Fuzz Orchestra – Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà I Suoi

Tutto funziona, ma sembra mancare la possibilità di intravedere ulteriori sviluppi

A quattro anni dall’ottimo “Morire Per La Patria”, la Fuzz Orchestra, power trio strumentale composto da Luca Ciffo, Fabio Ferrario e Paolo Mongardi, ritorna per Woodworm Label con gli otto brani di Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà I Suoi. Il nuovo capitolo, combinando le idee della band con estratti sonori provenienti da film socio-politici anni ’60-’70 e con partiture sviluppate per l’occasione da Enrico Gabrielli (accompagnato dai suoi Esecutori Di Metallo Su Carta: Bucci, Santoro, De Gennaro, Manzan), propone una sequenza di attacchi sonori compatta e uniforme.

Il mix metal/orchestrale di Nel Nome Del Padre, procedendo inesorabile fra colpi di pistola, parole allucinate e un galoppare sonico che travolge e trascina via, introduce l’incombente incalzare ed evolvere (parte centrale più calma, finale angosciante) della feroce Todo Modo.
Il cerebrale svilupparsi della ipnotica e cadenzata Born Into This (gustosissimi gli inserti di fiati), invece, apre alle atmosfere funeree generate da L’Uomo Nuovo (l’ossatura del pezzo è data dal nero vuoto generato dall’ospite Riccardo Gamondi), lasciando che a seguire siano il sofferto e tortuoso dipanarsi della scura e inquietante Una Voce Che Verrà e l’epic metal deviato su binari intellettuali e socio-politici dell’ottima Il Terrore E’ Figlio Del Buio.
La fantasmatica Lamento Di Una Vedova, infine, concedendo una breve pausa fatta di polvere ed ectoplasmi, cede il compito di chiudere al lento trascinarsi della tetra e pesante The Earth Will Weep.

Il nuovo capitolo discografico della Fuzz Orchestra, riprendendo in tutto e per tutto il sound del passato, presenta come quasi unica variazione l’aggiunta della componente orchestrale. Il risultato è assolutamente solido e convincente (tutti i pezzi esploderanno nelle vostre orecchie e vi appassioneranno, garantito), ma, allo stesso tempo, mette in luce come il sommare sonorità metal/noise con estratti sonori provenienti da film, incominci ad essere un’idea ormai difficile da rinnovare in maniera originale. Tutto funziona, ma sembra mancare la possibilità di intravedere ulteriori sviluppi.

TRACKLIST
01. Nel Nome Del Padre
02. Todo Modo
03. Born Into This
04. L’Uomo Nuovo
05. Una Voce Verrà
06. Il Terrore E’ Figlio Del Buio
07. Lamento Di Una Vedova
08. The Earth Will Weep

LINE-UP
Luca Ciffo
Fabio Ferrario
Paolo Mongardi

FUZZ ORCHESTRA – Facebook

Mayfair – My Ghosts Inside

Emozioni, è proprio di questo che non smettiamo mai di aver bisogno, e fortunatamente ci ancora sono artisti come i Mayfair che ne elargiscono a profusione

Era il lontano 1993, quando aprivo il portafoglio nel mio negozio di fiducia per procurarmi l’opera prima dei Mayfair, band unica nell’universo del progressive, specialmente dopo lo scioglimento delle catene che tenevano il genere legato ai clichè settantiani e all’apertura ad altri suoni, magari mal digerita dai vecchi fans di dinosauri in continua e drammatica estinzione, ma assolutamente essenziale per portare il genere in salute, nel nuovo millennio, senza risultare obsoleto.

La band austriaca è stata una delle prime ad approcciarsi al progressive con brani dalla durata limitata, evitando lunghe suite, ma puntando tutto sull’emozionalità della propria musica e non sono pochi i gruppi odierni, sicuramente più famosi, che devono non poco al sound di quel Behind che all’epoca fu un ascolto fondamentale, almeno per chi ebbe la fortuna di poterlo fare.
My Ghost Inside torna a far parlare del gruppo dopo Schlage Mein Herz, Schlage che, tre anni fa, ne segnava il ritorno dopo un silenzio lungo quindici anni, con la sezione ritmica completamente rinnovata, ed i soli Mario e Renè a fungere da superstiti della line up originale.
I Mayfair continuano la loro evoluzione, lasciando che l’alternative metal depressivo dei vari Anathema e Katatonia, prenda il sopravvento sulle sonorità progressive: rimane l’impronta inconfondibile del sound originario, ma la tendenza di questo lavoro è più orientato verso un mood teatrale e drammatico, non lasciando indietro neppure qualche accenno toolliano.
Rimane il talento per atmosfere intimiste e rarefatte, sviluppate su tonalità grigie, pregne di un’eleganza del tutto personale, mentre le lancette dell’amplificazione arrivano al massimo solo nella metallica Schrei Es Raus, posta come penultimo atto di un lotto di brani dal mood plumbeo.
Un ascolto rilassato, arpeggi scritti su di un specchio ricoperto dalla polvere di molte primavere ormai passate, un autunno che con i suoi colori spenti riempie l’aria di malinconia, mentre brani di raffinato dark prog alternativo come Loss, Blinded By Your Light, When Angels And Demons Meet e Andermal colmano di rilassate sfumature tragico malinconiche quaranta minuti di una classica giornata di estenuante mal di vivere.
Emozioni, è proprio di questo che non smettiamo mai di aver bisogno, e fortunatamente ci ancora sono artisti come i Mayfair che ne elargiscono a profusione, bentornati.

TRACKLIST
1. Loss
2. My Ghosts Inside
3. Desert
4. Blinded By Your Light
5. When Angels And Demons Meet
6. Our Fire Starts Here
7. Ghostrider
8. Boom
9. Andermal
10. Schrei Es Raus
11. Until We Meet Again

LINE-UP
Mario – vocals
René – guitars
Johannes – bass
Jolly – drums

MAYFAIR – Facebook

The Shiva Hypothesis – Promo 2015

Se questo promo è il loro biglietto da visita, allora gli Shiva Hypothesis si candidano come clamorosa rivelazione nel metal estremo dai rimandi death/black.

Se questo promo è il loro biglietto da visita, allora gli Shiva Hypothesis si candidano come clamorosa rivelazione nel metal estremo dai rimandi death/black.

Proveniente dai Paesi Bassi, il mefistofelico quartetto rilascia, sul finire dello scorso anno, questo ep, chiamato semplicemente Promo 2015, mentre il sound prodotto e le atmosfere che in esso sono racchiuse, semplici non sono di sicuro.
La band dichiara d’ispirarsi a band storiche del metal estremo, come Behemoth, Emperor, Immortal, Death e Mayhem e noi non possiamo che essere d’accordo anche se questi tre brani racchiudono in sé un impatto, una malvagità ed una tecnica che lascia a bocca aperta.
Death/black, che non si avvicina poi molto a chi del genere è maestro (scena polacca in primis), ma si alleano per creare un estremismo sonoro entusiasmante.
Ritmiche più vicine al death metal, scream personalissimo e malato, come se al microfono ci fosse davvero un demone, tasti d’avorio che formano un tappeto rosso sangue, su cui le chitarre lacrimano cianuro e l’armageddon è servito.
Prodotto benissimo, l’album parte alla grande con Ceduceus, brano devastante, meravigliosamente armonico, crudele e maligno, come le voci che dall’inferno giurano tutto il loro odio per il genere umano.
Un’invocazione al demonio, una cantilena agghiacciante apre Praedormitium, oscura, leggermente meno veloce, ma ricca di atmosfere cangianti, in un deliro chitarristico, spaccata da una marziale parte ritmica che scuote le fondamenta e apre voragini che si schiudono sull’inferno sotto di noi, mentre un solo di estrazione thrash, esplode in tutta la sua violenta natura.
Maze of Delusion chiude il cd, nove minuti di black metal straordinariamente vario, colmo di atmosfere, oscure, maligne e demoniache, ora metalliche, ora acustiche, un’anima maledettamente prog, che si unisce alle varie sfumature compresse in un brano efficace ed esaltante nella sua agghiacciante parte black metal.
Una delle migliori prove al microfono, almeno per quanto riguarda il genere, è solo una delle doti maggiori di questo clamoroso ep: il gruppo non credo farà fatica a trovare una label e aspettiamoci dunque (spero in tempi brevi) un primo full lenght che, se proposto a questi livelli, potrebbe sconvolgere le gerarchi del genere.
Da non perdere di vista.

TRACKLIST
1.Caduceus
2.Praedormitium
3.Maze of Delusion

LINE-UP
ML -Bass, Keys & Additional Vocals
JB – Guitars & Additional Vocals
MvS – Vocals
BN – Drums & Additional Vocals

THE SHIVA HYPOTHESIS – Facebook

Black Lakes – Sorrow

Sorrow è un lavoro valido e con suoni all’altezza, ma difficilmente i Black Lakes potranno trovare particolari sbocchi al di fuori dei confini patri.

I russi Black Lakes (conosciuti nella loro nazione come Чёрные Озёра , nel nostro alfabeto Chernye Ozera) sono una band piuttosto prolifica, essendo questo loro Sorrow (Горечь) il settimo full length in altrettanti anni di attività.

Il sound del trio di Balakovo pone come base ritmica il black metal, ma tutto sommato prevalgono pulsioni gotico-melodiche pervase anche da un’anima folk che, alla fine, danno vita ad un lotto di brani piuttosto orecchiabili; l’album infatti scorre via piuttosto fluido, visto che i Black Lakes hanno il pregio di non essere pretenziosi e non disdegnano l’utilizzo di soluzioni piuttosto immediate con esiti per lo più positivi.
In un coacervo in cui confluiscono Children of Bodom, Sentenced e tutta la compagni nordica dedita al black death dall’impronta più gotica e atmosferica, i brani si susseguono senza provocare particolari sussulti ma non facendo mai calare il livello sotto un’ampia e rassicurante sufficienza, finché il trittico finale arriva ad offrire una gradita impennata con il folk austero ed acustico di Ashes, la magniloquenza sinfonica dotata di un notevole chorus di Russian Land e la conclusione affidata agli introspettivi arpeggi di Time.
Abgott si dimostra un vocalist efficace e versatile ma l’utilizzo della lingua madre è pur sempre qualcosa al quale noi latini, per forza di cose, ci dobbiamo adattare; nonostante questo Sorrow è un lavoro valido e con suoni all’altezza (il mastering è a cura di Astaroth Merc dei Raventale), ma difficilmente i Black Lakes potranno trovare particolari sbocchi al di fuori dei confini patri.

Tracklist:
01. By the Malice of Hoary Wind (Foreword)
02. To the Place Where the Smoke! (Part II)
03. Carnations
04. The Broken Arrow
05. Straightening the Back
06. Fate is Just a Word!
07. Sigh
08. Ashes
09. Russian Land
10. Time (Loneliness)

Line-up:
Abgott – music, lyrics, vocal, guitars
Sfavor – music, bass, programming
Dez – music, keyboards

Within Destruction – Void

Void non lascia scampo, la sua ferocia è pari ad un incontro tra i Fear Factory del debutto Soul Of A New Machine ed i Lamb Of God, formando un moderno e devastante atto di pura violenza in musica.

Una tranvata di brutal/death core, riff chirurgici, granitici e freddi come una mazza d’acciaio che si infrange sulla schiena nuda, distruzione senza soluzione di continuità, un’atmosfera da pianeta ridotto ad un cumulo di macerie sotto i colpi inferti dalle macchine, che devastano e massacrano senza pietà in un mondo dove l’umana pietà non esiste più, solo la crudele forza dirompente delle macchine assassine: benvenuti in Void, secondo full length degli sloveni Within Destruction, micidiale gruppo nato a Jesenice nel 2010 e con alle spalle il debutto From the Depths, uscito quattro anni fa.

Il quartetto esplora con la propria musica il lato più estremo del metalcore, confezionando un lavoro improntato su di un metal estremo che si aggira nei meandri del brutal, dell’industrial e del death metal dalle ritmiche marziali.
Moderno e devastante, il sound prodotto dalla band è di quanto più violento si possa suonare nel genere, terrificante nelle sue atmosfere, brutale come una guerra nucleare, potente come un fungo atomico.
Poco più di mezzora calati in una dimensione apocalittica, raccontata dal growl disumano di Rok Rupnik, un terminator fuori controllo, che si fa spazio squartando uomini e distruggendo ogni cosa, una colonna sonora formata da mitragliate chitarristiche industrial core ed esplosioni di ritmiche al limite dell’umano, martellanti, disturbanti e nefaste.
Quando poi il gruppo decide di accelerare, la tempesta atomica raggiunge l’apice e al suolo non rimangono che macerie e cadaveri.
Non c’è un attimo di tregua, la distruzione totale è in atto, Void (la song), Desecration of the Elapsed, A Spiral Rift Towards Damnation e Martyrs (of the Wendigo), si susseguono formando con gli altri brani un muro sonoro mastodontico.
Void non lascia scampo, la sua ferocia è pari ad un incontro tra i Fear Factory del debutto Soul Of A New Machine ed i Lamb Of God, formando un moderno e devastante atto di pura violenza in musica.

TRACKLIST
1. Dark Impairment
2. Void
3. Plague of Immortality
4. Desecration of the Elapsed
5. Rebirth of an Inverted World
6. A Spiral Rift Towards Damnation
7. An Unforeseeable Anomaly
8. The Wrath of Kezziah
9. Martyrs (of the Wendigo)

LINE-UP
Rok Rupnik – vocals
Damir Juretic – guitar
Janez Skumavc – bass
Luka Vezzosi – drums

WITHIN DESTRUCTION – Facebook

Godwatt – L’ultimo Sole

I Godwatt sono l’ennesimo esempio di come nel nostro paese si fa musica come e, molto spesso, meglio dei paesi con molta più tradizione e credito, è giunta l’ora di supportare e far uscire allo scoperto le nostre realtà.

Una cascata di riff pesantissimi, una marmorea statua innalzata per glorificare le sonorità doom, il tutto originalmente cantato in Italiano, questa è la clamorosa proposta dei laziali Godwatt, tornati sul mercato con questo monolitico L’Ultimo Sole, licenziato dalla Jolly Roger Records.

Sono sincero, non conoscevo il terzetto nostrano, da dieci anni in attività, prima con il monicker Godwatt Redemption, ridotto successivamente in Godwatt, non prima di aver dato alle stampe due full length autoprodotti, The Hard Ride of Mr. Slumber nel 2008 e The Rough Sessions del 2012.
Tre anni fa, la riduzione del monicker e la scelta di cantare in lingua madre portano il gruppo a Senza Redenzione, nuovo lavoro seguito dall’ep Catrame e dall’ultimo full length MMXVXMM, licenziato all’inizio dello scorso anno e sempre autoprodotto.
L’ultimo periodo è contraddistinto dalla firma per la label nostrana e da questo nuovo lavoro che racchiude sette brani ri-registrati dal precedente album, più due da Senza Redenzione (Scheletro e Venus, ma solo nella versione cd).
Una band dalla personalità debordante, valorizzata da esperienze live accanto a gruppi come Ufomammut, Necrodeath, Doomraiser, Zippo, Karma To Burn, un sound di una pesantezza inumana che risulta molto più legato alla musica del destino che allo stoner, e la scelta, fuori dagli schemi del genere, di cantare in italiano testi di lucida decadenza, sono gi elementi che impreziosiscono queste nove incudini di metallo pesantemente lento e cadenzato, composto da una serie di riff che riducono in cenere.
Moris Fosco (chitarra e voce), Mauro Passeri (basso) e Andrea Vozza alle pelli, giustamente fanno spallucce al suono desertico, tanto di moda di questi tempi (e che io adoro, non fraintendetemi) per tornare al doom classico, messianico, oscuro e monolitico, come la discesa inesorabile di lava che cade dopo l’esplosione del vulcano attivo che risulta questo lavoro, pescando a piene mani dai gruppi della scena di primi anni novanta come i Cathedral del reverendo Dorrian e in parte dalle band d’oltreoceano come Saint Vitus ed i Revelation, e aggiungendo pochi ma azzeccati elementi settantiani che danno quel giusto tocco vintage.
Lo stoner è comunque presente, in qualche passaggio più acido, ma nel disco regna sua maestà il doom, lento, a tratti claustrofobico, inesorabile nella sua marcia cadenzata che accelera leggermente per stenderci al tappeto con frustate heavy rock, che strappano le carni, torturate nel sabba ossianico a cui i Godwatt ci invitano, vittime inconsapevoli di questa cerimonia di decadente e ruvido metallo.
Memoria, Cenere, la title track, il basso di Nessuno Mai, che pulsa come un cuore strappato ed in mano ad un sacerdote pazzoide, sono le songs che strappano applausi, ma è il lavoro nella sua interezza che non lascia scampo, con le due chicche finali tratte dal disco del 2013 (Scheletro e Veleno) che confermano il valore assoluto del combo laziale con un’heavy rock che letteralmente stende.
I Godwatt sono l’ennesimo esempio di come nel nostro paese si fa musica come e, molto spesso, meglio dei paesi con molta più tradizione e credito, è giunta l’ora di supportare e far uscire allo scoperto le nostre realtà.

TRACKLIST
1. Catene
2. Condannata
3. Memoria
4. Cenere
5. Nostro Veleno
6. Nessuno Mai
7. L’ultimo Sole
8. Scheletro (Cd Bonus)
9. Venus (Cd Bonus)

LINE-UP
Moris Fosco-Guitars, vocals
Mauro Passeri-Bass
Andrea Vozza-Drums

GODWATT – Facebook

Circle Of Indifference – Welcome To War

Welcome To War è un’altra nera perla estrema targata Circle Of Indifference

Piano piano, uno alla volta, tornano con nuovi lavori tutti i gruppi che un paio di anni fa, chi più chi meno, avevano impreziosito con album dall’elevata qualità l’underground metallico.

Questa volta tocca ai Circle Of Indifference del polistrumentista svedese Dagfinn Övstrud, realtà scandinava dalle potenzialità enormi confermate anche in questo bellissimo lavoro che ci invita senza mezzi termini alla guerra.
Infatti il mood dell’album è molto più in your face rispetto al suo splendido predecessore, anche se Övstrud non ci fa certo mancare il suo incredibile talento per melodie in piena overdose da scandinavian melodic death metal.
Al microfono troviamo, come su Shadows Of Light, il vocalist belga Brandon L. Polaris, ma gli ospiti non si fermano qui con le performance di Kostas Vassilakis (Infravision) alle tastiere ed alle pelli e la chitarra solista di Tyler Teeple.
Prodotto ottimamente da Övstrud, Welcome To War ci invita alla distruzione totale con i primi due brani, Concription e Einberufung (Conscription), pesantissimi, epici e battaglieri, che vedono la band esplorare il lato più duro e drammatico della propria anima musicale, avvicinandosi al puro death metal scandinavo.
Arriva From This I Depart e si torna a cavalcare l’onda del primo lavoro, il riff melodico che sostiene il brano è di una bellezza straordinaria e la voce pulita si alterna al growl cattivissimo di Polaris in un crescendo emozionale elevatissimo.
Neanche il tempo di metabolizzare questo splendido brano che l’elettronica si impossessa della progressiva Menschenmörder (Murderer Of Man), regalando emozioni a non finire e tornando al songwriting stellare della prima opera tra Edge Of Sanity e Pain.
Welcome To War è marziale, monolitica e con un mood da tregenda, le tastiere addolciscono leggermente l’atmosfera pesante di questa death metal song, mentre la voce pulita dai toni disperati di Kein Entkommen (No Escape) sembra non dare speranza, ma quando tutto è perduto un assolo classico e melodico, accompagnato dai tasti d’avorio di chiara ispirazione prog, riaccende una flebile speranza.
Veil Of Despair è irruente ed aggressiva in un crescendo che porta ad una parte strumentale da brividi, con i musicisti ad impartire sotto la guida del leader lezioni di metallo estremo, devastante e melodicissimo.
Ein Akt Der Güte (An Act Of Kindness) chiude, con i suoi abbondanti sette minuti, questa nuova e splendida opera estrema, lasciando che tutto il mondo dei Circle Of Indifference si apra all’ascoltatore, investito da uno tsunami di death metal melodico sopra le righe, potente, maturo, progressivo ma oltremodo drammatico e violento.
Welcome To War è un’altra nera perla estrema targata Circle Of Indifference: se il primo lavoro risultava una piacevole sorpresa, la conferma di essere al cospetto di un grande compositore e musicista l’avrete nel momento di mettere l’elmetto, imbracciare il fucile e scendere in trincea … Benvenuti alla guerra.

TRACKLIST
01.Concription
02.Einberufung (Conscription)
03.From This I Depart
04.Menschenmörder (Murderer Of Man)
05.Welcome To War
06.Kein Entkommen (No Escape)
07.Veil Of Despair
08.Ein Akt Der Güte (An Act Of Kindness)

LINE-UP
Dagfinn Övstrud – Guitars, bass and additional keyboards
Kostas Vassilakis – Keyboards, Drums
Tyler Teeple – Guitars
Brandon L. Polaris – Vocals

CIRCLE OF INDIFFERENCE – Facebook

Solothus – No King Reigns Eternal

No King Reigns Eternal è davvero un ottimo album, grazie ad una resa sonora ottimale che valorizza una scrittura nell’alveo della tradizione, ma sempre convincente nel suo far convivere in maniera fluida la ferocia del death e la pesantezza del doom.

Dalle gelide lande finniche emerge una nuova inquietante creatura denominata Solothus.

In effetti, No King Reigns Eternal è il secondo full length, che segue di circa tre anni il precedente Summoned from the Void, quindi non su può certo parlare di una band ai primi passi, ma è chiaro che questo nuovo ottimo lavoro potrebbe ampliare il novero dei suoi estimatori.
Il death doom dei Solothus è sbilanciato in maniera netta sulla prima delle due componenti, soprattutto nella prima parte del lavoro, laddove in The Betrayer e nella title track sono umori alla Morbid Angel (epoca Covenant) o alla Asphyx a predominare, per cui qui la melodia è confinata agli ottimi interventi della chitarra solista che, sovente, corrispondono anche ai momenti in cui il sound rallenta fino a farsi soffocante.
Lo stesso growl di Kari Kankaanpää non lascia spazio ad equivoci, le clean vocals sono del tutto bandite e il cavernoso grugnito è perfettamente funzionale alla resa finale del lavoro.
L’accoppiata Darkest Stars Aligned e Malignant Caress trasporta il sound verso il più cupo e grumoso sentire di band com gli Evoken, mentre Towers in the Mist appare più orientata ad un doom “classico”, con i suoi toni sabbatiani ampiamente irrobustiti nel loro incedere.
The Winds Of Desolation chiude nel migliore dei modi l’album: unica a superare i 10 minuti di lunghezza, la traccia è sostenuta da una linea chitarristica relativamente “catchy” senza che per questo vengano meno l’impatto e l’intensità costantemente caratterizzanti il sound dei Solothus.
No King Reigns Eternal è davvero un ottimo album, grazie ad una resa sonora ottimale che valorizza una scrittura nell’alveo della tradizione, ma sempre convincente nel suo far convivere in maniera fluida la ferocia del death e la pesantezza del doom.

Tracklist:
1. The Betrayer
2. No King Reigns Eternal
3. Darkest Stars Aligned
4. Malignant Caress
5. Towers in the Mist
6. The Winds of Desolation

Line-up:
Veli-Matti Karjalainen – Guitars
Kari Kankaanpää – Vocals
Juha Karjalainen – Drums
Sami Iivonen – Guitars, Vocals (backing)
Tami Luukkonen – Bass

SOLOTHUS – Facebook

Horrified – Of Despair

Of Despair è un’opera poco originale ma ben realizzata, un buon modo per ricordare i primi passi del famigerato death metal scandinavo

Vi avevamo già parlato dei britannici Horrified in occasione dell’uscita del loro debutto, Descent into Putridity, uscito un paio di anni fa e che vedeva il gruppo di Newcastle confrontarsi con il metal estremo di matrice scandinava.

Completamente devoto alla scena death metal nord europea di inizio anni novanta, il gruppo inglese esordì con un dischetto sufficientemente in grado di risvegliare dal torpore gli amanti del death metal scandinavo old school, con una mazzata che, se risultava ancora leggermente acerba, coinvolgeva in quanto a violenza ed impatto.
Il ritorno in questo 2016 si chiama Of Despair, otto brani che formano una cascata di sonorità estreme care alle band storiche della gloriosa scena scandinava.
Ad un primo ascolto il gruppo lascia intravedere non pochi miglioramenti, soprattutto nel songwriting, leggermente più vario ed ispirato da una maggiore esperienza, che si evince anche da un miglioramento tecnico individuale.
La band continua a martellare senza pietà, ma in questo lavoro fanno la voce grossa le melodie, che escono a frotte dai manici delle sei corde dei due axeman, Daniel Alderson e Rob Hindmarsh e, se il primo lavoro viaggiava al ritmo devastante di Entombed e Dismember, Of Despair paga dazio agli immensi Edge Of Sanity, storica creatura estrema di quel genio di Dan Swano.
Aperture melodiche, solos dall’impronta classicheggiante, ripartenze e rallentamenti atmosferici pesantissimi avvicinano il sound del gruppo ai primi lavori dei Sanity, continuando a massacrare l’ascoltatore con ritmiche veloci, ed improvvise sfuriate che rimandano a Like An Everflowing Stream dei Dismember.
Un buon passo avanti, che convince non poco, Of Despair ha nell’assalto sonoro Palace of Defilement, in Funeral Pyres, nell’ottimo strumentale che è la titletrack e nel conclusivo monumento ai Sanity, The Ruins That Remain, le sue armi migliori.
Death metal old school, questa volta assistito da una buona produzione, Of Despair è un’opera poco originale ma ben realizzata, un buon modo per ricordare i primi passi del famigerato death metal scandinavo.

TRACKLIST
1. Palace of Defilement
2. Infernal Lands
3. Chasm of Nihrain
4. Funeral Pyres
5. Amidst the Darkest Depths
6. Dreamer of Ages
7. Of Despair
8. The Ruins That Remain

LINE-UP
Matthew Henderson – Drums
Daniel Alderson – Guitars (lead), Bass, Vocals
Dan H – Bass
Rob Hindmarsh – Guitars (lead)

HORRIFIED – Facebook

Inedia – Aritmia / Wasteland

Aritmia/Wasteland entra piano in noi, prima con una dolcezza armonica ricca di melanconiche atmosfere post rock, poi in un crescendo di tensione ci prende con la violenza del metal estremo, colmo di groove stonato, in un caleidoscopio di suoni e colori

Aritmia/Wasteland entra piano in noi, prima con una dolcezza armonica ricca di melanconiche atmosfere post rock, poi in un crescendo di tensione ci prende con la violenza del metal estremo, colmo di groove stonato, in un caleidoscopio di suoni e colori alternative, scavando senza sosta nel nostro corpo e nella nostra anima.

Questa bellissima opera, profonda e alquanto matura, è il terzo album dei nostrani Inedia, gruppo veneto fondato nel 2009 e con ben saldo un contratto con la Sleaszy Rider, ottima label greca dal roster molto vario e di ottima qualità, che spazia nello sconfinato mondo dell’hard rock, sia classico che appunto moderno ed alternativo.
Non sono poche le band nel nostro paese dedite a questo tipo di suono e devo dire con sincerità che tutte possiedono un approccio maturo, che non scivola mai nella noia, ma viene apprezzato per un innato senso poetico/melodico.
Gli Inedia fanno senz’altro parte di questo gruppo di poeti moderni, che disegnano con le note paesaggi melanconici ed atmosfere depressive, dove non mancano scariche di rabbiosa elettricità, come se la mente si ribellasse a cotanta tristezza, in attimi di violenza liberatoria, prima di ricadere ancora una volta nel proprio disperato tunnel.
Gli Inedia a tutto questo aggiungono, atmosfere desertiche, jam liquide di psichedelia stonata, come persi nel fumo di sostanze illecite, viaggiando con la mente in paesaggi liquidi, attimi dove il non ritrovarsi si trasforma in pace assoluta.
Concentrato in poco più di mezzora, Aritmia/Wasteland è tutto questo, almeno per il sottoscritto, rapito dall’etereo incedere di questi sette brani sconvolti da bellissime atmosfere rarefatte e da bordate death metal che ne accentuano la drammatica atmosfera.
Una lunga jam che raccoglie in sé diversi generi, amalgamati con cura dal quintetto per donare musica profonda, matura, violenta e raffinata, liquida, oscura ed assolutamente toccante.
Album da ascoltare come un unico brano, diviso in emozioni e sensazioni, in Aritmia/Wasteland troverete ad aspettarvi un mondo di note che accomunano il depressive rock/metal dei Katatonia, lo stoner suonato dai Kyuss e che, insieme, accolgono in un abbraccio il prog estremo dei magnifici Opeth.
Disco bellissimo, da far vostro senza riserve.

TRACKLIST
1. The Fire Fellows
2. Neighbour’s Dog
3. Graveyards
4. The Days Of Sandstorm
5. Message From My Futureself
6. Paranoia’s End
7. ((π))

LINE-UP
Mattia Parolin – vocals
Marco Tossin – bass
Giacomo Lovato – guitars
Luca Munaretto – drums
Paolo Sanna – guitars

INEDIA – Facebook

Nihilistinen Barbaarisuus – Madness Incarnate

Madness Incarnate si rivela un’uscita apprezzabile da parte di una band da tenere sott’occhio nella prospettiva di un prossimo lavoro su lunga distanza

Questa band, nonostante il complesso monicker in lingua finlandese, proviene da Philadelphia, anche se il ricorso a quella lingua è ampiamente giustificato dal fatto che Mika Mage, colui che regge le file dei Nihilistinen Barbaarisuus, è originario appunto del grande paese dei mille laghi.

Sotto l’egida della label russa Symbol of Domination, come l’etichetta madre Satanath Records specializzata nel recupero di realtà semisconosciute ma meritevoli di attenzione, i nostri propongono il loro black dai tratti atmosferici e, in ossequio alle origini di Mage, molto più orientato come sound alla scena nord europea piuttosto che a quella statunitense.
L’ep è breve ma, in questi pochi minuti, i Nihilistinen Barbaarisuus dimostrano di manipolare la materia in modo appropriato, conferendo al sound per lo più un’aura algida con puntate in territori depressive, ma sempre sorretto da buone linee melodiche; Mage si avvale nel corso del lavoro del contributo di tre diversi vocalist, tutti allineati comunque al tradizionale screaming di matrice back.
Molto bella e incisiva l’opener Traversing The Frozen North e non da meno si dimostrano la title track e la più robusta Immaculate Deconception (uscita in precedenza come singolo) mentre convince un po’ meno Virgin Essence per scelte ritmiche piuttosto opinabili; interessante anche la chiusura affidata al brano acustico Comte-Sponville, nel quale si può apprezzare la pregevole tecnica chitarristica di Mage.
Madness Incarnate si rivela un’uscita apprezzabile da parte di una band da tenere sott’occhio nella prospettiva di un prossimo lavoro su lunga distanza e, al riguardo, potrebbe essere utile riscoprire il relativamente recente full-length The Child Must Die, pubblicato circa un anno fa.

Tracklist:
01. Traversing The Frozen North
02. Madness Incarnate
03. Virgin Essence
04. Immaculate Deconception
05. Comte-Sponville

Line-up:
Mika Mage – Guitar, Synth, Composer

Guest Members:
Gary Hadden – Vocals “Traversing the Frozen North”, “Immaculate Deconception”
James Dorton – Vocals “Virgin Essence”
Joel Robert Thompson – Vocals “Madness Incarnate”
Joffre Videz – Drums
Manuel Rodriguez – Bass

NIHILISTINEN BARBAARISUUS – Facebook

www.youtube.com/watch?v=nuUorgRYXbo

Ashen Horde – Nine Plagues

L’ora delle nove piaghe è arrivata e queste si abbattono senza pietà, portando male, morte e distruzione dove prima c’era lusso e divertimento, in una devastante tempesta di suoni estremi che vanno dal death metal di scuola americana al black metal

Dopo i fasti degli anni ottanta, la Sunset Strip di Los Angeles ha lasciato ai posteri solo un manipolo di zombie armati di chiodo e spandex, che si aggirano senza meta aspettando che tutto si riaccenda come in un immenso luna park, fatto di code davanti ai locali, droga, sesso facile e tanto rock’n’roll.

Ma nella notte un’identità oscura e maligna si aggira per le vie della città degli angeli, fagocitando queste povere amebe nostalgiche di un mondo ormai finito: è Ashen Horde, mandata dall’inferno a cacciare anime dannate, perse nel vortice del vizio e pronte per bruciare nell’antro più buio nella casa del signore oscuro.
Trevor Portz, polistrumentista e mente di questo progetto diabolico, nato nelle fatiscenti vie dove tanti anni fa il via vai delle Cadillac davanti ai locali più cool era la normalità, arriva con Nine Plagues al secondo lavoro sulla lunga distanza.
L’ora delle nove piaghe è arrivata e queste si abbattono senza pietà, portando male, morte e distruzione dove prima c’era lusso e divertimento, in una devastante tempesta di suoni estremi che vanno dal death metal di scuola americana al black metal, il tutto ben congegnato ed unito da un collante progressivo che ne fa una proposta estrema molto interessante.
Assolutamente padrone di tutti gli strumenti, Trevor Portz lancia una maledizione in musica dall’effetto distruttivo, il sound di Ashen Horde non lascia molto spazio alle atmosfere e si viaggia in un clima da tregenda, come in un’invasione di cavallette il caos regna sovrano, inutile scappare, non ci si può difendere da questa martellante amalgama di death/black contaminato da belligerante e pazzoide thrash progressivo, che richiama le opere del geniale Devin Townsend.
Desecration of the Sanctuary mette subito le cose in chiaro, nove minuti di metal estremo che passa dal death metal di Covenant dell’angelo morboso, a devastanti sfuriate di black metal old school, scandinavo nel suo macabro sound e schizoide quando le ritmiche thrash, aggiungono violenza a violenza.
Bravissimo tecnicamente e sul pezzo con tutti gli strumenti, il musicista americano rifila cinquanta minuti di maligno e disturbante metal estremo, le fughe in blast beat, come le frenate sull’orlo del baratro, aggiungono monoliticità a brani che urlano dolore sconvolgendo con le oscure trame di Feral, The Stranger, il capolavoro black progressive doom Isolation e la conclusiva e terremotante A Reversal of Misfortune.
Al passaggio del demone, sulla strada rimane solo una putrida e soffocante puzza di zolfo, ora le vie sono in mano all’oscuro e feroce demone, statene alla larga, soprattutto di notte …

TRACKLIST
1. Desecration of the Sanctuary
2. Sans Apricity
3. Feral
4. Famine’s Feast
5. The Stranger
6. Atra Mors
7. Dissension
8. Isolation
9. A Reversal of Misfortune

LINE-UP
Trevor Portz – Everything

ASHEN HORDE – Facebook

Mr.Bison – Asteroid

Stoner rock suonato molto bene da due chitarre e una batteria, con una forte influenza hard e southern rock.

Stoner rock suonato molto bene da due chitarre e una batteria, con una forte influenza hard rock e southern rock.

I Mr.Bison vengono da Cecina per migliorare la nostra triste vita, con un suono che non può non farti muovere, molto rock nella sua essenza profonda, e molto stoner nel suo outfit. Dal debutto del 2011 sono cambiate un po’ di cose per questo gruppo che sta compiendo un percorso molto valido nell’ambito stoner rock, senza lasciarsi influenzare dall’esterno. Asteroid è il loro lavoro più potente e strutturato, con una fortissima vocazione rock nella totalità del genere. I Mr.Bison hanno un groove loro molto bello e particolare, e pur non facendo un genere originale lo fanno molto bene, con molti elementi diversi. Il disco è molto piacevole e vario, induce a diversi ascolti ed è il lasciapassare per gustarseli dal vivo.

TRACKLIST
1.BLACK CROW
2.WISKER JACK
3.FULL MOON
4.HANGOVER
5.BURN THE ROAD
6.RUSSIAN ROULETTE
7.RESIST
8.CANNIBAL
9.PRISON
10.HELL

MR.BISON – Facebook

The Erkonauts – I Did Something Bad

Prodotto da Drop, bassista degli immensi Samael,I Did Something Bad è un notevole esempio di metallo alternativo dalle reminiscenze prog e punk.

Mentre il music biz ed i canali più importanti dell’informazione musicale si chiedono che futuro avrà il rock, dopo la dipartita in poco tempo di alcuni degli artisti più conosciuti che, se non altro, riempivano le arene nei festival estivi e le tasche degli organizzatori, le ‘zine di riferimento sono travolte da una serie di gruppi e album che, nel sottobosco musicale, tengono accesa la fiamma con lavori di qualità in tutti i generi musicali.

E’ clamoroso a mio avviso, il fatto che un canale televisivo come Rock TV non abbia un programma, nel suo palinsesto, che parli delle scene underground sviluppatesi in questi anni, fornendo non solo supporto ai gruppi ed alle label, sempre più in crisi, ma un’informazione più approfondita ai molti fans sparsi sul territorio.
Ci sono le ‘zine, come detto, e meno male, visto che un lavoro del livello di questo I Did Something Bad, rischierebbe di passare del tutto inosservato, specialmente se parliamo nello specifico della nostra penisola.
I The Erkonauts sono un gruppo proveniente dalla Svizzera, fondato un paio di anni fa e dove milita l’ex cantante dei Sybreed Ales Campanelli, ora insieme ai suoi ex compagni della sua prima avventura (Djizoes), con cui ha composto questo straordinario lavoro di alternative metal, ristampato quest’anno dalla Kaotoxin con l’aggiunta di due brani registrati per l’occasione, ma uscito originariamente un paio di anni fa.
Prodotto da Drop, bassista degli immensi Samael, l’album è un notevole esempio di metallo alternativo dalle reminiscenze prog, ma attenzione non aspettatevi il solito disco alla Tool o un post grunge tecnico, qui si marcia spediti sull’ottovolante del punk e del metal moderno, i brani vorticano e rapiscono come in un’improbabile jam tra Primus, Jane’s Addiction e Suicidal Tendencies, anche se a tratti spunta una vena psichedelica che fa strabuzzare occhi e puntare orecchie, laddove le sei corde strizzano l’occhio al David Gilmour di pinkfloydiana memoria (la superba Hamster’s Ghosthouse).
Punk, alternative metal, progressive moderno, e rigurgiti settantiani, sono pane per i denti di chi, senza paraocchi di sorta si avvicina a questo immenso lavoro che sfiora il capolavoro.
La band si districa nel suo stesso travolgente songwriting con maestria, le chitarre formano un muro compatto di riff, mentre Campanelli è spettacolare al microfono, enorme nei brani che esplodono sotto la cascata di watts, personale e sanguigno quando la tempesta si calma un poco (Your Wife è una supeballatona da brividi).
Non manca la componente metal, violenta ad un passo dall’estremo suonare, come un bolide sparato a trecento all’ora su di un rettilineo troppo corto per fermarsi in tempo (Machine), mentre gli strumenti continuano a far uscire dalle loro corde e bacchette, note che si alternano e cambiano pelle come un grosso rettile che, dopo averci ingoiato, lascia il segno del suo passaggio con l’involucro vuoto del suo vecchio manto.
Siamo quasi a metà di questo 2016, ed in campo alternative metal troverete molte difficoltà ad ascoltare un album che si avvicini a I Did Something Bad, ve lo assicuro.

TRACKLIST
1. The Great Ass Poopery
2. Tony 5
3. All the Girls Should Die
4. Nola
5. Dominium Mundi
6. Hamster’s Ghosthouse
7. Gog
8. Your Wife
9. 9 Is Better Than 8
10.Machine
11.Culbutos

LINE-UP
Ales Campanelli – bass, vocals
Sébastien “Bakdosh” Puiatti – guitars
Adrien Bornand – guitars
Kevin Choiral – drums

THE ERKONAUTS – Facebook

Cretura – Fall Of The Seventh Golden Star

Se cercate un ascolto diverso nell’immenso panorama dei suoni sinfonici, sicuramente Fall Of The Seventh Golden Star riesce nella non facile impresa di risultare un album vario, violentissimo, epico e bilanciato da bellissimi momenti atmosferici a loro modo originali e dalla forte personalità.

I quattro cavalieri dell’apocalisse, immortalati sulla copertina, ci introducono al nuovo lavoro dei norvegesi Cretura, ottimo combo estremo arrivato al traguardo del terzo full length, licenziato dalla Wormholedeath, e successore dei precedenti Monsters of Wonderland (debutto del 2012) e When the Dead Goes to Dance, uscito nel 2013.

Symphonic extreme metal è il sound su cui si poggia questo bellissimo lavoro, prodotto da Wahoomi Corvi ai Realsound Studios, un’epica cavalcata di sessanta minuti in compagnia di guerra, morte, distruzione e carestia, una delle molteplici interpretazioni date ai quattro leggendari cavalieri.
E la musica dei Cretura ben si adatta al concept, un oscuro, debordante e devastante metal estremo, che pesca dal black metal sinfonico, caro a i Dimmu Borgir, ma non manca di potenziare il suo impatto con la forza del death metal, orchestrato a meraviglia da ottimi inserti tastieristici e reso affascinate dall’uso della doppia voce, uno screaming malvagio, ed una voce femminile (Sárá Márjá Guttorm) che, opportunamente, si discosta dai toni operistici tout court, per un apporto più concreto alle affascinanti atmosfere da tregende metallica del sound.
Come tutti i musicisti provenienti dal freddo nord Europa, anche i Cretura non lasciano indietro una tecnica strumentale sopraffina, la sezione ritmica risulta travolgente come raffiche di vento gelido che si abbattono sulle coste del mare del nord (Jørgen Beijer Johnsen al basso e Michael Sveri alle pelli), le chitarre sono armi micidiali , spadoni che tagliano e squartano con solos ora colmi di epicità, ora di tragiche melodie (Markus Oddekalv Pettersen, anche terrificante orco al microfono e Marius Toen) mentre le tastiere aggiungono feeling sinfonico al mood estremo e drammatico dell’album.
Si viaggia a velocità sostenute, a tratti qualche rallentamento alza l’atmosfera di brani d’assalto come l’opener Reign of Terror e la successiva Grand Warfare Through Dark Ages, anche se il cuore dell’album è lasciato alla marcia funebre, Funeral Roses, accompagnata da un video molto suggestivo, ed alla cavalcata in crescendo Northern Winds, che parte come un’oscura ballad per crescere di intensità e travolgere con una bordata di black metal epico.
Anche se ad un primo ascolto la sensazione rimane oscurata dalla violenza di brani come Voices Of Hunger e Når lyset dør, affiorano col passare del tempo affascinanti sfumature folk, che rendono l’atmosfera di Fall Of The Seventh Golden Star molto suggestiva, facendo respirare aria di tempi passati, lontani centinaia di anni, perennemente all’ombra della furia distruttrice del metal estremo suonato dal gruppo di Bergen.
Una menzione particolare per The Pale Horseman & the Hunter of the Sky , stupendo brano dalle sfumature gotiche che avvicina il gruppo al symphonic gothic, grazie all’interpretazione della singer, questa volta più in linea con le sue colleghe di genere.
Se cercate un ascolto diverso nell’immenso panorama dei suoni sinfonici, sicuramente Fall Of The Seventh Golden Star riesce nella non facile impresa di risultare un album vario, violentissimo, epico e bilanciato da bellissimi momenti atmosferici a loro modo originali e dalla forte personalità.

TRACKLIST
1. Past, Present & Future
2. Reign of Terror
3. Grand Warfare Through Dark Ages
4. Voices of Hunger
5. Funeral Roses
6. Northern Winds
7. Pray For A Brighter Tomorrow
8. Når Lyset Dør
9. At The 11th Hour
10. The Pale Horseman & The Hunter of The
Sky
11. The Last Song of The Earth

LINE-UP
Marius Toen – Guitars (lead)
Zlargh – Guitars, Vocals
Jørgen Beijer -Johnsen Bass
Michael Sveri – Drums
Sárá Márjá Guttorm – Vocals
Kine-Lise Madsen Skjeldal – Keyboards, Vocals (backing)

CRETURA – Facebook

Mesarthim – Isolate

Isolate è un’opera senz’altro leggera ma, nonostante questa sua levità, i Mesarthim riescono per lo più a non rifugiarsi in soluzioni melodiche troppo banali

Il duo australiano denominato Mesarthim, con questo primo album contraddistinto da un sound atmosferico spruzzato di black metal, offre uno spaccato musicale invero molto gradevole.

Lo screaming in sottofondo ed una base ritmica accelerata non varranno certo ad ottenere i favori dei blacksters più puri, ma resta inconfutabile il fatto che le melodie prodotte in Isolate siano davvero belle, per quanto semplici nel loro reiterarsi all’interno dei pezzi.
I titolo dei brani e la stessa copertina offrono l’idea di armonie dal respiro cosmico e Interstellar ne costituisce l’emblema in quanto esempio meglio riuscito, laddove la linea melodica resta impressa non solo per la sua linearità ma, anche e soprattutto, per il suo fluido integrarsi con le asprezze metalliche, che comunque restano sempre in secondo piano.
L’unico rischio di una simile operazione, però, è quello di spingere questo incedere soave delle note fino ai pericolosi confini delle melensaggine, andando a lambire talvolta i territori del neoclassicismo formato “famiglia del Mulino Bianco” in stile Allevi, nonostante le asprezze ritmiche e vocali.
Isolate è un’opera senz’altro leggera ma, nonostante questa sua levità, i Mesarthim riescono per lo più a non rifugiarsi in soluzioni melodiche troppo banali, portando l’ascoltatore ad armonizzarsi con un mondo circostante che, per chi è stato dotato suo malgrado da madre natura di una sensibilità superiore alla media, si dimostra un involucro sempre meno accogliente.

Tracklist:
1. Osteopenia
2. Declaration
3. Interstellar
4. Abyss
5. Floating
6. Isolate

MESARTHIM – Facebook

Craigh – Of Dreams And Wishes

Of Dreams And Wishes esplora un po’ tutte le atmosfere racchiuse nel metal più cool, dal metalcore al nu metal, fino all’alternative, con buona padronanza degli strumenti ed un ottimo talento melodico.

Il pagliaccio in copertina ricorda lo Stephen King del capolavoro It o il circo degli orrori della quarta stagione di American Horror Story: Freak Show, un invito ad entrare sotto il tendone dove ad aspettarci ci sono i Craigh, giovane band svizzera, al debutto per la Dark Wings con questo intrigante Of Dreams And Wishes.

Molto attiva sotto il fronte live, dove i ragazzi d’oltralpe si sono fatti le ossa ed affinato la loro tecnica, la band sforna un debutto dall’alto appeal, il loro metal moderno che richiama il più estremo metalcore, è infarcito da una valanga di melodie orecchiabili, facendo del gruppo una band dall’alto potenziale commerciale.
Vedremo, nel frattempo Of Dreams And Wishes esplora un po’ tutte le atmosfere racchiuse nel metal più cool, dal metalcore al new metal, fino all’alternative, con buona padronanza degli strumenti ed un ottimo talento melodico
Se siete amanti di queste sonorità, l’album racchiude molte hits, un concentrato di quello che il genere, ormai inflazionato, a dire il vero, ha saputo donare ai fans di tutto il mondo, suonato con una carica di giovane pazzia che è la maggiore virtù dei nostri.
Ritmiche indiavolate, buone soluzioni chitarristiche ed un cantante a suo agio sia nello scream che troverete su ogni album del genere, sia soprattutto nelle clean vocals, pronto a far innamorare orde di giovani metallare dall’headbanging facile.
Quasi cinquanta minuti di suoni metallici moderni non sono pochi, ma le varie Deathless Wings, The Hearts Drive, Every End e Shattered, ci accompagnano in questo mondo di giocolieri, acrobati e freaks di ogni tipo, per mano al temibile pagliaccio, che poi tanto cattivo non è, anche se a noi fa paura, così come le scariche adrenaliniche di una band che quando ci si mette sa come far male, alternando melodia a ruvide esplosioni core, con buona padronanza della materia.
Perfetta la produzione, cristallina e da album top, un fiocco al regalo preparato dai Craigh per tutti gli amanti dei suoni più cool di questo inizio di millennio.
Se son rose fioriranno, nel frattempo godetevi Of Dreams And Wishes, ed attenti al clown, non si sa mai.

TRACKLIST
1. Origin
2. Deathless Wings
3. Ronny B. Johnson
4. Again and Again
5. The Hearts Drive
6. Hate to Love You
7. Every End
8. The Light Inside
9. Going Commando
10. Unity
11. Destroy to Create
12. Shattered
13. Desire Remains

LINE-UP
Sebastian Möbius – Vocals
Michael Rüegg – Guitars
Cyril Neukomm – Guitars
Thomas Münch – Drums
Daniel Gmür – Bass

CRAIGH – Facebook

Fear Theories – The Predator

The Predator convince, la produzione lascia qualche pecca ma sono dettagli, il classico pelo nell’uovo nel contesto di una valutazione più che positiva

Heavy metal old school, ipervitaminizzato da ritmiche che richiamano il thrash made in Bay Area, questo il sound proposto dai norvegesi Fear Theories, metallo fiero, ruvido e grintoso, una mazzata che varia tra cavalcate veloci e mid tempo epici e dalla forza bruta, insomma, un album dedicato alle sonorità che più ci hanno fatto innamorare, parlando di metal classico.

Nord europeo, ma dalla forte impronta statunitense nel sound, il gruppo di Haugesund, molto giovane, promette davvero bene, The Predator sa come far male, nel suo alternare il metal old school britannico (Judas Priest e Maiden), alle più estreme performance delle realtà thrash d’oltreoceano (Metallica), così da formare un compatto e piacevole esempio di musica pesante, dove le ritmiche inchiodano al muro, i solos non mancano di essere melodici il giusto e la voce, maschia e ruvida si impossessa di tutti i cliché epici che le sonorità usate richiedono.
Il quartetto scandinavo è al debutto sulla lunga distanza, l’ep di tre anni fa (So It Begins) è valso alla band la firma per la Crime Records, label che licenzia questo ottimo lavoro e The Predator conquisterà non pochi cuori metallici in giro per il globo.
My Own Worst Enemy apre le danze, la tensione si fa subito altissima, il quartetto norvegese spinge subito sull’acceleratore, badando al sodo, metal che esplode in tutta la sua nobile fierezza, accompagnato dallo scudiero valoroso che di nome fa thrash metal e nel variegato mondo metallico è il più accreditato compagno d’avventure di sir heavy.
Il gruppo con buon saper fare, alterna brani più diretti, a mid tempo ottantiani di sicura presa: Cancelled, The End Of Time, risuonano di fragore metallico, mentre Andreas Tjøsvoll urla tutta la sua devozione all’immortale e leggendario suono, nato nelle strade grigie di fumo e nebbia del Regno Unito e trasferitosi negli States neanche maggiorenne.
Il riff portante della title track è quanto di più vicino al perfetto esempio di metal old school si possa trovare in giro e trasformandosi in un crescendo esaltante, si avvicina pericolosamente al sound della vergine di ferro, mentre il tono vocale del singer mantiene un mood aggressivo e thrash oriented.
Metal Lives Forever è il classico inno da cantare on stage, per ringraziare gli dei dell’immortalità regalata al nostro genere preferito, mentre i saluti sono lasciati alla song che prende il titolo dal monicker del gruppo, un altro metal anthem, dal tiro micidiale e dalle ottime melodie chitarristiche.
The Predator convince, la produzione lascia qualche pecca ma sono dettagli, il classico pelo nell’uovo nel contesto di una valutazione più che positiva, dategli un ascolto anime metalliche, non ve ne pentirete.

TRACKLIST
01. My Own Worst Enemy
02. Atonement
03. Cancelled
04. Heroes of Today
05. The End of Time
06. The Predator
07. Metal Lives Forever
08. Addicted
09. Fear Theories

LINE-UP
Ole Sønstabø – Lead guitars
Andreas Tjøsvoll – VocaLS, guitars
Brage Nygaard – Drums
Joakim Antonsen – Bass

FEAR THEORIES – Facebook

Fall Has Come – Time To Reborn

Il sound che riempe di melodie rock Time To Reborn è quanto di più american style troverete in giro, specialmente se guardate al sound alternativo

Dovete sapere che il sottoscritto ha un amico ai piedi del Vesuvio che non manca di farlo partecipe delle nuove realtà del panorama rock alternativo nazionale, tutte dall’alta qualità e pronte per il salto verso un mondo dove finalmente la loro musica possa avere i meritati consensi.

Attenzione, non parlo di successo ma di consensi, perché il nostro paese purtroppo è avaro, specialmente quando si parla di rock, della minima attenzione verso band e album come questo notevole Time To Reborn, debutto dei casertani Fall Has Come, appena tornati, in questa prima metà dell’anno da un’esaltante turnè in compagnia dei rockers Hangarvain, freschi di stampa di quel monumento all’hard rock che risulta il loro secondo lavoro Freaks, in territorio spagnolo.
Il trio campano è formato dal bravissimo singer Enrico Bellotta e qui mi fermo un’attimo: il bassista casertano è dotato di una voce dall’appeal stratosferico, la sua performance è quanto di meglio mi sia capitato di sentire nel genere, colma di feeling, radiofonica, e dotata di una personalità che si fatica a trovare anche nelle migliori band statunitensi.
Sì,  perché il sound che riempe di melodie rock Time To Reborn è quanto di più american style troverete in giro, specialmente se guardate al sound alternativo, ed alle riminiscenze del primo decennio del nuovo millennio, quello passato alla storia come alternative rock e post grunge.
Accompagnato dai due chitarristi Raffaele Giacobbone e Enrico Pascarella che compongono la line up dei Fall has Come, il singer con la sua performance regala emozioni a non finire, ciliegina sulla torta di un lavoro intenso e maturo, melodico ma dall’animo rock, alternativo forse, sicuramente conturbante e colmo di hit pregevoli.
Non credo di essere smentito se dichiaro che l’opener Cover The Sun, la semiballad I Will, l’hard rock oriented Burn Up To River, l’intimista Remember, la graffiante Urban Chaos ( con quegli accordi southern ad inizio brano che ci spingono a forza nell’America sudista dei fratellini Hangarvain) e la favolosa title track, sono bombe rock dall’alto tasso esplosivo e, in un mondo migliore, non solo musicalmente, vere mine vaganti di classifiche radiofoniche lasciate a bombardare le orecchie di migliaia di ragazzi sulle spiaggie assolate, dall’Italia alla California.
Qualcuno vi parlerà di gruppi famosi ed ora persi nel dimenticatoio del music biz, per cercare in qualche maniera di spiegarvi di che pasta è fatto questo bellissimo lavoro, io mi astengo da inutili paragoni e vi lascio alle note di Time To Reborn, debutto di questa fenomenale band tutta italiana.
P.S : fate molta attenzione perché Time To Reborn è come una droga, non potrete più farne a meno.

TRACKLIST
1. Cover the Sun
2. I Will
3. Swallow my Tears
4. Hidden Life of Dreams
5. Burn Up to River
6. Forsaken World
7. Remember
8. Start To Be Free
9. Urban Chaos
10. Time To Reborn
11. Wherever (Bonus Track)

LINE-UP
Enrico Bellotta – ocals, bass
Raffaele Giacobbone – guitars
Enrico Pascarella – guitars

FALL HAS COME – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=O8R1FNgr3WY

Immensity – The Isolation Splendour

Il gruppo ellenico, nel corso di questo riuscito esordio su lunga distanza, dimostra d’aver appreso alla perfezione gli insegnamenti dei migliori nomi del settore

Un’altra band si affaccia al proscenio del metal più malinconico e melodico: si tratta dei greci Immensity, i quali con The Isolation Splendour entrano a far parte del ricco novero delle band europeo dedite al doom death atmosferico.

Il gruppo ellenico, nel corso di questo riuscito esordio su lunga distanza, dimostra d’aver appreso alla perfezione gli insegnamenti dei migliori nomi del settore, e parlo in particolare di Swallow The Sun e Daylight Dies, senza dimenticare spunti rinvenibili anche in band dalla storia più recente come Evadne e When Nothing Remains.
Se vogliamo, è questo l’unico punto dolente dell’album, ovvero il fatto di non mettere in mostra ancora un sound del tutto personale a differenza delle band citate, che esibiscono un tratto peculiare e riconoscibile nonostante tra di esse gli scostamenti siano apparentemente minimi.
Di loro, però, i ragazzi ateniesi ci mettono sicuramente un gusto melodico da primi della classe e un’interpretazione vocale impeccabile da parte di Leonidas Hatzimichalis, ottimo sia con il suo feroce growl sia con le più sognanti clean vocals.
The Isolation Splendour è senz’altro molto bello, curato a livelli di suoni, ricco di spunti notevoli e, in fondo, scorre esattamente come l’appassionato se lo aspetterebbe, ora guidato dalle dolenti note chitarristiche, ora con le clean vocals a dare respiro alla drammatica aura fornita dal growl.
Più brillante nella sua prima metà, l’album regala appunto tre preziose gemme come l’opener Heartfelt Like Dying e Irradiance, più orientate allo stile delle band d’oltreoceano (oltre ai già citati Daylight Dies, anche qualcosa dei primi Novembers Doom), anche se a differenza di queste troviamo più caratterizzanti break con clean vocals, e la title track, il brano migliore dell’album nel quale sono rinvenibili anche sfumature progressive; tutt’altro che trascurabili comunque, The Sullen, che offre notevoli spunti emozionali grazie al lavoro della chitarra solista, Everlasting Punishment, brano strumentale piuttosto elegante, e la conclusiva Adornment, sorta di atto d’amore nei confronti dei My Dying Bride nella sua fase iniziale, con successivo sviluppo all’insegna dello struggimento melodico, mentre Eradicate risulta un episodio più opaco rispetto al resto della tracklist.
Va detto che gli Immensity sono attivi comunque fin dai primi anni del decennio (infatti le ultime due tracce citate sono presenti anche nel demo datato 2012), per cui ciò che potrebbe apparire derivativo spesso non è altro che un percorso parallelo, all’insegna di un comune sentire musicale, con altre band emerse in tempi relativamente recenti.
In definitiva, The Isolation Splendour è un lavoro che sarà apprezzato non poco da parte degli appassionati al versante più melodico del death/doom: il prossimo obiettivo per il gruppo ellenico sarà quello di mantenere questo stesso standard qualitativo rendendo però maggiormente personale il proprio sound.

Tracklist:
1. Heartfelt like Dying
2. Irradiance (For the Unlight)
3. The Isolation Splendour
4. The Sullen
5. Everlasting Punishment
6. Eradicate (The Pain of Remembrance)
7. Adornment

Line-up:
Nora Koutsouri – Keyboards
Andreas Kelekis – Guitars
Leonidas Hatzimichalis – Vocals
George Kritharis – Bass
Yiannis Fillipaios – Drums
Chris Markopoulos – Guitars

IMMENSITY – Facebook

childthemewp.com