Hyperion – Dangerous Days

Dangerous Days è un album consigliato agli amanti del metal classico e rappresenta sicuramente un’ottima partenza per la band bolognese.

Un’altra nuova band si va ad aggiungere alla scena metal classica dello stivale, si tratta dei bolognesi Hyperion.

Le fondamenta del gruppo sono state poste un paio di anni fa e ora è il momento per il gruppo di scendere in pista con il proprio debutto sulla lunga distanza, un buon album di sano heavy metal ottantiano, potenziato da soluzioni power thrash ma legato indissolubilmente all’heavy metal di ispirazione Judas Priest, tanto per fare il riferimento più storico e, a mio parere, calzante.
Ovviamente la band ci mette del suo: sono passati quasi quarant’anni dal decennio che ha decretato l’immortalità della nostra musica preferita e, come è giusto che sia, gli Hyperion scendono in campo con un album che guarda alla tradizione ma con i piedi ben saldi nel nuovo millennio, che tradotto vuol dire un ottimo lavoro in studio, con i brani che escono potenti e cristallini il giusto, ed un buon songwriting che non lascia scampo, proponendo otto brani medio lunghi, ma dall’ottimo tiro.
I musicisti che compongono la line up dimostrano di saperci fare, dalla sezione ritmica, alle due chitarre per passare all’ottima prova dietro al microfono del singer Michelangelo Carano, un vero animale metallico, personale e pressoché perfetto in tutta la sua prova.
Dicevamo dei brani, medio lunghi ma che mantengono un approccio diretto ed hanno la virtù di farsi ricordare dopo pochi passaggi grazie ad una scrittura fluida che permette di godere di riff potenti, con le chitarre che tagliano l’aria con fendenti micidiali e la voce che imprime un sentore epico a chorus nati per inorgoglire qualsiasi appassionato.
Gli Hyperion aprono con Ultimatum, il brano più classicamente power del lotto, tutto acciaio e cuoio, dove le due chitarre ci danno il benvenuto e ci accompagnano verso la title track,  nella quale potenza e melodia ci prendono a braccetto e il ritornello ci stende, rivelandosi melodico e perfettamente inserito tra cavalcate ritmiche ed assoli che premono sui bassifondi prima di lasciare la presa per farci respirare.
Da qui in poi l’album sterza verso un heavy metal più elaborato e roccioso anche se, come detto, il tiro rimane inalterato, così che veniamo travolti dalla carica metallica di brani come Incognitus, Ground And Pound, il mid tempo The Grave Of Time e la conclusiva Hyperion.
Per gli amanti della fantascienza d’autore, va aggiunto che il monicker della band fa riferimento alla magnifica saga scritta da Dan Simmons e, semmai ci fossero stati dubbi, l’inquietante figura dello Shrike  in copertina li dissipa all’istante.
Dangerous Days è un album caldamente consigliato agli amanti del metal classico e rappresenta sicuramente un’ottima partenza per la band bolognese: da non perdere se avete a cuore una scena nazionale splendida, ma ancora troppo spesso sottovaluta.

Tracklist
1.Ultimatum
2.Dangerous Days
3.Incognitus
4.Ground And Pound
5.Forbidden Pages
6.The Killing Hope
7.The Grave Of Time
8.Hyperion

Line-up
Michelangelo Carano – Vocals
Davide Cotti – Guitar
Luke Fortini – Guitar
Antonio Scalia – Bass Guitar
Marco Jason Beghelli – Drums

HYPERION – Facebook

Strike Master – Strike Master

L’album omonimo dei messicani Strike Master è un esempio di thrash massiccio ed old school, consigliato ai fans del genere che vogliono staccare il cordone ombelicale dai i soliti storici nomi.

Il vecchio thrash metal, pur non trovando più il successo degli anni ottanta (a parte la solita manciata di nomi storici), continua a regalare buoni dischi e ottime sensazioni, almeno a chi è sempre in caccia di nuove realtà o band che si muovono da anni nell’underground metallico mondiale ma rimaste ad uso e consumo di pochi Indiana Jones del metal, perennemente alla ricerca della metallica arca perduta.

Gli Strike Master sono nati a Mexico City nel 2005 e sono diventati una delle band più amate e consolidate nella scena del loro paese, valicando i confini con i paesi vicini ed arrivando oltreoceano a colpi di thrash metal che, se strizza l’occhio a quello storico della Bay Area, mantiene una sua forte identità e cattiveria dai rimandi alla vecchia Europa.
Con una discografia che conta ormai cinque full length più una serie di lavori minori e un live, gli Strike Master continuano la loro missione musicale: il trio anche questa volta parte all’assalto con una serie di brani che alternano thrash metal americano in quota primi Metallica a bordate cattivissime dai rimandi ai Kreator.
Velocità, potenza e nessuna concessione alla modernità sono le carte messe sul tavolo dal gruppo centro americano, composto dal Col. Francisco Kmu (chitarra e voce), Corp. Picos (batteria) e Pach (basso) che non le mandano certo a dire travolgendo con tutta la loro forza l’ascoltatore.
Dotata di una sufficiente tecnica per regalare ottime trame strumentali, la band confeziona un lavoro assolutamente in grado di non passare inosservato tra i thrashers che ancora non hanno avuto a che fare con la sua musica e che faticheranno a stare fermi sulla sedia al passaggio delle varie No Future, As I March, Anti Aereal Witchunt Battery e lo strumentale Machines Of Mercy.
Strike Master è un esempio di thrash massiccio ed old school, consigliato ai fans del genere che vogliono staccare il cordone ombelicale dai i soliti storici nomi.

Tracklist
1.Follow Me
2.No Future
3.Boy in the Hole
4.As I March
5.Urban Phantasms
6.The Mortarist
7.Anti Aereal Witchunt Battery
8.Chant of Falcons
9.Machines of Mercy
10.Born Horrible

Line-up
COL.KMU – Vocals, Guitars
CORP.PICOS – Drums
PACH – Bass

STRIKE MASTER – Facebook

Then Comes Silence – Blood

Melodico ed accattivante, il sound di Blood, quarto lavoro dei Then Comes Silence, vi riporterà indietro nel tempo per poi tornare velocemente al 2017 in un’altalena di umori dark rock, tra chitarre torturate e liquidi tappeti elettro/pop.

Dark rock, postpunk e new wave, tutto rigorosamente ottantiano ma perfettamente calato nel nuovo millennio, assolutamente fuori da umori alternativi e debitore delle band che hanno fatto storia nel genere oscuro per antonomasia.

Melodico ed accattivante, il sound di Blood, quarto lavoro dei Then Comes Silence, vi riporterà indietro nel tempo per poi tornare velocemente al 2017 in un’altalena di umori dark rock, tra chitarre torturate e liquidi tappeti elettro/pop: il gruppo svedese trova la firma prestigiosa con Nuclear Blast con cui licenzia un album dall’appeal molto alto, sempre in bilico tra affascinati sfumature da locale notturno per soli vampirelli e più nobile post punk o dark wave ottanta style.
Ne esce quindi un buon lavoro, che non mancherà di produrre brividi a chi degli anni ottanta ha potuto godere delle trame dark rock dei Sister Of Mercy e post punk dei Joy Division, dell’hard rock ombroso dei primi The Cult e delle litanie stregonesche dei Siouxsie and The Banshees.
Non solo album nostalgico, Blood tiene ben saldi i piedi nel nuovo millennio con un impatto più corposo, con la sua musica a riempire una stanza che trabocca di note melanconiche e colme di raffinato romanticismo.
Un lavoro d’altri tempi ma assolutamente figlio dei tempi, con Alex Svensson perfetto cantore dark di questi undici brani, indiscutibilmente affascinanti e dalla facile presa.
Una raccolta di tracce in cui spiccano i brani più veloci e cool, ma che a ben sentire dà il meglio di sé quando l’anima introspettiva prende il sopravvento, anche se non riesce mai ad uscire dai binari di una melodia che non fa prigionieri, sicuramente un bene in tempi in cui un disco ha poche possibilità di far breccia su una generazione di ascoltatori per lo più frettolosi.
Strange Kicks, la più articolata My Bones, Good Friday e l’oscura Magnetic (con la quale si fa un salto tra le note dei Fields Of The Nephilim), sono i brani che a mio avviso hanno qualcosa in più in un album da ascoltare tutto d’un fiato ed ottimo ascolto per chi ama il dark rock classico ed i suoi derivati.

Tracklist
01. The Dead Cry For No One
02. Flashing Pangs Of Love
03. Strange Kicks
04. My Bones
05. In Leash
06. Choose Your Poison
07. Good Friday
08. The Rest Will Follow
09. Magnetic
10. Warm Like Blood
11. Mercury

Line-up
Alex Svenson – vocals, bass, synthesizers
Seth Kapadia – guitars
Jens Karnstedt – guitars
Jonas Fransson – drums

THEN COMES SILENCE – Facebook

Woodhawk – Beyond The Sun

Beyond The Sun, forte di un notevole impatto, si basa molto sui riff roboanti e su una buona impronta vocale dalle reminiscenze hard’n’heavy e dove non arrivano le due principali componenti, ci pensa l’hammond a riempire di atmosfere evocative la musica dei Woodhawk.

Hard rock ispirato dai classici monsters settantiani è quello che ci offrono gli Woodhawk, trio proveniente da Calgary.

Potente come il boato di un tuono perso sulle montagne dove osano le aquile e nascono leggende di dei, eroi e spade, il terzetto composto da Turner Midzain (chitarra e voce), Mike Badmington (basso e voce) e Kevin Nelson (batteria) si autoproduce questo buon lavoro, pervaso da una forte sentore stoner, ormai nel dna dei gruppi dediti al genere, anche se la band non manca di colorare il sound di arcobaleni psichedelici e sabbathiani.
Beyond The Sun, forte di un notevole impatto, si basa molto sui riff roboanti e su una buona impronta vocale dalle reminiscenze hard’n’heavy e dove non arrivano le due principali componenti, ci pensa l’hammond a riempire di atmosfere evocative la musica dei Woodhawk: i brani godono di una naturale freschezza ed un impatto diretto che non lascia scampo, andando subito al sodo e valorizzando la componente heavy metal.
Le lame delle spade sono incandescenti quando i fabbri degli dei della montagna cominciano a martellare sull’acciaio creando mortali armi fiammeggianti, e i musicisti canadesi immortalano sullo spartito le atmosfere roventi delle caverne dove il lavoro non si ferma mai, con una serie di brani evocativi, metallici, dai potenti mid tempo ed impreziositi da chitarre heavy metal, portando il sound del gruppo dagli anni settanta al decennio successivo.
The High Priest, Magnetic North, Quest For Clarity sono le canzoni più suggestive di questo buon lavoro che nulla aggiunge e nulla toglie alle tante opere uscite in questo periodo, ma che si fa ascoltare con piacere.

Tracklist
1. Beyond The Sun
2. The High Priest
3. Living In The Sand
4. Magnetic North
5. Lawless
6. Quest For Clarity
7. A New Hope
8. Forsee The Future
9. Chrononaut

Line-up
Turner Midzain – Guitar, Vocals
Mike Badmington – Bass, Vocals
Kevin Nelson – Drums

WOODHAWK – Facebook

Jupiter Zeus – Eyes On The Prize

Eyes On The Prize è un buon lavoro dal sound che unisce doom metal ed alternative in un unica proposta.

I Jupiter Zeus sono un’alternative metal band australiana e Eyes On The Prize è il loro terzo lavoro dopo l’ep di debutto Green Mosquito uscito nel 2011 ed il full length licenziato nel 2014 ed intitolato On Earth.

Tornano, quindi, dopo tre anni con questa raccolta di sei brani in formato ep a ribadire la bontà della propria proposta, un metal alternativo che spazia tra possenti mid tempo doom, schitarrate elettriche di matrice heavy ed una forte epicità che non tradisce il monicker.
Atmosfere dal piglio potente ed evocativo si scontrano dunque con un’anima moderna ed è per questo che la musica prodotta dal quartetto si può considerare alternativa, anche se rimane forte l’impressione di essere al cospetto di una medaglia con due facce distinte che alternano l’approccio a seconda del punto di vista dal quale la  si guarda.
Funziona tutto, è bene ribadirlo, i brani portano con loro tempeste metalliche, potenti tuoni doom metal e fulmini alternativi, il growl in alcuni casi estremizza l’atmosfera come se Zeus in persona intervenisse ad aiutare la band di Perth, ed il sound rimane potente ed evocativo fino alla fine.
La title track, Saviour With Destruction ed Arise sono i brani migliori di un album comunque tutto da ascoltare, specialmente se tra le vostre preferenze trovano posto allo stesso tavolo Black Sabbath e Soundgarden, Trouble ed Alice In Chains.

Tracklist
1.Eyes on the Prize
2.Saviour With Destruction
3.Read It and Weep
4.Midnight Renegade
5.Arise
6.Broken Plates

Line-up
Aaron Smith – Drums
Simon Staltari – Guitar/Vocals
Jeremy Graham – Bass
Michael Lawson – Lead Guitar

JUPITER ZEUS – Facebook

https://youtu.be/IHzYJaZeSak

Freaky Jelly – Reverse

Ottimo debutto dei progsters brasiliani Freaky Jelly che con Reverse regalano l’ennesimo ottimi lavoro di quest’anno in campo metal progressivo tradizionale.

Reflections, un lungo brano strumentale funge da intro e benvenuto per questo primo lavoro dei progsters brasiliani Freaky Jelly, dal monicker bruttino ma fautori di ottimo prog metal che, in questi ultimi tempi, si può certo definire tradizionale in quanto debitore nei confronti di Dream Theater, Rush e tutti quei gruppi che hanno metallizzato il progressive rock dei dinosauri settantiani.

Reverse arriva dopo quattro anni dalla nascita del gruppo, un’opera imponente della durata di settantuno minuti, senz’altro non originale (è meglio precisarlo subito) ma sicuramente di altissima qualità.
Una splendida voce a metà strada tra James La Brie e Andrè Matos, ex sirena dei connazionali Angra, tecnica sopraffina ed un songwriting notevole, fanno di Reverse, licenziato da una label come la Rockshots, divenuta in poco tempo una garanzia di qualità per i suoni progressivi, un album che si rivela una clamorosa sorpresa.
Prog metal di alto livello, atmosfere che passano da tecnicissime parti power progressive, con la sezione ritmica a prendere il palcoscenico con potenti accelerazioni e cambi di tempo mozzafiato (Mauricio Grosso – batteria – e Rafel De Paula – basso) e la chitarra (Andre Faustino) che, insieme alle tastiere (Julio Vince), ricama melodie di celestiale metallo progressivo che ricorda ora la band di John Petrucci, ora andando ancora più nel passato i Rush e gli Yes sotto le mentite spoglie del bellissimo Anderson/Bruford/Wakeman/Howe.
C’è tanta musica in Reverse, splendidamente interpretata da un gruppo che consolida la tradizione brasiliana nei suoni metal (dall’heavy, al power e al progressive) e ci sorprende con una serie di brani tutti sopra ai cinque minuti nei quali spiccano le trame delle suite Highest Ground, di Saints And Sinners e di Wake Up, cuore pulsante di questo bellissimo lavoro.
Una sorpresa giunta alla fine di un anno che ha regalato nel genere ottime conferme e notevoli sorprese, alla faccia di chi storce il naso quando si parla di suoni progressivi.

Tracklist
1. Reflections
2. Highest Ground
3. Alicia S Garden
4. Nothing To Feel
5. Saints And Sinners
6. Hardest Part Of Goodbye
7. Illusions
8. Wake Up
9. Morning Glory

Line-up
Ricardo DeStefano – Vocals
Andre Faustino – Guitars
Mauricio Grosso – Drums
Rafel de Paula – Bass
Julio Vince – Keyboards

FREAKY JELLY – Facebook

Superhorror – Hit Mania Death

Hit Mania Death sa tanto di States, di quei viali ricoperti in autunno dalle foglie che, nel giorno dei morti vengono spazzate dai piedi che strisciano verso le vostre case mentre il punk rock dei Ramones gira senza fermarsi sul vostro piatto ed il cd dei Murderdolls aspetta il suo turno sullo scaffale.

One, two, three, four… rock’n’roll, anzi rock/punk/metal/hard’n’roll, irriverente, totalmente pazzoide, schizzato come una belle figliola che la notte di Halloween si accorge che il tipo incontrato al party è più morto che vivo, anzi, è proprio un morto vivente, ciondolante ed affamato e cerca disperatamente di accanirsi sulla sua carne con mire bel lontane da quelle sessuali.

Con i Superhorror, con un Fuck in meno nel monicker ma ancora più voglia di divertirsi e far divertire, siamo in pieno regime glam/metal/punk rock e Hit Mania Death è il loro potentissimo calcio nel deretano al mondo, una serie di straordinarie e stravolte tracce che vi faranno tornare, soprattutto concettualmente, agli anni ottanta, quando gli zombie facevano ancora paura nelle loro grottesche camminate verso il cibo che aveva sempre due gambe per scappare dal banchetto e due braccia da lasciare tra le fauci della vostra nonnina trasformata in una famelica razziatrice di budella altrui.
Hit Mania Death sa tanto di States, di quei viali ricoperti in autunno dalle foglie che, nel giorno dei morti vengono spazzate dai piedi che strisciano verso le vostre case mentre il punk rock dei Ramones gira senza fermarsi sul vostro piatto ed il cd dei Murderdolls aspetta il suo turno sullo scaffale.
Sarebbe inutile nominare un brano piuttosto che un altro, quindi se volete risvegliare il non-morto che è in voi fatevi travolgere dalla carica che sprigionano i Superhorror, e in overdose da Hit Mania Death comincerete a non resistere, quando vostra sorella o fidanzata vi gireranno intorno ed il vostro appetito aumenterà di conseguenza con il letale virus che si svilupperà all ascolto delle varie ed irresistibile Ready, Steady…Die!, Nazi Nuns From Outer Space, Ed Wood Blues, Rock Is Dead (Like Us) e Nekro-Nekro Gim.

Tracklist
01. Ready, Steady… Die!
02. Nazi Nuns From Outer Space
03. Mr. Rrigor Mortis
04. Ed Wood Blues
05. No Love For The Deceased
06. Dead To Be Alive
07. Rock Is Dead (Like Us)
08. Nice To Meat You
09. Little Scream Queen
10. Mourir, C’Est Chic
11. Selfish Son Of A Witch
12. Nekro-Nekro Gym

Line-up
Edward J. Freak: Vocals
Didi Bukz: Guitar, Kazoo, Backing Vocals
Mr.4: Bass, Backing Vocals
Franky Voltage: Drums, Backing Vocal

SUPERHORROR – Facebook

Poisonheart – Till The Morning Light

Non è così facile assemblare una tracklist dove umori tanto diversi ammantano le atmosfere dei brani, ma i Poisonheart ci sono riusciti, permettendo alle loro anime di convivere e rendendo Till The The Morning Light un ottimo album.

Sneakeout Records e Burning Minds, label fondata dai ragazzi dell’Atomic Stuff, ci presentano questo ottimo debutto all’insegna di un hard rock roccioso, classico e pregno di melodie dark.

Gli autori sono i bresciani Poisonheart, attivi da tredici anni, con un primo ep di cover alle spalle seguito dal secondo lavoro, questa volta di inediti licenziato nel 2009 (Welcome To The Party).
Gli anni seguenti passano tra concerti ed una piccola sterzata nel sound, un’evoluzione che porta il gruppo verso lidi oscuri, lasciando in parte il rock’n’roll da party suonato nei primi anni.
Un po’ come i finlandesi The 69 Eyes, chiamati in causa tra le ispirazioni dei Poisonheart, la band è fautrice di questo buon connubio hard/dark rock, non ancora espresso in tutta la sua oscura decadenza come nella band del vampiro Jirky 69, ma ancora legato da un filo neanche troppo sottile con il rock duro.
Ne esce un album vario con buone idee a soprattutto belle canzoni, alcune ancora elettrizzate dal rock’n’roll degli esordi come l’opener (You Make Me) Rock Hard o Hellectric Loveshock, altre già pervase da umori dark, nebbie oscure che avvolgono brani come Flames & Fire o Shadows Fall, ed infine alcune che sanno di frontiera come la splendida Baby Strange.
Non è così facile assemblare una tracklist dove umori tanto diversi ammantano le atmosfere dei brani, ma i Poisonheart ci sono riusciti, permettendo alle loro anime di convivere facendo di Till The The Morning Light un album riuscito, con i brani che lasciano la loro firma in testa all’ascoltatore dopo pochi passaggi.
Prodotto dal gruppo insieme a Oscar Burato, che ha mixato e masterizzato l’album, Till The Morning Light vive di hard rock tradizionale, rock’n’roll e dark di matrice scandinava: The 69 Eyes, ma anche i Poisonblack di Ville Laihiala, appaiono tra le influenze del gruppo, ispirato al meglio per questo ottimo debutto.

Tracklist
01. (You Make Me) Rock Hard
02. Flames & Fire
03. Anymore
04. Lovehouse
05. Shadows Fall
06. Baby Strange
07. Under My Wings
08. Out For Blood
09. Hellectric Loveshock
10. Pretty In Black

Line-up
Fabio Perini – Lead Vocals, Guitar
Giuseppe Bertoli – Bass, Backing Vocals
Andrea Gusmeri -Lead Guitar, Backing Vocals
Francesco Verrone – Drums, Backing Vocals

POISONHEART – Facebook

Sheidim – Infamata

La durata, che non si discosta da molti full length di altre realtà, e la qualità dei brani proposti risultano due buoni motivi per non perdere questo lavoro e fare la conoscenza degli Sheidim.

Abituati alle uscite della I, Voidhanger, sempre molto originali e fuori dai soliti schemi, un ep come questo ultimo lavoro degli spagnoli Sheidim si posiziona dalle parti di un più scontato black metal di estrazione scandinava.

Gruppo proveniente da Barcellona, gli Sheidim sono una giovane band nata solo quattro anni fa, con alle spalle un ep di debutto ed un primo album sulla lunga distanza licenziato lo scorso anno dalla Dark Descent Records.
Un attacco frontale, una burrasca di maligno black metal che non manca di proporre tra le sue trame accenni melodici alla Dissection, sfuriate estreme e mid tempo evocativi di scuola Watain, per quasi mezzora di metallo nero ad opera di questi blacksters latini che il loro mestiere lo sanno fare molto bene.
L’attitudine non manca di certo al combo catalano e sembra davvero di essere al cospetto di un nugolo di demoni provenienti dal nord, tanto è l’impatto con cui le varie A Dying Sun o Underneath si infrangono come un maremoto sui nostri padiglioni auricolari.
Un ottimo scream, buone sfumature melodiche e qualche intermezzo atmosferico a rendere vario ed interessante l’ascolto, fanno di Infamata un mini album da non sottovalutare, con la conclusiva Sister Of Sleep a portare la temperatura sotto lo zero con un inizio raggelante che sfocia in una ripartenza diabolicamente devastante.
La durata, che non si discosta da molti full length di altre realtà, e la qualità dei brani proposti risultano due buoni motivi per non perdere questo lavoro e fare la conoscenza degli Sheidim.

Tracklist
1. Infamata
2. A Dying Sun
3. Underneath
4. Wings Of The Reaper
5. Sister Of Sleep

Line-up
A.T. – Bass
J.F. – Drums
C.S. – Guitars
A.K. – Vocals

SHEIDIM – Facebook

Ivan Miladinov – Soul Finder

La musica di Miladinov è una via di mezzo tra i Children Of Bodom e gli Stratovarius o, per chi segue l’underground, i brasiliani D.A.M, all’insegna di un power/death metal melodico e tastieristico.

Questa interessante proposta estrema arriva dalla Bulgaria, ed il musicista che vi presentiamo si chiama Ivan Miladinov, tastierista e cantante che, con l’aiuto di Bob Katsionis dei Firewind (chitarra basso e batteria programmata), licenzia tramite la Club Inferno Entertainment questo ep composto da due brani dal titolo Soul Finder.

La title track e I Was In Hell ci deliziano di un death metal melodico, strutturato principalmente sui suoni di tasti d’avorio, quindi dall’approccio molto pomposo e sinfonico con le ritmiche power che si scontrano con un death/pomp metal d’assalto.
Il growl del musicista bulgaro è l’unica vera concessione alla parte estrema, mentre il resto del sound viaggia piacevolmente spedito sulle ali di un power metal bombastico e melodico.
Ne escono due brani accattivanti, classici nell’impatto e dall’ottimo appeal, veloci quanto basta per accontentare sia gli amanti del metal classico di stampo power, che quelli più indirizzati verso ascolti più duri.
La musica di Miladinov è, in sintesi, una via di mezzo tra i Children Of Bodom e gli Stratovarius o, per chi segue l’underground, i brasiliani D.A.M, all’insegna di un power/death metal melodico e tastieristico.
Un full length così strutturato non sfigurerebbe certo tra le uscite targate melodic death metal, anche se qui ci si rivolge agli amanti della parte più classica del genere e non certo quella in uso oggi, colma di soluzioni core.

Tracklist
1. Soul Finder
2. I Was In Hell

Line-up
Ivan Miladinov – vocals, keyboards, composer and arrangements
Bob Katsionis (FIREWIND) – guitars, bass and drums programming

X Japan – We Are X Soundtrack

Il gruppo giapponese, proprio per la sua provenienza e la sua arte, o lo si ama o lo si odia, difficilmente si riesce a rimanere indifferenti, come accade ai suoi fans (tanti nel loro paese e nel Regno Unito) che faranno di questa raccolta il loro album targato 2017.

La più famosa e rappresentativa band heavy metal giapponese torna sul mercato con la colonna sonora dell’acclamato documentario sulla sua lunga carriera, da una delle primi gruppi heavy metal ad inventori dello stile Visual Key.

Una storia portata all’eccesso, a tratti grottesca, raccontata dall’heavy power metal melodico, velocissimo e tecnicamente invidiabile degli X Japan.
Una raccolta di brani che scorrono come fotogrammi la lunga storia del gruppo, iniziata nel 1987, fermatasi dieci anni dopo e che continua dopo la reunion del 2007, questa è in definitiva We Are X Soundtrack, quindi gli amanti degli eccessi e dell’estremo in chiave Nipponica avranno di che crogiolarsi, d’altronde la band oltre ad essere considerata un’icona della musica rock del sol levante ha regalato ai suoi fans occidentali buona musica hard & heavy, niente di clamoroso a mio parere, ma sufficiente per destare dal letargo gli amanti del metal dagli occhi a mandorla.
Maestri dell’arte del Visual Key, abbinata al metal, su disco gli X Japan perdono molto della loro carica, non supportati dall’elemento visivo fondamentale nell’economia del gruppo.
La band del polistrumentista Yoshiki è il perfetto esempio della cultura giapponese che, cercando un posto d’onore in occidente, lo trova ma è costretta a mantenere un approccio eccessivo, anche quando il tutto diventa stancante, così che i brani migliori risultano a mio avviso le ballad, che fortunatamente non mancano su questa raccolta.
Il resto è, come già scritto, heavy metal classico spinto da buone ritmiche power, ma con un songwriting elementare che, senza l’apporto video manca di un bastone su cui appoggiarsi, inciampando a più riprese, tra tecnica, velocità e poco altro.
Per la cronaca, We Are X Soundtrack raccoglie il meglio del gruppo tra brani live, versioni acustiche ed originali pescate dai dieci anni di attività tra il 1987 ed il 1997.
Il gruppo giapponese, proprio per la sua provenienza e la sua arte, o lo si ama o lo si odia, difficilmente si riesce a rimanere indifferenti, come accade ai suoi fans (tanti nel loro paese e nel Regno Unito) che faranno di questa raccolta il loro album targato 2017.

Tracklist
01.La Venus (Acoustic Version)*
02.Kurenai (from The Last Live)
03.Forever Love
04.Piano Strings of Es Dur
05.Dahlia
06.Crucify My Love
07.Xclamation
08.Standing Sex (from X Japan Returns)
09.Tears
10.Longing / Setsubo-no-yoru
11.Art of Life (3rd Movement)
12.Endless Rain (from The Last Live)
13.X (from The Last Live)
14.Without You” (Unplugged)

Line-up
Toshi – Vocals, Guitars
Sugizo – Guitars, Violin
Pata – Guitars
Heath – Bass
Yoshiki – Drums, Keyboards

X JAPAN – Facebook

Craven Idol – The Shackles Of Mammon

I Craven Idol hanno imparato la lezione dei vecchi e blasfemi maestri in giro per l’Europa negli anni ottanta e novanta, assorbendo il più possibile dai vari generi per vomitarli in un sound demoniaco ed oscuro, legato tanto al metal tradizionale quanto a quello di ispirazione estrema.

Nel Regno Unito la scena metal classica è più incline a mantenere inalterata la tradizione, concedendo poco alle moderne soluzioni e mantenendo un approccio old school.

Se poi guardiamo al lato più estremo della nostra musica preferita la cosa si intensifica ancor di più, con i gruppi più giovani a rinverdire e mantenere l’approccio delle band storiche nel death come nel thrash e nelle varie forme che di volta in volta assume il metal.
I Craven Idol hanno imparato la lezione dei vecchi e blasfemi maestri in giro per l’Europa negli anni ottanta e novanta, assorbendo il più possibile dai vari generi per vomitarli in un sound demoniaco ed oscuro, legato tanto al metal tradizionale quanto a quello di ispirazione estrema.
Una dozzina d’anni di vita, due demo ed un primo full length uscito quattro anni fa e seguito da The Shackles of Mammon, nuovo massacro senza compromessi, epico come potrebbe esserlo il sound dei Venom fuso con quello dei Bathory.
Ne esce un vulcano di riff scolpiti nelle chiese sconsacrate di una Londra devastata da peste e dai peccati di un’umanità ormai persa tra le spire del demonio, malati terminali che si scambiano virus e bubboni in vicoli dove dominano famelici topi, divoratori di cadaveri e portatori di apocalisse.
Il cielo sopra la città che brucia non può che essere oscuro, la luce non filtra così come il sound concede poche aperture melodiche e tanto metallo che passa abilmente tra cavalcate black/thrash a tempi medi di doom/heavy metal primordiale.
Pyromancer apre questa finestra sull’inferno, mentre A Ripping Strike, epica, evocativa ed oscura ci scaraventa negli angoli più bui di vicoli putrescenti, seguita dalle ritmiche black di Black Flame Divination.
I quattro untori inglesi picchiano sugli strumenti come forsennati, mentre The Trudge torna all’epicità evocativa in un lungo viaggio verso la dannazione.
Non perde un grammo di pesantezza ed atmosfera The Shackles Of Mammon, continuando la sua panoramica sull’orrore fino alla conclusiva Tottering Cities Of Man, altro brano dove l’atmosfera cadenzata accentua la vena black doom del quartetto.
Un album affascinate nella sua impronta tradizionale, nel genere uno dei più interessanti dell’anno.

Tracklist
1. Pyromancer
2. A Ripping Strike
3. Black Flame Divination
4. The Trudge
5. Dashed To Death
6. Mammon Est
7. Hunger
8. Tottering Cities of Men

Line-up
Sadistik Vrath – Vocals, Guitar
Suspiral – Bass
Heretic Blades – Drums
Obscenitor – Guitar

CRAVEN IDOL – Facebook

Threat Signal – Disconnect

Un buon mix di generi diversi ma che, nella musica dei Threat Signal, si uniscono sotto la bandiera del tecnicismo, non esasperato come accade nelle frange più tecniche del metal estremo , ma ben in evidenza nei vari brani che compongono questo mastodontico lavoro.

Dopo sei anni dall’ultimo album omonimo tornano sul mercato tramite Agonia Records i Threat Signal, una delle band che più avevano impressionato gli addetti ai lavori una decina d’anni fa.

Il quartetto dell’Ontario arriva, con questa prova di forza intitolata Disconnect, al quarto lavoro di una discografia che vede il suo inizio nel 2006 con il debutto Under Reprisal, ed il cuore creativo dal 2009 al 2011 anni d’uscita del secondo album Vigilance e del già citato terzo lavoro omonimo.
Sei lunghi anni dunque, prima del ritorno in pompa magna con questo buon lavoro, un’ora di musica metal moderna, estrema ma piacevolmente melodica, tra metal core, death melodico e thrash moderno.
Un buon mix di generi diversi ma che, nella musica dei Threat Signal, si uniscono sotto la bandiera del tecnicismo, non esasperato come accade nelle frange più tecniche del metal estremo , ma ben in evidenza nei vari brani che compongono questo mastodontico lavoro.
Troppe volte si scrive metal moderno per definire lavori che, nei loro ormai abusati cliché, risultano freddini o troppo simili l’uno all’altro, mentre nel nuovo album del quartetto canadese tutto si incastra alla perfezione, così le tanto abusate voci pulite o i mid tempo core sono bilanciati da fughe metalliche dall’alto tasso tecnico compositivo che si veste, a tratti, di un’aurea progressiva.
Nostalgia, Exit The Matrix, la lunga e varia Aura, l’atmosferica Betrayal che svolge il compito di preludio alla seconda parte, valorizzata dai dieci minuti di progressive estremo e moderno della superba Terminal Madness, fanno da traino ad un lavoro che riconcilia con il metalcore, anche se per un album come Disconnect parlare solo di questo genere appare riduttivo.
Registrato e prodotto da Jon Howard e Travis Montgomery (cantante e chitarrista della band), mixato e masterizzato da Mark Lewis (DevilDriver, Whitechapel, Battlecross, Unearth, Coal Chamber), Disconnect è da considerarsi un bersaglio centrato per un gruppo che è tornato per dire la sua nel mondo del metal moderno.

Tracklist
1. Elimination Process
2. Nostalgia
3. Walking Alone
4. Exit The Matrix
5. Falling Apart
6. Aura
7. Betrayal
8. To Thine Own Self Be True
9.Dimensions
10. Terminal Madness

Line-up
Jon Howard – Vocals
Travis Montgomery – Guitars
Pat Kavanagh – Bass
Matt Perrin – Guitars

THREAT SIGNAL – Facebook

Displeased Disfigurement – Origin of Abhorrence

Origin Of Abhorrence risulta il classico lavoro che troverà estimatori solo nei fans accaniti del genere, mentre gli ascoltatori occasionali troveranno solo decine di riff uno sopra l’altro, growl animalesco a decantare torture e varia macelleria con poca personalità.

Attivi da più di quindici anni, i Displeased Disfigurement sono passati dal death metal classico degli esordi (anche se non ci sono opere a testimoniarlo) ad un più brutale e mastodontico brutal death, iniziando a massacrare e torturare con il debutto Extermination Process, uscito quattro anni fa.

Tornano oggi questi sudafricani con il loro secondo lavoro, un massiccio e devastante album di brutale metallo tutto squartamenti e torture intitolato Origin of Abhorrence.
Il quartetto ha dalla sua un’ottima tecnica esecutiva, le chitarre cuciono riff su riff e la sezione ritmica è un martello pneumatico che si accende nel cervello degli ascoltatoti, il problema sta nel songwriting ripetitivo fino allo sfinimento e per nulla personale.
Origin Of Abhorrence risulta il classico lavoro che troverà estimatori solo nei fans accaniti del genere, mentre gli ascoltatori occasionali troveranno solo decine di riff uno sopra l’altro, growl animalesco a decantare torture e varia macelleria con poca personalità per pensare di intaccare la reputazione dei gruppi cardine del genere.
Mezz’ora di massacro senza soluzione di continuità è dunque quello che ci offrono i quattro deathsters sudafricani, un album onesto ma nulla più.

Tracklist
1.Intro
2.Parasitic Devourment
3.Malignant Misery
4.Infernal Machine
5.Analgestic Subjection
6.Human Cattle
7.Lock Down
8.Illuminated Race
9.Injected Suffering

Line-up
Darius Wilken-Guitar /vocal
Dominic Vorster-Bass/vocal
Mitch Wilken-Guitar
Riaan Els-Drums

DISPLEASED DISFIGUREMENT – Facebook

Bunker 66 – Chained Down In Dirt

Con un approccio che privilegia il thrash metal più ruspante, satanico e punk e, in anni nei quali regna il bello ed il patinato anche nel metal estremo, per gli amanti della vecchia scuola Chained Down In Dirt è un album da non perdere.

Ci vanno giù duro i Bunker 66, trio di origine siciliana che torna con un nuovo album tramite la High Roller Records, etichetta specializzata nei suoni metallici old school.

E di vecchia scuola si tratta , a ben ascoltare il nuovo lavoro del gruppo messinese, che ci colpisce con ferocia con otto diretti al volto potenti come il loro thrash metal pregno di black ‘n’roll, senza fronzoli, scarno e violento.
Attivo dal 2009 il trio ha già una discreta discografia alle spalle, con tre full length ed una serie di lavori minori tra split e addirittura due compilation, segno di convinzione ed entusiasmo,
Il loro sound è quanto di più old school troverete in giro per la penisola: la produzione segue infatti l’atmosfera ottantiana ed assolutamente underground del progetto, e Chained Down In Dirt risulta così una mazzata niente male per chi è ancorato al sound di gruppi come Venom e Sodom.
La copertina (bellissima) segue di pari passo l’aura vintage dello stile proposto dai Bunker 66 e, all’accensione della miccia, l’opener Satan’s Countess parte a razzo con un ipotetico one/two/three di matrice rock ‘n’ roll che dà il tempo alle sfuriate dal flavour motorheadiano di molti dei brani che compongono l’album.
Con un approccio che privilegia il thrash metal più ruspante, satanico e punk e, in anni nei quali regna il bello ed il patinato anche nel metal estremo, per gli amanti della vecchia scuola Chained Down In Dirt è un album da non perdere.

Tracklist
1. Satan’s Countess
2. Black Steel Fever
3. Chained Down In Dirt
4. Taken Under The Spell
5. Her Claws Of Death
6. Wastelands Of Grey
7. Power Of The Black Torch
8. Evil Wings

Line-up
D. Thorne – Bass & Vocals
J.J. Priestkiller – Guitars & Backing vocals
Dee Dee Altar – Drums &Backing vocals

BUNKER 66 – Facebook

Blood Inc. – Blood Inc.

Blood Inc. è un album diretto, intenso e dall’appeal micidiale, con nove brani di alternative metal ricchi di soluzioni elettroniche, campionamenti e groove.

Un sound che prende spunto dagli eroi dell’alternative metal del nuovo millennio e lo tortura con dosi letali di industrial e groove di stampo americano, una serie di brani che nei testi prendono spunto dai più efferati serial killer del secolo, veri o di fantasia, ed avrete servito il vostro drink musicale rosso sangue.

Horror metal moderno, questo risulta in sintesi la proposta dei Blood Inc., band lombarda al debutto con questa mezzora che prende titolo dal monicker e vi maltratterà prima di lasciarvi in balia dell’assassino di turno, pronto a divertirsi con le vostre paure, prima di affondare la fredda lama nella carne.
Il quartetto si aggira tra i navigli dal 2015 e il suo debutto, pur peccando leggermente in originalità, centra il cuore dei fans del genere: Blood Inc. è un album diretto, intenso e dall’appeal micidiale, con nove brani alternative ricchi di soluzioni elettroniche, campionamenti e groove, in sintesi di quel metal moderno caro a Rob Zombie.
Infatti, ispiratore del sound dei Blood Inc. è il compositore e regista americano, quindi aspettatevi una mezzora di deliri horror industrial metal dai rimandi ad Astro Creep 2000 (White Zombie) e ad Hellbilly Deluxe (suo primo lavoro solista).
La copertina molto bella, una produzione perfetta per il genere ed una manciata di brani dall’alto tasso industriale e dall’appeal elevato e pericolosissimo come il singolo Wake Up Dead, Bleed Pray Die o Rhyme Of The Dead, fanno di Blood Inc. un lavoro riuscito, consigliato ai fans dell’horror metal moderno che cominceranno ad affilare i propri coltelli.

Tracklist
1. Lucky Number 13
2. The House
3. Wake Up Dead (Virus Contamination)
4. In The Darkest Night
5. Bleed Pray Die
6. Blood Inc.
7. When Blood Drips
8. Rhyme Of The Dead
9. Spit On Your Grave

Line-up
Black Jin – Lead Vocals
Animah – Rhythm and Lead Guitar
Rick Gringo Ninekiller – Bass Guitar
Jack – Drums

BLOOD INC. – Facebook

Kabbalah – Spectral Anscent

L’album, che definire vintage è un eufemismo, piacerà non poco ai doomsters dai gusti classici, con le tre musiciste spagnole che hanno il merito di mantenere alta la componente atmosferica e rituale senza perdere nulla in impatto.

E chi l’ha detto che per fare doom rock bisogna per forza avere folti barboni a coprire i manici delle chitarre e vocioni alla zio Ozzy in perenne trip? Chi meglio di tre streghe spagnole, può suonare retro rock, mistico ed occulto, liturgico e sabbathiano?

Benvenuti ai piedi dell’altare dove le tre sacerdotesse (Marga, Carmen e Alba) vi ipnotizzeranno per poi sacrificarvi nel bel mezzo di una messa dai colori scuri e ombre luciferine.
Le Kabbalah tornano con questo nuovo lavoro e ci imprigionano nel loro vortice di musica doom/psichedelica devota agli anni settanta e al filone occulto del rock e dell’ hard rock.
Quindi niente scherzi, lasciate perdere le trovate pubblicitarie su testi letti alla rovescia delle icone del rock mondiale, le tre musiciste spagnole fanno sul serio, imprigionandovi con incantesimi stregoneschi e sacrificandovi sull’altare mentre un lungo pugnale maledettamente lucido rispende nell’oscurità prima di stapparvi il cuore al ritmo di Resurrected, The Darkest End, o Dark Revelation.
La componente psichedelica che si insinua come un serpente albino nelle trame ricoperte da insidiose ragnatele dove dominano aracnidi dal morso letale e mid tempo che avvolgono lo spartito tra oscure note liturgiche, sono il contorno al doom rock di scuola Black Sabbath che le Kabbalah creano quale colonna sonora ai loro pericolosissimi sabba, mentre tutto intorno l’odore di incenso copre quello dolciastro e ferroso del sangue.
Album che definire vintage è un eufemismo, piacerà non poco ai doomsters dai gusti classici, le tre musiciste spagnole hanno il merito di mantenere alta la componente atmosferica e rituale senza perdere nulla in impatto.

Tracklist
1.Spectral Ascent
2.Resurrected
3.Phantasmal Planetoid
4.The Darkest End
5.The Reverend
6.The Darkness of Time
7.Dark Revelation
8.The Shadow
9.Presence

Line-up
Marga
Carmen
Alba

KABBALAH – Facebook

Divinity Compromised – Terminal

The Terminal risulta un album discreto anche se con qualche difetto, che i Divinty Compromised dovranno correggere in futuro se non vorranno rimanere nel limbo dei soli cultori del prog metal underground.

Progressive metal che punta molto sulla melodia senza rinunciare alla componente metallica di estrazione americana, proprio come il paese d’origine del gruppo.

Stiamo parlando dei progsters dell’Illinois Divinity Compromised, sestetto giunto al secondo album dopo A World Torn, debutto licenziato quattro anni fa.
Prog metal che si discosta dall’usuale solo per una drammaticità di fondo tipica dell’U,S. metal, altra fonte di ispirazione insieme al thrash per il sestetto che, in regime di autoproduzione, dà alle stampe un lavoro tutto sommato discreto, magari poco personale ma ben bilanciato tra melodie, evoluzioni progressive e ripartenze power/thrash.
Leggermente prolisso, in verità, Terminal alterna momenti interessanti ad altri già sentiti ma che riescono, anche se con un po’ di fatica, a tenere la tensione su livelli sufficientemente alti, grazie alle atmosfere drammatiche di scuola Nevermore ed Evergrey.
L’album parte bene, le melodie della title track risultano un buon biglietto da visita, le ritmiche corrono veloci e le tastiere ricamano fraseggi moderni prima di lasciare alle chitarre il palcoscenico.
Il metal estremo è un’ altra componete importante nella musica dei Divinity Compromised, in evidenza nell’atomica The Definition Of Insanity, tra Dream Theater e Nevermore, thrash progressivo pesantemente influenzato da un’anima intimista e tragica.
Il cantato di Lothar Keller è quanto di più simile al giovane La Brie troverete in giro, mentre il sound continua la sua corsa tra le molte anime del metal americano, dai Queensryche ai Symphony X, passando per i Metal Church, il tutto passato nel frullatore progressivo del gruppo del cantante canadese.
C’è ancora l’ottima Legacy ad alzare il valore di un album discreto anche se con qualche difetto, che il gruppo dovrà correggere in futuro se non vorrà rimanere nel limbo dei soli cultori del prog metal underground.
Promossi, ma si può e si deve fare di più, le potenzialità ci sono tutte.

Tracklist
1.Terminal
2.Shelter in Place
3.My Escape
4.The Definition of Insanity
5.The Last Refugee
6.Free to Speak
7.Legacy
8.The Fall of Æstoria
9.Saving Grace

Line-up
Andy Bunk – Bass
Ben Johnson – Guitars, Keyboards
Lothar Keller – Vocals
Mike Mousel – Drums
Jeff Treadwell – Lead Guitars

DIVINITY COMPROMISED – Facebook

Ruxt – Running out Of Time

Una perfetta simbiosi tra i maestri (Rainbow, Dio, Whitesnake) e i loro eredi (Lande, Astral Doors), questo è se Running Out Of Time, secondo imperdibile album dei Ruxt.

Neppure il tempo di archiviare le bellissime trame power di Metalmorphosis, opera licenziata dagli Athlantis di Steve Vawamas, che la Diamonds Prod. sforna il secondo lavoro dei Ruxt, band hard & heavy che, oltre al bassista in forza pure a Mastercastle, Bellathrix ed Odyssea, vede all’opera Stefano Galleano ed Andrea Raffaele (Snake, Rock.It), il batterista Alessio Spallarossa (Sadist) ed il talentuoso vocalist Matt Bernardi (Purplesnake).

Ed è ancora una volta, tra gli stretti vicoli di una Genova mai così metallica, che si consuma il secondo rito targato Ruxt, un altro riuscito esempio di nobile metallo, pregno di atmosfere hard’n’heavy che, di questi temp,i molti preferiscono chiamare old school ma che è invece semplicemente classico.,
Certo, probabilmente il sound del gruppo è il più ottantiano tra quelli in dote alle band che gravitano intorno alla scena sviluppatasi nei dintorni del capoluogo ligure, ma per gli amanti dell’ hard & heavy targato Rainbow, Dio, Whitesnake, Lande, ed Astral Doors, anche Running Out Of Time. come il primo Behind The Masquerade (uscito lo scorso anno) risulterà una vera cavalcata tra le sonorità che hanno reso famose questi grandi interpreti della nostra musica preferita.
Un songwriting di alto livello, accompagnato da una prova esemplare del buon Matt “Jorn” Berardi, fanno sussultare dalla poltrona più di un fans del metal/rock classico, tra arcobaleni, serpenti bianchi, folletti dal cognome religiosamente importante, talentuosi omoni nordici dal microfono facile e porte astrali, che si aprono su un mondo dove le sei corde squarciano il cielo, con solos che sono tuoni e fulmini nel tramonto, oscure e drammatiche trame dal flavour epico che a suo tempo fecero storia e chorus che sprizzano orgoglio metallico.
Un album più diretto rispetto al debutto, un mastodontico pezzo di granito hard & heavy che risveglia gli appetiti dei fans legati alla tradizione con una serie di brani pesanti, colmi di epica tragicità e che regala nel suo insieme tanta buona musica, anche se la title track, posta in apertura e perfetto ed esplosivo brano alla Lande che ci invita all’ascolto dell’album, il nuovo singolo e video Everytime Everywhere, con Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle, Vanexa, Odissea, Athlantis) in veste di ospite, l’accoppiata Leap In The Dark/Let Me Out, e lo spettacolare mid tempo Queen Of The World sono i pezzi pregiati che troverete in questo ennesimo scrigno da aprire senza indugi per coglierne i tesori.
Una perfetta simbiosi tra i maestri (Rainbow, Dio, Whitesnake) e i loro eredi (Lande, Astral Doors), questo è Running Out Of Time, secondo imperdibile album dei Ruxt.

Tracklist
1.Running out of Time
2.Legacy
3.In the Name of Freedom
4.Everytime Everywhere
5.Scars
6.Leap in the Dark
7.Let me Out
8.My Star
9.Queen of the World
10.Heaven or Hell

Line-up
Matt Bernardi – Vocals
Stefano Galleano – Guitars
Andrea Raffaele – Guitars
Steve Vawamas – Bass
Alessio Spallarossa- Drums

RUXT – Facebook

Fozzy – Judas

Judas è un album ideato per sfondare sul mercato, non solo americano ovviamente; l’appeal non manca, così come le caratteristiche peculiari per fare dei Fozzy la rock band del momento: se ci riusciranno si vedrà con il tempo, ma c’è da scommetterci.

Tornano i Fozzy, la band del wrestler Chris Jericho e del chitarrista dei metal rappers Stuck Mojo con il nuovo album Judas, licenziato dalla Century Media.

Chi l’avrebbe mai detto, all’alba del nuovo millennio e all’uscita del primo album omonimo che la band capitanata da Jericho sarebbe arrivata a quasi vent’anni di attività e vicino alla doppia cifra in quanto ad uscite discografiche; eppure il successo (dovuto anche all’attività del cantante/lottatore) è arrivato con un rock che ha sempre mostrato i suoi due volti (potenza e melodia) mantenendo un approccio ruffiano che negli States significa primi posti nelle classifiche, video in rotazione continua sui media, copertine dei magazines di settore e dischi venduti a vagonate.
Judas, a ben sentire, non si discosta da quello che il gruppo ha presentato ai propri fans in tutti questi anni: rock ad alto voltaggio, melodico e dal groove che esplode in chorus e riff scritti per accompagnare Jericho sul palco come sul ring, una buona dose di ispirazione che porta alla tradizione rock/metal americana (si parla di Kiss sulla presentazione dell’album, ma il sottoscritto opta per un Ozzy Osbourne vecchia maniera) e tanto moderno alternative metal, dagli Alter Bridge, agli Avenged Sevenfold.
Judas accende la miccia con la title track posta furbescamente in apertura e che risulta il sunto di questo lavoro; scorrendo poi la track list ci si imbatte in brani più potenti (Painless, Three Days In Jail), altri dal flavour moderno e che strizzano l’occhiolino all’elettronica (Burn Me Out) e le solite e più leccate song da sbancare classifiche.
L’album è ideato per sfondare sul mercato, non solo americano ovviamente; l’appeal non manca, così come le caratteristiche peculiari per fare dei Fozzy la rock band del momento: se ci riusciranno si vedrà con il tempo, ma c’è da scommetterci.

Tracklist
1. Judas
2. Drinkin With Jesus
3. Painless
4. Weight Of My World
5. Wordsworth Way
6. Burn Me Out
7. Three Days In Jail
8. Elevator
9. Running With The Bulls
10. Capsized
11. Wolves At Bay

Line-up
Chris Jericho – vocals
Rich Ward – guitars, vocals
Frank Fontsere – drums
Billy Grey – guitars
Paul DiLeo – bass

FOZZY – Facebook