Khemmis – Hunted

Hunted è il degno seguito di un Absolution che aveva già convinto lo scorso anno critica ed appassionati, segno che la strada intrapresa è sicuramente quella giusta.

Quando si parla di crossover si immagina sempre un qualcosa che vada ad intrecciare, a volte anche in maniera forzata, sfumature musicali che, prese singolarmente, si muovono in direzioni opposte.

Il caso dei Khemmis è leggermente diverso, perché qui il crossover avviene all’interno di uno dei generi più nobili del metal, il doom, cercando di farne convivere le radici classiche con la psichedelia dello stoner e la greve pesantezza dello sludge.
Capita così di imbattersi, nel corso di questo secondo album della band del Colorado, in brani in cui l’afflato melodico talvolta indolente del doom tradizionale si sposa con rallentamenti limacciosi, all’interno dei quali, magari, assoli chitarristici di matrice heavy provano a dissipare il velo di oscurità portato dal growl e dai riff pachidermici.
Tutto sommato l’operazione, a ben vedere non molto consueta, pare riuscire ai Khemmis: le cinque lunghe tracce funzionano bene e, pur senza toccare vette epocali, si rivelano efficaci esempi di quanto anche il doom possa trovare al proprio interno spunti relativamente innovativi.
In effetti, i Khemmis dovrebbero ricevere apprezzamenti trasversali, visto che il loro particolare approccio potrebbe risultare più gradito che ostico a coloro che sono devoti ad uno stile specifico.
Un buon lavoro di squadra (due buone voci, una chitarra brillante senza cadere nel virtuosismo sterile ed una base ritmica sempre ben percepibile) che fornisce un risultato più che soddisfacente: Hunted è il degno seguito di un Absolution che aveva già convinto lo scorso anno critica ed appassionati, segno che la strada intrapresa è sicuramente quella giusta.

Tracklist:
1. Above The Water
2. Candlelight
3. Three Gates
4. Beyond The Door
5. Hunted

Line-up:
Dan – Bass
Zach – Drums
Phil – Vocals, Guitars
Ben – Vocals, Guitars

KHEMMIS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=kbNgdEfMVng

Usurpress – The Regal Tribe

Una quarantina di minuti a prova di tedio con il suo frullato di death, thrash, black, doom e progressive che si rivela senz’altro appetitoso.

Terza prova su lunga distanza per gli svedesi Usurpress, band sulla scena dall’inizio del decennio con il suo sound che, poggiando su una base death, spazia con una certa disinvoltura lungo tutti i generi del metal estremo.

The Regal Tribe si pone come una prova di grande sostanza in cui gli ammiccamenti melodici sono solo sporadici e, di fatto, resi superflui da una prova di ottimo livello da parte della band di Uppsala.
Proprio questo rende l’operato degli Usurpress tutt’altro che un becero ricorso a tutti i luoghi comuni del metal estremo: i nostri optano per una forma musicale senz’altro poco immediata e con più di un passaggio ricercato (vedi gli strumentali The Halls of Extinction e On a Bed of Straw, tanto per citare due esempi), senza rendere il sound troppo frammentario.
Se un umore fondamentalmente più cupo pare pervadere l’intero album, probabilmente ciò è dovuto anche ai problemi di salute che hanno toccato da vicino membri della band nell’ultimo periodo, portando ad affrontare a livello lirico tematiche di un certo peso specifico e mai banali.
Così il quartetto svedese convince sia quando viaggia ad alta velocità, sia quando rallenta immergendosi con qualcosa più di un piede nel doom (The Mortal Tribes), riuscendo a comunicare efficacemente i contenuti tipici della scuola svedese senza esibirne in maniera didascalica gli standard.
Di sicuro la competenza riguardo al genere non può mancare all’interno di una band che annovera al basso Daniel Ekeroth, valente musicista ma soprattutto autore di diversi libri tra i quali Swedish Death Metal, opera fondamentale per capire l’importanza di tale movimento musicale.
Ma la di là di questa, che resta una mera curiosità, The Regal Tribe si rivela un buonissimo lavoro, grazie ad una quarantina di minuti a prova di tedio con il suo frullato di death, thrash, black, doom e progressive che si rivela senz’altro appetitoso.
Gli Usurpress alla fine sono la classica band che potrebbe reperire estimatori dal background piuttosto differente tra loro, un sinonimo chiaro di versatilità e dono della sintesi.

Tracklist:
1. Beneath the Starless Skies
2. The One They Call the Usurpress
3. Across the Dying Plains
4. The Mortal Tribes
5. The Halls of Extinction
6. Throwing the Gift Away
7. Behold the Forsaken
8. On a Bed of Straw
9. The Sin That Is Mine
10. In the Shadow of the New Gods

Line-up:
Stefan Pettersson – Vocals
Påhl Sundström – Guitars
Daniel Ekeroth – Bass
Calle Andersson – Drums

USURPRESS – Facebook

Yaşru – Börübay

La perfezione del folk che si muove da una base metal per diffondersi nell’aria con i suoi aromi mediorientali, leggiadri come piume e malinconici come solo il miglior doom di solito sa regalare.

La perfezione del folk che si muove da una base metal per diffondersi nell’aria con i suoi aromi mediorientali, leggiadri come piume e malinconici come solo il miglior doom di solito sa regalare.

Questo è Börübay, terzo album dei Yaşru, band turca che fa capo quasi al 100% ad un musicista immenso come Berk Öner, il quale, come nel precedente Öz, si fa accompagnare dal bassista Batur Akçura, avocando a sé tutta la restante componente strumentale e la parte vocale.
Se Öz mi aveva favorevolmente colpito, mostrando di cosa fosse capace il musicista di Istanbul, quest’album tocca vette di lirismo francamente difficili da eguagliare: in mezz’ora ci passa davanti tutto l’immaginario della tradizione turca, da quella che ammicca all’Europa fino agli umori degli sterminati territori anatolici.
Citare nella stessa frase folk e metal può creare degli equivoci che vanno subito dissipati: se questa è l’etichetta comunque più logica da assegnare all’opera degli Yaşru, qui non troviamo nulla che abbia a che vedere con le tendenze alcoolico caciarone (detto in senso buono, si intende) alla Korpiklaani o con la retorica epico guerresca che sta prendendo piede anche nel nostro paese; in Börübay l’emotività che ne pervade ogni nota rimanda almeno per attitudine alla tradizione celtica, specialmente quando Öner si cimenta con il flauto, ma non mancano neppure agganci con gli immensi Moonsorrow, specie in una traccia come Rüzgarìn Yìrlarì.
Lo strumentale 552 AD (Börü) introduce l’album con la sua bellezza stordente, mentre a seguire la title track alza i giri del motore, con Öner che ne asseconda il roccioso incipit con il suo growl per poi intraprendere un declivio verso sonorità e vocalità più evocative, conservando comunque un sentore doom (che è lo stile musicale dal quale il nostro di fatto proviene). Aalara è un gioiello che si va ad incastonare laddove gli autori del recente Jumalten Aika sarebbero approdati se fossero nati in quella che fu Bisanzio, mentre l’avvincente cantilena di Nazar Eyle (cover di una canzone di Baris Manço, uno dei musicisti turchi più importanti del secolo scorso) va a completarsi con l’emanazione più introspettiva del folk secondo gli Yaşru rappresentata dalla già citata opener e da Hafiz.
Chiude il brano autointitolato, forse il meno brillante dell’album ma solo per il suo andamento relativamente più allegro che ne attenua l’intensità emotiva rinvenibile nelle altre tracce.
Di prossima pubblicazione a cura della WormHoleDeath, che grazie all’orecchio fine di chi la dirige si è accaparrata i servigi degli Yaşru, fondamentalmente Börübay ha un solo difetto, quello di durare troppo poco, perché di musica di simile fattura non se ne ha mai abbastanza: poco male davvero, quando la qualità di un disco raggiunge tali livelli un solo minuto ne vale almeno dieci di opere ben più ridondanti.

 

Tracklist:
1. 552 AD (Börü)
2. Börübay
3. Atalara
4. Nazar Eyle
5. Rüzgarìn Yìrlarì
6. Hafiz
7. Yaşru

Line-up:
Berk Öner – Vocals, Guitars, Ethnic instruments
Batur Akçura – Bass

YASRU – Facebook

The Ghost I’ve Become – Hollow

Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Hollow è un breve ep che costituisce il passo d’esordio dei finlandesi The Ghost I’ve Become.

Trattandosi di un lavoro immerso mani e piedi nel gothic death doom melodico, la provenienza geografica dei suoi autori rimanda automaticamente agli imprescindibili Swallow The Sun e susseguente genia, ma sarebbe riduttivo limitarsi a questo semplice paragone, specialmente quando il livello compositivo esibito è elevatissimo come in questo caso.
E’ da rimarcare, infatti, come la band proveniente dal nord della Finlandia (Oulu, nella parte alta del Golfo di Botnia) in questi intensi venti minuti metta a frutto sicuramente la lezione degli influenti connazionali, prendendo però anche il giusto dalla scuola americana (Daylight Dies) ed esibendo un gusto melodico ed una sensibilità di tocco che rimanda ai grandi Hamferð.
Ne consegue che, grazie a tale mirabile sintesi stilistica, questo breve ep si preannuncia come la probabile epifania di un’altra stella nel panorama del doom estremo: il quintetto finnico mette in mostra una tecnica solidissima, al servizio di uno stile compositivo che non prevede passaggi interlocutori ma soltanto momenti ricchi di malinconico pathos.
Da notare la presenza in line-up di Waltteri Väyrynen, giovane batterista che da quest’anno fa parte in pianta stabile niente meno che dei Paradise Lost, il che depone a favore di capacità tecniche oltre la media, ma i suoi compagni non sono affatto da meno, a partire dal bravissimo Jomi Kyllönen, a suo agio sia con evocative clean vocals che con un roccioso growl.
Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Tracklist:
1.Forever Gone
2.Cold, My Sweet Delight
3.Behind the Curtain

Line-up:
Vocals – Jomi Kyllönen
Guitars – Lauri Moilanen
Guitars – Joonas Kanniainen
Bass – Aku Varanka
Drums – Waltteri Väyrynen

THE GHOST I’VE BECOME – Facebook

Kypck – Zero

Un lavoro che non fa altro che rafforzare la meritata fama raggiunta dai Kypck.

Quando nel 2008 uscì l’album d’esordio Cherno, i Kypck forse non vennero presi da tutti abbastanza sul serio per diversi motivi: intanto, perché dei finlandesi dovrebbero cantare in russo ed utilizzare l’alfabeto cirillico per il monicker ed i titoli dell’album e delle canzoni? Inoltre che ci fa uno come Sami Lopakka (ex-Sentenced) in una band che suona un doom greve come pochi ?

Quesiti fondati che il tempo ha dissipato fornendo ampie risposte: i suddetti Kypck sono una band che è stata capace nel tempo di creare un proprio marchio e, soprattutto, una forma di doom comunque personale e riconoscibile, non solo per la lingua utilizzata. Per quanto riguarda la partecipazione di Lopakka, a posteriori è apparso chiaro a tutti che su questo progetto il chitarrista aveva puntato seriamente fin da subito, e dal 2011 la presenza di ex-Sentenced in formazione si è raddoppiata con l’ingresso dell’altro Sami, Kukkohovi, ai tempi bassista e qui seconda chitarra, visto che l’ossessivo basso ad una corda viene maltrattato da J. T. Ylä-Rautio. A completare il quintetto vi sono il batterista A.K. Karihtala, anch’egli con un passato illustre nei disciolti Charon, e soprattutto il cantante Erkki Seppänen (Dreamtale), portatore sano del verbo sovietico con la sua padronanza della lingua.
Dopo quattro full length che hanno visto aumentare il seguito della band, in Russia ovviamente, ma non solo, l’autunno del 2016 è il momento dell’uscita di Зеро (Zero), un lavoro che non fa altro che rafforzare la meritata fama raggiunta dai nostri.
Partendo da un immaginario abbondantemente indirizzato dal monicker (la traslitterazione è Kursk, ovvero la città sede della più grande battaglia tra carri armati della seconda guerra mondiale, ma anche il nome del sommergibile atomico che nel 2000 si trasformò in un enorme bara sottomarina per oltre cento sventurati), il sound dei Kypck è quindi un doom che, se per certi versi appare vicino alla tradizione, dall’altra mantiene un’inquietudine di fondo che lo avvicina, solo emotivamente, al funeral. Un contributo decisivo al senso di oppressione provocato dal sound dei finnici lo offre l’esasperato ribassamento delle accordature simboleggiato dal basso monocorde di Ylä-Rautio, grazie al quale le numerose parvenze melodiche assumono un’aura alquanto sinistra .
Proprio il suo porsi in una sorta di terra di mezzo tra il doom di stampo classico e quello estremo è mio avviso la forza dei Kypck, assieme al fatto di far dimenticare fin dalla prima nota che la band non è russa, tale e tanta la sua immedesimazione nella parte.
Emblematica, per solennità e potenziale evocativo, è una canzone come Mne otmshchenie, forse la migliore del lotto assieme all’iniziale e leggerissimamente più orecchiabile Ya svoboden (non a caso scelta per accompagnarvi un video) e alla conclusiva Belaya smert, ma in fondo è il disco nel suo insieme a mostrare una compattezza sorprendente, risultando avvincente dalla prima all’ultima nota.
Non un lavoro facile, Zero, e forse non piacerà neppure a diversi adepti del doom in virtù proprio del suo oscillare tra sonorità sabbathiane esasperate all’ennesima potenza e pulsioni estreme di fatto inibite, quasi venissero lasciate implodere all’interno di un sound che resta costantemente minaccioso.
Un disco affascinante ma non per tutti, l‘unico dato certo è che i Kypck sono una band magnifica, altro non c’è da aggiungere.

Tracklist:
01. Ya svoboden [I Am Free]
02. 2017
03. Mne otmshchenie [Vengeance Is Mine]
04. Progulka po Neve [Stroll by the Banks of Neva]
05. Na nebe vizhu ya litso [I See a Face in the Sky]
06. Moya zhizn [My Life]
07. Poslednii tur [The Last Tour]
08. Rusofob [Russophobe]
09. Baikal
10. Belaya smert [White Death]

Line-up:
J. T. Ylä-Rautio – Bass
S. S. Lopakka – Guitars
E. Seppänen – Vocals
A.K. Karihtala – Drums
S. Kukkohovi – Guitars

KYPCK – Facebook

Krypts – Remnants of Expansion

La quintessenza della malignità che si fa musica e autentica colonna sonora delle più terrorizzanti evocazioni lovecraftiane

Ecco, quando qualcuno, incuriosito dalle nostre strambe (per lui …) preferenze musicali, ci chiedesse di fargli ascoltare qualcosa, per esempio, definibile come death doom, questo nuovo album dei Krypts sarebbe perfetto.

Lontano dall’indole malinconica e consolatoria della sua frangia melodica, il genere interpretato dal gruppo finlandese diviene la quintessenza della malignità che si fa musica e autentica colonna sonora delle più terrorizzanti evocazioni lovecraftiane, tanto che il nostro ipotetico interlocutore ne resterà forse irrimediabilmente attratto oppure, molto più probabilmente, dal giorno dopo ci eviterà come la peste …
Una magnifica Arrow Of Entropy apre un lavoro che, fin dalle prime note, fa capire che non deluderà, attirandoci fatalmente nei propri abissi in cui funesto vate si rivela Antti Kotiranta (anche al basso), con il suo growl impietoso; i suoi degni compari Otso Ukkonen (batteria), Ville Snicker e Jukka Aho (chitarre) lo assecondano con il loro maelstrom sonoro che miscela Morbid Angel, Incantation e Asphyx da una parte, ed Evoken, Thergothon e Colosseum dall’altra.
Il risultato è un monolite dai tratti spaventosi il cui nome è comunque Krypts, al di là di ogni possibile riferimento passato e presente; a differenza di tanti tentativi, lodevoli ma spesso fallaci, di riportare a galla queste sonorità che trovarono linfa nei ’90 soprattutto, i quattro finnici non si limitano certo a sbraitare in un microfono su un tappeto sonoro ruvido, essenziale e spesso prodotto alla bell’e meglio: Remnants of Expansion è lo stato dell’arte del death doom ed ha un solo difetto, quello di durare appena mezz’ora, anche se per la sua veemenza in realtà appare molto più lungo.
I nostri non sono affatto solo dei biechi macinatori di riff assassini, ma sanno infatti creare atmosfere sospese ma disturbanti né più né meno di quando, con grande sapienza, erigono muraglie sonore di rara densità.
Come detto, in poco più di mezz’ora Remnants of Expansion compie il proprio annichilente percorso di morte, lasciando storditi per un intensità che va ben oltre la mera potenza esecutiva: non c’è una sola nota superflua in questa opera mefitica, ma ritengo Entrailed To The Breaking Wheel uno dei migliori brani che il genere ci ha offerto nel nuovo secolo, esibendo in poco più di cinque minuti il contenuto virtuale di un’ora di musica.
Nient’altro da dire, resta solo da calarsi con i Kyrpts in putridi meandri che la loro musica rende tangibili come il solitario di Providence riusciva a fare, circa un secolo fa, grazie alla sua tormentata penna …

Tracklist:
1. Arrow Of Entropy
2. The Withering Titan
3. Remnants Of Expansion
4. Entrailed To The Breaking Wheel
5. Transfixed

Line-up:
Otso Ukkonen – Drums
Ville Snicker – Guitars
Antti Kotiranta – Vocals, Bass
Jukka Aho – Guitars

KRYPTS – Facebook

Abske Fides – O Sol Fulmina a Terra

Gli Abske Fides si rendono autori di un lavoro che li porta di prepotenza alla ribalta della vivace scena doom brasiliana.

In occasione della recensione dell’omonimo full length d’esordio degli Abske Fides, esprimevo la sensazione che il lavoro costituisse ancora un momento i passaggio, alla luce delle diverse influenze che andavano ad intaccare la solida base doom.

Proprio questa apparenza ondivaga, unita ad un ricorso frequente a clean vocals quanto meno rivedibili, mi aveva lasciato leggermente perplesso e, quindi, non posso che esprimere la massima soddisfazione nel costatare che, con questo O Sol Fulmina a Terra, la musica del destino torna ad ammantare in toto il sound del gruppo brasiliano stendendovi sopra il suo velo luttuoso e la sua pesante ineluttabilità.
O Sol Fulmina a Terra, fin dal titolo, non lascia presagire nulla di buono per il futuro di un’umanità allo stremo e impotente di fronte all’inevitabile resa finale: la bravura del trio paulista, in questo caso, risiede nel riuscire a rendere in maniera magistrale questo senso di soffocamento e disperazione, senza rinunciare ad una costruzione melodica sempre efficace, questa volta abbinata ad un growl efficace che lascia spazi ridottissimi a vocalità pulite.
Anche se ogni tanto qualche scelta sonora non convince appieno, come certe dissonanze chitarristiche nella pur bellissima opener Na Planície Vermelha, gli Abske Fides si rendono così autori di un lavoro che li porta di prepotenza alla ribalta della vivace scena doom brasiliana: l’incedere sofferto di Árido Homem e della conclusiva Terra Vazia rappresenta in pieno la drammaticità di un death doom che non fa sconti, rendendo quasi visibile la disperazione di chi si aggira, ultimo superstite, su una Terra che il Sole, dopo aver cullato per eoni con il suo calore, ha deciso di annientare in maniera definitiva.
L’iniziale afflato melodico di Imóveis Ares è uno dei pochi momenti in cui è possibile collegare l’operato dei nostri a quello dei concittadini HellLight, tanto è differente l’approccio delle due band alla stessa materia, ma è solo un momento, appunto, visto che poi il brano riprende il suo dipanarsi plumbeo per poi rarefarsi nella parte finale e sfociare nell’inquietante strumentale Interregno.
Personalmente sono molto soddisfatto di questa prova, non solo per il suo valore intrinseco, ma soprattutto perché, nel momento in cui una doom band comincia a farsi attrarre da sonorità post metal o progressive, la considero quasi persa alla causa pur comprendendone il desiderio di evolversi verso altre forme musicali: gli Abske Fides dimostrano, con O Sol Fulmina a Terra, che fare un passo indietro talvolta equivale a farne tre avanti, e chi ama questo genere musicale unico non potrà che convenirne con me …

Tracklist:
1. Na Planície Vermelha
2. Árido Homem
3. Imóveis Ares
4. Interregno
5. Terra Vazia

Line-up:
K. – Drums, Bass, Vocals
Nihil – Guitars
N. – Guitars, Vocals

ABSKE FIDES – Facebook

The Wounded Kings – Visions In Bone

Steve Mills ha deciso di chiudere la storia ultra decennale dei suoi The Wounded Kings regalando agli appassionati ancora un ultimo guizzo di classe.

Steve Mills ha deciso di chiudere la storia ultra decennale dei suoi The Wounded Kings regalando agli appassionati ancora un ultimo guizzo di classe, all’insegna di un doom che, pur restando nei solchi della tradizione, ha sempre rifuggito la banalità e le soluzioni scontate.

Visions In Bone, quasi a voler chiudere idealmente il cerchio, vede il ritorno in formazione dell’altro fondatore, il cantante George Birch, che negli ultimi due full length era stato rimpiazzato da Sharie Neyland; proprio la sua evocativa voce da sacerdotessa aveva senz’altro reso più peculiare il sound della band inglese, che si andava così ad inserire in quel filone del genere con voce femminile che vede quali massimi esponenti Jex Thoth, Blood Ceremony e The Devil’s Blood, rendendolo forse meno appetibile agli appassionati del genere nella sia versione più ortodossa.
Quest’ultimo lavoro chiaramente, con l’apporto di una timbrica classica come quella di Birch, normalizza per così dire la situazione senza che l’esito finale appaia comunque inferiore a In the Chapel of the Black Hand e Consolamentum, riprendendo ed ampliando il discorso intrapreso nel decennio scorso con Embrace of the Narrow House e The Shadow Over Atlantis.
Visions In Bone si rivela pertanto il migliore dei possibili canti del cigno, con un Mills ispirato a regalare momenti di grande lirismo con la sua chitarra, che trova il suo sfogo nel finale di quasi tutti i cinque lunghi brani.
In particolare, appaiono stupefacenti gli ultimi cinque minuti della traccia d’apertura, Beast, vero e proprio manuale del doom da consultarsi alla bisogna, assieme all’intensa Vultures e alla conclusiva Vanishing Sea, che proprio in virtù del suo magnifico incedere lascia non pochi rimpianti per la fine di un percorso lungo e costellato di lavori di assoluta qualità.
Francamente non conosco i motivi che hanno spinto Steve Mills a chiudere la storia della sua creatura, c’è solo da augurarsi che, al contrario, la sua carriera continui, in qualsiasi altra forma o configurazione, perchè di musicisti di simile spessore ce ne è sempre un gran bisogno.

Tracklist:
1. Beast
2. Vultures
3. Kingdom
4. Bleeding Sky
5. Vanishing Sea

Line-up:
George Birch – Vocals, Guitars, Keyboards, Piano, Songwriting, Lyrics
Steve Mills – Guitars, Songwriting, Lyrics
Myke Heath – Drums
Alex Kearney – Bass

THE WOUNDED KINGS – Facebook

Monolithe – Zeta Reticuli

Zeta Reticuli rafforza le tendenze emerse dal nuovo corso dei Monolithe, i quali, pur continuando a perseguire il proprio concept cosmico, hanno decisamente reso più ariose le proprie composizioni.

A poco più di sei mesi dall’uscita di Epsilon Aurigae, ecco l’arrivo di Zeta Reticuli a completare questa opera discografica dei Monolithe, che non a caso viene pubblicata anche in una sola confezione contenente entrambi i lavori, sempre a cura della Debemur Morti.

Quest’album conferma e rafforza le tendenze emerse dal nuovo corso della band francese che, pur continuando a perseguire il proprio concept cosmico, ha decisamente reso più ariose le proprie composizioni svincolandosi del tutto da un funeral ortodosso per approdare ad una forma di doom molto più atmosferica, in cui aumentano esponenzialmente gli splendidi assoli dì chitarra di Sylvain Begot e giungendo, infine, a chiudere il lavoro con l’intera The Barren Depths interpretata dall’ospite Guyom Pavesi (cantante dei Devianz, band in cui suona l’altro chitarrista Benoit Blin) con la sua particolare e stentorea voce pulita.
Insomma, la galassia Monolithe continua a fluttuare negli spazi interminabili dell’universo e lo fa speditamente fin dal 2012, quando, dopo un quinquennio di silenzio, è iniziato un periodo di grande prolificità coincisa con la pubblicazione di ben quattro full-length.
Ciò che, fin da Monolithe III, è apparso subito evidente, è stata la maggiore dinamicità di un sound che, nel corso dei lavori successivi, si è sempre più aperto a soluzioni melodiche sublimatesi, infine, in un refrain come quello presente in The Barren Depths, dove si sconfina in mondi musicali paralleli abitati da Mastodon e co.
Cosmic atmospheric doom è una definizione ad hoc per i Monolithe, i quali, con un lavoro di questa portata, potrebbero ampliare non poco la base dei propri fedeli estimatori, pur restando per attitudine e capacità evocative una doom band a tutti gli effetti; impossibile resistere a queste colonna sonore che riportano la mente ad un immaginario kubrickiano, il che, a ben vedere, trasmette un senso di sgomento non inferiore rispetto agli scenari luttuosi che costituiscono normalmente il tema portante del genere.
Al di là della splendida anomalia costituita dall’ultima traccia (di 15 minuti esatti, come avviene anche per gli altri brani di questo disco e del suo predecessore), Ecumenopolis è un episodio magnifico, nel quale Richard Loudin declama foschi scenari futuristici su schemi compositivi che ormai sono un marchio di fabbrica: il crescendo nella parte centrale, il pulsare del basso in conclusione, lasciano spazio ad uno strumentale (TMA-1, omologo del TMA-0 di Epsilon Aurigae) in cui regala il suo tassello chitarristico anche Jari Lindholm degli ottimi Enshine.
Proprio la riconoscibilità del sound è, come sempre, uno dei sintomi più evidenti del raggiungimento di uno status ragguardevole: quello dei Monolithe resta comunque di culto, perché tale è il destino di chi suona questo genere anche ai massimi livelli, ma se oggi dovessi puntare un euro su una band di matrice funeral capace di abbattere le barriere di genere per approdare ad una popolarità (relativamente ) più vasta, me lo giocherei su questi parigini con la testa ben oltre le nuvole …

Tracklist:
1. Ecumenopolis
2. TMA-1
3. The Barren Depths

Line-up:
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums

Guests:
Guyom Pavesi – Vocals (track 3)
Jari Lindholm – Guitars (lead) (track 2)

MONOLITHE – Facebook

Dwell – Desolation Psalms

Il death doom del gruppo di Aarhus è asciutto, molto più votato alla prima delle due componenti, ma senza disdegnare rallentamenti o aperture melodiche contraddistinte da un buon lavoro chitarristico.

Interessante uscita per i danesi Dwell, band che pubblica questo ep di quattro brani in attesa di presentare il primo album su lunga distanza.

Il death doom del gruppo di Aarhus è asciutto, molto più votato alla prima delle due componenti, ma senza disdegnare rallentamenti o aperture melodiche contraddistinte da un buon lavoro chitarristico.
In tal senso emerge quale traccia più efficace Teeth Gnawing, segnata da una ritmica accelerata, così come l’opener March of the Leeches, mentre il vero brano 100% doom è la conclusiva e più cupa None but my Bones (The Inevitable Absence of Time è invece un bello strumentale di natura ambient).
Nulla per cui strapparsi i capelli ma neppure un lavoro da sottovalutare: Desolation Psalms gode di una buona prova complessiva, con un’interpretazione vocale ruvidamente efficace di Jens B. Pedersen e un tocco chitarristico malinconico il giusto da parte di Morten Adsersen.
I Dwell si segnalano per il loro impatto, valorizzato da una produzione di livello, evento tutt’altro che casuale anche per l’esperienza dei musicisti coinvolti: per tutti questi motivi l’ep va ascoltato anche in proiezione del futuro full length.

Tracklist:
1. March of the Leeches
2. Teeth Gnawing
3. The Inevitable Absence of Time
4. None but my Bones

Line-up:
Jens B. Pedersen – Vocals
Quentin Nicollet – Bass
Morten Adsersen – Guitars
Kenneth Holme – Keyboards
Andreas Joen – Drums

DWELL – Facebook

Night Gaunt – Jupiter’s Fall

Recuperare il primo lavoro sarà il passo successivo all’ascolto dei due brani di questo 7″, aspettare il nuovo album la conseguenza inevitabile.

Non è poi così difficile, girando virtualmente e musicalmente per le strade della capitale, imbattersi in realtà devote alle sonorità messianiche ed oniriche del doom metal classico.

Non sono poche, infatti, le band romane incontrate in questi ultimi anni a proporre la loro personale versione di musica del destino, chiaramente ispirate a canovacci ormai consolidati da oltre quarant’anni, e d’altronde il genere lo si può contaminare, condire e rigirare ma alla fine si torna sempre lì, agli anni settanta.
Per i fans poco male, nell’underground il doom, come molti altri generi, fortunatamente trova terreno fertile, anche nel nostro paese.
I Night Gaunt, quartetto capitolino (ex Hypnos) licenziano per la label canadese Temple Of Mistery, il loro secondo lavoro, questo 7″ che segue l’esordio omonimo sulla lunga distanza uscito un paio di anni fa.
I due brani, Jupiter’s Fall (ispirato ad un racconto di Edgar Allan Poe) e Penance, formano un quadro di emozioni che prende spunto dalla perdita e dal lutto a cui va incontro l’uomo.
La prima traccia risulta cupa e melodica, mentre la seconda, pesante, monolitica e rabbiosa, richiama l’emozione cruenta della negazione ed il conflitto interiore tra la consapevolezza della perdita ed il rifiuto che ne consegue.
Per quanto riguarda l’aspetto musicale i Night Gaunt non deludono, il loro doom metal si muove tra il periodo settantiano e quello successivo, il loro sound caldo ed avvolgente, oltre che ai soliti nomi (Candlemass e Sabbath) richiama soluzioni evocative e struggenti care a Penance, Solstice e Solitude Aeturnus, variando così il sound quel tanto che basta per non fossilizzarsi in un unico battito ritmico.
Gran lavoro sulla title track della sezione ritmica, mentre un monolite di potenza rallentata risulta Penance; bella e alquanto melodica la voce, mentre le sei corde si muovono tra riff pesantissimi e solos dalle melodie funeree.
Un buon 7″che ci presenta una band meritevole d’attenzione: recuperarne il primo lavoro sarà il passo successivo all’ascolto dei due brani, aspettare il nuovo album la conseguenza inevitabile.

TRACKLIST
1. Jupiter’s Fall
2. Penance

LINE-UP
Araas – Bass
Gc – Guitar, Vocals
Zenn – Guitar
Kelèvra – Drums

NIGHT GAUNT – Facebook

SwampCult – The Festival

Un tuffo nell’abisso estremo dove l’oscurità regna sovrana dall’inizio dei tempi

Un altro centro per l’ormai lanciatissima label Transcending Obscurity, che si assicura le creazioni musicali del duo estremo olandese Swampcult, combo dal concept Lovecraftiano e devoto al mito di Cthulhu.

The Festival è il loro secondo lavoro in tre anni di attività, opera che segue il primo vagito An Idol Carved of Flesh uscito due anni fa.
La band è composta da due misteriosi musicisti: A (batteria, voce e flauto) e D (chitarra, basso, piano e organo).
Musicalmente parlando The Festival si sviluppa in otto movimenti (più l’epilogo) che svariano tra il black atmosferico ed il doom, lenti andamenti dove si raccontano le vicende legate alle opere dello scrittore statunitense.
I tempi si mantengono cadenzati, l’album è interpretato più che cantato, tra narrazione e scream black ad aiutare l’atmosfera fantasy/horror che il duo crea con buon talento per sonorità davvero inquitanti.
Per gli amanti del genere l’album non manca di offrire buoni spunti con le parti doom che conferiscono al sound un’aura funerea e di autentico terrore, potenziate da chitarre sature di watt e con in sottofondo rumori di caverne dimenticate dal mondo, dove l’orrore trova la sua massima espressione.
La durata (una quarantina di minuti) facilita non poco l’ascolto per intero di The Festival, che ad un primo passaggio riesce a conquistare con una serie di brani estremi ma molto coinvolgenti.
The Festival rimane un’opera Black/Doom da ascoltare senza interruzioni per riuscire a non perdere la concentrazione sulle orrorifiche atmosfere che il duo imprime ai brani, un tuffo nell’abisso estremo dove l’oscurità regna sovrana dall’inizio dei tempi.

TRACKLIST
1. Chapter I – The Village
2. Chapter II – The Old Man
3. Chapter III – Al-Azif Necronomicon
4. Chapter IV – Procession
5. Chapter V – The Rite
6. Chapter VI – The Flight
7. Chapter VII – The Dawning
8. Chapter VIII – The Madness
9. IX – Epilogue – Betwixt Dream and Insanity

LINE-UP
A – Drums, Vocals, Flutes
D – Guitars, Bass, Piano, Organ, Narration

SWAMPCULT – Facebook

Self-Hatred – Theia

Theia appare solidamente intriso dell’umore tragico dei Swallow The Sun così come del lirismo malinconico dei Saturnus, meritandosi il plauso degli appassionati.

Sono trascorsi circa due anni dalla recensione dell’esordio degli Et Moriemur, band ceca capace di inserirsi con autorità tra le realtà più promettenti del doom death melodico, ed oggi tocca ad un altro gruppo proveniente da quella nazione a cercare di farsi largo.

Si tratta dei Self-Hatred, che con i connazionali precedentemente citati hanno in comune due elementi, il batterista Michael “Datel” Rak ed il chitarrista Aleš Vilingr, oltre ad uno stesso sentire nell’esprimere le proprie inclinazioni musicali.
Rispetto agli Et Moriemur, i Self-Hatred differiscono soprattutto in alcuni particolari, tra i quali il più evidente è l’utilizzo sia di un abrasivo scream alternato al growl, da parte del bravo Kaťas, sia di vocalizzi femminili efficaci quando si limitano ad interventi in stile Natalie Koskinen, un po’ meno quando indulgono in prolungati gorgheggi lirici.
Nel complesso il disco è di buonissimo livello, grazie ad una serie di brani eseguiti e prodotti senza sbavature, tra i quali spiccano l’opener Guilt, dai tratti soffocanti in avvio ed in conclusione, Slither, gratificata da una linea melodica drammatica, e la conclusiva Memories, traccia che si rivela emblematica di un talento compositivo tutt’altro che trascurabile.
E’ sempre bene ricordare che in questo genere nulla si crea e nulla si distrugge, per cui Theia appare solidamente intriso dell’umore tragico dei Swallow The Sun così come del lirismo malinconico dei Saturnus, meritandosi il plauso degli appassionati, come spesso accade per le uscite marchiate Solitude.
Tenendo conto anche dell’ultimo splendido lavoro dei Quercus, i Self-Hatred dimostrano come, nella scena metal ceca, certe sonorità stiano trovando sempre più spazio con uscite di assoluta qualità.

Tracklist:
1. Guilt
2. Theia
3. Slither
4. Attraction
5. No Judgement
6. Self-reflection
7. Memories
Line-up:

Štěpán Eret – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Pavel Janouškovec – Guitars
Michal Šanda – Keyboards
Kaťas – Vocals

SELF-HATRED – Facebook

Svlfvr – Shamanic Lvnar Cvlt

Album bellissimo e difficile come le migliori opere del genere

Che la scena metal nazionale sia da annoverare tra le migliori della vecchia Europa ormai è un dato di fatto, essendo in grado di regalare nei vari generi realtà di altissima qualità nonostante sia ancora poco considerata dagli scribacchini altolocati.

Nelle forme più estreme poi c’è da divertirsi, figuriamoci quando si parla di un genere come il doom dove, a mio parere, da sempre siamo maestri nel creare opere magiche, occulte e splendidamente dark fin dagli anni settanta.
Horror, misticismo e un talento per le tematiche arcane ed alchemiche ha portato l’arte italiana ad essere un esempio per chiunque, dalla musica al cinema fino alla letteratura che voglia confrontarsi con il mondo oscuro.
Nella musica qualsiasi band affacciatasi sul panorama estremo (doom, death e black), senza dimenticare la tradizione progressive/dark, ha sempre avuto dalla sua un approccio adulto e maturo alla materia, non facile da maneggiare per ragazzini superficiali con smanie da demoni con il face painting, ma motivo di riflessioni e studi per menti alternative.
Nel metal di estrazione doom, come negli altri generi dunque non mancano le sorprese e così, dopo il bellissimo ultimo lavoro dei laziali Godwatt con il loro L’Ultimo Sole, arriva ad inquietare le notti di un caldo agosto Shamanic Lvnar Cvlt, seconda opera (dopo Seeding the Astral Mark del 2012) dei toscani Svlfvr.
Ma se il sound del gruppo laziale risultava un doom di estrazione classica, la band fiorentina si circonda di una mistica impronta black/dark, a tratti oscura e sciamanica, in certi frangenti più death oriented ma sempre e comunque pesantissima, tragica nel suo incedere, scaldata da solos che si spingono sul versante più classico, ma sferzati da ritmiche death/black.
L’incedere dei brani rimane comunque orientato su di un doom metal che guarda indietro nel tempo restando nei confini nazionali, tenendo ben salda una marcata predisposizione occulta e mistica, in poche parole un’interpretazione matura senza sconfinare nell’horror adolescenziale di molti colleghi oltre confine.
Grandissima la prestazione di Dionysos, un sacerdote diabolico che con il suo growl/scream teatrale ci prende per mano e ci accompagna lungo i sentieri bui di questa jam, composta da cinque brani per quasi un’ora di musica, tra atmosfere plumbee, devastanti e potentissime doom songs e accelerate estreme da far impallidire truci blacksters con la mazza chiodata in una mano ed il biberon nell’altra.
Un album che, senza dilungarmi, si riassume nella conclusiva Dying Star’s Empathy, venti minuti persi nel mondo ancestrale e mistico di questi musicisti che non lasciano troppe indicazioni su dove risieda la loro musica ma ci invitano a farla nostra, nota per nota, passaggio su passaggio, in un delirio di affascinanti note doom, black, death e prog.
Album bellissimo e difficile come le migliori opere del genere, Shamanic Lvnar Cvlt si può certamente considerare, come suggerito dal titolo,  un lavoro di culto, almeno per chi si nutre di queste sonorità.

TRACKLIST
1. Total Absence of Light
2. Wish to Drown in an Abyss of Water
3. Shamanic Lvnar Cvlt
4. Count Down to Death
5. Dying Star’s Empathy

LINE-UP
Dionysos – Vocals
Asmodeus – Guitars
Vrolok Lavey – Bass Synth
Poseidon – Drums

SVLFVR – Facebook

Décembre Noir – Forsaken Earth

Una serie di splendidi brani in cui domina incontrastata l’elegante e toccante chitarra solista che porta a spasso l’ascoltatore lungo questa “Terra abbandonata”

A due anni dal buon esordio A Discouraged Believer ritornano i tedeschi Décembre Noir, ottimi interpreti del versante melodico del death doom.

Parlando di quel disco mi ero spinto a pronosticare la probabile ascesa della band di Erfurt, in virtù di indizi piuttosto evidenti quali una conoscenza della materia trattata unita alla buona disinvoltura mostrata nel creare partiture dolenti e robuste allo stesso tempo.
Con Forsaken Earth l’auspicata progressione sembra aver raggiunto un punto già piuttosto elevato: i Décembre Noir, magari,,non si svincolano in maniera completa dai propri modelli (che oggi sono forse più i Swallow The Sun rispetto ai Daylight Dies che emergevano nel disco precedente) ma l’abilità compositiva e le atmosfere ricche di pathos messe sul piatto depongono a favore di un talento da primi della classe.
Proprio una maggiore focalizzazione dei propri obiettivi è la chiave di volta, sotto forma di una serie di splendidi brani in cui domina incontrastata un’elegante e toccante chitarra solista che porta a spasso l’ascoltatore lungo questa “Terra abbandonata”, tra i quali vanno obbligatoriamente rimarcati i quasi quindici minuti del capolavoro Waves Of Insomnia, canzone che vede i ragazzi tedeschi letteralmente baciati da un’ispirazione in grado di eguagliare a tratti quella dei maestri finlandesi nel loro imprescindibile The Morning Never Came.
Felice per una volta di aver azzeccato un pronostico ma, come si suol dire in questi casi, mi piace vincere facile …

Tracklist:
1. In This Greenhouse of Loneliness and Clouds
2. Small.Town.Depression
3. Ghost Dirge
4. The Vast Darkness
5. Waves of Insomnia
6. Distant and Unreachable

Line-up:
Mike – Bass
Kevin – Drums
Martin – Guitars
Lars – Vocals
Sebastian – Guitars

DECEMBRE NOIR – Facebook

The Drowning – Senescent Signs

Un’ottima band ritrovata ai suoi migliori livelli, credo che di più non si potesse chiedere.

Mettersi a scrivere la recensione di un disco che si intitola Senescent Signs nel giorno del proprio compleanno, quando gli ‘anta sono già stati doppiati un pezzo, non è una buonissima idea …

Amenità a parte, è con grande piacere che ci si imbatte nel ritorno dei The Drowning, band che è sempre stata tra le migliori interpreti nel nuovo millennio del doom death di scuola britannica, in ossequio quindi ai dettami dei maestri My Dying Bride e tutto ciò che ne consegue.
Senescent Signs è il quarto full length del gruppo gallese e vede una novità in line up rispetto al precedente Fall Jerusalem Fall (2011), con Matt Small a sostituire James Moore alla voce, mentre sul piano delle sonorità il nuovo lavoro riporta la barra in maniera decisa verso un doom death dalla grande ortodossia, che potrà peccare magari in originalità risultando ugualmente molto più che apprezzabile, vista la padronanza e l’esperienza maturata da questi musicisti in tale ambito.
I The Drowning, alla fine, suonano il genere esattamente come l’appassionato lo vorrebbe sempre sentire: partiture robuste, rallentamenti, un growl profondo ed efficace, aperture melodiche di classe ed una sensazione di malinconia che aleggia su tutto l’album in maniera più soffusa che esasperata, lasciando che le emozioni si diluiscano in maniera uniforme nel corso di oltre un’ora di musica.
Non bisogna però cadere nell’equivoco di pensare che, in fondo, Senescent Signs sia una sbiadita copia di quanto fatto anche di recente dalla premiata ditta Stainthorpe & co.: la band gallese riesce a differenziare il sound proprio irrobustendolo, incrementando i ritmi e rendendolo nel contempo più accessibile, cogliendo influssi provenienti anche da oltreoceano, rinvenibili per esempio in una Broken Before the Throne che riporta a tratti ai migliori Novembers Doom.
Anche le splendide Never Rest e, soprattutto, When Shadow Falls, vera perla dell’album, mostrano quindi, oltre alle stimmate degli interpreti di razza, la capacità dei The Drowning di cosmopolizzare il tipo di doom proposto, senza aderire in toto alla scuola albionica come sarebbe stato lecito aspettarsi.
Un’ottima band ritrovata ai suoi migliori livelli, credo che di più non si potesse chiedere.

Tracklist:
1. Dolor Saeculi
2. Broken Before the Throne
3. Betrayed by God
4. Never Rest
5. At One with the Dead
6. House of the Tragic Poet
7. Dawn of Sorrow
8. When Shadow Falls
9. The Lament of Faustus

Line-up:
James Easterbrook – Bass
Steve Hart – Drums
Jason Hodges – Guitars
Mike Hitchen – Guitars
Matt Small – Vocals

THE DROWNING – Facebook

Altar Of Oblivion – Barren Grounds

La forza del doom, la potenza dell’epicità così naturale per i grandi gruppi come gli Altar Of Oblivion.

La forza del doom, la potenza dell’epicità così naturale per i grandi gruppi come gli Altar Of Oblivion.

Questo gruppo danese ha un talento incredibile, e in questo ep lo possiamo ascoltare per intero. Quattro anni sono passati dal precedente e magnifico Grand Gesture Of Defiance e gli Altar Of Oblivion compiono ulteriori passi avanti. Senza fare tanti discorsi di genere e di gabbie mentali, si può dire che in questo ep ci sia molto del pathos e sei valori musicali che ci hanno fatto diventare metallari. La lentezza, la potenza e la capacità ci colpire al cuore di questi musicisti è davvero unica e ti lascia a bocca aperta. Le note scorrono melodiose e forti, come la musica degli elfi a Gran Burrone, e lascia appagati ed eterei. Gli Altar Of Oblivion possiedono la magia di trasportarti lontano, come nella splendida copertina del disco, che fotografa perfettamente ciò che sentirete dopo. Certamente non è tutto oro ciò che luccica, e i danesi nella loro musica affrontano anche prove difficili, come noi nella vita di tutti i giorni, ma appunto il potere della musica e della nostra libera immaginazione ci può far superare le prove, anche quelle più ardue.
La durata dell’ep è giusta, consona sia a farci gustare ogni nota, sia a sottolineare le loro capacità compositive, perché scrivere musica così bella non deve essere una cosa da nulla.
Doom, quindi, se vogliamo proprio tirare fuori un genere, ma soprattutto il doom inglese strettamente imparentato con il dark, quello dei My Dying Bride per intenderci, anche se gli Altar Of Oblivion in alcuni frangenti sono al di sopra di tutte le nubi.
Un ottimo ritorno, un disco da sentire senza fretta e ad occhi chiusi.

TRACKLIST
1. State Of Decay
2. Serenity
3. Barren Grounds
4. Lost

LINE-UP
Mik Mentor – Vocals
Martin Meyer Sparvath – Guitars, backing Vocals & additional Keyboards
Allan Larsen – Guitars
C. Nörgaard – Bass
Thomas Wesley – Drums

ALTAR OF OBLIVION – Facebook

Bosque – Beyond

Beyond è un lavoro valido, in grado d’essere apprezzato dagli amanti del funeral anche se forse, rispetto a Nowhere, viene meno una certa peculiarità.

Il primo incontro con i Bosque risale alla fine del 2013, quando mi trovai a palare di Nowhere, secondo full-length pubblicato dalla one man band portoghese.

Quel lavoro mi colpì per l’atmosfera soffocante che lo contraddistingueva, rinunciando quasi del tutto ad alleviare le sofferenze provocate dal funeral doom grazie a qualche prolungato accenno melodico; a quasi tre anni di distanza, DM torna a far parlare di sé con Beyond, lavoro che appare fin da subito decisamente diverso dal predecessore.
Infatti, l’opener Calling the Rain mostra una propensione ad un sound nel quale la melodia, come detto pressoché bandita in Nowhere, diviene preponderante nella costruzione dei brani, tramite lenti e sempre sofferti riff chitarristici, sempre e comunque legati da uno sviluppo armonico ben definito.
La chitarra regala anche passaggi solisti, ovviamente privi di virtuosismi bensì volti essenzialmente a rimarcare il dolente incedere di un lavoro nel quale anche la voce, utilizzata con una range clean anche se leggermente filtrata, appare un vero e proprio lamento che asseconda in pieno l’umore dell’album.
I tre lunghi brani sono tutti di buon livello, anche se il ricorso a sonorità più definite a livello melodico mostra qualche imperfezione, a partire proprio dalla voce che, sicuramente, è l’aspetto sul quale sarebbe auspicabile intervenire in futuro; il tutto viene comunque compensato da un’attitudine ed una capacità compositiva che rendono Beyond un lavoro valido, in grado d’essere apprezzato dagli amanti del funeral anche se forse, rispetto a Nowhere, viene meno una certa peculiarità.

Tracklist:
1.Calling the Rain
2.Paradox
3.Enter

Line-up:
DM – all music and words
DA – session drums

BOSQUE – Facebook

Yhdarl – A Prelude to the Great Loss

L’ennesima epifania di un talento per il quale una sorta di compulsività espressiva non va minimamente a discapito della qualità delle diverse proposte.

Un preludio alla grande perdita: per raccontare gli stati d’animo che accompagnano questo tragico momento c’è bisogno di uno dei massimi cantori moderni di tutto ciò che rappresenta il dolore, il disagio esistenziale, la disperazione e l’alienazione di chi è condannato, suo malgrado, a trascorrere l’esistenza su questo pianeta.

Il suo nome è Déhà, lo abbiamo testato fin troppe volte ed in mutevoli forme per nutrire dei dubbi sul suo valore, e anche questa volta non delude, utilizzando quale mezzo uno dei suoi innumerevoli progetti, Yhdarl, dove si accompagna alla musicista francese Larvalis Lethæus.
Il monicker in questione rappresenta l’ incarnazione più prolifica del musicista belga e, forse, anche quella in cui riesce davvero compiutamente a racchiudere tutte le sue oscure visioni, proprio perché, ascoltando con attenzione A Prelude to the Great Loss, si riescono a cogliere sfumature, provenienti dagli altri suoi progetti, che vengono espresse come sempre in maniera mirabile.
L’ep regala una mezz’ora complessiva di musica, suddivisa in due brani complementari ma diversi per approccio ed intensità: la furia parossistica che spesso contraddistingue Unblessed Hands è sintomatica di un dolore che pare non trovare vie d’uscita ed è il punto d’incontro tra la furia distruttiva dei COAG, il nichilismo dei Merda Mundi ed il rabbioso sgomento degli Imber Luminis, mentre ben diverso è l’impatto emotivo provocato da Primal Disgrace, laddove il dolore ottundente degli Slow va a fondersi idealmente con la poetica malinconica dei We All Die (Laughing).
Il tutto viene accompagnato dalla cangiante e sempre convincente interpretazione di Déhà e dai vocalizzi strazianti di Larvalis Lethæus, elemento vieppiù disturbante in un ambito che di rassicurante e confortevole di suo ha già ben poco.
Gli Yhdarl rappresentano l’ennesima epifania di un talento per il quale una sorta di compulsività espressiva non va minimamente a discapito della qualità delle diverse proposte, un qualcosa che trova ben pochi eguali nella storia recente della musica, non solo di quella circoscritta al metal.

Tracklist:
1. Unblessed Hands
2. Primal Disgrace

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals
Larvalis Lethæus – Vocals, Piano

YHDARL – Facebook

Morast – Morast

I Morast dimostrano delle notevoli potenzialità, ben espresse tramite un sound costantemente carico di tensione, magari non troppo vario ma sicuramente efficace

La Totenmusik pubblica la versione in vinile del demo d’esordio dei Morast, uscito originariamente lo scorso anno.

La band tedesca è dedita ad una forma di death doom piuttosto aspra e con una propensione allo sludge che mi ricorda non poco i primi Disbelief, anche per il ringhio sofferto esibito dal vocalist F, in analogia a quello di Karsten Jäge nel magnifico Worst Enemy.
Il disco dura poco più di 25 minuti, sufficienti per intuire nei Morast delle notevoli potenzialità, ben espresse tramite un sound costantemente carico di tensione, magari non troppo vario ma sicuramente efficace, specialmente nelle ottime Cold Side Of Bliss e Purging, tracce imbottite di una rabbia repressa che pare sempre sul punto di esplodere ma che viene trattenuta all’interno di uno scheletro compositivo compatto, un po’ meno nelle ugualmente valide, ma inferiori per intensità, Alleingang ed Error.
Una band da tenere in grande considerazione, in attesa del primo full length che dovrebbe essere licenziato nella prima metà del 2017.

Tracklist:
1. Alleingang
2. Cold Side Of Bliss
3. Error
4. Purging

Line-up:
L – drums
R – bass
F – vocals
J – guitar

MORAST – Facebook