Darkenhöld – Memoria Sylvarum

Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Quarto album per un’altra ottima band black metal francese, i nizzardi Darkenhöld.

Memoria Sylvarum arriva tre anni dopo il già ottimo Castellum, rispetto al quale la band attenua la componente folk per spingere maggiormente su una vena più oscura e raggiungendo, se possibile, un equilibrio ancora maggiore tra tutte le componenti che entrano a far parte del sound.
I testi, ormai del tutto interpretati in lingua madre, abbandonano la loro ispirazione medievale per spostarsi verso una più canonica ma sempre efficace componente naturalistica, nella fattispecie costituita dalle foreste del sud della Francia: in questo senso appare rafforzato il legame con il black di stampo scandinavo, anche se allo stesso tempo il tratto stilistico dei Darkenhöld conserva una certa personalità.
Il pregio maggiore dei trio è quello di offrire una versione del genere di buona fruibilità e limpidezza, con un approccio melodico ed atmosferico anteposto a qualsiasi altro tipo di orpello, senza così appesantire l’assimilazione di un album della giusta durata, dove ogni elemento è perfettamente incastonato nell’insieme, siano essi arpeggi chitarristici di matrice folk oppure assoli di scuola hreavy.
Brani magnifici come Ruines Scellées en la Vieille Forêt, Errances e la conclusiva Présence des Orbes sono il viatico migliore per immergersi con i Darkenhöld in un’epoca passata, accompagnati da sonorità che, pur nelle loro sembianze estreme, conservano un’aura antica che ben si sposa con l’immaginario lirico.
Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Tracklist:
1. Sombre Val
2. La Chevauchée des Esprits de Jadis
3. Ruines Scellées en la Vieille Forêt
4. A l’Orée de l’Escalier Sylvestre
5. La Grotte de la Chèvre d’Or
6. Sous la Voûte de Chênes
7. Clameur des Falaises
8. Errances (Lueur des Sources Oubliées)
9. Présence des Orbes

Line-up:
Aboth – Drums, Percussion, Keyboards
Aldébaran – Guitars, Keyboards, Bass
Cervantes – Vocals

DARKENHOLD – Facebook

Beastcraft – The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship

I Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.

Il black metal primigenio vive in questa che sarà l’ultima uscita marchiata Beastcraft, creatura demoniaca e blasfema nata nel 2003 per volere di Sorath e Alastor, quest’ultimo scomparso nel 2012.

Sorath ha dato alle stampe questo notevole esempio di black metal maligno ed efferato, composto da brani scritti quando ancora Alastor non era sceso negli inferi, magari come tributo o più semplicemente per fare in modo che queste nove perle nere non andassero perse.
The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship ci conduce nel mondo sonoro del duo norvegese, una delle band più sottovalutate del panorama estremo di stampo black: lo si evince  ascoltando queste gemme oscure e blasfeme, brani diretti e pregni di insani blast beat e splendidi e decadenti muri di black cadenzato e declamatorio, cavalcate atmosfericamente infernali rese perfettamente malvage da una produzione che si rifà alle prime messe nere anni novanta (Demonic Perversion e Deathcraft And Necromancy)
Un pezzo di storia del black metal norvegese, magari commercialmente parlando in ritardo di qualche anno (nel 2003 la fase true aveva ceduto il passo alle velleità sinfoniche ed atmosferiche): i Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.
L’album è completato da un DVD contenente rare esibizioni live e in studio, rivelandosi un gioiellino per gli amanti del gruppo e del true norwegian black metal.

Tracklist
1. Aapenbaring
2. Demonic Perversion
3. Deathcraft And Necromancy
4. The Fall Of The Impotent God
5. Her Highness Of Hell
6. Reborn Beyond The Grave
7. Waging War On The Heavens
8. The Devil’s Triumph
9. The Beast Descends

Line-up
Alastor – Guitar, bass
Sorath – Vocals, drums

https://www.facebook.com/BeastcraftOfficial

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
78

Astarium – Drum-Ghoul

La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.

Ho avuto occasione nelle scorse settimane di parlare della one man band siberiana Astarium, prima con l’ep Epoch Of Tyrants e poi con lo split assieme a Burnt e Scolopendra Cingulata.

Vista l’iperproduttivita di SiN, l’uomo che sta dietro a tutto questo, per evitare di esser nuovamente sorpassato dall’attualità mi precipito a scrivere due righe anche su quello che, per ora, sembra essere l’ultimo parto dell’instancabile musicista di Novosibirsk, il full length Drum-Ghoul.
Se nelle precedenti occasioni avevo apprezzato la genuinità dell’operato da parte del nostro, ritenendo nel contempo un po’ troppo scolastico il risultato dal punto di vista prettamente musicale, devo dire che quelli che nella precedente occasione mi apparivano come insanabili difetti, questa volta acquisiscono una loro funzione essenziale.
La chiave di volta è il suono delle tastiere, che in un ambito dichiaratamente orrorifico come quello di Drum-Ghoul, con il loro timbro minimale, a tratti vicino a quello delle mitiche tastierine Bontempi (i miei connazionali meno giovani capiranno di cosa sto parlando), si rivelano più funzionali alla creazione di un’atmosfera profondamente malata e nel contempo surreale.
La lunghissima opener Hill Of Scape-Gallows (oltre un quarto d’ora di durata) funge da prova del nove per l’ascoltatore: chi riesce ad arrivare senza fatica alla sua fine, da qual momento in poi potrà godersi un lavoro strambo quanto si vuole, ma decisamente affascinante; la voce continua ad essere uno screaming piuttosto piatto alternato ad un growl effettato ma, tutto sommato, contribuisce a creare quell’alone straniante che ha comunque nel suono della tastiere il suo principale artefice.
Dread Asylum è piuttosto gobliniana nel suo snodarsi melodico, e in fondo pensare a quest’album come un’ipotetica soundtrack di un film horror è un’ipotesi tutt’altro che peregrina, mentre Hospitality Of Demon si snoda in maniera più canonica mantenendo comunque le caratteristiche sonore delle altre tracce, con Pernicious Elixir a chiudere le macabre danze con il suo reiterato giro di tastiera, preludio di un finale che si stempera con uno pseudo-violino.
La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.
SiN è portatore di una concezione della musica lontana diversi anni luce lontana da qualsiasi parvenza di commercialità, e solo anche per questo si merita un certo credito, al di là di tutte le altre considerazioni.

Tracklist:
01. Hill Of Scape-Gallows
02. Dread Asylum
03. Hospitality Of Demon
04. Pernicious Elixir
Line up:
SiN – All instruments, Vocals

ASTARIUM – Facebook

Lascar – Saudade

Il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia.

Secondo full length in un breve lasso di tempo per il cileno Gabriel Hugo ed i suo progetto solista Lascar, dopo Abscence uscito all’inizio del 2016.

Saudade continua con lo stesso canovaccio, ovvero quella di un post black dalle terminazioni shoegaze e depressive, sulla falsariga di nomi come Ghost Bath ma, ovviamente molto meno curato a livello di produzione e sicuramente più genuino e sentito dal punto di vista compositivo.
Lo screaming di matrice DSBM del musicista di Santiago si staglia su un tessuto sonoro che sovrappone accelerazioni in blast beat a passaggi ariosamente malinconici leggermente affossati da un lavoro alla consolle non proprio impeccabile, senza che però il tutto vada a vanificare la buona propensione melodica dell’opera nel suo insieme.
Il modus operandi si ripete puntualmente in ognuna delle quattro tracce dalla lunghezza media di una decina di minuti, senza presentare quindi variazioni sul tema ma neppure smarrendo il pathos che Hugo riversa nelle proprie composizioni, capaci di restituire in maniera compiuta quel senso di perdita, fragilità e disperazione che viene opportunamente citato in sede di presentazione.
Allo stesso modo il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia, trovando a mio avviso i propri picchi nella seconda metà dell’album con Uneven Alignment e Bereavement.
Al netto dello schema compositivo forse un po’ troppo reiterato e di suoni non sempre limpidissimi, quest’opera nome Lascar dovrebbe trovare senz’altro i favori del pubblico di nicchia che ama questo particolare sottogenere del black.

Tracklist:
01) Tender Glow
02) Thin Air
03) Uneven Alignment
04) Bereavement

Line up:
Gabriel Hugo – All instruments, Vocals

LASCAR – Facebook

Nagaarum – Homo Maleficus

L’interpretazione del black metal da parte di Nagaarum è abbastanza personale senza essere cervellotica e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.

Eccoci al cospetto di un altro musicista connotato da una produttività apparente compulsiva: il suo nome é Nagaarum, proviene dall’Ungheria e Homo Maleficus è il suo quattordicesimo full length dal 2011.

Ho già detto la mia al riguardo, ma mi ripeto a scanso di equivoci: una certa iperattività è sempre benvenuta, specie viene asservita ad un talento cristallino, altrimenti è grande il rischio di disperdere il proprio potenziale in una forsennata iperattività.
Il musicista magiaro, del quale malgrado tutto scopro l’esistenza solo in questa occasione, non pare essere afflitto più di tanto da certi problemi: la sua interpretazione del black metal è abbastanza personale senza essere cervellotica (se si eccettuano gli schizofrenici cambi di tempo di Vassal Nevelt) e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.
In circa tre quarti d’ora Nagaarum esprime tramite la sua musica e in lingua madre il suo punto di vista sul disastro verificatosi nel 2010 in Ungheria, quando la rottura della diga di contenimento del materiale di scarto di una fabbrica di alluminio spinse una marea di fanghiglia rossa su 40 chilometri quadrati di terreni circostanti il villaggio di Kolontar, provocando diverse vittime, l’irrimediabile danno alle attività agricole locali e la sparizione di ogni forma di vita da almeno due corsi d’acqua facenti parte del bacino del Danubio.
La musica contenuta in Homo Maleficus è quindi cupa, priva di pulsioni melodiche e colma di una tensione che sovente si sfoga con violente sfuriate black (nella magnifica Dolgunk végeztével), ottundenti riffing post metal (Mens dominium) o di matrice doom (A befalazott) per stemperarsi nell’ambient della conclusiva Kolontar.
Non mi resta quindi che fare ammenda per aver sottostimato inizialmente le potenzialità di questo bravo e prolifico musicista, capace di produrre un album dai contenuti piuttosto profondi svincolandosi dalla secche di una ordinarietà che, per uno abituato a pubblicare mediamente più di due full length all’anno, sarebbe stata anche comprensibile.
Complimenti al bravo Nagaarum, del quale non resta che andare a riscoprire (nei limiti del possibile) la consistente discografia.

Tracklist:
1. A befalazott
2. Az elvhű
3. Vassal nevelt
4. Cipelők
5. Mens dominium
6. Dolgunk végeztével
7. Kolontár

Line up:
Nagaarum – All instruments, Vocals, Lyrics

NAGAARUM – Facebook

Amiensus – All Paths Lead To Death

All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro.

L’etichetta francese Apathia Records è caratterizzata da un roster in gran parte autoctono, oltre che composto complessivamente da band connotate da un’irrequietezza compositiva che spinge spesso i generi suonati su un piano avanguardista.

In qualche modo gli Amiensus, quindi, costituiscono un’anomalia, in primis perché statunitensi e, in secondo luogo, in quanto il loro black metal non presenta tratti particolarmente sperimentali; questo, però, non va in alcun modo ad intaccarne la qualità, visto che questi giovani americani, con questo nuovo ep, propongono il genere in maniera del tutto convincente, fondendo abilmente il filone scandinavo con quello nordamericano e ammantando il tutto di una misurata componente atmosferica.
All Paths Lead To Death giunge due anni dopo il full length Ascension: in quel caso gli Amiensus esibivano un black più frastagliato e integrato da una voce femminile, mentre oggi paiono più orientati ad un impatto diretto e privo di fronzoli, anche se comunque sempre progressivo nel suo incedere; indubbiamente i riferimenti a molte delle band che hanno fatto la storia del genere non sono difficili da cogliere, ma i nostri sfuggono alla tentazione di aderirvi in maniera calligrafica, mettendoci in eguale misura cattiveria, convinzione e anche tecnica.
In meno di mezz’ora gli Amiensus offrono cinque brani intrisi della medesima forza di penetrazione, sviscerando senza eccessivi scostamenti la materia black e lasciando qualche bagliore melodico ed epico alla conclusiva The River, dopo che nella precedente Desolating Sacrilege avevano provveduto a surriscaldare per bene i padiglioni auricolari degli ascoltatori.
All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro, perché personalmente questa strada intrapresa dagli Amiensus mi piace non poco.

Tracklist:
1.Gehenna
2.Mouth of the Abyss
3.Prophecy
4.Desolating Sacrilege
5. The River

Line-up:
James Benson : Harsh Vocals, Clean Vocals, Guitar
Alec Rozsa : Keyboards, Guitars, Vocals
D. Todd Farnham : Bass
Zack Morgenthaler : Lead Guitar, Keyboards
Chris Piette : Drums

AMIENSUS – Facebook

Xanthochroid – Of Erthe and Axen Act I

Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.

Per uno che ha considerato Blessed He with Boils uno dei dischi più belli pubblicati in questi decennio, il ritorno al full length degli Xanthohchroid è stata senza dubbio una splendida notizia che nascondeva però anche un sottile filo di inquietudine.

Infatti, il timore che questi giovani e geniali musicisti americani potessero aver smarrito la loro ispirazione in questi lunghi cinque anni era un qualcosa che ha aleggiato fastidiosamente a lungo nei miei pensieri, spazzato via fortunatamente dalle prime note di Of Erthe and Axen Act I, nelle quali persiste quella stessa e unica vena melodica e sinfonica.
Per parlare di questo nuovo parto degli Xanthohchroid è fondamentale partire dal fondo, non del disco ma delle note di presentazione: infatti i nostri, in un una postilla che in un primo tempo mi ero anche perso, raccomandano ai recensori di valutare l’album quale effettiva prima parte di un’opera che vedrà uscire la sua prosecuzione ad ottobre, e, pertanto, il fatto che il sound possa apparire molto meno orientato al metal e più al folk è motivato da un disegno complessivo che prevede un notevole rinforzo delle sonorità in Of Erthe and Axen Act II.
Tutto ciò è molto importante, perché si sarebbe corso il rischio di accreditare la band di una sterzata dal punto di vista stilistico che, invece, dovrà essere eventualmente certificata come tale solo dopo l’ascolto del lavoro di prossima uscita; detto ciò, appare evidente come quelle audaci progressioni, che fondevano la furia del black metal con orchestrazioni di stampo epico/cinematografico, in Act I siano ridotte all’osso, lasciando spazio ad una componente folk e acustica dal livello che, comunque, resta una chimera per la quasi totalità di chiunque provi a cimentarvisi.
Infatti, i brani che riportano in maniera più marcata ai suoni di Blessed He with Boils sono una minoranza, rappresentata essenzialmente da To Higher Climes Where Few Might Stand, The Sound Which Has No Name, e parzialmente, The Sound of Hunger Rises, laddove si ritrova intatta quella potenza di fuoco drammatica e melodica che rende gli Xanthochroid immediatamente riconoscibili in virtù di una peculiarità che non può essere in alcun modo negata; per il resto, Of Erthe and Axen Act I si muove lungo i solchi di un folk sempre intriso di una malinconia palpabile e guidato dall’intreccio delle bellissime voci di Sam Meador (anche chitarra acustica e tastiere), della moglie Ali (importante novità rispetto al passato) e di Matthew Earl (batteria e flauto).
Detto così sembra può sembrare che questo disco sia di livello inferiore al precedente ma cosi non è: anche nella sua versione più pacata e di ampio respiro la musica degli Xanthochroid mantiene la stessa magia e, anzi, potrebbe persino attrarre nuovi e meritati consensi, rivelandosi per certi versi meno impegnativa da assimilare; quel che è certa ed immutabile è la maturità compositiva raggiunta da una band che si muove ad altezze consentite solo a pochi eletti, andando a surclassare per ispirazione persino quelli che potevano essere considerati inizialmente degli ideali punti di riferimento come gli Wintersun.
Of Erthe and Axen continua a raccontare le vicende che si susseguono in Etymos, mondo parallelo creato da Meador e che nel notevole booklet è illustrato con dovizia di particolari, con tanto di cartina geografica: la storia narrata in questo caso è un prequel rispetto a Blessed He with Boils, ma questi sono particolari, sebbene importanti, destinati a restare in secondo piano rispetto al superlativo aspetto musicale
La formazione odierna ridotta a quattro elementi (assieme ai tre c’è anche Brent Vallefuoco, che si occupa delle parti di chitarra elettrica infarcendo l’album di magnifici assoli) risulta un perfetto condensato di talento e creatività che trova sbocco sia nei già citati episodi più robusti, sia nelle perle acustiche rappresentate da To Lost and Ancient Gardens, In Deep and Wooded Forests of My Youth (per la quale è stato girato dallo stesso Vallefuoco un bellissimo video) e la stupefacente The Sound of a Glinting Blade, che vive di un crescendo emotivo e vocale destinato a confluire nel furente incipit sinfonico della conclusiva The Sound Which Has No Name, andando a creare uno dei passaggi più impressionanti del lavoro.
Se a un primo ascolto l’apparente tranquillità che pervade il sound poteva aver lasciato un minimo di perplessità, il ripetersi dei passaggi nel lettore conferma ampiamente che il valore degli Xanthochroid non è andato affatto disperso, anzi: Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.
Al riguardo, è auspicabile che l’uscita ravvicinata delle due parti di Of Erthe and Axen possa consentire di mantenere viva per più tempo l’attenzione sugli Xanthohchroid, rimediando a questa evidente stortura.

Tracklist:
01. Open The Gates O Forest Keeper
02. To Lost and Ancient Gardens
03. To Higher Climes Where Few Might Stand
04. To Souls Distant and Dreaming
05. In Deep and Wooded Forests of My Youth
06. The Sound of Hunger Rises
07. The Sound of a Glinting Blade
08. The Sound Which Has No Name

Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl – Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead), Vocals
Ali Meador – Vocals

XANTHOCHROID – Facebook

Sun Of The Sleepless – To The Elements

Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, dando vita ad una forma di black metal che va a toccare vette difficilmente superabili.

Quando ci si approccia all’ascolto dell’album di una band poco conosciuta penso che tutti, istintivamente, provino a raccogliere qualche notizia sui musicisti che ne fanno parte e sulla sua discografia passata: questo, inevitabilmente, rischia di creare un pregiudizio (nel senso letterale di giudizio preventivo) nel bene o nel male, quando invece i nomi coinvolti nell’opera sono ben noti.

Confesso che, quando è partito To The Elements nel mio lettore stracolmo di album in mp3 da ascoltare per poi provare a descriverne il contenuto nel migliore dei modi, dei Sun Of The Sleepless ricordavo solo che mi erano arrivati via Prophecy Productions ma, aiutato anche da quest’ultimo indizio, ho impiegato ben poco per capire che il musicista coinvolto in questo progetto era Markus Stock, alias Ulf Thodor Schwadorf: per chi ha amato fin dalla prima ora gli Empyrium ed ha apprezzato non poco l’operato del nostro anche con i The Vision Bleak, non è difficile riconoscere l’impronta di uno degli autori maggiormente peculiari tra quelli dediti al lato più oscuro del metal.
Ed ecco scattare il pregiudizio: da quel momento in poi ti attendi di ascoltare qualcosa di speciale, capace di costringerti ad un’attenzione superiore alla media per cogliere al meglio ogni sfumatura, cosa che, per carità, si prova sempre a fare ma con risultati altalenanti, trovandosi spesso di fronte a lavori anche buoni a livello esecutivo e compositivo ma non sempre stimolanti.
Però uno come Markus Stock non può deludere, perché troppo è il talento che madre natura gli ha concesso, regalandoci  con questo suo progetto solista nato alla fine dello scorso secolo la sua personale interpretazione di un black metal che, se già di solito in terra germanica viene interpretata in maniera ben diversa e più ricercata rispetto al resto del mondo, in questo caso tocca vette difficilmente superabili; ovviamente il musicista bavarese non si dimentica d’essere il padre degli Empyrium e certi episodi più rarefatti o acustici lo stanno a dimostrare (The Burden, il cui testo è tratto dall’opera shakespeariana la Tempesta, e Forest Crown), ma nei restanti cinque brani fa sciogliere il face painting a una moltitudine di ragazzotti di buona volontà, esibendo qualcosa che rasenta lo stato dell’arte del genere, almeno per quanto riguarda il suo aspetto più atmosferico ed evocativo.
Bastano pochi secondi di Motions per immergersi nell’atmosfera austera che il marchio Sun Of The Sleepless regalerà lungo lo spartito creato per To The Elements: questo brano è uno dei più belli ascoltati nel genere negli ultimi anni, e il piede batte ai ritmi parossistici dei blast beat mentre mentre lo spirito si lascia trasportare da un crescendo melodico che si vorrebbe interminabile.
Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, passando per la superba The Owl dedicata al meraviglioso rapace notturno, per arrivare alla conclusiva Phoenix Rise, che si ammanta di una più malinconica melodia per poi chiudersi con una citazione tolkeniana tratta da La Compagnia dell’Anello.
Da un musicista di questo spessore non ci poteva attendere nulla di meno, ma ogni volta che si palesa un album di simile livello qualitativo si rinnova quel momento magico che è il piacere della scoperta e la voglia di riascoltare queste note non appena se ne avrà l’occasione …
Là fuori c’è davvero tanta grande musica, gran parte della quale il popolo degli appassionati è destinato ad ignorare stante l’impossibilità fisica di ascoltarla tutta: uno dei nostri compiti è anche far emergere ciò che davvero non può e non deve essere ignorato, come appunto questo primo full length dei Sun Of The Sleepless del  bravissimo Markus Stock.

Tracklist:
1. The Burden
2. Motions
3. The Owl
4. Where in My Childhood Lived a Witch
5. Forest Crown
6. The Realm of the Bark
7. Phoenix Rise

Line up:
Ulf Theodor Schwadorf – Everything

SUN OF THE SLEEPLESS – Facebook

BVDK – Architecture of Future Tribes

Un lavoro davvero particolare, ma meritevole di grande attenzione, che rappresenta l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal.

Tanto per cambiare è dalla vicina Francia che arriva l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal, questa volta ad opera del trio denominato BVDK.

Una tantum il termine black non va associato solo al metal ma anche alla musica proveniente dall’Africa: in Architecture of Future Tribes avviene infatti l’audace tentativo di fondere i furiosi blast beat con elementi tribali ed elettronici, andando a formare un ibrido tanto improbabile quanto efficace; inutile specificare pertanto che qui siamo molto lontani dalle dissonanze sperimentali in quota Blut Aus Nord o Deathspell Omega, per lasciare sfogare piuttosto un’indole industrial sulla quale va ad aderire una sorprendente e melodica capace di catturare l’attenzione ogni singolo brano.
L’unico elemento riconducibile alla normalità è la voce, che strepita in maniera esasperata ed in lingua madre liriche sopraffatte, a livello di produzione, dalla furia organizzata della strumentazione; se Snatcher esibisce un volto ballabile, Nana Buluku parrebbe sfogare all’infinito un rabbioso black atmosferico, prima che il break centrale ci faccia piombare nel bel mezzo del continente nero e delle sue affascinanti nenie tribali, e se La Langue Sanglante è un notevole strumentale che mette in luce anche un buon lavoro chitarristico all’interno di un’inquietante atmosfera cinematografica, Jericho’s Pride è un crescendo emotivo che quando sembra pronto per esplodere si suddivide in velenosi rigagnoli elettro-tribali.
Psalm 32 chiude l’album risultando inferiore per suffisso numerico del brano dei Ministry, ma eguagliandolo o quasi in quanto a penetrazione ed ossessività, a suggello di un lavoro davvero particolare ma meritevole di grande attenzione, soprattutto da parte di chi ama farsi sorprendere dalle soluzioni originali che non difettano certo ai nostri cugini d’oltralpe.

Tracklist:
1. Snatcher
2. Surreptitious Cluster
3. Nana Buluku
4. La Langue Sanglante
5. Bahir Dar
6. Jericho’s Pride
7. Dar es Salaam
8. Psalm 32

Line-up:
Scree – Guitars
A-152 – Guitars, bass, electronics
Lvx – Vocals, electronics

BVDK – Facebook

Sangue Nero – Viscere

I Sangue Nero, i quali hanno senza dubbio il merito di riportare il black metal alla sua funzione originaria, ovvero quella di infrangere incancreniti canoni stilistici, etici e filosofici.

La Third I Rex appartiene al novero di quelle etichette che pongono tra le loro priorità la pubblicazione di album anticonvenzionali o, quanto meno, molto lontani da quello che potrebbe essere definito come un prodotto spendibile a livello commerciale.

Con i Sangue Nero, trio italiano all’esordio con questo Viscere, si viene addirittura scaraventati in una forma di black metal estrema nel senso più autentico del termine: qui, infatti, non vi è alcuna concessione melodica o atmosferica, e il tessuto sonoro è essenzialmente il mezzo per rivoltare come un guanto coscienze assopite, provando con decisione a scuoterle dal loro torpore piuttosto che blandirle.
In poco meno di mezz’ora i Sangue Nero esibiscono un’interpretazione del genere che si potrebbe definire avanguardistica, se non fosse che tale aggettivo non si sposa granché con l’approccio al black tutt’altro che cerebrale del trio: il titolo Viscere non credo sia casuale, proprio perché i suoni, per quanto sghembi e spesso ai limiti dell’improvvisazione (specialmente per quanto riguarda l’interpretazione vocale) sono oltremodo diretti e impattanti.
Il vocalist e bassista T. utilizza anche uno strumento inusuale come il didgeridoo, conferendo un’aura del tutto particolare ai due episodi ambient I e IV, mentre i brani contrassegnati dai numeri II, III e V non risparmiano ruvidezze strumentali e vocali, con una sviluppo che a tratti può anche apparire cacofonico ma che finisce, invece, per conferire al tutto un notevole potenziale ipnotico e straniante.
La decisione di limitare il minutaggio di un lavoro di tali caratteristiche è senz’altro azzeccata, perché oltre un certo limite l’inevitabile calo di tensione potrebbe rendere difficilmente assimilabile l’operato dei Sangue Nero, i quali hanno senza dubbio il merito di riportare il black metal alla sua funzione originaria, ovvero quella di infrangere incancreniti canoni stilistici, etici e filosofici.

Tracklist:
1.I
2.II
3.III
4.IV
5.V

Line up:
T . – Bass, Didgeridoo, Vocals
V . – Guitars
M . – Drums

SANGUE NERO – Facebook

Syn Ze Sase Tri – ZĂUL MOȘ

Il metal romeno in tutte le sue accezioni continua a stupire e a sfornare ottime opere, e questo è un gran disco di sympho pagan black metal.

Quarto album per i Syn Ze Sase Tri, per un massacro sympho pagan black metal.

I romeni con i tre dischi precedenti si erano già costruiti una solida e rumorosa reputazione di gruppo molto al di sopra della media, e con questo lavoro compiono un ulteriore salto di qualità. Il loro suono è un veloce e rabbioso sympho balck metal, con grandi parti di pagan e atmosfere folk metal, ma la loro peculiarità è una velocità metallica e sinfonica di grande effetto. Le tastiere qui non sono mero complemento ma protagoniste molto importanti di un disegno sonoro sofisticato e di grande impatto, che aggredisce l’ascoltatore dal primo minuto e non lo lascia mai, stupendolo per la varietà e la grande versatilità. L’immaginario è quello sconfinato delle leggende transilvane, quella fertile terra al confine tra oriente ed occidente, attraversata da molte culture ed altrettanti demoni, che prendono corpo nella musica dei Syn Ze Sase Tri, sembrando molto reali. La Transilvania e la Romania tutta hanno un corpus mitologico di grande rilievo ed importanza, che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito, come fece Stoker per il suo celeberrimo Dracula, punta di un iceberg fatto di ghiaccio nerissimo. Il disco è un vortice di neve e metallo, un perdersi a rotta di collo vedendo l’antica Dacia con gli occhi di un lupo a caccia, o attraversando rituali innominabili, il tutto con un metal potente di una cifra stilistica unica. Il gruppo romeno è veramente efficace, e il suo quarto disco spicca per velocità, potenza e capacità compositiva, in un trionfo di sangue e metallo. Non ci sono momenti di stanca o tentativi di riempire spazi, perché la spontaneità e la carica sono tali da non lasciare spazio ad altro che non sia opera meritoria dei Syn Ze Sase Tri. Il metal romeno in tutte le sue accezioni continua a stupire e a sfornare ottime opere, e questo è un gran disco di sympho pagan black metal.

Tracklist
01-TĂRÎMU’ DE LUMINĂ
02-DÎN NEGRU GÎND
03-SOLU’ ZEILOR
04-DE-A DREAPTA OMULUI
05-ZĂUL MOŞ
06-PLECĂCIUNE ZĂULUI
07-URZEALA CERIULUI
08-COCOŞII NEGRI
09-ÎN PÎNTECU’ PĂMÎNTULUI (electric version)

Line-up
Șuier (Vocals)
Corb (Guitars, Vocals)
Moș (Guitars)
Dor (Drums)

SYN ZE SASE TRI – Facebook

Zurvan – Gorge Of Blood

Molto lineare per esecuzione e produzione, Gorge Of Blood incuriosisce inizialmente per la provenienza dei musicisti coinvolti, ma poi all’atto pratico si rivela un lavoro sufficiente ma nulla più.

Zurvan è un nome che appare nel zoroastrismo, religione preislamica originaria della Persia: questo è anche il monicker  che vuole rimarcare con forza il rimpianto l’attaccamento a tradizioni e culti azzerati dall’abbruttimento fondamentalista, adottato da questo progetto musicale fondato dal musicista iraniano Nâghēs e che ha oggi la sua base in Germania, nazione nella quale naturalmente è più semplice suonare metal.

Gorge Of Blood segue di tre anni l’esordio Hichestan e vede il mastermind occuparsi di tuti gli strumenti ad eccezione della batteria affidata a Tarōmad; il sound proposto è un black death molto aspro e ritmato, che presenta quale particolarità un’interpretazione vocale che esula dal canonico stile del genere esibendo una sorta di growl sincopato: ad ogni buon conto, tanto per fornire un’idea di massim,a il territorio sul quale ci si muove è quello degli Al Namrood, anche se l’interpretazione del genere da parte degli Zurvan appare ancor più ortodossa.
I tredici brani proposti prevedono quindi poche variazioni sul tema, se non un assalto sonoro piuttosto compatto e raramente caratterizzato di aperture melodiche, così come di accenni di stampo etnico: da questo ne deriva un lavoro di notevole impatto ma nel contempo monotematico, dal discreto livello medio ma con pochi picchi, corrispondenti alle tracce meno esasperate ritmicamente ed in possesso di un andamento più ragionato, come Kiss of Death o Hallucination.
Molto lineare per esecuzione e produzione, Gorge Of Blood incuriosisce inizialmente per la provenienza dei musicisti coinvolti, ma poi all’atto pratico si rivela un lavoro sufficiente ma nulla più: aspetti sui quali limare qualcosa per raggiungere un livello superiore ce ne sono diversi, vedremo in futuro se, effettivamente, Nâghēs avrà la forza e la capacità di imprimere una maggiore varietà alla propria proposta musicale.

Tracklist:
01. Gorge Of Blood
02. Convulsion
03. Kiss Of Death
04. Isolation Of Sense
05. Self-Mutilation
06. Kafir
07. Zurvancide
08. Agression
09. Hallucination
10. Swamp
11. Filthy Calendar Of The Time
12. Freezing
13. Massacre

Line up:
Nâghēs – Guitars, Vocals
Tarōmad – Drums

ZURVAN – Facebook

In Human Form – Opening of the Eye by the Death of the I

Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista.

Gli americani In Human Form appartengono a quella categoria di band che, indubbiamente, non hanno tra le loro priorità quella di suonare musica accattivante allo scopo di ricevere consensi immediati.

Il progressive black offerto dal gruppo del Massachusetts è quanto di più ostico e dissonante sia possibile immaginare e non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che sia finito nell’orbita di un’etichetta come la I,Voidhanger.
Patrick Dupras, con il suo screaming aspro, strepita le proprie liriche su un’impalcatura musicale nella quale solo apparentemente ogni strumento sembra andare per proprio conto ma, in realtà, appare evidente che cosi non è, anche se in più di un passaggio sembra di cogliere le stimmate di un’improvvisazione che tale resta a livello di fruibilità, per quanto evoluta.
La stessa struttura dell’album, con tre tracce della durata media attorno al quarto d’ora, inframmezzate da altrettanti brevi iintermezzi strumentali, conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, la volontà di lasciar fluire senza alcun limite un’ispirazione obliqua che, oggettivamente, se respinge al mittente ogni tentativo di approccio benevolo all’opera, pare aprirsi leggermente non dico ad una forma canzone, che resta un idea lontana anni luce dall’immaginario degli In Human Form, almeno a passaggi che vengono resi meno criptici da lampi melodici.
Sia Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis che Through an Obstructionist’s Eye, infatti, sono ampie dimostrazioni di quanto i nostri abbiano la capacità di rendere meno ostica la loro proposta in ogni frangente, ma facendolo perfidamente in maniera ben più che sporadica: nel primo troviamo passaggi meditati assieme a sfuriate di stampo black più canoniche, ma è chiaro che, comunque, il sound resta inquieto e cangiante anche se in questo frangente sembra aprirsi più di un varco nelle spesse recinzioni sonore erette dalla band, mentre nel secondo, posto in chiusura dell’album, trova posto persino un bell’assolo di chitarra, strumento che nell’arco del lavoro viene offerto con un’impronta per lo più jazzistica.
Per quanto mi riguarda, nel lavoro ho riscontrato in eguale misura passaggi davvero eccellenti assieme altri eccessivamente cervellotici e, contrariamente a quanto affermo solitamente, qui la voce appare sovente un elemento di disturbo piuttosto che un completamento del lavoro strumentale.
Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista, caratteristiche che certo non fanno difetto a Opening of the Eye by the Death of the I.

Tracklist:
1. Le Délire des Négations
2. All is Occulted by Swathes of Ego
3. Apollyon Synopsis
4. Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis
5. Ghosts Alike
6. Through an Obstructionist’s Eye

Line up:
Nicholas Clark – Guitars, bass guitar, alto saxophone, keyes, backup vocals
Rich Dixon – Drums, percussion, guitars
Patrick Dupras – Vocals, lyrics

IN HUMAN FORM – Facebook

Burnt / Astarium / Scolopendra Cingulata – Gnosis of Death

Nel complesso lo split offre un discreto spaccato dello stato di salute del black nei territori ex-sovietici, soprattutto per quanto riguarda la scena che si muove al fuori della capitale russa

Ecco uno split album che, almeno a livello di quantità dei contebuti non è certamente avaro, presentando oltre dieci brani di due band russe (Burnt e Astarium) ed una kazaka (Scolopendra Cingulata) afferenti alla scena black metal.

Dei Burnt non si possiedono praticamente notizie, per cui bisogna basarsi essenzialmente su questi cinque brani (che in teoria dovrebbero essere i primi usciti con questo monicker) che vedono un’interpretazione del genere abbastanza canonica, ma non priva di cambi di registro, ed ampie aperture atmosferiche esibite nel corso di tracce brevi ma abbastanza efficaci, con menzione per la più depressiva Suicide.
La one man band siberiana Astarium è, al contrario una delle entità più prolifiche in circolazione, e dopo aver parlato poco tempo fa del ultimo ep, eccoci di fronte ai quattro nuovi brani dello split, con un altro full length nel frattempo appena uscito ed ancora da ascoltare: qui buone intuizioni melodiche si scontrano talvolta con un approccio naif che rende il tutto non sempre perfettamente a fuoco, con il nostro che nella sua bulimica produttività oscilla tra diverse direzioni stilistiche dando il meglio, a mio parere, quando rende il sound atmosferico senza farsi prendere la mano da pulsioni sinfoniche.
Per finire, ecco i kazaki Scolopendra Cingulata, interpreti di un black più aspro e nel contempo immediato, nel suo procedere senza troppi fronzoli e mediazioni (salvo essere smentito dalla lunga traccia ambient conclusiva); personalmente ritengo la band asiatica autrice della migliore espressione tra le tre esibite in Gnosis Of Death, anche se neppure nel suo caso il livello raggiunge picchi indimenticabili.
Nel complesso lo split offre un discreto spaccato dello stato di salute del black nei territori ex-sovietici, soprattutto per quanto riguarda la scena che si muove al fuori della capitale russa; il contenuto non è affatto privo di momenti interessanti, spalmate un po’ su tutte le band rappresentate,  anche se come accade per molte uscite del genere, il suo valore non credo possa andare oltre uno scopo essenzialmente divulgativo.

Tracklist:
1. Burnt – Beginning of the End
2. Burnt – Dead People
3. Burnt – Glowing Silence
4. Burnt – Suicide
5. Burnt – The End of All Things
6. Astarium – Mystic Genesis
7. Astarium – Spirits of the Dead
8. Astarium – Nether Lair
9. Astarium – The Conqueror Worm
10. Scolopendra Cingulata – Ogon’ Inkvizitsii
11. Scolopendra Cingulata – Rassvet
12. Scolopendra Cingulata – …

Line-up:
Astarium
SiN – All instruments, Vocals

Scolopendra Cingulata
SS – Vocals, Guitars
Waah – Bass
Aske – Drums
Alatar – Guitars (lead)
Otis – Guitars (rhythm)

SCOLOPENDRA CINGULATA – Fcebook

ASTARIUM – Facebook

Astarium – Epoch Of Tyrants

Circa 25 uscite nell’arco di una decina d’anni costituiscono un fatturato che ormai non sorprende neppure più di tanto, specialmente quando ne è autore un singolo musicista che può dare sfogo alle proprie pulsioni compositive senza doversi confrontare con altre teste pensanti.

E’ questo il caso del siberiano SiN , l’iperattivo titolare del progetto Astarium, che con questo Epoch Of Tyrants si rende autore di un buon black metal atmosferico e dalle tematiche guerresche, ricco di spunti interessanti ma non privo neppure di difetti.
In qualche modo questi due aspetti tendono ad annullarsi rendendo così il lavoro gradevole ma non imprescindibile: se, infatti, diverse intuizioni melodiche ed un buon gusto per gli arrangiamenti si palesano con frequenza nel corso dell’ep, non si può fare a meno di notare che un uso della voce approssimativo ed un suono di tastiera in certi tratti troppo plastificato finiscano per affossare, a tratti, quanto di buono viene messo in campo da SiN.
Un peccato, visto che il musicista di Novosibirsk affronta la materia con buona padronanza, svariando tra sfumature atmosferiche, sinfoniche e folk, anche se il tutto appare a volte assemblato in maniera forzata; Epoch Of Tyrants rimane comunque un lavoro ben al di sopra della sufficienza, alla luce anche di episodi di notevole spessore come l’epico strumentale Of Valour and Sword e la successiva e drammatica Bloodshed Must Goes On!
Continuo a pensare che, ad eccezione di rarissimi casi, gli stakanovisti delle sette note siano personaggi degni della massima stima, perché dalla lor iperproduttività non può che trasparire una passione smisurata per la musica, ma nel contempo appare inevitabile una dispersione energie che, meglio canalizzate, potrebbero fornire risultati ben superiori, sia dal punto di vista della cura dei particolari sia dello stesso songwriting.
Ovviamente, nel tempo di ricevere dalla lontana Siberia la copia di Epoch Of Tyrants, ascoltarlo e scrivere due righe di commento, il buon SiN non è certo rimasto con le mani in mano, sicché sono già da un po’ in circolazione uno split album con i Burnt e gli Scolopendra Cingulata ed un nuovo full length, Drum-Ghoul, dei quali si parlerà prossimamente.
In attesa di scoprire cosa né è scaturito, dare un ascolto a questo Ep non è affatto tempo sprecato, fermo restando che di margini per fare ancora meglio ce ne sono molti.

Tracklist:
1. Bloody Surf
2. SS (Satanic Squadron)
3. Passion of War
4. Bone Crushers
5. Of Valour and Sword
6. Bloodshed Must Goes On!
7. In Twilight of the Gods
8. Heroic Saga

Line up:
SiN – All instruments, Vocals

ASTARIUM – Facebook

Vials Of Wrath – Days Without Names

Un bellissimo esempio di musica oscura, dalle sfumature drammatiche ma sempre godibile da un punto di vista melodico, attingendo sicuramente alla scuola statunitense che ha sempre avuto come caratteristica principale quella di porre al centro delle opere la forza e l’immensità della natura, in questo caso specifico vista però come segno tangibile della maestosità del creato.

Parlare di black metal di ispirazione cristiana rischia seriamente d’essere una contraddizione in termini, se si pensa che questo genere musicale nacque, semmai, con lo scopo di riscoprire le radici del paganesimo e contrastando con forza (non solo musicalmente, come ben sappiamo) quella religione cattolica che venne imposta alle popolazioni scandinave agli albori del precedente millennio.

Se c’è un qualcosa, però, su cui mi sono sempre auto imposto di soprassedere, allorché devo valutare o godermi un disco, è la sua componente religiosa o politica, facendo eccezione in quest’ultimo caso solo per chi prova a propugnare in maniera esplicita certe ideologie che sono già state ampiamente giudicate e condannate, non da me ma dalla storia.
Questa introduzione è necessaria per far sì che non venga snobbato dai puristi il secondo album dei Vials Of Wrtah, progetto solista del musicista statunitense Dempsey “DC” Mills, autore di un’interpretazione davvero di buon livello del black metal nella sua forma più atmosferica ed eterea. La bontà di Days Without Names, al di là ovviamente del non possedere alcun elemento innovativo, risiede sostanzialmente in una certa varietà stilistica che fa oscillare il sound tra sfuriate vicine al depressive, ampie aperture atmosferiche ed accenni folk, senza dimenticare che la chitarra può esser utilizzata anche per suonare ottimi assoli (Burning Autumn Leaves).
L’album consta di sei brani mediamente abbastanza lunghi, oltre a due più brevi tracce strumentali, e gode di una produzione abbastanza pulita per la media del genere, il che valorizza soprattutto le parti più intimiste e, appunto, il buon lavoro chitarristico, sia elettrico sia acustico, senza affossare la voce che, magari non sarà un punto di forza ma non diviene neppure un elemento di disturbo come talvolta accade.
In buona sostanza Days Without Names si rivela un bellissimo esempio di musica oscura, dalle sfumature drammatiche ma sempre godibile da un punto di vista melodico, attingendo sicuramente alla scuola statunitense che ha sempre avuto come caratteristica principale quella di porre al centro delle opere la forza e l’immensità della natura, in questo caso specifico vista però come segno tangibile della maestosità del creato.
Il lavoro va goduto nel suo insieme ed è fortemente consigliato a chi apprezza il black metal in questa sua forma, trovando i propri picchi nella parte centrale con Burning Autumn Leaves e The Path Less Oft Tread, senza comunque mostrare cenni di debolezza in alcuna sua parte; le liquide note acustiche che chiudono A Cleansing Prayer lasciano davvero un bel retrogusto oltre alla consapevolezza del fatto che il genere, nelle sue varie forme e sfumature, continua ad avere risorse infinite.

Tracklist:
1. That Which I’ve Beheld
2. Journey Beyond the Flesh
3. Revival of the Embers
4. Burning Autumn Leaves (Under a Harvest Moon)
5. The Path Less Oft Tread
6. Silhouettes Against the Sun
7. A Cleansing Prayer

Line-up:
Dempsey “DC” Mills – All instruments, Vocals

VIALS OF WRATH – Facebook

Venom Inc. – Avé

Un buon album di nero metallo, Avè si può sicuramente descrivere così, lasciando che il nome della band non influisca troppo nell’ascolto e sul giudizio e cercando di lasciare il doveroso spazio alla musica.

L’incedere potente e cadenzato dell’opener Ave Satanas ci introduce al primo album di quella che è di fatto l’altra faccia dei Venom, quelli lontano da Cronos e che vedono all’opera la line up degli album a cavallo tra il decennio ottantiano e gli anni novanta (Prime Evil, Temple Of Ice e Waste Lands), quindi con Mantas alla sei corde, Abaddon alle pelli e Tony Dolan al basso e voce.

La nuova creatura chiamata Venom Inc. è nata due anni fa, debutta per Nuclear Blast con Avè, un buon album di heavy metal che alterna un approccio classico a qualche fugace velleità estrema, dosate sfumature industriali unite a quel black’n’roll che riportano al glorioso passato senza però cadere troppo nel nostalgico.
Il problema di questo lavoro è che probabilmente verrà giudicato con ben impresso il passato dei protagonisti ed il suo alter ego ancora attivo, mentre va detto che Avè vive di una sua spiccata personalità, più moderno di quello che ci si aspetta, prodotto egregiamente e con una serie di frecce scagliate che fanno davvero male.
Detto dell’opener, otto minuti di mid tempo maligno ed oscuro, la partenza a razzo della seguente Forged In Hell, che il lavoro alla consolle valorizza non poco, ci consegna una band che dall’alto dell’esperienza di Mantas e soci sa come maneggiare la materia metallica.
Chiaramente meno devoto alle veloci cavalcate dal flavour motorheadiano (a parte l’inno conclusivo Black N Roll che diventerà sicuramente il momento clou dei live) Avè ci propone un’ora di heavy metal moderno, come dovrebbe essere dopo l’avvento del nuovo millennio e le trasformazioni camaleontiche che il genere ha avuto nel corso degli anni, attraversato da venti estremi, dal thrash al death, fino all’industrial per poi essere riportato tra le braccia dei suoni classici.
Il mood oscuro ed evil che ovviamente aleggia sui brani di Avè non fa che conferirgli quei rimandi al passato che ne fanno un lavoro sicuramente apprezzato dai vecchi fans, ma che risulta ben piantato nel presente come dimostrano le devastanti Metal We Bleed e I Kneel To No God.
Un buon album di nero metallo, Avè si può sicuramente descrivere così, lasciando che il nome della band non influisca troppo nell’ascolto e sul giudizio e cercando di lasciare il doveroso spazio alla musica.

Tracklist
1. Ave Satanas
2. Forged In Hell
3. Metal We Bleed
4. Dein Fleisch
5. Blood Stained
6. Time To Die
7. The Evil Dead
8. Preacher Man
9. War
10. I Kneel To No God
11. Black N Roll

Line-up
Jeff “Mantas” Dunn – guitars
Tony “Demolition Man” Dolan – bass, vocals
Anthony “Abaddon” Bray – drums

VENOM INC. – Facebook

The Sarcophagus – Beyond This World’s Illusion

Se qualcuno volesse ascoltare un disco di black metal suonato con tutti crismi e con le connotazioni tipiche del genere nato tra le foreste ed i fiordi della Norvegia, faccia un salto … in Turchia.

E proprio dal paese europeo politicamente, ma asiatico dal punto di vista geografico, che arrivano i The Sarcophagus, band che viene definita tra le più antiche esponenti del genere nel suo paese, in virtù di una storia ormai ultra ventennale.
Se l’anzianità di servizio vuol dire qualcosa non ci sono dubbi, quindi, sulla bontà e soprattutto l’attendibilità di un lavoro che, davvero, se ci fosse stato presentato come il parto di un gruppo scandinavo nessuno avrebbe potuto dubitarne.
Solo buoni copisti dunque, i The Sarcophagus? No, perché per far proprio un genere come il black non basta solo suonarlo ma bisogna anche viverlo e conoscerlo a fondo. E questo è senza dubbio il caso di Burak Sümer, alias Nahemoth, musicista di Ankara che guida questa band dal 1996, offrendo una quantità di musica risibile rispetto alla sua lunga storia, ma un’immensa qualità racchiusa anche negli unici due full length, Towards the Eternal Chaos del 2009 e quest’ultimo Beyond This World’s Illusion.
Il nostro, nel precedente lavoro si era fatto aiutare alla voce nientemeno che da Niklas Kvarforth, questo tanto per rimarcare di quale credibilità goda Nahemoth nell’ambiente, mentre in quest’ultima occasione al microfono troviamo Mørkbeast (o Mørk) dei russi Todestriebe, confermando al basso l’ormai stabile figura dell’altro musicista turco Ozan Yıldırım (Frostmourne).
Il black metal offerto dai The Sarcophagus è un qualcosa che va molto vicino allo stato dell’arte del genere, essendo esattamente ciò che si attende ogni appassionato senza però risultare scontato in alcuna sua fase: nove brani per tre quarto d’ora resi con un approccio oscuro, privo di tentazioni sperimentali, con splendide aperture melodiche ed una produzione di raro equilibrio.
Per rendersi conto di quanto appena detto basterebbe prendere due episodi a caso, ma nello specifico opterei per la coppia centrale The Profanity Rites e Sapremia of Earthly Creatures, tracce nelle quali vengono esibite in maniera emblematica un po’ tutte le doti del gruppo anatolico.
Beyond This World’s Illusion è un lavoro che ci si può godere anche grazie al lavoro di un etichetta come la Satanath Records, che ne ha evitato la permanenza in un pericoloso limbo: inoltre, ad arricchire un’opera già di per sé irrinunciabile, troviamo un contributo italiano sotto forma della paurosa copertina creata da Paolo Girardi, uno dei grafici più ricercati del momento in ambito metal.
Difficile, fare di più e di meglio, per chi suona questo genere che, a discapito dei detrattori, dimostra d’avere la capacità di rigenerasi trovando protagonisti all’altezza ad ogni latitudine.

Tracklist:
1. Reign of Chaos
2. Ain Sof
3. Dymadiel
4. The Profanity Rites
5. Sapremia of Earthly Creatures
6. Triumphant Divine Terror
7. Armoured Death
8. Flaming Key to Divine Wisdom
9. Apocalyptic Beast

Line-up:
Burak Sümer – Guitars, Synths
Ozan Yıldırım – Bass
Mørkbeast – Vocals

THE SARCOPHAGUS – Facebook

Agonia Black Vomit- Cosmosatanic Wisdom

Nelle canzoni di Agonia Black Vomit vi sono tante cose e Cosmosatanic Wisdom è tutto da scoprire, con la sorpresa e la gratificazione dei dischi che vanno oltre la musica e che disegnano altre traiettorie, così poco comuni di questi tempi.

Black metal molto poco ortodosso dall’Italia, pubblicato da una delle migliori etichette della scena.

Se quanto sopra non vi ha convinto, ascoltate direttamente in disco, che merita moltissimo. Il black metal proposto dagli Agonia Black Vomit ha un taglio fortemente mediterraneo, infatti si rifà alla scena italo/greca, che ha le sue belle differenze rispetto a quella scandinava. Qui non troviamo solo velocità, ma molta incisività e ricerca di un giusto equilibrio tra potenza, marcezza, il tutto sotto la nera egida dell’unico Signore possibile. Questa one man band italica, avvolta dal giusto mistero, è debitrice dell’ortodossia black metal, ma si stacca quasi dal nero sentiero per esplorare personalmente le tenebre, e trova efficacemente una via personale. La voce è un growl marcio ma intelligibile, la produzione è molto precisa e rende giustizia della bravura dell’unico membro Agonia. Non vi sono rilevanti novità sonore, e non erano nemmeno richieste, poiché questo è un solido disco di black metal, strettamente per gli amanti del genere. Una delle proprietà migliori del genere è che si può declinare in molti termini e questo è uno dei migliori. Ascoltando Cosmosatanic Wisdom si entra in una visione del mondo che, man mano che si procede, diventa molto chiara e condivisibile, poiché il peggiore satanismo lo abbiamo sotto i nostri occhi tutti i giorni, mentre quello qui contenuto è di livello molto più elevato. Nelle canzoni di Agonia Black Vomit vi sono tante cose e Cosmosatanic Wisdom è tutto da scoprire, con la sorpresa e la gratificazione dei dischi che vanno oltre la musica e che disegnano altre traiettorie, così poco comuni di questi tempi. Per i neri amanti o per chi volesse sviare, ma si sappia che non è la follia di un attimo, bensì una filosofia ben definita e soprattutto difficile e dolorosa.

Tracklist
01. Departure From Degrade
02. Engines Of Hate
03. The Acid Soil
04. Parallel Descanting Visions
05. The Peaceful Solitude
06. Alone
07. Symphony Of Suffering

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