Jac Dalton – Powderkeg

Powderkeg è un buon lavoro, la voce del leader è sanguigna il giusto e le melodie sono perfettamente inserite in un contesto rock che non fa mancare una buona dose di grinta.

Jac Dalton è un singer americano trapiantato in Australia, Powderkeg è il suo terzo album uscito originariamente nel 2015 ma arrivato da noi solo quest’anno e ristampato in autoproduzione.

L’album segue di ben cinque anni, nella prima versione, il precedente Icarus album che aveva fatto conoscere Dalton agli amanti dell’ hard rock melodico.
Accompagnato da una band di tutto rispetto, Dalton è tornato ripresentando Powderkeg, opera scritta a quattro mani con il chitarrista e leader dei rockers Ice Tiger Graham Greene, anche se ad oggi la line up risulta rivoluzionata rispetto a quella protagonista sull’album.
Powderkeg risulta comunque un buon album di hard rock ottantiano, grintoso, melodico e composto da un lotto di buone canzoni tra Whitesnake era cotonata e il primo Bon Jovi.
Greene sembra abbia scritto più della metà dei brani e il sound mostra una vena improntata sulla sei corde tra hard rock melodico, ottime atmosfere nate nella polverosa frontiera (i Bon Jovi di Blaze Of Glory) e quel tocco di blues in un classic rock che rimanda al serpente bianco, quello che mordeva pulzelle tra le vie di Los Angeles.
Blow Me Away con un hard rock pregno di watt, l’irresistibile arena rock di Can’t Unrock Me, l’aor di Just Enough To Believe, primo pezzo da novanta di Powderkeg, così come la title track, che sembra scritta dal Coverdale in stato di grazia del best seller 1987 e One Heart/One Land, ballad dal sapore southern tra Bon Jovi ed i Poison di Every rose has its thorn.
Insomma cari amanti dell’ hard rock melodico ottantiano, Powderkeg è un buon lavoro, la voce del leader è sanguigna il giusto e le melodie sono perfettamente inserite in un contesto rock che non fa mancare una buona dose di grinta.

Tracklist
01. PowderKeg
02. Blow Me Away
03. Roll With The Punches
04. Sweet Emotion
05. Just Enough To Believe
06. HardCore SuperStar
07. Can’t UnRock Me
08. Let It Go
09. One Heart/One Land
10. When I’m Alone With You

Line Up
Jac Dalton – Vocals
Graham Greene – Guitars, B.vocals
Annemieke Heijne – Guitars, B.Vocals
Jim Awram – Bass
Troy Brazier – Drums
Jason Dohrmann – Keyboards, Bass, B.vocals
Donna Greene – Percussions, B.vocals

JAC DALTON – Facebook

Grave Pleasures – Motherblood

Motherblood è una perfetta ed ideale immersione nelle sempre gradite ed attuali sonorità del post punk/ dark wave: i Grave Pleasures riprendono tutto il meglio dell’epopea sviluppatasi nell’ultimo ventennio del secolo scorso e la restituisce con un piglio moderno ma non troppo, preservandone con cura le fondamentali linee guida.

Seconda uscita su lunga distanza per i Grave Pleasures, band anglo-finnica già conosciuta nei primi anni del decennio con il monicker Beastmilk.

Motherblood è una perfetta ed ideale immersione nelle sempre gradite ed attuali sonorità del post punk/ dark wave: la band guidata dal vocalist Mat McNerney riprende tutto il meglio dell’epopea sviluppatasi nell’ultimo ventennio del secolo scorso e la restituisce con un piglio moderno ma non troppo, preservandone con cura le fondamentali linee guida.
Motherblood è un viaggio in una macchina del tempo che non odora di stantio e i riferimenti più o meno marcati agli eroi dei primi anni ottanta (The Cure), ai successivi campioni della gothic wave (Sisters Of Mercy) e ai continuatori della specie in versione più pop (Echo & The Bunnymen), sopraggiungono sotto forma di una serie senza soluzione di continuità di potenziali hit che non lasciano tregua né lo spazio a considerazioni sulla freschezza o sull’opportunità di una simile proposta.
I Grave Pleasures propongono soprattutto, con grande maestria, quella forma canzone che certi odierni epigoni dell’epoca talvolta perdono di vista: l’impressione è che questo mix di musicisti dal diverso background (pensiamo solo che Juho Vanhanen, co-autore assieme al vocalist di gran parte del materiale, fa parte dei grandi Oranssi Pazuzu) abbia raggiunto l’ideale quadratura del cerchio con quest’album che regala musica allo stesso tempo cupa e ballabile, drammatica ed ariosa.
Arrivate alla quarta traccia, Joy Through Death, molte band avrebbero solo cercato di scrivere altrettanti brani con funzione di riempitivo, paghe di una tale espressione qualitativa: due bombe come Infatuation Overkill e Be My Hiroshima non si compongono né per caso né tutti i giorni, ma i Grave Pleasures offrono ancora una mezza dozzina di canzoni trascinanti tra le quali spiccano Mind Intruder e le conclusive Deadenders e Haunted Afterlife.
Non si deve commettere l’errore di pensare che l’approdo alla Century Media equivalga ad un’accentuazione commerciale dell’approccio dei nostri: ovviamente Motherblood è un album di notevole fruibilità, ma lo è solo per chi conserva dentro di sé quel seme oscuro gettato a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 e che non ha mai smesso di far germogliare le proprie funeste infiorescenze.
Del resto l’approccio alla materia dei Grave Pleasures si sorregge sull’equilibrio tra le varie componenti del sound, con le diverse anime che si intrecciano in un morboso abbraccio senza che l’una finisca mai per prevalere sull’altra; troppo spesso il post punk del nuovo secolo è caratterizzato da una grande attenzione per la forma che finisce per restituire un’oscurità solo di facciata: con i Grave Plesaures questo non accade e gli orfani delle grandi band ottantiane possono avvicinarsi a Motherblood con la certezza di vedere ampiamente ripagata lo loro fiducia.

Tracklist:
01. Infatuation Overkill
02. Doomsday Rainbows
03. Be My Hiroshima
04. Joy Through Death
05. Mind Intruder
06. Laughing Abyss
07. Falling For An Atom Bomb
08. Atomic Christ
09. Deadenders
10. Haunted Afterlife
11. There Are Powers At Work In This World

Line up:
Mat McNerney – Vocals
Juho Vanhanen – Guitars
Aleksi Kiiskilä – Guitars
Valtteri Arino – Bass
Rainer Tuomikanto – Drums

GRAVE PLEASURES – Facebook

Arabs In Aspic – Syndenes Magi

L’operato degli Arabs In Aspic appare sostanzialmente come un’oasi di purezza, una sorta di valicamento di un portale spazio temporale capace di far rivivere emozioni antiche.

Quando il monicker di una band contiene la parola “aspic” e il genere offerto è il progressive, scatta inevitabilmente l’associazione di idee con uno dei tanti capolavori dei King Crimson.

Se poi, fin dalle prime note della title track, non si fa nulla per nascondere la devozione per la creatura frippiana, con i primi cinque minuti che omaggiano brani come, appunto, Larks’ Tongues In Aspic, Pictures Of A City e Easy Money, in una maniera così esplicita da apparire per assurdo del tutto limpida ed onesta, è evidente che gli Arabs In Aspic riavvieranno il consueto ed irrisolto dibattito che verte sull’utilità o meno di riproporre sonorità la cui genesi risale, ormai, a quasi mezzo secolo fa.
In fondo, la vita dei musicisti che si dedicano oggi a questo genere non è facile, almeno in Italia: l’appassionato di vecchia data, salvo rare eccezioni, si è fermato nella migliore delle ipotesi alla fine degli anni ’70, rigettando a priori qualsiasi proposta proveniente da band di formazione recente e presenziando regolarmente i concerti dei pochi reduci rimasti o, piuttosto, quelli delle numerose (e spesso ottime, bisogna ammetterlo) cover band dei gruppi storici; chi è approdato all’ascolto del prog nel nuovo secolo, invece, è più probabile che possa apprezzare maggiormente un diverso approccio, prendendo come punto di riferimento gruppi che in qualche modo contaminano il genere con robuste iniezioni metalliche.
Ecco perché, paradossalmente, una riproposizione così fedele alla tradizione, come è quella offerta dalla band norvegese, merita il massimo rispetto, visto che dietro non ci può essere alcun calcolo di tipo commerciale ma, semmai, uno smisurato amore per quelle sonorità che cambiarono non poco la vita a chi nacque negli anni ‘50 e ‘60.
L’approccio alla materia degli Arabs In Aspic è rispettoso, competente e a tratti commovente: la title track, posta in apertura dell’album, come già detto, dissipa qualsiasi dubbio su quali possano essere i contenuti dell’album, con il suo veleggiare  spedito grazie alla spinta di possente vento crimsoniano.
Le altre due tracce che vanno a comporre la tracklist di Syndenes Magi si intitolano Mörket 2 e Mörket 3, si sviluppano complessivamente per circa mezz’ora e cambiano parzialmente le coordinate sonore, non tanto per un’ipotetica modernizzazione del sound ma, piuttosto, per il loro aprirsi alla ricerca di nuove fonti di ispirazione che, in particolare nelle parti chitarristiche e per l’approccio vocale, portano direttamente ai Pink Floyd.
A proposito della voce, i nostri decidono di utilizzare la lingua madre, scelta che potrà anche apparire opinabile visto che il norvegese non è certo idioma di grande musicalità, ma che in quest’occasione conferisce al tutto un minimo di peculiarità.
La lunga traccia di chiusura conferma tutto quanto ci si poteva prefigurare in base ai venti minuti di musica offerti in precedenza, offrendone altrettanti nei quali la qualità complessiva non scende mai sotto la soglia dell’eccellenza, al netto dei riferimenti espliciti che si palesano di volta in volta (i vocalizzi femminili sono per esempio un rimando ai Pink Floyd di The Great Gig In The Sky), che devono essere visti, appunto, come un rispettoso omaggio e non come una comoda scorciatoia compositiva.
Gli Arabs In Aspic, infatti, sono molto di più che degli abili copisti, e la loro forza è la grande coerenza, quella che in certi passaggi fa stentare a credere che Syndenes Magi sia stato pubblicato in un’epoca come quella odierna, nella quale la sensibilità ed il romanticismo sono sentimenti sempre più sopraffatti dalla protervia di un’umanità che prosegue inconsapevole la propria folle corsa verso il baratro.
Ecco, quindi, che l’operato degli Arabs In Aspic appare sostanzialmente come un’oasi di purezza, una sorta di valicamento di un portale spazio temporale capace di far rivivere emozioni antiche, provocando forse anche un po’ di nostalgia, mista al piacere di ritrovare ancora oggi qualcuno in grado di evocare quelle stesse sensazioni proponendo meritoriamente musica scritta di proprio pugno.

Tracklist:
1.Syndenes magi
2.Mörket 2
3.Mörket 3

Line up:
Jostein Smeby: Guitars, Vocals
Stig Jørgensen: Keyboards, Organs
Erik Paulsen: Bass, Vocals
Eskil Nyhus: Drums

ARABS IN ASPIC – Facebook

Night – Raft Of The World

Raft Of The World è un album godibile specialmente se gli ‘anta li avete passati da un pezzo, essendo composto da un lotto di brani che è una specie di passeggiata tra la fine degli anni settanta e l’entrata nel decennio d’oro per la nostra musica preferita.

Attivi dal 2011 arrivano al terzo full length i Night, band svedese della quale vi avevamo già parlato sulle pagine metalliche di InYourEyes.

Sei anni e tre lavori, non male di questi tempi, con il nuovo Raft Of The World che sposta leggermente il sound del gruppo verso un hard & heavy vecchia scuola: del sound dei Night rimane dunque la forte impronta tradizionale a rimarcare la voglia di classico delle nuove generazioni metalliche, di cui questi svedesi fanno sicuramente parte.
Non più o non solo heavy metal maideniano è quello che troviamo nelle trame dei brani di questo nuovo lavoro, ma un’ispirazione più concentrata sul finire degli anni settanta e su band classic hard rock come Thin Lizzy e UFO.
Nel frattempo il cambio di etichetta ed il numero dei componenti portato a quattro sono le altre novità che Raft Of The World regala a coloro ai quali non sono sfuggiti i precedenti album, vintage e classici come impone la tendenza di questo periodo.
Così, lasciata indietro l’influenza new wave of british heavy metal per un hard & heavy classico e molto melodico, i Night si ripresentano in buona forma, complice un buon songwriting e tanta melodia in brani di rock duro e maturo, dove la band più che ricercare il chorus vincente si concentra sulle ritmiche e su un lavoro chitarristico di scuola UFO, molto ben congegnato.
Raft Of The World è un album godibile, specialmente se gli anta li avete passati da un pezzo, composto da un lotto di brani che, dall’opener Fire Across The Sky in poi, è una specie di passeggiata tra la fine degli anni settanta e l’entrata nel decennio d’oro per la nostra musica preferita.

Tracklist
1.Fire Across the Sky
2.Surrender
3.Under the Gallows
4.Omberg
5.Time
6.Strike of Lightning
7.Winds
8.Coin in a Fountain
9.Where Silence Awaits

Line-up
Highway Filip – Bass, Guitars
Burning Fire – Vocals, Guitars
Joseph Max – Bass
Dennis Skoglund – Drums

URL Facebook
https://www.facebook.com/nightbandofficial/

Demon Eye – Prophecies And Lies

Le tracce che compongono l’album non sono mai troppo doom o troppo psichedeliche, la potenza è bilanciata e l’hard rock vintage comanda le operazioni così da mantenere una linea per tutta la durata, senza picchi clamorosi ma pure senza cadute ragguardevoli.

Si palesano sonorità heavy doom che, come una pioggia nera, creano un’alluvione di atmosfere vintage: il mercato in questi ultimi anni, non ha smesso un attimo di proporre agli amanti dell’ hard rock sabbathiano nuove opere ed altrettante band, molte autentiche sorprese, altre più ordinarie ma comunque in grado di risvegliare maghi, streghe e folletti in giro per il mondo.

I Demon Eye sono un quartetto del North Carolina attivo da cinque anni, il loro nome è ispirato dal famoso brano dei Deep Purple ed arrivano al terzo full length dopo l’esordio Leave The Light licenziato nel 2014 ed il precedente Tempora Infernalia uscito un paio di anni fa.
Anche il sound di Prophecies And Lies si stabilizza su un hard rock settantiano che, a braccetto con il doom, balla intorno al fuoco intonando canti e riti psichedelici, sicuramente non originale ma indubbiamente piacevole.
Le tracce che compongono l’album, infatti, non sono mai troppo doom o troppo psichedeliche, la potenza è bilanciata e l’ hard rock vintage comanda le operazioni così da mantenere una linea per tutta la durata, senza picchi clamorosi ma pure senza cadute ragguardevoli.
Prophecies And Lies scivola via e si consuma come un falò che alle prime luci dell’alba si spegne inesorabilmente, lasciando un gradevole odore di legna e i partecipanti al rituale si allontanano, con ancora nelle orecchie le note di In The Spyder’s Eye, Dying For It e la conclusiva Morning’s Son, parentesi zeppeliniana dell’album.
Per il resto si viaggia su tempi dettati da Pentagram, Sabbath e compagnia di sacerdoti metallici, mentre la luce del giorno nasconde gli incantesimi e le magiche pozioni preparate tra il buio e le ombre che le fiamme creano, alimentate dal sound dei Demon Eye.

Tracklist
1. The Waters and the Wild
2. In the Spider’s Eye
3. The Redeemer
4. Kismet
5. Infinite Regress
6. Dying For It
7. Politic Devine
8. Power of One
9. Vagabond
10. Prophecies and Lies
11. Morning’s Son

Line-up
Erik Sugg – Vocals,Guitars
Larry Burlison – Guitars
Paul Walz – Bass
Bill Eagen – Drums, Vocals

DEMON EYE – Facebook

Deaf Havana – All These Countless Nights

L’album alterna canzoni più incisive ad altre che risultano pennellate rock, un contorno di musica che riesce ad emozionare coinvolgendo l’ascoltatore in questo risorgere dalle proprie dalle ceneri di una band ripartita per donarsi una nuova chance.

Si torna a parlare di rock dalle ispirazioni mainstream con il nuovo album dei Deaf Havana, gruppo inglese arrivato al quarto lavoro sulla lunga distanza di una carriera iniziata nel 2009.

Storia colma di mille problemi quella del quintetto di Norfolk, con un passato da gruppo alternativo e dal sound che passava da post hardcore all’emo, per poi arrivare dopo alcuni cambi di line up ed un periodo buio lastricato di ostacoli di ogni genere, all’uscita di All These Countless Nights, nuovo inizio all’insegna di un rock moderno e pregno di una disperata ricerca della giusta forza per ricominciare.
Album perfetto sotto l’aspetto melodico, molto melanconico ed intenso, anche se siamo nel mondo del rock alternativo tra indie e pop, All These Countless Nights vive di queste atmosfere, ma riesce a non stancare, grazie ad un lotto di brani che gravitano tra le sensazioni descritte, ora più elettriche ora più apertamente leggere, sottolineate dall’ottima interpretazione di James Veck-Gilodi.
L’album così alterna canzoni più incisive ad altre che risultano pennellate rock, un contorno di musica che riesce ad emozionare coinvolgendo l’ascoltatore in questo risorgere dalle proprie dalle ceneri di una band ripartita per donarsi una nuova chance.
L.O.V.E., il contrasto tra le intense ballate come Seattle ed il rock dalle sei corde che lanciano note dalle ispirazioni dal sapore noise di Sing, sono il motivo conduttore di un lavoro che si assesta su livelli buoni per tutta la sua durata.
Non resta che fare gli auguri alla band per un cammino più sereno nel mondo del rock e consigliare l’ascolto di All These Countless Nights a chi si nutre di queste sonorità.

Tracklist
01.Ashes, Ashes
02.Trigger
03.L.O.V.E
04.Happiness
05.Fever
06.Like a Ghost
07.Pretty Low
08.England
09.Seattle
10.St. Paul’s
11.Sing
12.Pensacola

Line-up
James Veck-Gilodi – Vocals, Guitars
Matthew Veck-Gilodi – Guitars
Lee Wilson – Bass
Tom Ogden – Drums, Percussions
Max Britton – Piano, Keyboards

DEAF HAVANA – Facebook

Soror Dolorosa – Apollo

Apollo si rivela un’ideale riproposizione di queste sonorità che continuano ad albergare nel cuore delle anime più inquiete, nonché sensibili al richiamo dell’oscurità che si fa musica.

Terzo album per i Soror Dolorosa, i quali si propongono in maniera autorevole come portabandiera di quel modo di far musica che in molti (anche noi adepti del metal) abbiamo amato negli anni ’80 e ’90 grazie a band come The Cure e Bauhaus prima, e Sisters Of Mercy e The Mission poi.

Come tutti i generi musicali neppure quello che viene comunemente chiamato post punk appare fuori tempo massimo: ciò che realmente conta sono la bellezza della musica e l’attendibilità di chi la propone, due aspetti che la band francese rispetta in pieno, anche dal punto di vista estetico e tematico.
Apollo è un album magnifico, che ha il solo difetto d’essere eccessivamente lungo, con i suoi quattordici brani tra i quali inevitabilmente si finisce per rinvenirne qualcuno non proprio fondamentale, ma si tratta oggettivamente di un qualcosa molto vicino alla ricerca del classico pelo nell’uovo: qui abbiamo una serie di canzoni che riescono ad essere nel contempo eleganti e profonde, restituendo tutte le pulsioni del genere in una veste comunque moderna senza che ne venga snaturata l’essenza.
Pur nella sua complessiva uniformità stilistica, la tracklist offre canzoni dagli umori sfaccettati, passando da tonalità più cupe e rarefatte ad altre contaminate da una misurata componente elettronica: anche per questo l’album non perde in interesse pur nella sue robuste dimensioni, agevolato anche da diversi brani di grande spessore, a partire dall’opener e title track, “sisteriana” anche come da ragione sociale.
The End ha le classiche stimmate del singolo, trattandosi di un brano arioso, dal chorus memorizzabile pur senza essere smaccatamente ruffiano, e con quell’andamento a tratti indolente che riporta dalle parti di Disintegration, mentre A Meeting stende un velo di malinconia dalle tonalità color pastello ed Everyway è ancora lanciata su ritmi piuttosto andanti, con Andy Julia che fornisce un’interpretazione tipica del genere, tramite una voce che ai puristi potrà apparire stonata ma che in realtà possiede una notevole forza evocativa.
In effetti, il vocalist si disimpegna sempre ottimamente, mantenendo un proprio marchio ma esibendo anche una certa versatilità, rinunciando ad “eldritchiane” tonalità tenebrose ed optando, invece, per un approccio meno forzato. E lo stesso si può dire per una band che lo asseconda al meglio, nel rievocare tutti e nessuno allo stesso tempo, impresa per nulla scontata quando si approccia uno stile musicale in vita da oltre un trentennio.
Apollo si rivela quindi un’ideale riproposizione di queste sonorità che continuano ad albergare nel cuore delle anime più inquiete, nonché sensibili al richiamo dell’oscurità che si fa musica.

Tracklist:
1. Apollo
2. Locksley Hall
3. That Run
4. Everyway
5. Night Is Our Hollow
6. Another Life
7. Breezed & Blue
8. Yata
9. The End
10. Long Way Home
11. A Meeting
12. Deposit Material
13. Golden Snake
14. Epilogue

Line up:
Hervé Carles : Bass guitar
Nicolas Mons: Guitar
David-Alexandre Parquier: Guitar
Frank Ligabue : Drums
Andy Julia : Vocals

SOROR DOLOROSA – Facebook

Rancho Bizzarro – Rancho Bizzarro

I Rancho Bizzarro arrivano da Livorno con due chitarre, un basso e una batteria e fanno un desert stoner rock strumentale molto efficace e molto desertico.

Izio Orsini, bassista e fondatore dei Rancho Bizzarro, è un uomo che ha un gran talento musicale, ama visceralmente un certo tipo di suono e appena può sperimenta, facendo dischi bellissimi come Weedooism, sempre per Argonauta Records sotto lo pseudonimo Bantoriak, e ora torna con questo progetto di musica strumentale.

I Rancho Bizzarro arrivano da Livorno con due chitarre, un basso e una batteria e fanno un desert stoner rock strumentale molto efficace e molto desertico. La lezione dei Kyuss, di Brant Bjork solista e di quel filone nato fra le sabbie del deserto è la maggiore fonte d’ispirazione per questo gruppo, ma non certamente l’unica. La jam in sala prove è il fondamento di questo gruppo, entrano, suonano e si crea la magia, poi in studio si edita e si dà quel tocco in più. Essendo un gruppo strumentale non c’è il supporto della voce che a volte può mascherare qualche deficit musicale e viceversa, ma qui la ricchezza musicale renderebbe eventuali parti cantate quasi fastidiose. L’atmosfera è molto western e desertica, i riff precisi, il basso di Izio scava tortuosità dentro le linee melodiche, e la produzione è ricca, fa risaltare bene i suoni, mentre a volte in questo genere si tende ad alzare troppo gli alti. E poi ovviamente l’influenza sabbathiana è presente, ma anche perché quei ragazzi da Birmingham hanno fatto dei paradigmi a cui devi rifarti se vuoi musica pesante, poi devi essere bravo a rielaborare il tutto per conto tuo, e i Rancho Bizzarro lo sono.
Questo gran bel disco strumentale, strutturato e suonato molto bene, sarà una sorpresa per chi non conosceva ancora Izio Orsini, che qui raccoglie dei magnifici musicisti e solleva molta polvere del deserto.

Tracklist
1 Five Hermanos
2 Garage Part Two
3 Incredible Bongo
4 Mood Brant
5 Yo Man
6 Katching
7 Mr Aloba

Line-up
Izio – bass
Matt – guitar
Mark – guitar
El Meloso – drums

RANCHO BIZZARRO – Facebook

Royal Guard – Lights & Dreams

Non è affatto vero che di questi tempi non escono lavori di hard rock classico per i quali valga la pena rompere il salvadanaio: il dirompente debutto di questi cinque rockers ne è la prova.

Il mondo del rock è fatto di luci e sogni, quelli che hanno portato gli italianissimi Royal Guard al debutto, licenziato dalla Sliptrick Records, arrivando direttamente alle corde degli amanti del rock duro.

Poche informazioni sulla nascita del gruppo, ma tanta buona musica, almeno per chi non smette di sognare tra le luci del Sunset Boulevard e le strade che portano verso i cancelli di uno stadio dove si consuma il rito al dio del rock.
Esplosivo, senza sbavature, pregno di chitarre taglienti, ritmiche da canguro australiano in trip per Black In Black, o da giovane metallers chiodato tra Skid Row e le giovani leve che negli ultimi tempi hanno acceso le notti scandinave, Lights & Dreams risulta una botta di vita hard and heavy niente male.
Non un filler, non un accenno a sedersi un attimo e prendere respiro, i Royal Guard spingono dall’inizio alla fine, ci attaccano al muro con tonnellate di watts e ci salutano con la ballad posta in chiusura, i classici titoli di coda di una battaglia a suon di schiaffi hard rock che il singer Dave e compagnia ci hanno riservato per questo primo adrenalinico lavoro.
Fin da The Cage, opener che ci invita alla festa con un riff che taglierebbe la corazzata di un carro armato, Lights & Dreams è un susseguirsi di hit che in un mondo migliore sarebbero in rotazione su ogni radio rock che si rispetti, dal singolo No Regrets a Change Direction, dagli inni Live Forever a Rise Up And Fight, per arrivare all’elettrizzante My Way.
Non è affatto vero che di questi tempi non escono lavori di hard rock classico per i quali valga la pena rompere il salvadanaio: il dirompente debutto di questi cinque rockers ne è la prova.

Tracklist
01. The Cage
02. Shiver
03. No Regrets
04. Midnight Kiss
05. Change Direction
06. Live Forever
07. Breaking Floor
08. Rise Up And Fight
09. My Way
10. No God

Line-up
Mad Matt – Bass
Taba – Guitar & Vocals
Simo – Drums
Dave – Vocals
Cinghia – Guitar

ROYAL GUARD – Facebook

Oddfella – Am/Fm

Interessante lavoro interamente strumentale offerto da questa one man band portoghese denominata Oddfella.

Interessante lavoro interamente strumentale offerto da questa one man band portoghese denominata Oddfella.

João Henriques propone un rock dalle sfumature dark ed elettroniche molto convincente, nonostante il solito handicap costituito dall’assenza della voce: questa volta il corrispondente vuoto viene riempito per lo più da belle melodie, atmosfere ariose e sempre dotate di un valido spunto ritmico.
Valga come esempio migliore del lavoro un brano come Geisha, con il vago sentore orientale che rende pressochè irresistibile il tema portante ma, in generale, gli undici bravi brani di cui si compone Am/Fm sono tutti estremamente gradevoli e tengono alla larga ogni traccia di tedio.
Bravo, quindi, l’ottimo Henriques nel districarsi tra umori più eterei ed altri maggiormente robusti, come avviene in Never Look Back, o ancora su ritmi più sostenuti e screziati da pulsioni elettroniche (D.D.B.R.), aiutato da doti tecniche di prim’ordine e da una pulizia sonora invidiabile.
Questo primo album a nome Oddfella è, quindi, una bella sorpresa, mentre non lo è il fatto che il materiale pubblicato sotto l’egida della Ethereal Sound Works sia sempre e comunque contraddistinto da una qualità media elevata, nonostante giunga per lo più da musicisti conosciuti prevalentemente sul suolo lusitano.

Tracklist:
1.Steam Driven Passion
2.Puching Mirrors
3.The Great Simple Things
4.Geisha
5.Lipstick Skin and High Heels
6.Never Look Back
7.D.D.B.R.
8.Still Waiting For A Dawn
9.A Wiser Looser
10.Two Of Us
11.You’re At Peace

Line-up:
João Henriques

The Danger – The Danger

Hard & heavy senza compromessi, e si parte per le lunghe strade della riviera romagnola tra tra Motorhead e piadine, lambrusco e whisky.

Torna con il monicker leggermente cambiato la band nata sulle coste dell’adriatico (Bellaria) e conosciuta come The Danger Zone, con al microfono lo storico ex singer dei Vanexa, Marco Spinelli.

Attiva dal 1998 e con tre album all’attivo con il vecchio monicker, la band torna quindi sotto il nome The Danger ed un nuovo lavoro omonimo.
L’album è licenziato dalla band in doppia versione, la prima cantata come da tradizione in italiano e una seconda in inglese per avvicinarsi al mercato estero.
The Danger è un buon album di rock’n’roll ipervitaminizzato o se preferite di hard & heavy sfrontato, dal taglio punk e dai testi irrisori ma che si allontanano dalle tematiche porno del precedente lavoro uscito nel 2011.
Come si diceva, hard & heavy senza compromessi, un’attitudine da rockers navigati, come d’altronde sono, e si parte per le lunghe strade della riviera romagnola tra birra, ragazze e tanta musica rock, tra Motorhead e piadine, lambrusco e whisky.
L’album è composto da undici inni dedicati alla vita on the road ed al lyfe style da rockers duri e puri, mentre i testi scanzonati e ironici sono accompagnati dalla tecnica invidiabile della quale si possono vantare questi cinque ragazzacci del rock’n’roll che, oltre al citato vocalist, portano i nomi di Giorgio Crociati (chitarra), Denis Bedetti (chitarra), Stefano Vasini (batteria) e Nicola Sbrighi (basso).
Un album di rock duro, piacevole e godibile dall’inizio alla fine con due o tre canzoni che formano il cuore pulsante di canzoni come il super inno Metallari, L’amore No e la punkeggiante Cattivo Esempio.
Ho trovato che la proposta di una versione in inglese dell’album sia stata buona idea, trattandosi come è di un idioma molto più adatto alla musica suonata, fornendo un’ulteriore spinta a brani esplosivi ed esaltando anche la prestazione di Spinelli.
Questione di gusti, ovviamente, ma visto che vi troverete al cospetto delle due versioni , a voi la scelta e buon ascolto.

Tracklist
1.The Danger
2.Metallari
3.Scemo
4.Il Libeccio (il mio bar)
5.Rock ‘n’ Roll
6.L’Amore No
7.Bla Bla Bla
8.Alpornononsicomanda
9.California
10.Cattivo Esempio
11.Adrenalina (strumentale)

Line-up
Marco Spinelli (Spino) – Vocals
Denis Bedetti (Asiai) – Guitars
Giorgio Crociati (Jail) – Guitars
Nicola Sbrighi (Sbergi) – Bass
Stefano Vasini (Pelo) – Drums

THE DANGER – Facebook

Gerda/ Lleroy – Volumorama #4

Volumorama come al solito è sempre un’avanguardia del rumore, un vorticare di idee che saranno pure per pochi ma sono davvero un piacere per il cervello e per le orecchie di chi vuole un qualcosa che non sia omologato e fatto con passione e qualità.

Nuovo episodio per la serie Volumorama – Esplosioni di Underground Italiano – della Bloody Sound Fucktory, una delle etichette più innovative e di alta qualità del sottobosco italiano.

Questo è il primo Volumorama del 2017 ed è tutto marchigiano, rabbia e distorsione con un pezzo per uno dai Gerda di Jesi e dai Lleroy, jesini pure loro, ma trapiantati a Bologna. I Gerda con la loro traccia Vipera fanno sentire a che punto è la loro incredibile parabola musicale, una delle più interessanti del panorama italiano, con un emocore molto modificato e di difficile classificazione, ma di grande soddisfazione e profondità. I Gerda non sono mai ovvi, stupiscono sempre e riescono ad elaborare un suono sempre in movimento, mutante e potente, un percorso che non è ancora finito e riserverà grandi sorprese. I Lleroy sono un combo di hardcore moderno, che forse non è nemmeno definibile hardcore, ma mudcore come fanno loro, insomma bisogna sentirli per farsi un’idea. E l’ascolto di questo duo da l’idea di cosa sia il rumore fuori dallo schema, e Siluro li rappresenta molto bene. Inoltre i Lleroy sono usciti pochi mesi fa con Dissipatio Hc, un gran bel disco in free download sul loro bandcamp, e più di così cosa potrebbero fare?  Volumorama come al solito è sempre un’avanguardia del rumore, un vorticare di idee che saranno pure per pochi ma sono davvero un piacere per il cervello e per le orecchie di chi vuole un qualcosa che non sia omologato e fatto con passione e qualità.

Tracklist
01. Gerda – Vipera
02. Llleroy – Siluro

BLOODY SOUND FACTORY – Facebook

Magia Nera – L’Ultima Danza Di Ophelia

L’Ultima Danza di Ophelia è un bellissimo viaggio nella cultura e nelle leggende del dark rock nazionale, un tuffo nelle trame oscure e mistiche di cui la nostra penisola è ammantata da nord a sud.

Letteratura, cinema, pittura e soprattutto musica: gran parte dell’arte italiana porta inevitabilmente a parlare di leggende mistiche ed occulte e non è la prima volta che, per raccontarvi la storia di una band o di un album, partiamo dalla propensione per questi oscuri argomenti che da sempre contraddistingue la nostra penisola.

Magia Nera, un monicker che, dopo tutta la musica passata negli ultimi quarant’anni. porta a pensare ad un gruppo estremo: invece lo storico quintetto proveniente dalla provincia spezzina suona hard rock, a tratti psichedelico, ma vicino al sound dei maggiori gruppi britannici a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, primi fra tutti gli Uriah Heep ai quali viene dedicata la cover dell’immortale Gypsy, opener del debutto Very ‘Eavy Very ‘Umble.
Una storia praticamente finita prima di iniziare quella dei Magia Nera, spentasi prima di incidere l’album d’esordio e partire in tour con i New Trolls, e ora tornata a risplendere grazie alla reunion del gruppo al completo, con il solo ingresso del tastierista Andrea Foce e la registrazione di questo disco, rimasto in attesa d’essere terminato per lunghi decenni.
L’Ultima Danza di Ophelia è un bellissimo viaggio nella cultura e nelle leggende del dark rock nazionale, un tuffo nelle trame oscure e mistiche di cui, come detto, la nostra penisola è ammantata da nord a sud, e la colonna delle sonora delle poesie dark  raccontate dal cantastorie Emilio Farro non può non essere rock duro dal taglio dark progressive, con grintose sfumature che, appunto, riportano alla storica band britannica: un sound che ritrova nuova linfa anche grazie alla chitarra di Bruno Cencetti, ai tasti d’avorio di Andrea Foce, al basso di Lello Accardo e alle pelli percosse da Pino Fontana.
Nell’oscurità di un maniero, tra le colline che dividono la Liguria dalla Toscana, si celebra questo vecchio rito sabbatico con l’inizio dedicato ad Ophelia, seguita dal riff della splendida ed oscura Il Passo Del Lupo, La Strega Del Lago (in quota Uriah Heep) ed il canto di LaTredicesima Luna.
Il cuore del disco è lasciato a Dieci movimenti in cinque tracce, suite che porta alla conclusiva cover di Gypsy, chiusura di quest’opera d’altri tempi, affascinante ed imperdibile per tutti gli amanti del genere.
L’Ultima Danza di Ophelia non poteva rimanere nell’oscuro limbo al quale sembrava ormai destinata, e bene hanno fatto gli storici musicisti liguri a dargli finalmente una vita discografica.

Tracklist
1.Ophelia
2.Il passo del lupo
3.La strega del lago
4.La tredicesima luna
5.Suite: Dieci movimenti in cinque tracce
– Traccia uno: Movimento uno
– Traccia due: Movimenti due, tre, quattro
– Traccia tre: Movimenti cinque, sei
– Traccia quattro: Movimenti sette, otto
– Traccia cinque: Movimenti nove, dieci
6.Gypsy (Huriah Heep) bonus track

Line-up
Emilio Farro: Vocals
Pino Fontana: Drums
Lello Accardo: Bass
Andrea Foce: Keyboards
Bruno Cencetti: Electric Guitar

Holy Soldier – Last Train (reissue)

Last Train fa parte degli ultimi colpi di coda del glam metal, un album assolutamente da fare vostro se ancora oggi non potete fare a meno di Motley Crue, Warrant, Cinderella e degli eroi del Sunset.

Una chicca per gli amanti del metal/rock che risplendeva nelle notti dell’allora capitale della nostra musica preferita, Los Angeles, la Roxx Records, label specializzata in christian metal, ristampa il bellissimo album dei glamsters Holy Soldier, Last Train, uscito originariamente nel 1992, quando ormai il genere tendeva a lasciare il campo in favore dei suoni che giungevano dalla piovosa Seattle.

Nato nel 1985, il gruppo giunse al suo capolavoro alla seconda prova, dopo il debutto omonimo del 1990, e  Last Train fu l’ultimo treno anche per il vocalist Steven Patrick, un duro colpo per il gruppo che un paio d’ anni dopo si ripresentò sul mercato con Eric Wayne al microfono ed un album (l’ultimo Promise Man) che schiacciava l’occhiolino alle sonorità grunge e che faceva perdere al gruppo fans e fascino.
Ma veniamo a Last Train, album spumeggiante picco di questa notevole band che già aveva raggiunto un buon successo con il disco precedente, ma che con questo lavoro metteva la quinta e sverniciava un bel po’ di gruppi più famosi, specialmente nel vecchio continente: glam metal, quel tocco di hard rock sporcato di blues (alla Cinderella del primo, splendido Night Songs) incastonato in un lotto di brani uno più bello dell’altro, peccato solo per l’uscita tardiva ed ormai in pieno calo di consensi per il genere.
Forti della bellissima voce del singer, gli Holy Soldier facevano parte della corrente White Metal, in una cultura rock dove le buone intenzioni erano lasciate dentro le case dei fans ed il cristianesimo non aveva certo molto feeling con trucchi, pailettes e vite bruciate sul Sunset Boulevard.
Parlando di musica, Last Train rimane un gran bel lavoro, tra grinta patinata, semi ballad e rocciose hard rock songs come le splendide Crazy, Hallow’s Eve, la cover degli Stones Gimme Shelter ed il rock, sparato a duecento all’ora sulla collina che domina la città degli angeli, dal titolo Dead End Drive.
Last Train fa parte degli ultimi colpi di coda del glam metal, un album assolutamente da fare vostro se ancora oggi non potete fare a meno di Motley Crue, Warrant, Cinderella e degli eroi del Sunset.

Tracklist
1.Virtue & Vice
2.Crazy
3.Hallows Eve
4.Gimme Shelter (The Rolling Stones cover)
5.Love Is on the Way
6.Dead End Drive
7.Tuesday Mourning
8.Fairweather Friend
9.Last Train

Line-up
Andy Robbins – Bass, Vocals
Terry Russell – Drums, Vocals
Jamie Cramer – Guitars, Vocals
Steven Patrick – Vocals
Scott Soderstrom – Guitars

HOLY SOLDIER – Facebook

MoE / Gerda – Karaoke

Questo split è quanto di meglio possa offrire l’underground in quanto a rumore e sentimenti, distorsioni e amore per musica che è oltre la musica e si va scontrare con la vita, e con quello che c’è là fuori.

Ci sono amicizie che nascono con la musica e poi vanno ben oltre, dovute al comune sentire che poi si fa sentimento.

I MoE sono un trio norvegese che ha fatto del noise ,del rumore e del situazionismo la propria ragion d’essere, e nel loro genere sono molto bravi, fra i migliori. I Gerda invece sono italiani, vengono da Jesi e sono molto bravi nel fare emocore violento e distorto, e anche nel noise se la cavano. Entrambi i gruppi sono due gioie che vengono dal sottobosco musicale di chi ci crede per davvero, non cavalca le mode e fa tutto per passione. Se poi possiedi anche un bel talento è ancora più bello. Forse un’altra definizione di questi gruppi potrebbe essere diversamente hardcore, perché l’attitudine è quella, do it yourself e fallo con rabbia, ma con creatività. I due gruppi si conoscono e stimano da dieci anni, hanno suonato assieme e il tutto è partito dal rumore finito nell’atmosfera, ed è poi ridisceso sotto forma di rumore. I Gerda interpretato un canzone dei MoE, e i norvegesi hanno rifatto un pezzo degli italiani. È molto interessante sentire le strutture sonore che si incrociano e che seguono pulsando fortissimo altri canali. I MoE fanno diventare i Gerda un qualcosa di più lento e catartico, quasi un emo noise, molto originale e graffiante, andando un po’ oltre il loro canone. Invece i MoE come al solito rivoltano tutto e lo vomitano in maniera violenta e pazzesca, come se dei dipinti surrealisti prendessero vita e vi picchiassero, surrealità e schiaffoni. Questo split è quanto di meglio possa offrire l’underground in quanto a rumore e sentimenti, distorsioni e amore per musica che è oltre la musica, e si va scontrare con la vita, e con quello che c’è là fuori. Ma dentro vi garantiamo che siamo come questo split, Karaoke.

Tracklist
side A – Fucked Up Voice
composed by Gerda, performed by MoE

side B – Mucosa
composed by MoE, performed by Gerda

GERDA – Facebook

MOE – Facebook

Bluedawn – Edge Of Chaos

Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.

Misteri, leggende, storie tramadate per secoli in una città che fu repubblica e crocevia di razze, ombre che le strette strade dei vicoli trasformano in oscure creature che ci inseguono fino al mare.

Una Genova alternativa fuori dagli sguardi superficiali dei turisti o di chi vive la città senza fermarsi un attimo a condividerne l’anima e la sua totale devozione alla musica rock, fin dai tempi dell’esplosione progressiva negli anni settanta, dei cantautori e del sottobosco musicale che ha dato i natali a straordinarie realtà metal.
In questo contesto si colloca la Black Widow Records e di conseguenza i Bluedawn, band heavy/prog doom metal capitanata dal bassista e cantante Enrico Lanciaprima, attiva dal 2009 ed arrivata con questo Edge Of Chaos al terzo capitolo di una discografia che si completa con il primo album omonimo e Cycle Of Pain, licenziato quattro anni fa.
Con l’aiuto di una serie di ospit,i tra cui spicca Freddy Delirio (Death SS), la band genovese esplora in lungo e in largo il mondo oscuro del doom/dark progressivo, ed Edge Of Chaos risulta così un lavoro affascinante anche se pesante e dipinto di nero, cantato a due voci da Lanciaprima e da Monica Santo, interprete perfettamente calata nel sound disperatamente oscuro e malato dell’album.
E sin dalle prime note dell’intro The Presence la tensione e la soffocante atmosfera dell’album sono ben evidenziate, con un’aura occulta ed evocativa a permeare tutti i brani dell’opera che sono valorizzati dai vari ospiti e da un uso molto suggestivo delle voci, uno dei punti di forza di un brano come Dancing On The Edge Of Chaos.
Il sax di Roberto Nunzio Trabona conferisce ad alcune tracce un tocco crimsoniano e l’anima progressiva del gruppo si fa tremendamente mistica ed occulta, con accenni atmosferici a Devil Doll ed al dark rock dei Fields Of The Nephilim, mentre la parte elettronica spinge la splendida The Serpent’s Tongue verso il podio virtuale all’interno della tracklist di Edge Of Chaos.
Sofferto, pesante ma tutt’altro di ascolto farraginoso, il pregio di questo lavoro è proprio quello di tenere l’ascoltatore con le cuffie ben salde alle orecchie: le sorprese del primo passaggio nel lettore diventano conferme dello stato di salute dei Bluedawn che, al terzo album, centrano il bersaglio, come confermato dalla notevole Baal’s Demise, nella quale tornano protagonista il sax, e di conseguenza, le sfumature crimsoniane.
Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.

Tracklist
1.The Presence
2.Sex (Under A Shell)
3.The Perfect me
4.Serpent’s Tongue
5.Dancing On The Edge Of Chaos
6.Wandering Mist
7.Black Trees
8.Burst Of Life
9.Sorrows Of The Moon
10.Baal’s demise
11.Unwanted Love

Line-up
Monica Santo – Vocals
Enrico Lanciaprima – Bass, Vocals
Andrea “Marty” Martino – Guitars
Andrea Di Martino – Drums

James Maximilian Jason – Keyboards, Synth, Vocals
Caesar Remain – Guitars
Roberto Nunzio trabona – Saxophone
Marcella Di Marco – Vocals
Freddy delirio – Keyboard, Synth
Matteo Ricci – Guitars

BLUE DAWN – Facebook

Josh Todd & The Conflict – Year Of The Tiger

Secondo album solista per Todd e secondo capitolo personale di un musicista che non molla la presa e continua a sfoggiare una forza sorprendente.

E’ dunque arrivato l’anno della tigre, almeno è quello che giura Josh Todd, cantante dei rockers statunitensi Buckcherry, qui alle prese con un album di esplosivo hard rock sotto il monicker di Josh Todd & The Conflict, con il quale dimostra d’essere un musicista che non molla la presa continuando a sfoggiare una forza sorprendente.

In Year Of The Tiger il famoso cantante americano si è fatto aiutare dal chitarrista e suo compagno nei Buckcherry Stevie D, che ha anche co-prodotto il disco insieme a Eric Kretz (Stone Temple Pilots), mentre la sezione ritmica è stata affidata a Greg Cash (basso) e Sean Winchester (batteria).
Nessuna grossa sorpresa, Todd continua a graffiare da par suo su un sound molto più hard rock rispetto a quello della band madre, e urla indiavolato come al solito la sua voglia di rock al mondo dimostrandosi come sempre all’altezza della situazione.
Che Todd sia un animale (in questo caso, una tigre) selvaggio lasciato libero di sbranare a colpi di rock’n’roll ipervitaminizzato tutto sesso e whisky che brucia nella gola è confermato da questa raccolta di brani che in poco più di mezzora, sanno scaricare adrenalina a fiumi, ma non disdegnano di affondare i colpi con le classiche ballate perdenti come chi con il rock ci ha bruciato una vita, tradito, perduto, ma poi puntualmente tornato più forte e deciso di prima, nutrito di rabbia positiva ma devastante come nella roboante title track e in The Conflict, vere esplosioni di musica del diavolo lasciata tra le mani di questi insani guerrieri.
Se volete ancora confronti con la band che ha reso famoso il singer americano, direi che questo lavoro porta in sé un po’ di quella carica che aveva un album come Time Bomb, anche se meno leggero e sfrontato e come già accennato più rabbioso, heavy e moderno.
La voglia c’è sempre, il talento pure: lunga vita professionale a Josh Todd.

Tracklist
1.Year Of The Tiger
2.Inside
3.Fucked Up
4.Rain
5.Good Enough
6.The Conflict
7.Story Of My Life
8.Erotic City
9.Push It
10.Atomic
11.Rain

Line-up
Josh Todd – Vocals
Steve Dacanay – Guitars
Sean Winchester – Drums
Gregg Cash – Bass

JOSH TODD AND THE CONFLICT – Facebook

Ankor – Beyond the Silence of These Years

La proposta degli Ankor è oltremodo immatura, poco personale e piena di melodie facili quel tanto da rapire adolescenti, non certo alternative rockers di vecchia data.

Ecco un album che teoricamente potrebbe far impazzire sfilze di ragazzini alternativi: un sound alternative rock con qualche spunto core, una serie di brani dall’appeal perfetto per non uscire dal lettore dello smartphone, momenti di scream vocals in contrasto con la vocina da lolita che fa il buono ed il cattivo tempo e la cover di un brano dei Linkin Park (Numb) uscito come video tanto per ribadire l’alto grado di ruffianeria dei catalani Ankor.

Il quartetto è diviso in egual misura tra la parte femminile e quella maschile, attivo dal 2003 e con una buona discografia alle spalle che conta tre full length ed una manciata di lavori minori, fino ad arrivare a questo Beyond the Silence of These Years che sinceramente lascia l’amaro in bocca.
Intendiamoci, non c’è niente che non funzioni in questo lavoro, ma la proposta degli Ankor è oltremodo immatura, poco personale e piena di melodie facili quel tanto da rapire adolescenti, non certo alternative rockers di vecchia data.
Quindi sappiate che Beyond the Silence of These Years è un lavoro composto da una serie di brani che sembrano usciti da qualche pubblicità per articoli da ragazzini, skateboard sotto i piedi e lacrimuccia rabbiosa che cade da sguardi da finti duri.
Poco, insomma per smuovere, l’interesse degli amanti del genere, anche se qualche traccia presenta buone melodie e Shhh… (I’m Not Gonna Lose It) ribadisce l’amore del gruppo per i Linkin Park del compianto Chester Bennington.
Troppo poco, ma forse abbastanza per riuscire a far breccia tra gli adolescenti iberici.

Tracklist
1.The Monster I Am
2.Love Is Not Forever
3.Lost Soul
4.Nana
5.Shhh… (I’m Not Gonna Lose It)
6.Kiss Me Goodnight
7.From Marbles to Cocaine
8.The Legend of Charles the Giant
9.Endless Road
10.Unique & Equal
11.Interstellar

Line-up
Jessie Williams – Vocals/Screams
David Romeu – Guitar/Vocals
Fito Martínez – Guitar/Insane vocals
Ra Tache – Drums/Keys

ANKOR – Facebook

Electric Swan – Windblown

Per gli amanti dell’hard rock vintage Windblown è un lavoro imperdibile, con il quale gli Electric Swan si confermano come una delle migliori realtà del genere, non solo nel nostro paese.

In questi anni che hanno visto il ritorno in auge delle sonorità chiamate old school o vintage (a seconda del genere), ogni scena ha tirato fuori dal cilindro i propri eroi, dalla Scandinavia agli States, passando per l’Europa centrale ed ovviamente dal suolo italico.

La Black Widow, storica label genovese e punto fermo per gli amanti dell’hard rock e del progressive, licenzia questo bellissimo lavoro, il terzo degli Electric Swan del chitarrista piacentino Lucio “Swan” Calegari, dopo il debutto omonimo uscito ormai una decina d’anni fa ed il precedente Swirl In Gravity del 2012, primo album sotto l’ala dell’etichetta ligure.
Da qui partiamo per raccontarvi in poche righe il viaggio sulle ali del cigno elettrico, un volo lungo sessanta minuti, in cui l’hard rock settantiano si ammanta di psichedelia e funky, lasciando senza fiato come si trattasse di un virtuale giro sulle montagne russe del rock.
Presi per il colletto e strattonati dai riff di Calegari, che sanno tanto di Led Zeppelin, Black Sabbath e blues rock, ipnotizzati dalla prova di una Monica Sardella all’attacco delle nuove eroine dell’hard rock (Heidi Solheim, Elin Larsson, Alia Spaceface) e colpiti ai fianchi da una sezione ritmica che si prende carico della struttura dei brani con una varietà stilistica sorprendente (Vincenzo Ferrari al basso e Alessandro Fantasia alla batteria), veniamo dunque portati in alto dalla musica del bellissimo cigno lombardo che non ne vuol sapere di tornare al suolo e continua a farci volare con una serie di straordinarie jam.
Ed i bran sono proprio questo, lunghe jam nelle quali il gruppo mette a disposizione dell’ascoltatore il proprio talento, non scendendo mai sotto un livello d’eccellenza e stupendo grazie ad un  songwriting che non permette di distrarsi un attimo, rapiti dal vortice di musica di cui si compone Windblown.
Pur dovendo teoricamente nominare tutte le tracce dell’album, per dovere di cronaca cito le tre bellissime cover Sin’s A Good Man’s Brother (Grand Funk Railroad), Midnight (T.Rex) e If I’m In Luck I Might Get Picked Up (Betty Davis) ed almeno un tris di capolavori, il poderoso hard rock di Leaves, spezzato in due da un intermezzo soul/funky,  lo strumentale Beautiful Bastard, sette minuti di delirio rock con il sax dell’ospite Simone Battaglia, e l’emozionante Here Is Nowhere, ballad che sanguina blues valorizzata dall’interpretazione straordinaria di Monica Sardella.
Non rimane che fare i complimenti agli Electric Swan per questa bellissima opera consigliata agli amanti dell’hard rock legato alla tradizione settantiana.

Tracklist
01. Cry Your Eyes Out
02. Face To Face
03. Bad Mood
04. Leaves
05. Losin’ Time
06. Sin’s A Good Man’s Brother (Grand Funk Railroad cover)
07. Beautiful Bastard
08. Carried By The Wind
09. Here Is Nowhere
10. If I’m In Luck I Might Get Picked Up (Betty Davis cover)
11. Windblown
12. Midnight (T.Rex cover)

Line-up
Monica Sardella: Vocals
Lucio Calegari: Guitars, Vocals
Vincenzo Ferrari: Bass
Alessandro Fantasia: Drums

Special guests:
Sergio Battaglia: Saxophones (tracks 2, 7)
Samuele Tesori: Flute (track 9)
Paolo Negri: Hammond Organ, Electric Piano, Mellotron, Moog (track 10)

ELECTRIC SWAN – Facebook

Kadavar – RoughTimes

I tre album precedenti dei Kadavar sono stati un continuo crescendo fino al penultimo Berlin, il loro disco migliore ma solo fino all’uscita di Rough Times.

Rough Times è un disco di una profondità e di uno spessore eccezionale, un mastodonte che farà molta strada.

I Kadavar sono sempre stati uno dei gruppi più interessanti della psichedelia pesante, e definirli vintage è quasi un’offesa, perché questi tedeschi hanno fatto fare passi da gigante al loro genere. Le atmosfere di Rough Times sono tali che questo disco deve essere gustato lontano dalla nostra civiltà, meglio se in un bosco in solitudine. Cosa potete trovarvi dentro? La risposta è tutto: dal rock allo stoner, da momenti psichedelici a canzoni in totale trance da possessione da parte dei Beatles, e il risultato è magnifico. Si arriva persino al southern rock, ma questo elenco di generi è solo per farvi capire quanta ricchezza ci sia qui dentro. I tre tedeschi sono abituati a far contenti chi cerca qualcosa di più profondo rispetto a certa musica pesante attuale troppo standardizzata, e i Kadavar sono sempre stati originali, possedendo un’immagine ed una comunicazione anni settanta, ovvero lasciando parlare in primis la musica. I tre dischi precedenti dei Kadavar sono stati un continuo crescendo fino al penultimo Berlin, il loro album migliore ma solo fino all’uscita di Rough Times, con il quale non si esce molto da quei binari di Berlin, ma si perfezionano alcune direzioni intraprese in precedenza, migliorando ancora il tutto: la differenza principale è che in Rough Times troviamo meno fuzz e riverberi per una costruzione di psichedelia pesante. I Kadavar per tutta la lunghezza del disco sono una continua sorpresa, costruiscono case nel cielo, aprono porte della percezione e ci invitano in luoghi che si pensavano dimenticati. E’ anche difficile trovare un gruppo come loro che ci convinca a sentire, in questa epoca di dislessia fonica, tutte le tracce del disco da quanto sono belle. Con Rough Times la discografiadei Kadavar si arricchisce di un ulteriore eccezionale capitolo, e come ben rappresenta la seconda traccia Into The Wormhole, qui siamo in un corridoio temporale da attraversare assolutamente.

Tracklist
1. Rough Times
2. Into The Wormehole
3. Skeleton Blues
4. Die Baby Die
5. Vampires
6. Tribulation Nation
7. Words Of Evil
8. The Lost Child
9. You Found The Best in Me
10. A L’Ombre Du Temps

Line-up
Lupus Lindemann – Gesang & Gitarre
Simon “Dragon” Bouteloup – Bass
Tiger – Drums
KADAVAR – Facebook