Abaddon – Son Of Hell

Con un po’ più di attenzione in fase di produzione e migliorando la prova vocale, la band indiana potrebbe fare un salto di qualità importante, anche se la proposta è circoscritta ai fans del genere.

Si torna a parlare di metal proveniente dall’India, con il debutto di questo quartetto proveniente da Bangalore, che di nome fa Abaddon e suona heavy metal old school irrobustito da iniezioni di adrenalina thrash.

Cinque brani, una mezz’ora scarsa di musica fieramente metallica, influenzata dai maestri heavy/thrash che hanno scritto la storia della nostra musica preferita, alternando brani in linea con la new wave of british heavy metal, ad altri dove i ritmi si fanno più serrati e la velocità aumenta pericolosamente.
Terror In The Eyes Of God è un brano maideniano, la voce fuori campo lascia spazio ad un riff che ripercorre in toto il sound della vergine di ferro, metal old school, magari non prodotto benissimo, ma assolutamente trascinante, così come l’ottima Rise Of The Undead.
In Violent Sage esce l’anima thrash del gruppo, uno strumentale che porta alla devastante Destruction Completes Creation, sezione ritmica compatta (Samarth Hegde alle pelli e Jehosh Gershom al basso) e chitarre che trascinano in un vortice di note ottantiane (Akash Ponanna e Naag Bharath) per il brano più riuscito del disco.
Un po’ monocorde, la voce del bassista, sicuramente migliorabile, rende poco giustizia al sound del quartetto, che non ha paura di mettere in mostra le proprie influenze e gioca con il metal old school pescando in egual misura da Iron Maiden, Judas Priest, Testament e Megadeth.
Con sufficiente piglio gli Abaddon ci propongono un dischetto tutto sommato piacevole, derivativo certo, ma anche ben costruito su questa alternanza tra l’heavy metal tradizionale ed il più violento thrash, mettendo a nudo pregi e difetti che per una band all’esordio sono sicuramente perdonabili.
Con un po’ più di attenzione in fase di produzione e migliorando la prova vocale, la band indiana potrebbe fare un salto di qualità importante, anche se la proposta è circoscritta ai fans del genere.

TRACKLIST
1. Terror In the Eyes of God
2. Rise of the Undead
3. Violent Sage
4. Destruction Completes Creation
5. Bullet Eye

LINE-UP
Naag Bharath – Guitars (rhythm)
Jehosh Gershom – Vocals (lead), Bass
Akash Ponanna – Guitars (lead)
Samarth Hegde – Drums

ABADDON – Facebook

Ad Vitam – Stratosfear

Grande band ed ulteriore esempio di come nel nostro paese si possa suonare metal ai massimi livelli: non fate gli esterofili e fate vostro questo eccellente lavoro.

Un’altra band notevole si affaccia con convinzione ed ottima tecnica sulla scena italica, un altro colpo della Revalve Records, un altro bellissimo lavoro che a mio parere farà proseliti tra gli amanti dei suoni estremi, dalle mille sfumature.

Loro vengono dalla Sardegna, si chiamano Ad Vitam ed irrompono sul mercato con questo gioiellino, Stratosfear, un ottimo esempio di progressive death metal oscuro, maturo ed assolutamente devastante nelle molte sfuriate estreme, tra potenza death e cattiveria black, valorizzate da armonie che vanno dall’atmosferico, all’orchestrale e da cavalcate su e giù per il manico delle sei corde di stampo classico, per un tuffo nella parte più elegante del signore e padrone dei generi estremi, il death.
I brani sono tutti di notevole impatto, non c’è un attimo di tregua, la band ci investe con vortici di note che si intrecciano a velocità sostenute, mantenendo un’attenzione maniacale per il songwriting.
Gli Ad Vitam hanno una virtù che, a molti gruppi presi dallo sfoderare bravura tecnica, ma freddi e poco attenti ad elaborare brani convincenti, manca: le loro songs si nutrono di emozioni, crescono dentro di noi, perfettamente bilanciate da tecnica e gusto, sempre con l’oscurità, tipica del genere, drammatica, un fiume in piena che travolge, facendoci vorticare tra le acque agitate, nere ed impazzite, sotto la forza dell’uragano.
Prodotto perfettamente (l’album è stato registrato e mixato presso Hangar 18 Recording Studio e masterizzato presso i Conen Mastering Studio), Stratosfear ha ben in evidenza le influenze del gruppo, ma le propone con una forza espressiva impressionante, non scendendo dal livello di eccellenza per tutta la sua durata, con picchi di esaltante e matura musica estrema che escono prepotentemente dai solchi di There Was Blood Everywhere, Spektrum Walz, Six Feet Under My Sins ed Inception, tanto per citare una manciata di esempi, facendo convivere con assoluta disinvoltura Dimmu Borgir, Symphony X e Opeth.
Grande band ed ulteriore esempio di come nel nostro paese si possa suonare metal ai massimi livelli: non fate gli esterofili e fate vostro questo eccellente lavoro.

TRACKLIST
1. Exosfear
2. There Was Blood Everywhere
3. Bite Me Immortal
4. Join Me in Farewell (There Will Be Blood Everywhere)
5. Chronosfear
6. Six Feet Under My Sins
7. Under a Cypress Root
8. Plagues of Nothing
9. Mesosfear
10. Spektrum Walz
11. Inception
12. Stratosfear
13. Fall of Collective Consciousness

LINE-UP
Mattia “Vigor” Amadori – Voce
Daniel Matta – Batteria
Roberto Schirru – Chitarra ritmica
Federico Raspa – Basso
Lorenzo Mariani – Chitarra Solista

AD VITAM – Facebook

Horror Necros – The Bite Of A Hornet

The Bite Of A Hornet è un esordio che raggiunge la sufficienza e nulla più, il sound è quello giusto ma una maggiore varietà renderebbe l’ascolto sicuramente più intrigante

Death metal brutale, con un tocco di modernità, è quello che ci offrono gli Horror Necros, band russa formata da soli due musicisti, Dmitriy Kuznetsov e Maxim Smeliy.

The Bite Of The Hornet è il primo lavoro di questi deathsters dell’est europeo, che affrontano la materia forti di un sound dal buon impatto ma sinceramente dalle poche idee.
Groove apocalittico e modernista fa da tappeto sonoro al vocione brutal, accompagnato da chitarre squassanti e qualche solos melodico, concentrati in un monolitico muro di note compresse.
Senza lesinare watt, gli Horror Necros mostrano un sound ancora da perfezionare, troppa potenza monocorde sprigionano brani che rischiano di essere dimenticati, tanto è il senso di ascoltare un’unica devastante song.
Le tracce si susseguono senza guizzi qualitativi, in parte cantate in lingua madre, la produzione rende il sound sferragliante mentre il duo imperterrito sprigiona violenza metallica che ricorda dei Cannibal Corpse dal mood industriale.
Per la cronaca le due cover, poste in chiusura (I’m in Hate degli Ektomorf e Roots Bloody Roots dei Sepultura), risultano i brani più riusciti.
The Bite Of A Hornet è un esordio che raggiunge la sufficienza e nulla più, il sound è quello giusto ma una maggiore varietà renderebbe l’ascolto sicuramente più intrigante, aspettiamo il prossimo passo sperando di constatare ulteriori passi avanti.

TRACKLIST
1. Death сад
2. The Bite of a Hornet
3. Color Blindness
4. Дробь в свиной голове
5. Экзорцист
6. My Reflection
7. Jumanji
8. Тема зла
9. I’m in Hate (Ektomorf cover)
10. Roots Bloody Roots (Sepultura cover)

LINE-UP
Dmitriy Kuznetsov – Guitars, Vocals
Maxim Smeliy – Guitars

Elyria – Reflection and Refraction

Il gruppo di San Gallo è tecnicamente sul pezzo, le molte fughe degli strumenti verso lidi dove la bravura strumentale è sfoggiata alla grande viene accompagnata dall’ugola dorata della singer che in alcuni brani funziona, mentre in altri invece non riesce a lasciare la sua impronta, travolta dai vortici ipertecnici dei suoi colleghi.

Il prog metal ed il symphonic gothic metal sono due generi che poco hanno in comune, molto tecnico e troppe volte freddo il primo, bombastico e più emozionale il secondo, anche se molti gruppi odierni, specialmente nel metal sinfonico, usano divagazioni puramente tecniche e progressive nel loro sound.

Il problema giunge quando un gruppo progressive metal ha come protagonista al microfono una voce femminile dalle linee classiche, molto più adatta al genere sinfonico che a quello progressivo.
Può piacere o meno, questione di gusti chiaramente, anche se a ben vedere il risultato è a tratti affascinante, lasciando però molte volte un senso di incompiuto, specialmente quando i musicisti partono sulle ali della loro ottima tecnica in divagazioni progressive dove la voce da soprano, bellissima e dolcissima, perde lo scontro con gli strumenti impegnati in virtuosismi metallici taglienti.
Non fraintendetemi, Reflection And Refraction nella sua completezza è un ottimo esempio di prog metal sulla scia dei Dream Theater, che la splendida voce della musa Patricia Clooney valorizza nei frangenti più pacati, mentre la mancanza di un’ugola più consona ai brani di energico metallico progressivo di cui è colmo l’album, fa perdere più di un punto agli Elyria.
Il gruppo di San Gallo è tecnicamente sul pezzo, le molte fughe degli strumenti verso lidi dove la bravura strumentale è sfoggiata alla grande viene accompagnata dall’ugola dorata della singer che in alcuni brani funziona, mentre in altri invece non riesce a lasciare la sua impronta, travolta dai vortici ipertecnici dei suoi colleghi.
Abbiamo così cambi di ritmo dettati da una sezione ritmica con tutte le carte in regola per strafare (Sascha Kaisler alle pelli e Stefan Mankiewicz al basso), sei corde che ricama virtuosi riff metallici (Oliver Weislogel), ma brani che non prendono il volo, rimanendo rinchiusi nel limbo tra i due generi.
Si salvano la notevole Salome e l’orientaleggiante Faceless, oltre alcune parti in cui la pacatezza del sound permette alla vocalist di prendersi la scena, dopo essersi persa tra le complicate trame musicali suonate dai suoi compagni.
Un peccato, perché i musicisti sono bravi e la vocalist splendida, ma è l’insieme che funziona ad intermittenza.

TRACKLIST
1. Open Portals
2. The Vigil
3. Blind
4. Colour of Silence
5. Salome
6. Human Caleidoscope
7. Beyond Earth
8. Only Words
9. Faceless
10. Mindshift
11. Dreamwalker
12. Virtues
13. Distance

LINE-UP
Patricia Clooney – Vocals
Oliver Weislogel – Guitars
Sascha Kaisler – Drums
Stefan Mankiewicz – Bass

ELYRIA – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
Il gruppo di San Gallo è tecnicamente sul pezzo, le molte fughe degli strumenti verso lidi dove la bravura strumentale è sfoggiata alla grande, viene accompagnata dall’ugola

Dario Cattaneo – Dietro il Sipario: l’Epopea dei Savatage

Dietro Il Siparo è, di fatto, una sorta di bibbia per ogni fan dei Savatage degno di questo appellativo.

Ma dietro le tende, il palco, anche se vuoto, c’è ancora. E qualcuno ha lasciato lì un vecchio pianoforte nero e una chitarra bianca avvolta di rose, entrambi apparentemente pronti per essere riutilizzati.

Si conclude così, di fatto, questo bellissimo racconto, un’avventura nel mondo delle sette note, un omaggio ad una delle più grandi e fondamentali band di cui il nostro genere preferito può vantarsi.
Me lo chiedevo da un bel po’: possibile che nessuno fosse interessato a scrivere un libro sui Savatage? Eppure la band fondata dai fratelli Oliva, ha scritto quanto di meglio il metal abbia potuto offrire, in termini di qualità, al mondo della musica, partendo dal classico power metal made in U.S.A. per trasformarsi strada facendo in una spettacolare orchestra capace di convogliando i suoni ruvidi del metal, la musica classica e il prog senza lasciare, nella sua storia, niente in quanto ad eccessi e tragedie.
Ci ha pensato fortunatamente Dario Cattaneo, una vita nel mondo metal, redattore per Metalitalia e collaboratore di Metal Maniac, nonché grande fan del gruppo floridiano.
Aiutato da Andrea Mariani, batterista della tribute band ufficiale, gli Strange Wings, nonchè roadcrew dei Jon Oliva’s Pain, lo scrittore ha finalmente reso giustizia ad un gruppo unico ed inimitabile, ponendo l’accento su quello che sono sempre stati i Savatage: una famiglia, un unico nucleo di musicisti, gravitanti intorno ai fratelli Oliva prima, e poi, dopo la tragica scomparsa dell’inimitabile axeman Criss, al duo di compositori formato da Paul O’Neill ed il Mountain King, Jon Oliva.
Una scrittura fluida e scorrevole fa in modo che la storia prenda forma come in una pellicola cinematografica, dalle prime esibizioni dei due fratelli, alla parentesi Avatar, un attimo prima che la leggenda prenda il volo, il giorno prima della messa in stampa dello storico Sirens e del cambio di monicker in Savatage.
Di qui in poi si entra dalla porta principale nell’universo dei fratelli Oliva: i vari album sono descritti perfettamente ma senza annoiare, come talvolta accade invece nelle biografie musicali.
I primi successi e gli eccessi del Mountain King, il flop del famigerato Fight For The Rock, le incomprensioni con la Atlantic, fino ad Hall Of The Mountain King ed all’incontro con Paul O’Neill.
Chris Caffery, Al Pitrelli, Jeff Plate, Jack Frost, Zachary Stevens, Alex Skolnick sono solo alcuni dei musicisti della Savalandia che si unirono al gruppo nel corso degli anni, sostituendo o collaborando con la formazione originale: l’autore racconta dei  vari avvicendamenti in formazione con un tocco romanzato che affascina e tiene il lettore incollato alle pagine; la morte di Criss Oliva in un incidente stradale, la decisione di Paul e Jon di continuare, lasciando ad una formazione inusuale lo stupendo Handful Of Rain, e l’inizio della fase orchestrale, affidata a capolavori come Dead Winter Dead, The Wake Of Magellan e Poets And Madmen, ma di fatto già in embrione con l’altrettanto, bellissimo, Streets, sono descritti in modo molto professionale e corredati da schede in cui vengono raccontate le varie storie che formano questi concept, ormai passati alla storia.
Ma il mondo dei Savatage non finisce con il lungo silenzio della band: Cattaneo, nel finale, ci regala un’ulteriore panoramica su tutti i figli musicali della band madre, dai Doctor Butcher ai Jon Oliva’s Pain, dai Circle II Circle alla carriera solista di Chris Caffery, fino all’immensa Trans Siberian Orchestra, quella che, a detta dallo stesso Mountain King, è la nuova incarnazione dei Savatage.
Una band che ti entra dentro l’anima e non ti lascia più, l’unica che può vantare un innumerevole via vai di musicisti senza perdere un grammo della sua identità, troppo presto privata del grande talento di Criss Oliva, ma valorizzata dall’altrettanto mostruoso musicista e compositore che è il fratello Jon.
Il libro si conclude con la descrizione dell’evento al Wacken Open Air dello scorso anno, che vedeva la reunion dei Savatage con la formazione di The Wake Of Magellan suonare a fianco della Trans Siberian Orchestra, e la dettagliata discografia del gruppo compresi i vari progetti di cui abbiamo parlato.
Licenziato dalla Tsunami Edizioni, ormai punto di riferimento per la musica scritta, Dietro Il Siparo è, di fatto, una sorta di bibbia per ogni fan dei Savatage degno di questo appellativo, ed essendo io stesso un adoratore della musica del maestro Oliva, non mi rimane che ringraziare l’autore per questa suo esauriente omaggio … Still The Orchestra Plays!

When Nothing Remains – In Memoriam

In Memoriam è un bellissimo disco che chi predilige questo genere amerà sicuramente, in virtù di una pulizia sonora invidiabile e di una vis romantica e malinconica che pervade ogni nota, ma per il capolavoro bisogna aspettare il prossimo giro

A poco più di due anni dallo splendido Thy Dark Serenity arriva il terzo full length degli svedesi When Nothing Remains, una della band che nel decennio in corso ha contribuito ad elevare il livello del death doom melodico.

Le aspettative erano perciò molte, visto che il disco precedente sembrava propedeutico alla pubblicazione del capolavoro definitivo, capace di trasportare la creatura fondata da Peter Laustsen e Jan Sallander fino all’empireo del genere, là dove sono assisi i Saturnus.
Purtroppo l’obiettivo, almeno per questa volta, non viene raggiunto: In Memoriam è un gran bel lavoro, sia chiaro, e conferma quanto di buono questi musicisti scandinavi hanno mostrato fin dai primi passi della band, ma il livello emotivo raggiunto con Thy Dark Serenity viene sfiorato solo a tratti.
Questa constatazione è nata da un semplice esperimento: a un certo punto ho interrotto l’ascolto di In Memoriam ed ho programmato, una di seguito all’altra, quelle due gemme intitolate I Forgive You e Like An Angel Funeral e qui, l’infallibile lacrimometro, personalissimo ma attendibile strumento di misura del grado di commozione, ha mostrato quanto il pathos emanato da quelle due superbe canzoni non venisse mai raggiunto nell’ultima raccolta di brani.
Dopo i primi ascolti l’album mi sembrava addirittura anonimo poi, insistendo e cercando di sgombrare la mente da quelle aspettative che, appunto, mi impedivano di fruire in maniera fluida dei contenuti musicali, la bontà della proposta è emersa con chiarezza tanto da spingermi a parlarne in maniera tutt’altro che negativa.
Le varie Drowning in Sorrows, la title track, A Lake of Frozen Tears e While She Sleeps sono a loro volta preziose tracce alle quali manca solo quella drammaticità in grado di lacerare l’anima e ed abbattere le residue difese che la nostra psiche erige di fronte a certe toccanti rappresentazioni del dolore in musica.
Detto ciò, In Memoriam è un bellissimo disco che chi predilige questo genere amerà sicuramente, in virtù di una pulizia sonora invidiabile e di una vis romantica e malinconica che pervade ogni nota, ma per il capolavoro  bisogna aspettare il prossimo giro; io comunque continuo a crederci …

Tracklist:
1. Reunited in the Graves
2. Drowning in Sorrows
3. In Memoriam
4. Ghost Story
5. The Soil in My Hand
6. A Lake of Frozen Tears
7. Eternal Slumber
8. While She Sleeps
9. The Spirits in the Woods

Line-up:
Peter Laustsen – Guitars (lead), Vocals
Jan Sallander – Bass, Vocals
Tobias Leffler – Guitars (rhythm)
Dimitri “Dimman” Jungi – Drums

WHEN NOTHING REMAINS – Facebook

Todtgelichter – Rooms

Rooms, nove stanze che nascondono nove modi di emozionare, nove porte da aprire per entrare in un caleidoscopio di suoni progressivi estremi.

Mi fate davvero sorridere, sì voi beceri ed ignoranti cultori della musica usa e getta, delle boy band, e detrattori del metal a prescindere, cultori dei soldi a dispetto dell’arte.

Ma ilo mio ghigno è di rabbia, una rabbia che da anni mi porto dentro, ogni volta volte che mi fermo a parlare di musica, fiato sprecato se al cospetto ho persone che non hanno orecchie per sentire.
E allora, il tutto rimane come sempre circoscritto ad un manipolo di eletti che, fregandosene altamente delle abituali new sensations che ogni anno sfornano antipatici tormentoni, della buona musica si nutrono e sicuramente apprezzeranno un album come Rooms, nuovo lavoro dei tedeschi Todtgelichter.
Nati come black metal band, magari atipica, ma pur sempre assimilabile al genere oscuro per eccellenza, nel corso degli anni si sono trasformati in un’entità totalmente slegata da generi e confini, maturando un sound estremo che fa dell’originalità e della maturità compositiva il suo credo, elargendo arte delle sette note come se piovesse dal cielo.
Rooms, nove stanze che nascondono nove modi di emozionare, nove porte da aprire, per entrare in un caleidoscopio di suoni progressivi estremi, intricati, ma perfettamente logici, per godere di arte che va aldilà delle barriere erette dai profeti del nulla, per umiliare quella forma di musica che si rivela solo materiale di uso e consumo.
Nati all’inizio del nuovo millennio e con ben quattro full length alle spalle, di cui l’ultimo, Apnoe, aveva tutti i crismi del capolavoro, il gruppo di Amburgo aggiunge un altro quadro dai mille colori nella sua già nutrita discografia, con questo stupendo affresco di musica a 360° dal titolo Rooms.
Progressive, musica estrema, dark, accenni di blues rock (Origin) si fondono per donare nove tracce di suoni alternativi ai soliti cliché: teatrale, oscura, intimista ed eclettica, sfiora la sublime eccellenza con l’interpretazione della stupenda Marta, un’Edith Piaf della musica estrema, violenta e terrificante con lo scream, teatrale ed assolutamente ineccepibile alle clean vocals.
Entrando nelle nove stanze di cui è composto questo monumentale edificio musicale, vi perderete nei meandri delle sette note, intimiste, malinconiche, violente come uno stupro, affascinanti come il male e curative come solo l’arte sa essere per l’anima.
Nessun accenno ai brani, per entrare dovrete trovare la prima chiave e poi, dentro alla prima stanza troverete quella per la seconda e così via, in un viaggio dove voi sarete incollati all’ingresso, mentre sarà il vostro io che percorrerà i corridoi, aprirà le porte, si rifugerà negli angoli più bui, spaventato da una musica che lo denuda, mettendolo davanti ad uno specchio che non riflette quello che crede di essere, ma ciò che è veramente.
Un capolavoro di emozioni.

TRACKLIST
01. Ghost
02. Schrein
03. Lost
04. Shinigami
05. Necromant
06. Zuflucht
07. 4JK
08. Origin
09. Pacific

LINE-UP
Marta: vocals, screams
Frederic: guitars, backing vocals
Floris: guitars
Guntram: bass
Frieder: organ, synths
Tentakel P.: drums

TODTGELICHTER – Facebook

URL YouTube, Soundcloud, Bandcamp

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Ivory – A Moment, A Place, A Reason

A Moment, A Place, A Reason è un grande disco di hard rock, da ascoltare, assaporare e consigliare

Gran bel disco hard heavy con puntate aor per questo combo di veterani di Torino.

Attivi dalla fine degli anni novanta ma in maniera organica dal 2005, gli Ivory propongono un suono molto debitore del passato ma proiettato nel futuro, forte del fatto che i fans di queste sonorità sono tenacissimi. Ci sono molte cose in questo cd, pubblicato da Buil2 Kill Records, ma soprattutto c’è una grande voglia di fare hard rock, un’ottima produzione e tanta tanta melodia resa sempre in maniera impeccabile. Il sentimento contenuto in questo disco è difficilmente ravvisabile nelle migliaia di uscite hard rock, poiché gli Ivory fanno tutto molto bene, e sarebbe un gran peccato se questo disco passasse inosservato. Il gruppo torinese non fa solo sfoggi odi una grande tecnica, ma sono anche fini compositori e le canzoni hanno un’ossatura importante. A Moment, A Place, A Reason è un grande disco di hard rock, da ascoltare, assaporare e consigliare.

TRACKLIST
01. Bad News
02. The Hawk
03. Feeling Alive
04. Who Am I
05. Take A Ride
06. A Drink At The Village (Instrumental)
07. Come Together (The Beatles Cover)
08. Inner Breath
09. Through Gloria’s Eye
10. Blues For Fools

LINE-UP
Roby Bruccoleri – Vocals.
Salvo Vecchio – Guitars.
Luca Bernazzi – Bass.
Claudio Rostagno – Drums.

IVORY – Facebook

Reabilitator – Global Degeneration

Il difetto maggiore si riscontra nella somiglianza tra i brani, che nel loro complesso formano un botto di musica estrema dal buon tiro, ma dalle poche idee.

Ristampa per la Symbol Of Domination, che ha unito le forze con altre due etichette, la Metal Race e la Murdherrecords e ci regala il debutto dei thrashers ucraini Reabilitator, trio formatisi nel 2010 e che rilasciò questo Global Degeneration nel 2012.

Thrash metal old school, genere che nell’underground vede la nascita di orde di in ogni parte del mondo, ruvido, senza compromessi, cattivo il giusto per alzare il dito medio al mondo e suonare il più veloce possibile, accompagnando le truppe di zombie metallici che cercano in tutti i modi di prendersi il dominio del mondo.
Concept che va di pari passo con la musica, ignorantissima, del trio di Zaporizhzhya il quale, nascosto dalla dicitura new wave of thrash metal, aggredisce con il classico speed/thrash ottantiano, un po’ americano, un po’ europeo, ma pur sempre violento .
Palla lunga e pedalare, mezz’ora di velocità e cattiveria, tra ritmiche alla velocità della luce, voce sguaiata e stop and go come se piovesse.
Pochi solos e piede a tavoletta sull’acceleratore, così si presenta la band che vede Novikov al basso, Kotlyar a violentare la chitarra e il batterista Prasolov alle prese con il microfono.
La qualità di Global Degeneration si mantiene poco oltre la sufficienza per tutta la sua durata, inutile un track by track visto che il difetto maggiore si riscontra nella somiglianza tra i brani, che nel loro complesso formano un botto di musica estrema dal buon tiro, ma dalle poche idee.
L’ascolto è ad esclusiva dei soli fans del thrash più ignorante, non credo che Global Degeneration possa trovare estimatori al di fuori di quell’ambito.

TRACKLIST
01. Mechanical Devastation
02. Self-extinction Of Mankind
03. The End
04. Chernobyl
05. Reabilitation Begins
06. Wall Of Death
07. N.W.O.T.Maniax
08. Hedonism
09. New World Order
10. Global Degeneration

LINE-UP
Novikov – bass
Kotlyar – guitar
Prasolov – drums/vocal

Deprive – Into Oblivion

Una cinquantina di minuti di death/doom nello stile dei primi anni 90

Un’altra one man band, questa volta dalla Spagna: Deprive è la creatura mostruosa del polistrumentista e vocalist Erun-Dagoth, ex di una miriade di band che con questo monumentale Into Oblivion arriva all’esordio su lunga distanza, dopo aver dato alla luce due demo ed una compilation omonima dello scorso anno che li racchiudeva entrambi.

Anche nel nuovo album Erun-Dagoth non manca di farci riassaporare il primo demo come bonus track, arrivando così ad una cinquantina di minuti di death/doom dei primi anni 90: un vero piacere per l’udito riascoltare il putrido sound che fece la fortuna di Asphyx, My Dying Bride e, sul versante death, dei Morbid Angel.
Rallentamenti catacombali, riff mastodontici, atmosfere mortifere, sono il freno a mano per le accelerazioni di stampo death old school, ed offrono per un risultato ottimo, vero solluchero per gli amanti di queste sonorità, ormai orfane di album epocali come l’omonimo “Asphix”, “As The Flower Withers” e “Altars of Madness”.
Il death dei Deprive è cimiteriale, e ci porta a fare un giro all’inferno dal quale, con un po’ di fortuna, si torna, ma senza metterci la mano sul fuoco, travolti da questo maligno incedere di brani oscuri e malati come Catacombs Of Betrayal, Infamous Ossuary Of Tribulation, Immemorial Ritual Beyond Death, inni estremi accompagnati da una componente satanica e occulta, come si addice alla musica contenuta in questo ottimo lavoro.
Qualcuno punterà il dito sulla poca originalità di Into Oblivion: fregatevene e fatelo vostro, assolutamente, specie se siete fan delle band di riferimento del gruppo spagnolo che, come uno zombie, spunta dalla terra sconsacrata di un vecchio cimitero dimenticato, trascinando le ossa annerite e le poche carni in putrefazione verso quella civiltà molto più brutale dell’inferno da cui proviene.

P.S.: L’ultimo brano, Divine Blood Of The Deceased, è un’outro pianistica che ricorda maledettamente “Sear Me”, dal primo bellissimo album dei Bride, e ho detto tutto …

Tracklist:
1. Catacombs of Betrayal
2. Nightsky Revelation
3. Fall of Entropy
4. Infamous Ossuary of Tribulation
5. Dethroned Messiah
6. Apocryphal Mausoleum
7. Immemorial Ritual Beyond Death
8. An Oath of Necrotical Mist
9. Into Oblivion
10. Divine Blood of the Deceased
11. The Arrival
12. Innards of Heaven
13. Below the Screams of the Dying
14. De Vermis Mysteriis

Line-up:
Erun-Dagoth – All Instruments, Vocals

DEPRIVE – Facebook

The Fog – Perpetual Blackness

Essenziale, brutale e scorretto,  il lavoro dei The Fog esercita un suo fascino ancestrale ma difficilmente  il suo scarno incedere potrà  fare troppi proseliti.

Album d’esordio per i tedeschi The Fog, band che ci scaraventa indietro nel tempo, andando a rivangare le forme di death doom più grezze e dirette e  riportando alla memoria gentaglia pericolosa e poco incline a morbidezze come furono gli Winter.

Detto questo, in fondo resta poco altro da aggiungere,  se non che Perpetual Blackness non è affatto indicato a chi predilige  le declinazioni più melodiche del genere.
Essenziale, brutale e scorretto,  il lavoro dei The Fog esercita un suo fascino ancestrale ma difficilmente  il suo scarno incedere potrà  fare troppi proseliti.
Sono effettivamente godibili le improvvise accelerazioni  che, innestate su un tessuto morboso, possiedono l’effetto di provocare un furioso headbanging, però il talento compositivo di Asphyx e Morgoth, tanto per citare altri dei nomi ai quali i nostri vengono accostati in sede di presentazione, risulta tutt’altra cosa.
La varietà compositiva in queste lande è qualcosa di sconosciuto, e una manciata di riff azzeccati non basta a rendere avvincente un disco in cui il piatto rantolo di  V. Lord non contribuisce ad elevarne il livello.
Sentito un pezzo, sentiti tutti: se poi quel pezzo non è neppure indimenticabile traete voi le conclusioni: l’album dei The Fog potrebbe essere comunque apprezzato dai fans del death più  oltranzista, i quali forse troveranno quei motivi d’interesse che un appassionato di doom incline alla malinconia come  il sottoscritto fatica ad intravedere.

Tracklist:
1.Inaneness
2.Crawling Doom
3.Entropy Pillars
4.Creeping Lunacy
5.Gloom Shoals
6.Perpetual Blackness
7.Grievous Scourge

Line-up:
C.C. Defiler – Bass
Avenger – Drums
V. Lord – Vocals, Guitars

THE FOG – Facebook

Axevyper – Into The Serpent’s Den

L’album è un inno all’heavy metal e vi troviamo il meglio che il genere ha saputo offrire nella sua lunga storia

Amanti dell’heavy metal old school segnatevi il nome degli Axevyper, primo perché la band è tutta italiana e, secondo, perché il loro ultimo lavoro è una bordata da lasciare senza fiato.

Nel più puro spirito metallico Into The Serpent’s Den è forgiato, mandando a spigolare realtà (specialmente nordiche) che sul genere hanno costruito la loro fortuna, epici, guerreschi e fieramente metallici, old school, che non vuol dire produzione fai da te e poca personalità, ma appartenenti ad una scuola musicale che guarda al passato, senza dimenticare di vivere e creare musica nel nuovo millennio.
Talmente travolgente questo disco, che mi ha ricordato a più riprese l’esordio degli Hammerfall ma, attenzione, dove il gruppo di Joacims Cans faceva delle facili melodie il suo punto di forza, la band nostrana si rende protagonista di un lavoro dove le melodie hanno la loro importanza, ma inserite in un contesto maturo in cui le atmosfere di fiero e glorioso metallo sono valorizzate da un songwriting di un’altra categoria.
Questo terzo full length scaraventa di diritto la band tra le migliori realtà nel genere suonato, anche perché sfido chiunque a trovare altrove la verve, il senso per la melodia ed un’attitudine come riscontrato in seno al gruppo di Viareggio, non per caso finito tra le grinfie della Iron Shield, etichetta della grande famiglia Pure Steel.
L’album è un inno all’heavy metal e vi troviamo il meglio che il genere ha saputo offrire nella sua lunga storia, dalle band storiche dei gloriosi anni ottanta a quelle che, dopo la metà del decennio successivo, portarono ancora una volta il metal classico agli onori delle cronache, il tutto suonato con una personalità debordante.
L’album sprigiona una fierezza metallica che rinvigorisce il guerriero che è in noi, per troppo tempo addormentato, ed ora pronto allo scontro sulle note delle varie Brothers of the Black Sword, Metal Tyrant, The Adventurer e Beyond The Gates Of The Silver Key.
Chiaramente i musicisti sanno il fatto loro, ed il sound è valorizzato da performance tutte sopra la media, chitarre, sezione ritmica e canto sono perfettamente in linea con un songwriting che sorprende, richiamando a più riprese, Maiden, Warlord, Manilla Road, Manowar,Domine, Hammerfall, Nocturnal Rites, in un viaggio lungo più di trent’anni lungo le numerose battaglie affrontate dal nostro amato guerriero metallico, mandato dagli dei per difendere la nostra musica preferita.
Questo è heavy metal con la M maiuscola, grande album, grande band e prima sorpresa (anzi conferma) del nuovo anno nel genere.

TRACKLIST
1 Brothers of the Black Sword
2 Metal Tyrant
3 Soldiers of the Underground
4 The Adventurer
5 Under The Pyramids
6 Spirit Of The Wild
7 Solar Warrior
8 Beyond The Gates Of The Silver Key

LINE-UP
Luca “Fils” Cicero – Vocals
Guido Tiberi – Guitars
Damiano Michetti – Guitars
Andrea Tognetti – Bass
Niccolò Vanni – Drums

AXEVYPER – Facebook

Anvil – Anvil Is Anvil

Volete ancora raffinatezze e originalità? Rivolgetevi altrove, qui si fa del metal ignorante e tremendamente fiero.

Quando si parla di Anvil si parla di storia, su questo non ci sono dubbi, infatti il gruppo capitanato da quel simpaticone di Lips, che lo vogliate o no, è uno delle maggiori fonti di ispirazione per molte band diventate molto più famosi del combo canadese, una su tutte i Metallica.

Rispettati ed amati dai loro colleghi della scena metal, specialmente quella statunitense, gli Anvil hanno scritto nei primissimi anni ottanta due dischi entrati a far parte della storia dell’hard & heavy: il clamoroso Metal On Metal (1982), praticamente il vangelo metallico secondo Lips, opera che ha influenzato mezzo secolo di artisti del genere, e Forged In Fire, album che veniva pubblicato un anno dopo il suo illustre predecessore, risultando ancora una volta un macigno di hard & heavy, ruvido, senza compromessi ed altamente adrenalinico.
Il gruppo ha continuato imperterrito a produrre dischi in tutti questi anni, senza neanche sfiorare quella popolarità che ha toccato molti dei loro colleghi, più volte dichiaranti del loro amore verso la band, ma a Lips la cosa non ha mai pesato più di tanto, tanto è vero che nel 2009 usciva The Story Of Anvil, documentario sulla storia del gruppo che non poteva a fare a meno di prendere con ironia la poca popolarità acquisita in tanti anni di onorata carriera nel mondo del rock.
Nuovo millennio e ancora una buona manciata di album, tutti con la firma Anvil, così come mister Steve “Lips” Kudlow vuole, con una coerenza a tratti commovente, anche se molti hanno sempre rimproverato al gruppo di produrre album perfettamente uguali da almeno trent’anni.
Prendere o lasciare, giusto così, e anche questo Anvil Is Anvil non si discosta dalle precedenti uscite, contraddistinte da riff duri come la roccia, monolitiche songs dai ritmi cadenzati e dalla potenza di un carro armato, altri più veloci ed in stile motorhediano, ma con uno spirito per nulla scalfito dai decenni che inesorabilmente passano, per loro, ed anche per chi nei primi anni ottanta comprava il vinile di Forged In Fire con la paghetta settimanale.
L’album mantiene le coordinate espresse da sempre e sinceramente chi vorrebbe qualcosa di diverso che non siano brani potenti e sfacciatamente live come l’opener, Daggers And Rum, Up Down Sideways, la mitragliante Die For A Lie e via via tutte le songs che compongono questo sedicesimo inno all’hard & heavy senza compromessi?
Lips ruggisce con il suo tono sporco, la sei corde ci inonda di riff che ci ricordano chi ci ha fatto innamorare della nostra musica preferita, mentre Robb Reiner e Chris Robertson formano il solito muro ritmico dove si sale ma non si riesce più a scendere.
2016, gli Anvil sono ancora qui con il loro sound monolitico e senza fronzoli: volete ancora raffinatezze e originalità? Rivolgetevi altrove, qui si fa del metal ignorante e tremendamente fiero.

TRACKLIST
1. Daggers and Rum
2. Up, Down, Sideway
3. Gun Control
4. Die for a Lie
5. Runaway Train
6. Zombie Apocalypse
7. It’s Your Move
8. Ambushed
9. Fire on the Highway
10. Run Like Hell
11. Forgive Don’t Forget
12. Never Going to Stop

LINE-UP
Robb Reiner – Drums
Chris Robertson – Bass
Steve “Lips” Kudlow – Guitars, Vocals

ANVIL – Facebook

Killers Lodge – Alma Cachonda

Ottimo lavoro che conferma la grande vena compositiva dei protagonisti, Alma Cachonda segue senza deludere il bellissimo esordio, con un proprio indirizzo stilistico ed una propria anima

Tornano a distanza di due anni dall’ottimo debutto Unnecessary I, i Killers Lodge, trio ligure composto da musicisti di un certo rilievo nel panorama metallico della nostra penisola, come John Killerbob, bassista, cantante e maggiore compositore del gruppo, che in passato ha collaborato con Necrodeath e Cadaveria, Olly Razorbach, chitarrista ed ex membro di Sadist, Nerve e Cadaveria, e Christo Machete alle pelli, con le sue bacchette che hanno picchiato sui drumkit dei Mastercastle, ed ultimamente sul progetto Odyssea di Pier Gonnella e Roberto Tiranti.

Il nuovo lavoro pur seguendo le linee guida del primo album si discosta leggermente per una più marcata predisposizione all’ heavy metal, il rock’n’roll motorheadiano che aveva caratterizzato i brani di Unnecessary I è sempre presente, ma le dosi di adrenalina di scuola Lemmy sono iniettate nel sound con parsimonia, così da avvicinare Alma Cachonda ad un mood metallico più marcato.
La band continua ad avere un impatto live ed inyourface davvero notevole, ed il songwriting, anche questa volta è sopra la media e l’esperienza indiscutibile dei musicisti coinvolti, fa capolino da ogni nota espressa su questo monolitico lavoro, che, se perde qualcosa in attitudine rock’n’roll, acquista una notevole potenza metallica.
Potenza e groove, ritmiche che si alternano, veloci o cadenzate, voce abrasiva e profonda, enormi riffoni metallici di scuola ottantiana, ed un impatto pari ad un molosso di musica del diavolo, irrompono dalle casse dello stereo in un assalto hard & heavy senza soluzione di continuità.
Dalla sua il gruppo genovese ha nel songwriting l’arma in più, valorizzando anche questa seconda raccolta di brani, che mantengono un approccio live entusiasmante.
Musica da suonare on stage, una colonna sonora per l’apocalisse sotto il palco, una prova di forza che, portata fuori dai confini di un cd, saprà fare male, molto male.
I brani si mantengono su livelli alti, anche se By Inferno’s Light (scelta come singolo), la seguente Psycholulladie, Growling the Night Away, dal riffone dommy che richiama i Cathedral e la mastodontica For the Lion and the Fish, una bordata di muscoloso metal dal groove micidiale, sono le songs da spararsi senza ritegno a volumi vietati, fregandosene del vicinato.
Ottimo lavoro che conferma la grande vena compositiva dei protagonisti, Alma Cachonda segue senza deludere il bellissimo esordio, con un proprio indirizzo stilistico ed una propria anima, promosso a pieni voti.

TRACKLIST
1. Stand Against
2. By Inferno’s Light
3. Psycholulladie
4. In The Gypsy Raven’s Deep Space
5. Growling the Night Away
6. With Fire and Iron
7. Ever Steel
8. For the Lion and the Fish
9. Warmongers

LINE-UP
John KillerBob: bass, voice
Christo Machete: drums
Olly Razorback: guitars.

KILLERS LODGE – Facebook

Svartelder – Askebundet

Se siete alla costante ricerca di qualcosa di particolarmente innovativo, qui troverete “solo” del black metal suonato con competenza e convinzione.

Siete alla costante ricerca di qualcosa di particolarmente innovativo? Bene, allora potete pure passare oltre, perché qui troverete “solo” del black metal suonato con competenza e convinzione, indubbiamente piacevole ma già sentito e sviscerato in tutte le sue pieghe.

Fatta una prima scrematura, i pochi rimasti si avvicinino con una certa fiducia a questo ep d’esordio dei norvegesi Svartelder, band che, comunque, benché sia ai suoi primi passi con questo monicker, vede coinvolti musicisti già da tempo appartenenti alla seminale scena del proprio paese.
Infatti, se è vero che le sonorità prodotte dal quartetto scandinavo non ci sorprendono, il fatto stesso di proporle in maniera brillante e coinvolgente non è neppure cosa da tutti.
Askebundet consta di tre brani per un totale che sfiora i 25 minuti complessivi di durata: troviamo, quindi, una title track canonica ma impeccabile nel suo incedere, un’eccellente Bleeding Wounds, mid tempo avvolgente e martellante, e una splendida Ingen Vet Jeg Var…, in cui il lavoro delle chitarre prende il sopravvento delineando con costanza il tessuto melodico del brano, fino a sfociare in passaggi solisti di gran pregio.
Se in questa band, del resto, oltre al leader Doedsadmiral e al chitarrista/bassista Maletoth, troviamo due due musicisti (Kobro e Kobold) coinvolti in una band che ha fatto della versatilità il proprio vessillo come i magnifici In The Woods, significa che suonare (molto bene) del “normale” black non è affatto cosa disdicevole.
Difficile trovare a questo dischetto una pecca che non sia la già citata, e a mio avviso trascurabile, derivatività: questo è un esempio del genere eseguito al meglio da chi vi è immerso fino al midollo da anni ed è più che mai titolato a farlo (nel caso ce ne fosse bisogno).
E’ tutto, e non è affatto poco.

Tracklist
1. Askebundet
2. Bleeding Wounds
3. Ingen Vet Jeg Var…

Line-up:
Doedsadmiral – Vocals
Maletoth – Guitars, Bass
Kobro – Drums
Kobold – Keyboards

SVARTELDER – Facebook

Aleph – Thanatos

Il suono è subito riconoscibile, e già questo è un segno di bravura, e il disco sale fino a raggiungere vette davvero alte, usando registri diversi fra loro, tenuti insieme dalla bravura del gruppo.

Ambizioso terzo disco per questo gruppo bergamasco, con un death metal con forti inserti di sympho di ottima fattura e sicura resa. Disco diviso in due movimenti, per entrambi l’argomento principale è la morte, che è la nostra unica vera divinità.

Se ci pensiamo bene tutto la nostra vita ruota intorno alla sua nemesi ,ovvero la morte, e le visioni che essa genera sono descritte molto bene in questo lavoro. Gli Aleph sono un gruppo molto capace tecnicamente e con grande capacità di composizione, il disco è notevole e non registra mai un momento ovvio o un qualcosa di lontanamente avvicinabile ad un cliché, è sempre in cerca di novità e di stupire con improvvise epifanie l’ascoltatore. Ascoltando Thanatos si possono trovare tantissimi spunti, dal death metal più ortodosso a una forte dose di prog, il tutto condito da tastiere davvero incisive. Il respiro globale del disco è molto forte ed ampio, e Thanatos è uno dei migliori prodotti metal uscito ultimamente in Italia. Il suono è subito riconoscibile, e già questo è un segno di bravura, e il disco sale fino a raggiungere vette davvero alte, usando registri diversi fra loro, tenuti insieme dalla bravura del gruppo.

TRACKLIST
1. The Snakesong
2. The Old Master
3. A Game Of Chess
4. The Severed Skull
5. Fire Demon
6. Nightmare Crescendo
7. Sea Of Darkness
8. …The Silence…
9. Thanatos
10. Winterlude
11. Smoke and Steel / Multitudes
12. Still Inside
13. A Renegade’s Path
14. Remains/Remained

LINE-UP
Dave Battaglia: Vocals, Guitar
Giuseppe Ciurlia: Guitar
Manuel “Ades” Togni: Drums
Giulio Gasperini: Keyboards
Antonio Ceresoli: Bass

ALEPH – Facebook

Opera IX – Back To Sepulcro

Black metal teatrale, orchestrato a meraviglia, pregno di malignità e decadente oscurità

Gli Opera IX sono uno dei gruppi più importanti nel panorama estremo dalle trame black ed esoteriche, la loro discografia è colma di album straordinari, pregni di quelle atmosfere di oscuro misticismo come solo nel nostro paese, da tradizione, si possono riscontrare nella musica come nel cinema.

Dal lontano 1990, anno della fondazione del gruppo, oltre a quello ormai diventato un album di culto, The Call Of The Wood, la band piemontese ha infilato una serie di lavori bellissimi dove hanno trovato la gloria non pochi musicisti della scena -nazionale. com fu in passato per Flegias, vocalist dei Necrodeath (all’epoca alle prese con il drumkit) e la “regina” del metal estremo italiano Cadaveria.
Vent’anni sono passati dal primo full length e il gruppo, da sempre in mano allo storico chitarrista Ossian, torna con questa sorta di mini best of, con un poker di bellissimi brani tratti dai primi quattro lavori, più due brani inediti incisi da una line up rinnovata.
Della partita fanno parte la cantate Abigail Dianaria, un ritorno femminile dietro al microfono che fu di Cadaveria, Scùrs al basso, M:A Fog alle pelli (ex Mortuary Drape, tra gli altri) e Alexandros alle keys (ex Highlord).
La nuova veste data alle quattro songs rende giustizia ad una proposta entusiasmante: la produzione e le orchestrazioni fanno rinascere brani storici, inquietanti e bellissimi come Sepulcro, che concludeva il primo album, The Oak, opener di Sacro Culto (1998), Act I, The First Seal che apriva The Black Opera, e Maleventum, title track del disco uscito nel 2002.
I due inediti sono Consacration e The Cross, sorta di outro, ma specialmente la prima funge da antipasto per il nuovo corso della band rivelandosi un ottimo brano in cui vengono confermate le qualità della nuova vocalist, personale, teatrale e maligna e che appare sul pezzo anche con le rivisitazioni dei brani storici.
Black metal teatrale, orchestrato a meraviglia, pregno di malignità e decadente oscurità, brividi che si fanno intensi per il talento dei nostri nel saper rendere reali e per questo ancora più inquietanti le atmosfere malefiche, esoteriche e horror che la loro musica esprime in modo assolutamente geniale.
A questo punto possiamo solo aspettare il nuovo lavoro di inediti e gioire per il ritorno di questa fondamentale band nostrana, sento già odore di morte e decomposizione nell’aria.

TRACKLIST
1. Sepulcro
2. The Oak
3. Act I, The First Seal
4. Maleventum
5. Consacration
6. The Cross (Outro)

LINE-UP
Ossian – Guitars
Scùrs – Bass
M:A Fog – Drums
Alexandros – Keyboards
Abigail Dianaria – Vocals

OPERA IX – Facebook

Akhenaten – Incantations Through the Gates of Irkalla

Il lavoro di ricerca dei fratelli Houseman è qualcosa di peculiare, soprattutto dal punto di vista dell’amalgama della strumentazione tradizionale egizia con la struttura del metal estremo.

Prendete due fratelli del provenienti dal Colorado, irrimediabilmente affascinati della storia egizia e date loro in mano degli strumenti musicali: ecco gli Akhenaten.

Qualcuno potrebbe pensare che non ci sia alcunché di nuovo in tutto questo, specialmente se la base musicale sulla quale riversare la propria passione per le sonorità mediorientali è un robusto black death: in fondo non lo fanno già da molti anni i Nile e i Melechesh ?
Beh, permettetemi di dire che il lavoro di ricerca dei fratelli Houseman è qualcosa di differente e, per certi versi, persino superiore, perlomeno dal punto di vista dell’amalgama della strumentazione tradizionale con la struttura del metal estremo. Della band di Karl Sanders abbiamo sempre amato l’approccio ed i riferimenti alla storia egizia che, alla fin fine, sono più presenti a livello lirico che non musicale, laddove viene esibito un death brutale quanto tecnicamente sopraffino e che ha ben pochi eguali.
Quello che viene messo in atto dagli Akhenaten, invece, assomiglia molto di più a quanto fatto dagli Al Namrood, con la differenza non da poco che questi ultimi, pur vivendo in Canada, sono di nascita saudita, mentre i nostri la cultura araba l’hanno solo acquisita.
Va detto che il deus ex machina del duo è Jerred, che si occupa di tutti gli strumenti, mentre Wyatt presta il suo canonico growl a completamento dell’opera. La maestria nel maneggiare la materia e la strumentazione tradizionale è esattamente ciò che rende speciale Incantations Through the Gates of Irkalla, facendone un lavoro irrinunciabile per chi ama il metal abbondantemente annaffiato da atmosfere arabeggianti.
Non c’è dubbio che gli Houseman traggano qualche spunto anche dai Septicflesh della svolta sinfonica, e non è un caso se la band ellenica viene omaggiata con una fedele ed efficace cover di Anubis, brano capolavoro tratto da Communion.
Per il resto, tutte le tracce meritano d’essere ascoltate con curiosità mista a piacere, facendo attenzione al peculiare lavoro percussivo di Jarred, vero e proprio valore aggiunto di un album davvero eccellente.

Tracklist
1. Incantations Through the Gates of Irkalla
2. The Watchers
3. Enlil: Lugal Kurk Ur Ra
4. Ninurta: The Fall of Anzu
5. The Passage Through Flames
6. Brahma Astra
7. Anunnaki
8. Apkallu: Seven of the Abzu
9. Mis Pi
10. Golden Palace of the Lamassu
11. Abu Simbel
12. Anubis (Septic Flesh cover)

Line-up:
Jerred Houseman – Guitars, Drums, Bass
Wyatt Houseman – Vocals

AKHENATEN – Facebook

Axe Crazy – Angry Machines

Se cominciate ad avere qualche capello bianco su quella che una volta era una lunga e folta chioma, occhio, perché Angry Machine potrebbe farvi tornare la voglia di poghi sfrenati

La Pure Underground Records ristampa l’esordio degli heavy metallers Axe Crazy, uscito originariamente nel 2014, un concentrato di heavy metal ottantiano clamoroso.

In soli diciassette minuti, divisi in quattro brani, la band, che prende il nome da un brano degli storici Jaguar, convince in toto gli appassionati della new wave of british heavy metal, con un sound esplosivo che, pur seguendo le coordinate del genere, risulta fresco, suonato benissimo ma soprattutto prodotto alla grande, così da investire l’ascoltatore con ritmiche aggressive, solos funambolici ed un cantante perfetto per urlare al vento l’appartenenza al mondo metallico.
Semplicemente heavy metal, certo, ma con un songwriting all’altezza, e tanto talento la band sfiora la perfezione, consegnandoci quattro perle da ascoltare e riascoltare e quando il genere è suonato così, beh, non ce n’è per nessuno.
Angry Machines, Hungry For Life, la fenomenale Sabretooth Tiger e Running Out Of Time vi faranno saltare come grilli, puro heavy metal ottantiano dove solos grintosi melodici e dall’appeal esagerato per il genere (Robson Bigos e Adrian Bigos), ritmiche terremotanti (Andrzej Heczko alle pelli e Kamil Piesciuk al basso) e vocals pulite e potenti (Michael Skotnicki).
Se cominciate ad avere qualche capello bianco su quella che una volta era una lunga e folta chioma, occhio, perché Angry Machines potrebbe farvi tornare la voglia di poghi sfrenati al limite dell’umano, birra a fiumi e borchie a coprire il polsino della camicia stirata dalla padrona di casa.
Se siete giovani metallers, il consiglio è di ascoltare con attenzione questi quattro brani, dove all’interno è racchiuso il segreto per suonare la musica più bella del mondo.
La ristampa da parte dell’etichetta tedesca, limitata a duecento copie in vinile, dovrebbe fare da preludio al debutto sulla lunga distanza che, con queste premesse, si annuncia spettacolare: state sintonizzati e nel frattempo godetevi questo succoso antipasto da parte di una grande band.

TRACKLIST
Side A:
1. Angry Machines
2. Hungry For Life
Side B:
3. Sabretooth Tiger
4. Running Out Of Time

LINE-UP
Adrian Bigos – Guitar, backing vocals
Andrzej Heczko – Drums
Michael Skotnicki – Lead vocals
Kamil Piesciuk – Bass
Robson Bigos – Guitar, backing vocals

AXE CRAZY – Facebook

Magnum – Sacred Blood “Divine” Lies

Per i fans del rock d’autore, raffinato, melodico ed elegante, questo nuovo album dei Magnum è l’espressione più alta che l’hard rock melodico possa offrire, acquisto obbligato.

Scrivere di un nuovo album dei Magnum è come entrare in un mondo fatato, da sempre infatti il gruppo britannico ha sempre affrontato il rock come farebbe un moderno cantastorie, regalando avventure fantastiche, tutte da vivere all’ascolto dei vari lavori che, dall’uscita di Kingdom Of Madness nel lontano 1978, ha fatto sognare centinaia di appassionati, dai rockers innamorati dell’AOR, ai progsters che flirtano più con l’emozionalità che con la tecnica, fino a raggiungere i metallers dai gusti musicali raffinati.

E’ un fatto che il gruppo di Birmingham ha scritto pagine epocali dell’hard rock con capolavori (On a Storyteller’s Night e Wings of Heaven su tutti) che hanno contribuito a fare del gruppo una realtà intoccabile della scena, anche se in termini commerciali il successo non è mai andato pari passo con la qualità della musica proposta, ma la band è sempre qui, ad elargire stupende armonie prog/folk/pomp su di un tappeto di regale hard rock.
La Steamhammer/SPV ha fatto le cose in grande per il ritorno dopo due anni dal precedente Escape from the Shadow Garden, ed il nuovo lavoro del gruppo del divino Bob Catley e dell’arcigno axeman Tony Clarkin, esce in tre diverse releases : CD+DVD, CD e vinile colorato, cose d’altri tempi, abituati ormai agli store sul web, o, al massimo il solo formato su dischetto ottico.
Come ormai abituati da più di trent’anni di uscite targate Magnum, il sound di questa nuova opera riesce a mettere d’accordo un po tutti, conquistando con meravigliose armonie dalle riminiscenze folk, tante melodie AOR e un’impronta progressiva, non facendo mancare una buona dose di grinta, specialmente nella ruvida chitarra di Clarkin che parte aggressiva e grintosa sula title track posta in apertura.
Crazy Old Mothers torna a far risplendere i tasti d’avorio, eleganti e pomposi di Mark Stanway e si entra nella nuova fiaba, scritta da questi menestrelli dell’hard rock, che tanto hanno influenzato gruppi fantastici come Ten o Ayreon, che alla band di Catley dovrebbero ereggere un monumento.
Gipsy Queen torna a rockare, la sei corde di Clarkin sforna un riff esplosivo su cui il gruppo costruisce una marcia rock dedicata alla regina degli zingari, mentre Princess In Rags (The Cult) è un pomp rock dal piglio drammatico, molto Ten oriented.
Sacred Blood “Divine” Lies continua la sua marcia verso il finale con altre perle di rock raffinato, elegantemente incorniciato dai sontuosi ricami di cui il gruppo è maestro, con picchi qualitativi come L’emozionale e orchestrale Afraid Of The Night e la superba Twelve Men Wise and Just, song che se ce ne fosse ancora bisogno, riassume l’eleganza e la straordinaria padronanza del songwriting di questi grandi musicisti britannici.
Arriviamo alla conclusione dell’album con la consapevolezza di aver ascoltato un’altra storia, un’altra splendida opera, da parte di un gruppo che non ne vuol sapere di lasciare la testa della classifica del genere, e ha ragione, vista la qualità della musica che sa ancora donare a chi li segue imperterriti dopo così tanti anni.
Per i fans del rock d’autore, raffinato, melodico ed elegante, questo nuovo album dei Magnum è l’espressione più alta che l’hard rock melodico possa offrire, acquisto obbligato.

TRACKLIST
01. Sacred Blood “Divine” Lies
02. Crazy Old Mothers
03. Gypsy Queen
04. Princess in Rags (The Cult)
05. Your Dreams Won’t Die
06. Afraid of the Night
07. A Forgotten Conversation
08. Quiet Rhapsody
09. Twelve Men Wise and Just
10. Don’t Cry Baby

LINE-UP
Tony Clarkin – guitars
Bob Catley – vocals
Mark Stanway – keyboards
Al Barrow – bass
Harry James – drums

MAGNUM – Facebook

childthemewp.com