Chi pensa che gli split album siano tutto sommato operazioni trascurabili nel complesso della discografia di una band, pur non avendo del tutto torto a livello di principio, viene nell’occasione smentito da questo Immortal In Death, che vede alle prese, con un brano ciascuno, una sorta di internazionale del doom come gli Aphonic Threnody e gli emergenti georgiani Ennui.

Del resto, tre quarti d’ora di musica racchiusa in sole due tracce testimoniano quanta carne al fuoco ci sia all’interno di questo ottimo lavoro all’insegna del funeral-death doom più cupo e malinconico.
Lo split si apre con i venti minuti di Ruins, ad opera degli Aphonic Threnody, band che racchiude musicisti piuttosto noti nella scena quali l’inglese Riccardo V. (Dea Marica, Gallow God), gli italiani Roberto M. e Marco Z. (Dea Marica, Urna), il belga Kostas P. (Pantheist, Wijlen Wij) e l’ungherese Abel L..
Mai come in questo caso, l’unione di queste ottime individualità produce una somma di valori adeguata alle attese, regalando un brano eccellente che va a collocarsi oltre il livello standard raggiunto con le già quotate band di provenienza: Ruins risulta una vera e propria summa di tali esperienze con la quale, aderendo in toto ai dettami della scuola britannica, gli Aphonic Threnody fanno propria la lezione intrisa di decadente lirismo impartita un ventennio fa dai My Dying Bride, rielaborandola con la necessaria competenza ed ottenendo un risultato per certi versi inatteso, tale è il coinvolgimento prodotto da questo brano, capace di crescere in maniera esponenziale fino ad esaltare le caratteristiche peculiari del genere in un finale magnifico.
La traccia proposto dagli Ennui, Hopeless, ci consente di mettere a confronto una scuola più consolidata con quella di recente tradizione dell’area ex-sovietica: il duo georgiano composto da David Unsaved e Serj Shengelia ha all’attivo due album di recente uscita, “Mze Ukunisa” del 2012 e “The Last Way” del 2013, entrambi di ottima fattura e capaci di imporli immediatamente all’attenzione degli appassionati.
Rispetto ai compagni di avventura gli Ennui accentuano maggiormente l’aspetto malinconico della composizione, lasciando che il costante connubio tra la chitarra solista ed il growl profondo di David dipinga uno scenario di immane disperazione; il risultato è brano lungo quanto intenso e in grado di sprigionare emozioni a getto continuo, ale quale è pressoché impossibile restare indifferenti.
Ecco spiegato il motivo per il quale vale la pena di attribuire a questo split, pubblicato dall’etichetta russa GS Production, la stessa dignità di un full-length, non solo per la sua ragguardevole durata complessiva ma soprattutto per la qualità immessa da Aphonic Threnody e Ennui nei due brani spingendomi ad affermare che, per entrambe le band, ci troviamo di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Ruins
2. Ennui – Hopeless

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo V. – Guitars, Bass
Roberto M. – Vocals, Lyrics
Abel L. – Cello
Marco Z. – Drums
Kostas P. – Keyboards

Ennui
Serj Shengelia – Guitars, Bass, Drums
David Unsaved – Guitars, Vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

ENNUI – Facebook

Fuoco Fatuo – The Viper Slithers in the Ashes of What Remains

I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.

L’album d’esordio dei varesini Fuoco Fatuo si presenta all’insegna del death-doom più rigoroso e incontaminato, una scelta stilistica invero non troppo diffusa dalle nostre parti.

The Viper Slithers in the Ashes of What Remains infatti, riesce nell’impresa di amplificare nel contempo sia l’esasperante lentezza del doom sia la sorda violenza del death: il risultato è uno spaventoso monolite sonoro di oltre cinquanta minuti, capace di afferrare alla gola i malcapitati ascoltatori trascinandoli nei suoi gorghi e spingendoli sempre più in basso, fino a quegli abissi mai lambiti da un barlume di luce e popolati da creature mostruose, simili a quelle che popolavano i visionari racconti di Lovecratf.
Avevamo lasciato il trio lombardo alle prese con un ep, “33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero”, che ne aveva messo in luce le indubbie potenzialità, vedendoli spaziare da una base solidamente doom, ora verso sfumature sludge ora di matrice dark ambient, senza disdegnare l’uso di un hammond capace di imprimere al sound un indubbio fascino; poco più di un anno dopo la direzione musicale appare molto più chiara e, mai come in questo caso, la compattezza stilistica a scapito di una certa versatilità si rivela paradossalmente essere più un vantaggio che non un limite.
I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.
Le rare accelerazioni, dai rimandi black, non vanno ad intaccare un quadro d’insieme che, per esemplificare al massimo, potrebbe ricordare sia una versione a 16 giri degli opprimenti Morbid Angel di “Covenant” sia, soprattutto, un’ulteriore estremizzazione del già pesante death-doom dei maestri statunitensi Evoken; una nera colata di note che non lascia speranze di salvezza alle anime dannate, pervicacemente percosse da una tale ottundente violenza.
Ascoltate The Viper Slithers in the Ashes of What Remains come se fosse composto da un’unica traccia, ad un volume confacente ai biechi intenti dei Fuoco Fatuo, lasciandovi definitivamente seppellire da una lavoro dannatamente coinvolgente pur nella sua apparente linearità.

Tracklist:
1. Ancestral Devouring Anxiety
2. Junipers of Black Iridescence
3. Inner Isolation in a Sea of Mist
4. Eternal Transcendence into Nothingness
5. Requiem for Nulun

Line-up :
Giovanni “Ken” Piazza – Bass
Fabrizio Moalli – Drums
Milo Angeloni – Vocals, Guitars

FUOCO FATUO – Facebook

Shattered Hope – Waters Of Lethe

Quattro anni rispetto alla precedente uscita non sono passati invano portando al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.

Quando, nel 2010, i greci Shattered Hope pubblicarono il loro album d’esordio intitolato “Absence”, non tutta la critica fu concorde nel riconoscervi i prodromi di un’esplosione definitiva di quel potenziale, allora solo parzialmente dimostrato, convogliato in questo magnifico Waters Of Lethe.

In effetti, il lavoro d’esordio mostrava una band dal songwriting piuttosto lineare e, tutto sommato, orientato ad un death-doom pesante il giusto ma contenente pur sempre ampi squarci melodici, decisamente apprezzabile quindi, per quanto non ancora sufficiente a collocare il combo ateniese ai vertici del doom estremo.
Waters Of Lethe dimostra, invece, quella crescita che appariva ineluttabile quasi si trattasse di un disegno delle divinità dell’Olimpo: gli ottanta minuti di opprimente e plumbeo dolore tradotto in musica spostano in maniera netta le coordinate sonore sul versante funeral, senza che per questo motivo la componente melodica venga messa in secondo piano.
Visti dal vivo lo scorso anno in quel di Romagnano nella loro unica apparizione italiana di fronte a pochi e fortunati intimi, gli Shattered Hope erano chiaramente quelli che, tra le band presenti, esibivano il suono meno immediato, più profondo eppure ricco di fascino, capace di lasciare allo spettatore il piacere di trovare la giusta chiave di lettura per assaporarne pienamente l’amaro calice musicale .
Con queste premesse l’attesa per il nuovo album era sicuramente giustificata e fortunatamente non è stata tradita, a conferma del fatto che questi quattro anni sono stati un periodo senz’altro lungo ma necessario per portare al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.
Waters Of Lethe prende l’avvio con Convulsion, brano caratterizzato da una struggente parte finale che mostra però, a tratti, un sound leggermente più aggressivo rispetto a quello che verrà proposto nel resto del lavoro; ma appare evidente che, dopo questa eccellente prova di forza di oltre dodici minuti, quello che ci attende è un viaggio agli inferi lento, terribile, opprimente e pregno di disperazione, ovvero tutto ciò che chi ama il funeral desidera ascoltare.
La successiva For the Night Has Fallen è, infatti, un classico brano nel quale le armonie chitarristiche si snodano in maniera ottimale su una struttura più tradizionalmente devota ai maestri My Dying Bride, mentre My Cure Is Your Disease va a rievocare le partiture bradicardiche degli Worship del brano capolavoro “All I Ever Knew Lie Dead” arricchendole di un relativo dinamismo e di un più spiccato gusto melodico, per un risultato finale splendido.
La bellezza di questo disco è riscontrabile anche nella sua costante progressione qualitativa che trova il suo apice in Obsessive Dilemma, traccia nella quale la chitarra dipinge desolanti affreschi sonori che vanno ad intrecciarsi con un growl cangiante ed espressivo.
Un lavoro già ampiamente al di sopra della media va a chiudersi con due tracce dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora che risultano nel contempo le più complesse del lotto, ma capaci di svelare sempre più il loro fascino dopo ogni ascolto: certo, i cinque minuti di funeral integralista collocati nella coda di Aletheia contribuiscono ad appesantire di molto l’ascolto, quasi a voler controbattere la relativa orecchiabilità della sua parte centrale, ma costituiscono pure un ideale viatico alle atmosfere sublimi poste ad introduzione della conclusiva Here’s To Death, lunghissima litania dai tratti delicati quanto funesti capace di uguagliare i miglior Esoteric e Mournful Congregation.
Come già ripetuto più volte in frangenti analoghi, il recente Canto III degli Eye Of Solitude, spostando ulteriormente in alto lo standard qualitativo del genere, si pone nel presente come ingombrante termine di paragone per chi voglia cimentarsi in questo medesimo terreno: ebbene, al riguardo si può dire che nessuno come gli Shattered Hope sia riuscito finora ad avvicinarsi alla magnificenza della band londinese, rispetto alla quale il sestetto greco risulta appena inferiore solo per l’impatto drammatico, essenzialmente a causa di una minore enfasi, conferita in quel caso dall’imponente lavoro delle tastiere che, invece, in Waters Of Lethe, svolgono un elegante quanto discreto lavoro di accompagnamento lasciando principalmente alle chitarre il compito di sviluppare armonie splendide quanto malinconiche.
Ma non c’è dubbio sul fatto che questo lavoro rappresenti un’ideale summa di quanto prodotto dal pantheon del funeral death-doom negli ultimi vent’anni, andando non solo a rimodellare con una rilettura del tutto personale quanto già fatto da chi ha scritto la storia del genere, ma riuscendo persino ad eguagliarne l’intensità e il pathos.

Tracklist:
1. Convulsion
2. For the Night Has Fallen
3. My Cure Is Your Disease
4. Obsessive Dilemma
5. Aletheia
6. Here’s to Death

Line-up :
Nick – Vocals
George – Drums, Percussion
Sakis – Guitars
Thanos – Guitars
Eugenia – Keyboards
Thanasis – Bass

SHATTERED HOPE – Facebook