Evoken – Atra Mors

La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.

Visto che, mentre scrivo questa recensione, ci troviamo in pieno periodo olimpico, mi è venuto spontaneo pensare che gli Evoken siano, assieme ai Mournful Congregation e agli Skepticism, i più autorevoli candidati a un ipotetico podio nella specialità del death-doom.

La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.
La capacità di immergere l’ascoltatore in atmosfere plumbee e soffocanti, senza risultare mai noiosi o ripetitivi, è privilegio di pochi eletti dei quali gli Evoken fanno parte a buon diritto.
Rispetto a quanto fatto lo scorso inverno con “The Book Of Kings” dai succitati australiani, i nostri accentuano, come da attitudine, la componente death, privilegiando un impatto maggiormente basato sui riff di chitarra pur non disdegnando passaggi acustici, per lo più racchiusi nei due brevi strumentali A Tenebrous Vision e Requies Aeterna.
Se le chitarre assumono un ruolo preponderante nel sound dei maestri statunitensi, le tastiere svolgono un sapiente lavoro di raccordo caratterizzando con rara efficacia i momenti di maggiore intensità e pathos.
Atra Mors viene inaugurato dalla title-track facendo capire sin dalle prime note che, nonostante nulla sia cambiato, il dolore continua a rinnovarsi in maniera costante alimentando in una catena senza fine i rimpianti, le disillusioni e la disperazione per un cammino che, giorno dopo giorno, si avvicina sempre più alla sua fine.
Questo terrificante viaggio nei recessi più profondi della psiche umana prosegue con la meraviglia rappresentata da Descent Into Chaotic Dream, il cui assolo di chitarra finale è poesia allo stato puro.
Grim Eloquence e An Extrinsic Divide proseguono con il loro lento incendere verso il momento del definitivo distacco, ma è con le atmosfere a volte dissonanti di The Unechoing Dread che le tenebre finiscono per avvolgerci impietosamente, con il magistrale growl di John Paradiso a infierire definitivamente sul nostro spirito già sufficientemente provato.
Into Aphotic Devastation conclude, passeggiando senza misericordia sui nostri miseri resti mortali, questo percorso lastricato di sofferenza al termine del quale provo a immaginare la domanda che formulerebbe spontaneamente chi non è avvezzo a questo tipo di musica: per quale motivo dovrei sopportare tutto questo ?
La risposta è che il death-doom non è solo una forma artistica caratterizzata da una rara integrità e aliena a qualsiasi tipo di compromessi: ascoltare opere del valore di Atra Mors ci ricorda in modo costante e senza remissione il carattere aleatorio della nostra esistenza, invitandoci così ad affrontarla quotidianamente con la giusta consapevolezza e il necessario disincanto, prima che tutto si concluda ineluttabilmente con l’approdo in “… a soundless realm, an unforgiving place where time seems endless …”
Un disco imperdibile.

Tracklist :
1. Atra Mors
2. Descent into Chaotic Dream
3. A Tenebrous Vision
4. Grim Eloquence
5. An Extrinsic Divide
6. Requies Aeterna
7. The Unechoing Dread
8. Into Aphotic Devastation

Line-up :
John Paradiso Guitar, Vocals
Chris Molinari Guitar
Nick Orlando Guitar
Dave Wagner Bass
Don Zaros Keyboards
Vince Verkay Drums

Doomed – The Ancient Path

Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.

Doomed è il progetto solista del musicista tedesco Pierre Laube, attivo anche come chitarrista e tastierista nei P.HA.I.L.

Come fa intendere la scelta (invero non troppo originale) del monicker, la musica contenuta in questo lavoro
è votata a un death-doom oscuro e privo di compromessi; rispetto ad altre uscite del genere The Ancient Path ha un carattere maggiormente chitarristico mentre la tastiera assume prevalentemente un ruolo di accompagnamento.
L’opener Sun Eater è esemplificativa dell’intento, da parte di Pierre, di colpire prevalentemente l’ascoltatore con l’impatto di riff granitici piuttosto che con atmosfere malinconiche; chiaramente se l’effetto è notevole nel suo insieme è anche vero che questa scelta stilistica, alla lunga, può rivelarsi controproducente.
Per ovviare a questo possibile inconveniente il musicista tedesco alterna brani nei quali prevale la componente death ad altri dal mood leggermente più atmosferico e dai rallentamenti ai confini con il funeral, come avviene per esempio in She’s Calling Me e parzialmente in Caesar’s Whore.
E’ evidente che la migliore dote di Pierre risiede nella linearità priva di fronzoli della sua proposta unita alla volontà di rifuggire da facili soluzioni melodiche; in tal modo il disco si mantiene di livello medio alto per tutta la sua durata, con la perla, come è giusto che sia, posta in chiusura.
My Love Is Dead, infatti, smussa certe spigolosità presenti negli episodi precedenti lasciando fluire finalmente la tensione emotiva accumulata fino a quel momento: ciò che ne scaturisce è un brano che amalgama alla perfezione pathos e impatto sonoro.
Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.
Un progetto come Doomed merita d’essere supportato da una label ed essendocene molte sparse in tutta Europa che hanno già dimostrato coraggio e lungimiranza, questa è una ghiotta occasione per arricchire qualitativamente il proprio roster.

Tracklist:
1. Sun Eater
2. Collapsing Guts
3. She’s Calling Me
4. Caesar’s Whore
5. Death Is No Respecter
6. My Love Is Dead

Line-up:
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

Inborn Suffering – Regression To Nothingness

Il gruppo francese, tra gli altri pregi, possiede la capacità di attingere, come è normale che sia, ai grandi del passato senza assomigliare a qualcuno in particolare

I parigini Inborn Suffering si presentano all’appuntamento con il secondo full-length a distanza di sei anni dal promettente “Wordless Hope”; la band di ragazzi di belle speranze, che mostrava sprazzi di qualità in un contesto death-doom fatto ancora di qualche ingenuità e una cifra stilistica personale da trovare, è maturata definitivamente ripresentandosi sulla scena con un lavoro splendido come questo Regression To Nothingness.

La dote principale dei transalpini è la capacità di evocare sensazioni morbosamente decadenti grazie a una notevole perizia tecnica e alla carica interpretativa del vocalist Laurent, il quale, tra growl, parti recitate e urla strazianti riesce a trasmettere alla perfezione il senso di angoscia che pervade ogni brano di quest’album.
L’unico appunto che si può fare agli Inborn Suffering è quello d’aver prodotto un disco dalla durata forse eccessiva; infatti, sia Another World che la title-track sono episodi buoni ma non all’altezza dei precedenti, mentre Self Contempt Kings chiude comunque alla grande l’album riportandolo alle vette qualitative alle quali avevamo fatto l’orecchio nella sua prima parte.
Slumber Asylum inaugura l’abum, facendo presagire il crescendo che caratterizzerà il poker di brani iniziali di Regression …, passando per la splendida Born Guilty per arrivare alle maestose Grey Eden e Apotheosis (mai titolo fu più azzeccato), tracce nelle quali la chitarra disegna melodie di rara ispirazione e la band raggiunge le proprie vette compositive.
Il gruppo francese, tra gli altri pregi, possiede la capacità di attingere, come è normale che sia, ai grandi del passato senza assomigliare a qualcuno in particolare; se l’influenza che si nota maggiormente è forse quella dei Swallow The Sun, ciò resta comunque circoscritto più all’attitudine melodica che non allo sviluppo vero e proprio delle composizioni.
Regression To Nothingness è l’ennesimo bersaglio centrato dalla Solitude nonché l’ulteriore regalo di questo 20102 agli estimatori di un genere, magari snobbato, ma capace di produrre in maniera continua realtà di valore assoluto come gli Inborn Suffering.

Tracklist :
1. Slumber Asylum
2. Born Guilty
3. Grey Eden
4. Apotheosis
5. Another World
6. Regression to Nothingness
7. Self Contempt Kings

Line-up :
Remi Depernet – Bass
Thomas Rugolino – Drums
Sebastien Pierre – Keyboards
Stéphane Peudupin – Lead Guitars
Laurent Chaulet – Rhythm Guitars, Vocals

Woccon – The Wither Fields

“The Wither Fields” si rivela un prodotto di elevata qualità che fa presagire un futuro interessante per la band della Georgia.

Qualche giorno fa, collegandomi a Facebook, ho trovato questo messaggio “… se ti piacciono Daylight Dies e Swallow The Sun, prova ad ascoltare questo…”.

Per uno come me questi due gruppi costituiscono un’esca formidabile, pertanto ho cliccato il link senza esitare neppure per un attimo: il risultato è stata la scoperta degli interessantissimi Woccon.
Il monicker, piuttosto particolare, fa riferimento a una piccola tribù indiana del North Carolina, anche se la band è originaria della Georgia, per la precisione di Athens, città che annovera tra i suoi figli più illustri un’icona del rock come i R.E.M.
Ovviamente i nostri musicalmente hanno poco o nulla a che vedere con i famosi concittadini, dato che la loro proposta, come si può facilmente intuire dai nomi ai quali fanno riferimento, è fatta di un elegante e melodico death-doom.
La band capitanata dal chitarrista e cantante Tim Rowland, con The Wither Fields arriva al secondo Ep, dopo l’esordio dello scorso anno intitolato “Through Ancestral Fires”, dimostrando d’aver acquisito già una notevole maturità compositiva; l’ascolto dei quattro brani contenuti nel lavoro scorre davvero in maniera piacevole e lascia qualche rimpianto solo per la durata limitata.
Nell’esame “track by track” per una volta parto dalla coda, ovvero da A Falling Devotion perché si tratta dell’unico episodio per il quale mi sento di muovere una piccola critica ai ragazzi statunitensi: non tanto per il valore del brano in sé, che è assolutamente all’altezza, bensì per essere caduti anch’essi nella tentazione di avvalersi di una voce femminile.
Attenzione, la brava Lili svolge benissimo il proprio lavoro, ma nel genere proposto dai Woccon questa soluzione appare un po’ forzata: infatti il brano, quando Tim esibisce il suo ottimo growl, sprigiona una tensione emotiva che finisce fatalmente per scemare nel momento in cui il sound si deve predisporre per accogliere una voce dall’impostazione totalmente diversa.
Le altre tre tracce ci presentano però una band dalle idee piuttosto chiare, protesa a una forma di death-doom dai tratti meno catacombali rispetto alla media e che si potrebbe descrivere come un riuscito mix tra i Swallow The Sun e i nostri Valkiria; in particolare Lament, che costituisce la vetta artistica dell’album, non avrebbe sfigurato affatto all’interno di un disco del valore di “Here Comes The Day”, soprattutto per un lavoro chitarristico che ricorda da vicino quello di Valkus e Mike.
La strada intrapresa dai Woccon sembra proprio essere quella giusta: The Wither Fields si rivela un prodotto di elevata qualità che fa presagire un futuro interessante per la band della Georgia.
Gli obiettivi per il futuro devono essere fondamentalmente due: il primo è quello di personalizzare ulteriormente il sound, per evitare qualche similitudine di troppo con tutte le band citate come fonte di ispirazione, mentre il secondo è trovare un’etichetta lungimirante che si faccia catturare dal contenuto di questo Ep.
Quindi, label di tutto il mondo, fatevi avanti !

Tracklist :
1. Our Ashes
2. Shattered Mirrors
3. Lament
4. A Falling Devotion

Line-up :
Tim Rowland – Guitar, Vocals
Tiler Kuykendall – Guitar
Wade Jones – Drums
Sam Dunn – Bass

Malasangre – Lux Deerit Soli

“Lux Deerit Soli” è un’esperienza sonora che chiunque ami immergersi in atmosfere oscure e pervase da autentica sofferenza deve affrontare senza indugi.

Un bel viaggio agli inferi senza biglietto di ritorno è forse ciò che davvero ci serve per esorcizzare una realtà paradossalmente ancora più cupa di quella dipinta dai Malasangre, ma che continuiamo bellamente a ignorare “facendo finta di essere sani”

Lux Deerit Soli non cerca di indorarci la pillola nemmeno per un attimo, con la sua miscela soffocante di funeral e drone alla quale un cantato di chiara matrice black fornisce un ulteriore elemento letale.
L’incedere lento, quasi esasperante delle due pachidermiche tracce Sa Ta e Na Ma, entrambe dalla durata superiore alla mezz’ora, sono un autentica prova di resistenza per chiunque tenti di approcciarle ma, quando si giunge al termine dell’ascolto, la soddisfazione che si prova è direttamente proporzionale all’impegno profuso.
Descrivere in maniera organica un monolite sonoro di tale portata è un esercizio complesso: come termine di paragone può rivelarsi utile una comparazione con il recente “Munus Solitudinis” dei Krief de Soli, che al confronto, in certi frangenti, potrebbe apparire quasi “orecchiabile”…
I Malasangre, infatti, scarnificano fino all’osso la materia funeral e, scientemente, evitano di ricorrere ai lugubri intermezzi tastieristici, che spesso altre band utilizzano per dare un minimo di respiro alle proprie composizioni, ottenendo così un effetto magmatico e annichilente allo stesso tempo.
La band italiana ritorna con questo terzo full-length a ben sette anni di distanza dal precedente, offrendoci un lavoro dall’enorme valore oltre che un raro esempio d’integrità artistica e, perché no, di coraggio nel proporre una musica che, inevitabilmente, sarà sempre e comunque appannaggio di un limitato numero di persone dotate di particolare sensibilità.
Lux Deerit Soli è un’esperienza sonora che chiunque ami immergersi in atmosfere oscure e pervase da autentica sofferenza deve affrontare senza indugi.

Track-list :
1. Sa Ta
2. Na Ma

Line-up :
NC-9.5 – Bass
FH-37 – Drums, Samples
TK-7.8 – Guitars
VP-33 – Guitars, Samples
EM-00 – Vocals

Abske Fides – Abske Fides

E’ possibile che gli Abske Fides siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito.

Gli Abske Fides dopo una serie di interessanti Ep e una storia alle spalle già abbastanza lunga, arrivano all’esordio su lunga distanza con questo album autointitolato sotto l’egida delle sempre attiva Solitude.

Il lavoro in oggetto rappresenta un’ulteriore evoluzione del combo brasiliano che, dal black metal degli esordi, è passato successivamente a una forma di cavernoso funeral doom per giungere oggi a un particolare connubio tra doom e post-metal.
L’operazione riesce anche se non al 100%: infatti, se la proposta musicale è davvero valida nella sua alternanza tra parti cupe, con riff convincenti e vocals aggressive, e momenti più rarefatti con venature psichedeliche, alcune piccole imperfezioni esecutive e clean vocals non sempre all’altezza della situazione ne inficiano in parte la resa finale.
Ma, nonostante ciò, la band paulista dimostra d’avere numeri di prim’ordine, specialmente in brani intensi ed emozionanti come Won’t You Come e 4.48, o come in The Coldness of Progress, dove emergono inattese influenze opethiane.
L’album necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato in maniera ottimale, ma questo sforzo viene ripagato da una qualità compositiva comunque meritevole d’attenzione.
E’ possibile che gli Abske Fides, dopo le già menzionate sterzate stilistiche, siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito; questo full-length si colloca in ogni caso ben al di là della sufficienza e potrebbe trovare diversi estimatori tra gli appassionati di sonorità meno convenzionali.

Tracklist:
1. The Consequence of the Other
2. Won’t You Come
3. The Coldness of Progress
4. Aesthetic Hallucination of Reality
5. 4.48
6. Embroided in Reflections

Line-up:
K. – Drums, Bass, Vocals
Nihil – Guitars
Necrophelinthron – Guitars, Keyboards, Violin, Vocals

Ankhagram – Thoughts

Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Avevamo lasciato Ankhagram nel 2010 alle prese con “Where Are You Now”, un buonissimo lavoro impregnato di death-doom atmosferico, che lasciava presagire interessanti sviluppi per il futuro.

Nonostante l’ancora giovane età di Dead, questo il nickname del musicista russo che è unico depositario del progetto, Thoughts è il quinto full-length pubblicato in sei anni: un intervallo di tempo già importante nel corso del quale il sound si è progressivamente evoluto, guadagnando in personalità e maturità rispetto ai primi album caratterizzati da apprezzabili slanci creativi alternati a evidenti ingenuità.
Ankhagram nel 2012 significa funeral-doom dall’accentuata componente ambient, un mix sonoro che scongiura la segregazione negli antri rumoristici del drone a vantaggio di un’indole melodica che solo di rado viene screziata dal growl di Dead.
L’opener Gates In Mind, pur essendo il brano di gran lunga più breve del lotto, risulta già indicativa dell’indirizzo stilistico dell’album, con il delicato giro di pianoforte che ci accompagna dall’inizio alla fine senza risultare, nonostante ciò, prolisso o stucchevole.
Ben più impegnativo si rivela l’ascolto di Don’t Feel This Life che ci riporta in territori funeral, sulla falsariga di Ea e Comatose Vigil, tanto per restare all’interno dell’ex-impero sovietico; i diciotto minuti di sviluppo della traccia sono pervasi, piuttosto che dalla disperazione o dal cupo nichilismo di altre uscite nello steso ambito, da un soffuso senso di malinconia che si rivela una caratteristica costante di Thoughts.
Lost In Reality è un altro bell’episodio di stampo ambient nel quale il costante sottofondo rappresentato dallo sferragliare di un treno non può che rappresentare metaforicamente lo scorrere del tempo, mentre I’m A Fake e Without Us ripropongono il funeral di stampo atmosferico che, come abbiamo visto, è nelle corde di Dead.
La title-track chiude degnamente l’album dopo quasi settantacinque minuti di ottima musica riportando alla ribalta il volto ambient della one-man band russa.
Proprio perché la componente ambientale è accompagnata da un deciso tratto melodico, l’ascolto dell’album si rivela tutt’altro che faticoso, ovviamente rapportando il tutto al genere proposto; personalmente non mi sento di muovere alcuna critica al musicista di Ekaterinburg, anzi, ritengo che Thoughts ne rappresenti il raggiungimento della definitiva maturità artistica.
Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Tracklist :
1. Gates in Mind
2. Don’t Feel this Life
3. Lost in Reality
4. I’m a Fake
5. Without Us
6. Thoughts

Line-up :
Dead – All instruments, Vocals

DWDY – Destroy Me

Benché la band dia la sensazione di trovarsi ancora nella fase “work in progress”, offre davvero alcuni spunti geniali che inducono a promuovere i DWDY incoraggiandoli a proseguire sulla strada appena intrapresa.

I DWDY sono un duo francese che esordisce con questo demo intitolato Destroy Me, lavoro che fin dalle premesse, costituite dalle note introduttive inviate dalla Altsphere, non lascia indifferenti.

Infatti i transalpini si autodefiniscono, in sintesi, come l’incontro di due amanti della musica e del cinema stanchi di forme artistiche precostituite; pertanto il loro scopo è quello di guidare l’ascoltatore attraverso un caleidoscopio di emozioni volto ad abbattere le barriere costituite dai generi.
Molte volte abbiamo ascoltato dichiarazioni d’intenti quantomeno ambiziose, rivelatesi poi, alla prova dei fatti, ben poca cosa: i DWDY riescono invece, se non del tutto, almeno in buona parte a raggiungere i loro scopi.
Come si può ben immaginare i due (dei quali si sa poco o nulla) fanno confluire in Destroy Me, costituito da un’unica traccia della durata di venti muniti, tutte le influenze musicali possibili, costruendo il brano effettivamente come una mini colonna sonora integrata da samples cinematografici e parti recitate (presumo dagli stessi musicisti).
Presentato così, questo demo potrebbe far pensare a un caotico calderone sonoro, mentre al contrario l’operazione viene portata a termine con un certo buon gusto e con l’opportuno raziocinio.
Mettendomi alla ricerca di un termine di paragone calzante per descrivere la musica dei DWDY, provate a immaginare un audace mix tra i Devil Doll, scremati della componente sinfonica, e i connazionali Misanthrope, in particolare nelle parti maggiormente orientate al metal; attenzione, la strada per raggiungere i livelli del progetto partorito dal genio di Mr.Doctor o della stessa band di Phillipe Courtois è ancora molto lunga e tortuosa, ma il mood di stampo cinematografico, da una parte, e il desiderio di sperimentare percorsi musicali non convenzionali, dall’altra, sono molto simili.
Come nelle magnifiche suite del maestro italo-sloveno, anche qui troviamo un bel tema portante che ricorre più volte nel corso del brano, così come sono frequenti accelerazioni repentine quanto azzeccate; a livello strumentale c’è sicuramente qualcosa da limare, soprattutto per quanto concerne le parti di chitarra solista, inoltre non sempre le diverse anime musicali si amalgamano alla perfezione.
Personalmente apprezzo molto di più i momenti nei quali i DWDY schiacciano sul pedale dell’acceleratore creando riff rocciosi e di grande spessore, mentre nei frangenti più riflessivi la composizione tende talvolta a indulgere in passaggi di scarsa incisività.
Detto questo, Destroy Me regala diversi momenti interessanti, alternando efficacemente emotività e aggressività e, benché la band dia la sensazione di trovarsi ancora nella fase “work in progress”, offre davvero alcuni spunti geniali che inducono a promuovere i DWDY incoraggiandoli a proseguire sulla strada appena intrapresa.

Track-list :
1. Destroy Me

Falling Leaves – Mournful Cry Of A Dying Sun

E’ sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi

I Falling Leaves arrivano dalla Giordania e, indubbiamente, nonostante il paese mediorientale abbia già regalato alla scena metal una grande band come i Bilocate, costituisce sempre e comunque una piacevole novità poter ascoltare metal proveniente da paesi tradizionalmente e culturalmente lontani da questo tipo di sonorità.

Immagino che per i nostri non sia semplicissimo proporre in patria il loro raffinato gothic-doom (chi dalle nostre parti si lamenta provi a consolarsi pensando che c’è sempre chi sta peggio), ma è evidente che ciò non li ha affatto scoraggiati a giudicare dalla riuscita dell’album e, soprattutto, leggendo i prestigiosi nomi della scena che si sono mossi per contribuire alla realizzazione di Mournful Cry Of A Dying Sun.
Diciamo subito che gli ospiti di grido, da soli, non sono mai garanzia di qualità, ma i Falling Leaves dimostrano, nel corso del lavoro, di poter tranquillamente camminare con le proprie gambe.
Risulta infatti sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi, in particolare per la capacità di produrre atmosfere malinconicamente crepuscolari e ammantate di una morbosa eleganza.
Altro ragguaglio fondamentale per chi vorrà ascoltare il disco è la totale assenza di qualsiasi rimando alla tradizione musicale araba, a differenza di quanto fatto dai già citati Bilocate: il gothic-doom della band di Zarqa è quanto di più ortodossamente fedele alla tradizione europea si possa immaginare.
Si diceva degli ospiti: il primo a entrare in scena è Josep Brunet degli spagnoli Helevorn, che presta il suo efficace growl all’opener Reaching My Last Haven, brano che non lascia molto spazio all’ottimismo con le sue atmosfere drammatiche che accompagnano un battito cardiaco nel suo lento spegnersi.
In Blight tocca a Pim Blankenstein degli Officium Triste fornire il proprio contributo vocale a una traccia molto evocativa, mentre in Trapped Within si erge a protagonista il violino, cosa che, ovviamente non può che riportare ai capiscuola My Dying Bride.
Silence Again (Silence Pt. II), sequel del brano presente nel demo del 2010, accentua ancor più questa vicinanza ai maestri albionici, collocandosi sulla scia di quella perla di decadenza gotica che fu “For My Fallen Angel”.
Ma è con Vanished Serenity che i Falling Leaves raggiungono, a mio avviso, l’apice del disco: il brano inizia con una meravigliosa melodia di chitarra che introduce il growl del mitico Paul Kuhr (Novembers Doom); il gigantesco (sia per statura artistica che fisica) musicista americano si impadronisce letteralmente del brano regalando anche clean vocals e un recitato da brividi (no sun, no light, no hope…).
Anche quando i sei ragazzi si mettono completamente in proprio (coadiuvati solo dal prezioso violino del musicista norvegese Pete Johansen), come accade negli ultimi due brani, il livello si mantiene assolutamente inalterato e Celestial, in particolare, mette in mostra le ottime doti vocali di Abdul-Aziz oltre alle pennellate chitarristiche di Ala’a e Anas.
I quarantasette muniti del disco volano via senza momenti di noia; se vogliamo trovare il classico pelo nell’uovo (molto sottile in questo caso) non si può fare a meno di notare che, se gli ospiti, con la loro presenza, forniscono una sorta di imprimatur alla band, dall’altra spingono istintivamente la scrittura dei brani che li coinvolgono verso territori più affini ai gruppi di appartenenza.
Ma questi sono aspetti del tutto marginali quando, come nel caso di Mournful Cry Of A Dying Sun, ciò che ne scaturisce è l’ennesima perla di gothic-doom regalataci da questo ricco (purtroppo solo musicalmente parlando …) 2012.

Tracklist :
1. Reaching My Last Haven
2. Blight
3. Trapped Within
4. Silence Again (Silence Pt. II)
5. Vanished Serenity
6. Memories Will Never Fade
7. Celestial
8. Dying Sun (Outro)

Line-up :
Ala’a Swalha – Guitars
Anas Safa – Guitars
Abdul-Aziz – Assaf Vocals
Rami Mazahreh – Drums
Saif Al-Swalha – Bass
Husam Haddad – Keyboards

Graveflower – Return To The Primary Source

Chiudete gli occhi e lasciatevi cullare dalle note dolenti di My Turn, brano che dopo un intro acustica lascia spazio alle struggenti clean vocals di Aaron Stainthorpe … ; poi riapriteli e passate direttamente alle note informative relative alla band e scoprirete che il cantante in realtà risponde al nome di Vladimir Semenischev e che, come i musicisti che lo accompagnano, non proviene dalle brumose lande albioniche ma dalla ben più lontana Ekaterinburg (Russia).

Questo tipo di introduzione serve a far capire quanto il disco dei Graveflower sia debitore nei confronti del sound che i My Dying Bride hanno contribuito a creare nella prima metà degli anni ’90 e, a conti fatti, tutto questo finisce per costituirne sia il maggiore pregio sia il principale difetto.
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la band russa riesca a riportare in vita in maniera efficace e appropriata le sonorità che hanno contraddistinto pietre miliari del doom/death come “Turn Loose The Swans” o “The Angel And The Dark River” ma, d’altra parte, l’adesione al modello originario in certi frangenti è talmente fedele da sfiorare il plagio.
Pertanto riesce difficile fornire un giudizio obiettivo e soprattutto slegato da quanto appena osservato: chi, come il sottoscritto, ama in maniera incondizionata questo genere musicale, non può evitare di farsi coinvolgere dalla bravura di Vladimir e soci nel comporre brani al rallentatore, dal mood romantico e decadente, e l’ascolto ripetuto di questo lavoro trasmette sensazioni in gran parte positive. Detto questo, e ribadito che il doom, per sua natura, non si presta a troppe divagazioni o commistioni stilistiche, è innegabile che dai Graveflower per il futuro ci si attende quanto meno uno scostamento più deciso dai canoni espressivi che la band dello Yorkshire ha dettato due decenni or sono.
Alla fine il verdetto per la band russa è di assoluzione, sia pure con tutte le riserve già esposte, con le seguenti motivazioni : 1) Return To The Primary Source, se spogliato di ogni ingombrante termine di paragone, è un bel disco, considerando tra l’altro che si tratta del passo d’esordio. 2) Se i My Dying Bride decidessero un giorno di tornare alle sonorità e all’intensità emotiva degli esordi, immagino che la cosa sarebbe accolta con favore dalla maggior parte dei fans, quindi il fatto che qualcun’altro li abbia in qualche modo anticipati non mi pare così deprecabile ….

Tracklist :
1. White Noise
2. My Turn
3. Rain in Inferno
4. Just a Moment
5. Falling Leaves
6. Autumn Within
7. Rain Without End

Line-up :
Danil Aleshin – Drums
Dimitry Solodovnikov – Guitars
Andrey Pilipishin – Guitars
Vladimir Semenischev – Vocals, Bass

Nethermost – Alpha

Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative

Interessante Ep di esordio per questa band con base a Laredo (Texas), composta da John Johnston alla voce e da Cynthia e Waldo Rocha a occuparsi di tutti gli strumenti.

Alpha si compone di quattro brani nei quali viene esibito un gothic-doom influenzato dai Paradise Lost e dai primi Katatonia ; i Nethermost sono autori di una proposta molto lineare e priva di fronzoli e proprio per questo, ancora più apprezzabile.
Intanto, nonostante una presenza femminile nella line-up, viene smentito subito il clichè che in questi casi prevede la scontata dicotomia tra growl e voci angeliche, con il solo John a occuparsi delle parti vocali, mentre Cynthia con la sua chitarra tratteggia melodie malinconiche ma supportate da una base ritmica piuttosto vivace.
Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative; assodato che un brano come Tower Of The Winds è un autentico gioiello, il trio dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di diversificare maggiormente la proposta.
Infatti, l’unica critica che si può rivolgere a un lavoro come Alpha è la sua eccessiva uniformità: le quattro tracce suonano in maniera piuttosto simile tra di loro e impostate su un classico mid-tempo, caratteristiche queste che, se non costituiscono un problema su una durata inferiore ai venti minuti, potrebbero rivelarsi controproducenti nel momento in cui i Nethermost dovessero decidere di cimentarsi sulla lunga distanza.
Comunque per ora molto bene così; considerando che l’Ep è autoprodotto, una label che volesse farsi avanti potrebbe ricavare notevoli soddisfazioni da questa band.

Tracklist :
1. Phasing Currents
2. The Untroubled Kingdom of Reason
3. Tower of the Winds
4. Dance of Burning Beasts

Line-up :
Cinthya Rocha – Lead Guitars
Waldo Rocha – Rhythm Guitars, Programming
John Johnston – Vocals

Bretus – In Onirica

Quest’album possiede secondo me, tra gli altri pregi, quello di essere appetibile anche per un pubblico non di “settore”, intendendo con questo che, anche chi non fosse avvezzo alle tipiche sonorità del doom, potrà apprezzare compiutamente la grande musica racchiusa all’interno di “In Onirica”.

Giuntomi dopo un’audace quanto improbabile, fino a qualche anno fa, triangolazione Catanzaro – Donetsk – Genova, il cd dei Bretus si rivela di valore direttamente proporzionale al numero dei chilometri (reali e virtuali) percorsi.

L’esordio su lunga distanza della stoner band calabrese è l’ennesima gemma preziosa che si va ad aggiungere alla già cospicua collezione di cui si fa vanto la scena italiana in questo 2012 smentendo, almeno dal punto di vista strettamente musicale, chi da tempo ne recita il “de profundis”…
In Onirica inizia con una serie di ululati che introducono Insomnia, brano che nella sua alternanza tra doom classico e momenti più psichedelici delinea quello che sarà il tema che ci accompagnerà lungo l’intera durata dell’album: pezzi mediamente lunghi ma non prolissi, ritmi cadenzati ma non pachidermici, riff pesanti ma non monolitici, con tutti i musicisti sempre in bella evidenza e naturalmente predisposti a variazioni di tempo e di atmosfere perfettamente amalgamate al contesto.
The Dawn Breeds e Down in The Hollow si mantengono al livello qualitativo dell’opener, mentre Leaves Of Grass è un piacevole intermezzo psichedelico strumentale.
Il riffone che apre Escape ci ricorda prepotentemente che ci si muove comunque in territori doom, per quanto le sonorità care a Saint Vitus e Candlemass siano costantemente arricchite da venature psichedeliche e prog; Forest Of Pain è un ulteriore traccia di estremo valore, dall’incipit che sfiora il blues per poi dipanarsi in passaggi più rocciosi e di rara intensità.
Tutto questo basterebbe e avanzerebbe per definire In Onirica un album del tutto riuscito, ma l’autentico valore aggiunto arriva con il brano di chiusura, lo strumentale The Black Sleep, otto minuti di delirio dark-psichedelico, graziati dal prezioso contributo dell’hammond a cura dell’ospite Gabriel Gigliucci.
Un consiglio, forse superfluo, che mi sento di fornire, è quello di gustare l’album nella sua interezza, cosa tutt’altro che complessa visto che il quartetto ha contenuto la durata complessiva entro i quaranta minuti. Zagarus con la sua voce evocativa e perfetta per il genere, Ghenes e Faunus sempre incisivi alle quattro e sei corde, coadiuvati dal fondatore della band Neurot, qui in veste di ospite, e Sest con il suo efficace lavoro percussivo, compongono una squadra vincente nella quale il collettivo spicca molto più delle comunque notevoli doti dei singoli.
Quest’album possiede secondo me, tra gli altri pregi, quello di essere appetibile anche per un pubblico non di “settore”, intendendo con questo che, anche chi non fosse avvezzo alle tipiche sonorità del doom, potrà apprezzare compiutamente la grande musica racchiusa all’interno di In Onirica.

Tracklist:
1. Insomnia
2. The Dawn Bleeds
3. Down in the Hollow
4. Leaves of Grass
5. Escape
6. Forest of Pain
7. The Black Sleep

Line-up :
Zagarus – Vocals
Ghenes – Bass, Guitars
Faunus – Guitars
Sest – Drums

Darkend – Grand Guignol–Book I

Ci troviamo davanti a un disco dalla qualità inusuale che, nonostante una durata superiore all’ora, è del tutto privo di momenti morti o di tracce semplicemente interlocutorie.

Premessa: un disco come questo dovrebbe raccogliere consensi unanimi ma non è difficile presagire che qualcuno possa trovarlo eccessivamente derivativo; in effetti, se da una parte non si può negare che i Dark End traggano abbondante ispirazione dalle migliori produzioni dei maestri del genere quali Dimmu Borgir o Cradle Of Filth, dall’altra è innegabile che il black metal sinfonico proposto dal gruppo reggiano riesca ad annientare l’insieme delle uscite plastificate e ricche di forma, quanto prive di sostanza, sfornate nell’ultimo decennio non solo dai numerosi epigoni, ma anche dalle stesse band appena citate.

I nostri giungono così al terzo full-length in sei anni e, nonostante il buon valore che accomunava le precedenti uscite, la loro popolarità è sempre rimasta confinata a livello underground; Grand Guignol – Book I potrebbe e dovrebbe risultare decisivo per cambiare questo stato di cose.
Nonostante sia stato pubblicato senza il supporto di un’etichetta vera e propria, questo lavoro è stato curato dai suoi autori fin nei minimi dettagli, ivi compresi il lato grafico e quello lirico: citando la band, il disco “è la prima parte di un complesso concept filosofico riguardante le comuni radici di occultismo, spiritualismo, martirio e rituali di magia bianca e nera”
Non ritenendomi sufficientemente preparato ad affrontare in maniera approfondita tali tematiche, mi astengo dal fare del mero copia-incolla e mi limito a osservare che testi così impegnativi, pur se di non facile interpretazione, costituiscono qualcosa in più di un semplice valore aggiunto all’aspetto che più ci interessa, cioè quello musicale.
In questo senso ci troviamo davanti a un disco dalla qualità inusuale che, nonostante una durata superiore all’ora, è del tutto privo di momenti morti o di tracce semplicemente interlocutorie. Ogni brano vive di luce propria in una pirotecnica alternanza di atmosfere, ora di stampo sinfonico, ora ritmate e aggressive, in ogni caso accomunate da un gusto melodico fuori dal comune e da un contributo vocale e strumentale privo di sbavature.
A differenza di quanto accade nella stragrande maggioranza dei casi in uscite di stampo analogo, le tastiere non finiscono per saturare il disco con la loro onnipresenza, ma si rivelano una componente perfettamente amalgamata al resto della strumentazione.
Come ho già avuto occasione di affermare in altri frangenti, partendo dall’assunto che resta ben poco da inventare in ambito musicale, un’opera come quella dei Dark End colpisce per freschezza, creatività e perizia compositiva e chi la snobberà considerandola alla stregua di una stantia operazione di riciclo commetterà un grave errore di valutazione.
Quindi non si vede perchè, chi nelle nostre lande contribuisce ancora oggi a decretare il successo degli ormai inoffensivi Dimmu Borgir o degli altalenanti Cradle Of Filth, non debba concedersi la possibilità di volgere lo sguardo nei pressi per ascoltare del black sinfonico suonato con tutti i crismi e ancora in grado, nonostante tutto, di stupire.

Tracklist :
1. Descent/Ascent (II Movement)
2. Æinsoph: Flashforward to Obscurity
3. Doom: And Then Death Scythed
4. Spiritism: The Transmigration Passage
5. Bereavement: A Multitude In Martyrized Flesh
6. Grief: Along Our Divine Pathway
7. Bleakness: Of Secrecy, Haste and Shattered Crystals
8. Pest: Fierce Massive Slaying Grandeur
9. Decrepitude: One Last Laugh Beside Your Agonies
10. Dawn: Black Sun Rises

Line-up :
Valentz – Drums
Antarktica – Keyboards
Animæ – Vocals
Specter – Bass
Ashes – Guitars
Nothingness – Guitars

Krief De Soli – Munus Solitudinis

“Munus solitudinis” è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

I Krief De Soli tornano sulle scene con il secondo disco che segue, a due anni di distanza, l’interessante “Procul Este, Profani…” ; la one-man band canadese (Quebec), creatura del misterioso Egregoire De Sang, continua sulla strada già tracciata proponendo un funeral doom che estremizza in senso claustrofobico quanto già concepito in passato dai capiscuola del genere.

Per meglio chiarire le sonorità presenti in Munus Solitudinis, si potrebbe dire che questo lavoro, come già il suo predecessore, si pone come un’ideale evoluzione di quel monumento alla mestizia quale fu “Tides Of Awakening”, rimasto l’unico parto su lunga distanza dei Tyranny.
Evidentemente, pur non essendo il funeral certamente musica per tutti, questa sua particolare espressione si rivela, se possibile, ancora più ostica e di tormentata assimilazione; in gran parte dei suoi quasi settanta minuti, il disco si presenta come un inaccessibile monolite sonoro che, alla stregua di una processione di dannati, procede con lentezza esasperante verso una fine che pare non giungere mai.
Il growl di Egregoire è una sorta di rantolo che ben si addice alle atmosfere presenti nel lavoro, come si evince dalla prima traccia, che chiarisce subito gli intenti del nostro sia per il suo titolo, Nascentes Morimur, che per la sua durata superiore ai venti minuti.
Vita Memoriae – Exordium Sanctus è un breve (se rapportato al resto del disco) strumentale che rappresenta una pausa all’interno dell’ineluttabile cammino verso il nulla.
Ma è con Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae che il musicista canadese raggiunge il suo apice compositivo: partendo dalle medesime atmosfere della traccia iniziale, il brano si apre progressivamente verso un barlume di luce, un’illusoria speranza descritta con uno stile meno apocalittico e molto vicino al malinconico incedere dei magnifici Ea; la chitarra tratteggia pochi ma toccanti accordi e il senso di soffocamento lascia finalmente spazio alla commozione per ciò che non è stato e, sopratutto, per ciò che mai sarà …
Deo Volente… Caelo Tegi riporta il disco alle atmosfere soffocanti che tornano così a raffigurare quelli che potrebbero essere gli estremi ansiti di vita (ammesso che una vita ci sia mai stata), mentre Sanguis Et Umbra Sumus è dolore puro portato a livelli parossistici tanto che, quando si giunge all’ultima nota, non si capisce se si tratti di una liberazione o se questa sorta di catarsi purificatrice, per compiersi, debba continuare all’infinito.
Munus Solitudinis è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

Tracklist :
1. Nascentes Morimur
2. Vita Memoriae – Exordium Sanctus
3. Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae
4. Deo Volente… Caelo Tegi
5. Sanguis Et Umbra Sumus

Line-up :
Egregoir de Sang

Ecnephias – Inferno

“Inferno” possiede tutto ciò che servirebbe per fare breccia anche in una parte di pubblico non di settore: tracce dallo straordinario impatto emotivo, contraddistinte da melodie evocative e inserite in un tessuto sonoro all’altezza di grandi nomi del metal mediterraneo

Anche se con colpevole ritardo è d’obbligo dedicare il giusto spazio a quella che, a mio modesto parere, è stata in assoluto una delle migliori uscite in ambito metal del 2011.

Gli Ecnephias, con un disco come Inferno, si cimentano nell’ardua impresa di incrinare il muro di indifferenza eretto dall’ambiente musicale nei confronti di tutto ciò che non risulta convenzionale o rassicurante; purtroppo, in un paese sempre più ostaggio delle cariatidi sanremesi e dei polli d’allevamento dei reality show, appare sempre più improbabile un’apertura di credito nei confronti di chi riesce a offrire prodotti di qualità spinto solo da un’etichetta indipendente, da qualche volonterosa webzine e dalle poche riviste specializzate. Certo, se Mancan e soci invece che a Potenza fossero nati a Oslo o a Helsinki, probabilmente questo lavoro veleggerebbe in buona posizione nelle classifiche di vendita di quei paesi e i pezzi trainanti passerebbero con la dovuta frequenza nei programmi radiofonici e televisivi; al contrario, nella nostra italietta musicale, ci si guarda bene dal fornire a brani penetranti e provocatori, come A Satana e Chiesa Nera, l’opportunità di scandalizzare i benpensanti tramite i consueti canali di comunicazione. Eppure Inferno possiede tutto ciò che servirebbe per fare breccia anche in una parte di pubblico non di settore: per esempio tracce dallo straordinario impatto emotivo, contraddistinte da melodie evocative e inserite in un tessuto sonoro all’altezza di grandi nomi del metal mediterraneo come Rotting Christ, Moonspell e Septic Flesh. In particolare, la band di Sakis funge anche da riferimento per quanto riguarda l’uso promiscuo della lingua madre e dell’inglese, cosa peraltro già sperimentata nel precedente “Ways Of Descention” ma che, in questo caso, avviene in maniera ancor più convinta e incisiva, vista la maestria con la quale vengono maneggiati i testi in italiano; ne è la riprova un brano come Chiesa Nera, inserito come bonus-track, che risulta molto più efficace del suo corrispondente anglofono In My Black Church. Gli Ecnephias non fanno occultismo di bassa lega, i loro testi spesso traggono spunto da monumenti della letteratura come Carducci o Blake, passando con disinvoltura da momenti caratterizzati da una sarcastica provocazione ad altri carichi di oscuro e tetro lirismo. Chi ama le band citate in precedenza, non può e non deve ignorare brani come A Satana (da vedere assolutamente il video), con il suo accattivante ritornello che ti ritrovi a canticchiare senza accorgertene (con tutte le possibili conseguenze del caso …), la trascinante Buried In The Dark Abyss, la magnifica Voices Of Dead Souls esaltata da un chorus intenso come pochi, l’evocativa Secret Ways, la poetica Lamia (dall’intensità emotiva vicina a un omonimo brano datato 1974 …) e l’eretica Chiesa Nera. Con un quadro complessivo di simile valore cosa impedisce, dunque, agli Ecnephias di raggiungere livelli di notorietà più consoni al loro valore? Di certo non viene richiesto un cambiamento né a Mancan né agli ottimi musicisti che lo affiancano nella band, semmai questo dovrebbe riguardare il contesto musicale e culturale in cui sono costretti, loro malgrado, a muoversi: sarà anche vero che “nemo propheta in patria est” ma gli Ecnephias possiedono sia la giusta attitudine sia il necessario talento per provare a sovvertire questa situazione.

Tracklist :
1. Naasseni
2. A Satana
3. A Stealthy Hand of an Occult Ghost
4. Buried in the Dark Abyss
5. Fiercer than any Fear
6. Voices of Dead Souls
7. Secret Ways
8. In my Black Church
9. Lamia
10. Chiesa Nera

Line-up :
Mancan – Vocals, Guitars, Programming
Sicarius Inferni – Keyboards
Demil – Drums
Nikko – Guitars

Process Of Guilt – Fæmin

Paradossalmente l’unico autentico problema dei Process Of Guilt è che, dopo un album di questa levatura, riuscire a fare meglio sarà pressoché impossibile : un cruccio che molte band vorrebbero avere …

Avevamo lasciato nel 2009 i Process Of Guilt alle prese con “Erosion”, lavoro nel quale erano state gettate le basi per una trasformazione del sound in qualcosa di diverso dal pur valido death-doom degli esordi.

Di fronte a un certo immobilismo stilistico, sia pure tutt’altro che sgradito, da parte della maggioranza delle band dedite al genere, l’evoluzione costante del gruppo portoghese appare ancora più strabiliante, alla luce del risultato che scaturisce da questo disco.
In Fæmin, infatti, la malinconia e la rassegnazione, che erano il tratto distintivo delle produzioni precedenti, sono accantonate per lasciare spazio alla rabbia e all’aggressività rappresentate da sonorità che, riportando al post-metal dei Neurosis, all’industrial claustrofobico dei Godflesh, ma anche ai primi lavori dei sottovalutati Disbelief, vengono esibite con una personalità sorprendente, pur senza abiurare l’attitudine monolitica del doom.
Il disagio esistenziale e il rifiuto di una realtà sempre più alienante, si manifestano tramite brani pachidermici, paragonabili a schiacciasassi che con il loro lento incedere travolgono tutto ciò che incontrano sul loro percorso, in maniera inarrestabile.
La voce di Hugo, parallelamente al sound della band, ha abbandonato il growl profondo che conoscevamo e si è trasfigurata in un ringhio, un urlo carico d’odio proveniente dagli abissi più reconditi della psiche umana; la piattaforma sonora su cui poggia è costituita da riff plumbei e ossessivi e da una base ritmica che martella in maniera pressoché incessante.
I brani presenti sono cinque, ma il fatto che siano collegati tra di loro rende, di fatto, Fæmin un corpo unico, un incubo sonoro che, per le nostre convenzioni spazio-temporali, dura solo quaranta minuti, ma che in realtà sembra non doversi arrestare mai; un’esperienza sonora che annichilisce per la sua intensità e che, per quanto ci si possa provare, le parole non riescono a descrivere in maniera esaustiva.
Paradossalmente l’unico autentico problema dei Process Of Guilt è che, dopo un album di questa levatura, riuscire a fare meglio sarà pressoché impossibile : un cruccio che molte band vorrebbero avere …

Tracklist :
1. Empire
2. Blindfold
3. Harvest
4. Cleanse
5. Fæmin

Line-up:
Custódio Rato – Bass
Gonçalo Correia – Drums
Nuno David – Guitars
Hugo Santos – Vocals, Guitars

PROCESS OF GUILT – Facebook

SaturninE – SaturninE

Le SaturninE hanno deciso di esplorare il lato oscuro dell’universo musicale e l’hanno fatto con la giusta attitudine unita a una certa dose di talento

Le SaturninE sono cinque ragazze italiane che, invece di inseguire improbabili sogni di fama e ricchezza in campo musicale mettendo in gioco la propria dignità nella melensaggine dei talent-show, hanno deciso, per fortuna, di sfogare la loro creatività formando una band sludge-doom; dico “per fortuna”, anche perché ciò che ne scaturisce è un lavoro davvero sorprendente per pathos e intensità, il tutto considerando inoltre che ci troviamo di fronte ad una autoproduzione.

Il sound prodotto è una miscela esplosiva di dark e doom metal e, pur attingendo ovviamente ai grandi nomi del passato, mostra costantemente una freschezza invidiabile riuscendo nell’impresa di non apparire eccessivamente derivativo.
Le chitarre erigono un roccioso muro sonoro senza disdegnare efficaci passaggi solistici, il supporto ritmico è puntuale, mentre la voce di Laura è il classico growl femminile, più abrasivo che profondo, forse perfettibile (come del resto l’intera resa strumentale) con l’ausilio di una migliore produzione, ma efficace in ogni passaggio.
Nella mezz’ora di musica proposta, i brani vivono spesso dell’alternanza tra parti rallentate e violente accelerazioni, aspetto che non fa mai venire meno la tensione emotiva all’interno di un lavoro nel quale spicca prepotentemente una traccia come Orgy Of Blood, che regala sette minuti abbondanti di cupe emozioni; degno di nota anche l’omaggio ai Bathory con la riuscita cover di Call From The Grave.
Le SaturninE hanno deciso di esplorare il lato oscuro dell’universo musicale e l’hanno fatto con la giusta attitudine unita a una certa dose di talento; possiamo solo augurare loro di trovare un’etichetta lungimirante che abbia voglia di puntare su una band dotata di un simile potenziale.

Tracklist :
1. Intro
2. Abyss
3. Death Reaper
4. Orgy Of Blood
5. Stench Of Decay
6. Call From The Grave
7. Outro

Line-up :
Jex – Bass
Angelica – Drums
Silvia – Guitars
Giulia – Guitars
Laura – Vocals

Valkiria – Here The Day Comes

Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come “Here The Day Comes”

Gli ultimi mesi ci stanno regalando diverse uscite davvero magnifiche provenienti dal versante più oscuro del metal; un piacere che aumenta in maniera esponenziale e che ci rende (finalmente) orgogliosi visto che alcune di queste sono ad opera di band italiane.

Infatti, dopo gli imperdibili lavori degli Ecnephias di Mancan (che in passato ha collaborato proprio con i Valkiria) e dei The Foreshadowing, tocca ora alla creatura di Valkus dare alle stampe un’autentica perla che riporta in vita il gothic-death doom nella sua essenza più pura, quando album come “The Silent Enigma”, “Dance Of December Souls” e “Turn Loose The Swans” dettavano i canoni stilistici di un genere capace di regalare emozioni come pochi altri.
Here The Day Comes è un concept, che, come si può evincere dal titolo dei brani, è incentrato sul racconto dei diversi momenti della giornata, visti come metafora dell’intera esistenza; il disco, che si avvale della preziosa collaborazione di Giuseppe Orlando alla batteria, si rivela fin dall’iniziale Dawn un commovente compendio di arte tetra e malinconica; Sunrise (da vedere lo splendido video) e Morning trasportano l’ascoltatore attraverso le loro atmosfere cupe e decadenti mentre, da Sunset in poi, il mood si fa ancor più fosco e opprimente in ossequio al calare delle tenebre.
Questa è la tipica opera che richiede un ascolto integrale per favorire una migliore assimilazione e la lunghezza non eccessiva aiuta molto in questo senso; dal canto loro, i Valkiria sfuggono al rischio di risultare una copia sbiadita dei campioni del passato grazie alla sensibilità compositiva e all’imponente impatto emotivo infuso in Here The Day Comes nella sua interezza.
Difficile trovare qualcosa che non funzioni nella proposta di Valkus e Mike: volendo cercare il classico pelo nell’uovo, forse sarebbe stato preferibile l’utilizzo del growl in vece dello screaming che, personalmente, reputo più adatto al black metal, ma anche così non viene mai meno il senso di fatale rassegnazione che aleggia nel disco al cospetto dell’ineluttabile scorrere del tempo.
Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come Here The Day Comes.

Tracklist :
1. Dawn
2. Sunrise
3. Morning
4. Afternoon
5. Sunset
6. Evening
7. Night

Line-up :
Valkus Valkiria – Vocals, All Instruments
Mike – Guitars
Giuseppe Orlando – Drums