Abske Fides – O Sol Fulmina a Terra

Gli Abske Fides si rendono autori di un lavoro che li porta di prepotenza alla ribalta della vivace scena doom brasiliana.

In occasione della recensione dell’omonimo full length d’esordio degli Abske Fides, esprimevo la sensazione che il lavoro costituisse ancora un momento i passaggio, alla luce delle diverse influenze che andavano ad intaccare la solida base doom.

Proprio questa apparenza ondivaga, unita ad un ricorso frequente a clean vocals quanto meno rivedibili, mi aveva lasciato leggermente perplesso e, quindi, non posso che esprimere la massima soddisfazione nel costatare che, con questo O Sol Fulmina a Terra, la musica del destino torna ad ammantare in toto il sound del gruppo brasiliano stendendovi sopra il suo velo luttuoso e la sua pesante ineluttabilità.
O Sol Fulmina a Terra, fin dal titolo, non lascia presagire nulla di buono per il futuro di un’umanità allo stremo e impotente di fronte all’inevitabile resa finale: la bravura del trio paulista, in questo caso, risiede nel riuscire a rendere in maniera magistrale questo senso di soffocamento e disperazione, senza rinunciare ad una costruzione melodica sempre efficace, questa volta abbinata ad un growl efficace che lascia spazi ridottissimi a vocalità pulite.
Anche se ogni tanto qualche scelta sonora non convince appieno, come certe dissonanze chitarristiche nella pur bellissima opener Na Planície Vermelha, gli Abske Fides si rendono così autori di un lavoro che li porta di prepotenza alla ribalta della vivace scena doom brasiliana: l’incedere sofferto di Árido Homem e della conclusiva Terra Vazia rappresenta in pieno la drammaticità di un death doom che non fa sconti, rendendo quasi visibile la disperazione di chi si aggira, ultimo superstite, su una Terra che il Sole, dopo aver cullato per eoni con il suo calore, ha deciso di annientare in maniera definitiva.
L’iniziale afflato melodico di Imóveis Ares è uno dei pochi momenti in cui è possibile collegare l’operato dei nostri a quello dei concittadini HellLight, tanto è differente l’approccio delle due band alla stessa materia, ma è solo un momento, appunto, visto che poi il brano riprende il suo dipanarsi plumbeo per poi rarefarsi nella parte finale e sfociare nell’inquietante strumentale Interregno.
Personalmente sono molto soddisfatto di questa prova, non solo per il suo valore intrinseco, ma soprattutto perché, nel momento in cui una doom band comincia a farsi attrarre da sonorità post metal o progressive, la considero quasi persa alla causa pur comprendendone il desiderio di evolversi verso altre forme musicali: gli Abske Fides dimostrano, con O Sol Fulmina a Terra, che fare un passo indietro talvolta equivale a farne tre avanti, e chi ama questo genere musicale unico non potrà che convenirne con me …

Tracklist:
1. Na Planície Vermelha
2. Árido Homem
3. Imóveis Ares
4. Interregno
5. Terra Vazia

Line-up:
K. – Drums, Bass, Vocals
Nihil – Guitars
N. – Guitars, Vocals

ABSKE FIDES – Facebook

Dwell – Desolation Psalms

Il death doom del gruppo di Aarhus è asciutto, molto più votato alla prima delle due componenti, ma senza disdegnare rallentamenti o aperture melodiche contraddistinte da un buon lavoro chitarristico.

Interessante uscita per i danesi Dwell, band che pubblica questo ep di quattro brani in attesa di presentare il primo album su lunga distanza.

Il death doom del gruppo di Aarhus è asciutto, molto più votato alla prima delle due componenti, ma senza disdegnare rallentamenti o aperture melodiche contraddistinte da un buon lavoro chitarristico.
In tal senso emerge quale traccia più efficace Teeth Gnawing, segnata da una ritmica accelerata, così come l’opener March of the Leeches, mentre il vero brano 100% doom è la conclusiva e più cupa None but my Bones (The Inevitable Absence of Time è invece un bello strumentale di natura ambient).
Nulla per cui strapparsi i capelli ma neppure un lavoro da sottovalutare: Desolation Psalms gode di una buona prova complessiva, con un’interpretazione vocale ruvidamente efficace di Jens B. Pedersen e un tocco chitarristico malinconico il giusto da parte di Morten Adsersen.
I Dwell si segnalano per il loro impatto, valorizzato da una produzione di livello, evento tutt’altro che casuale anche per l’esperienza dei musicisti coinvolti: per tutti questi motivi l’ep va ascoltato anche in proiezione del futuro full length.

Tracklist:
1. March of the Leeches
2. Teeth Gnawing
3. The Inevitable Absence of Time
4. None but my Bones

Line-up:
Jens B. Pedersen – Vocals
Quentin Nicollet – Bass
Morten Adsersen – Guitars
Kenneth Holme – Keyboards
Andreas Joen – Drums

DWELL – Facebook

Self-Hatred – Theia

Theia appare solidamente intriso dell’umore tragico dei Swallow The Sun così come del lirismo malinconico dei Saturnus, meritandosi il plauso degli appassionati.

Sono trascorsi circa due anni dalla recensione dell’esordio degli Et Moriemur, band ceca capace di inserirsi con autorità tra le realtà più promettenti del doom death melodico, ed oggi tocca ad un altro gruppo proveniente da quella nazione a cercare di farsi largo.

Si tratta dei Self-Hatred, che con i connazionali precedentemente citati hanno in comune due elementi, il batterista Michael “Datel” Rak ed il chitarrista Aleš Vilingr, oltre ad uno stesso sentire nell’esprimere le proprie inclinazioni musicali.
Rispetto agli Et Moriemur, i Self-Hatred differiscono soprattutto in alcuni particolari, tra i quali il più evidente è l’utilizzo sia di un abrasivo scream alternato al growl, da parte del bravo Kaťas, sia di vocalizzi femminili efficaci quando si limitano ad interventi in stile Natalie Koskinen, un po’ meno quando indulgono in prolungati gorgheggi lirici.
Nel complesso il disco è di buonissimo livello, grazie ad una serie di brani eseguiti e prodotti senza sbavature, tra i quali spiccano l’opener Guilt, dai tratti soffocanti in avvio ed in conclusione, Slither, gratificata da una linea melodica drammatica, e la conclusiva Memories, traccia che si rivela emblematica di un talento compositivo tutt’altro che trascurabile.
E’ sempre bene ricordare che in questo genere nulla si crea e nulla si distrugge, per cui Theia appare solidamente intriso dell’umore tragico dei Swallow The Sun così come del lirismo malinconico dei Saturnus, meritandosi il plauso degli appassionati, come spesso accade per le uscite marchiate Solitude.
Tenendo conto anche dell’ultimo splendido lavoro dei Quercus, i Self-Hatred dimostrano come, nella scena metal ceca, certe sonorità stiano trovando sempre più spazio con uscite di assoluta qualità.

Tracklist:
1. Guilt
2. Theia
3. Slither
4. Attraction
5. No Judgement
6. Self-reflection
7. Memories
Line-up:

Štěpán Eret – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Pavel Janouškovec – Guitars
Michal Šanda – Keyboards
Kaťas – Vocals

SELF-HATRED – Facebook

Morast – Morast

I Morast dimostrano delle notevoli potenzialità, ben espresse tramite un sound costantemente carico di tensione, magari non troppo vario ma sicuramente efficace

La Totenmusik pubblica la versione in vinile del demo d’esordio dei Morast, uscito originariamente lo scorso anno.

La band tedesca è dedita ad una forma di death doom piuttosto aspra e con una propensione allo sludge che mi ricorda non poco i primi Disbelief, anche per il ringhio sofferto esibito dal vocalist F, in analogia a quello di Karsten Jäge nel magnifico Worst Enemy.
Il disco dura poco più di 25 minuti, sufficienti per intuire nei Morast delle notevoli potenzialità, ben espresse tramite un sound costantemente carico di tensione, magari non troppo vario ma sicuramente efficace, specialmente nelle ottime Cold Side Of Bliss e Purging, tracce imbottite di una rabbia repressa che pare sempre sul punto di esplodere ma che viene trattenuta all’interno di uno scheletro compositivo compatto, un po’ meno nelle ugualmente valide, ma inferiori per intensità, Alleingang ed Error.
Una band da tenere in grande considerazione, in attesa del primo full length che dovrebbe essere licenziato nella prima metà del 2017.

Tracklist:
1. Alleingang
2. Cold Side Of Bliss
3. Error
4. Purging

Line-up:
L – drums
R – bass
F – vocals
J – guitar

MORAST – Facebook

Evil Spirit – Cauldron Messiah

Gli Evil Spirit danno l’impressione di farsi guidare da un istinto a tratti selvaggio, che va a rivestire di una certa freschezza una proposta che affonda le proprie radici comunque nel passato.

Gli Evil Spirit sono una band che ha la propria base sul suolo tedesco, anche se all’interno del trio è preponderante la componente sudamericana con i suoi fondatori Marcelo Aguirre (voce e batteria) ed Ari Almeida chitarra), in seguito raggiunti dal bassista Saäth Nokr.

Non paia superflua questa precisazione, perché, come abbiamo già visto in passato, la scuola metallica sudamericana mostra una spiccata propensione verso un genere come il doom-death di matrice tradizionale, che è appunto quanto offerto dal trio.
Cauldron Messiah è il solo full length pubblicato finora dalla band, in prima battuta nel 2014 ad opera della Horror Records, unicamente in vinile e cassetta: la Terror From Hell Records ne cura due anni dopo l’uscita nel più pratico formato in cd, compiendo cosa gradita perché trattasi di un’opera del tutto meritevole di una riscoperta.
Come detto, il doom degli Evil Spirit è quanto mai legato alla tradizione, sia quando il sound appare più canonico e pulito, sia quando viene lasciato galoppare in accelerazioni violente e sporcato da un’anima death che va a comporre un quadro complessivo sicuramente vintage, ma ricco di un suo fascino.
Volendo trovare un aggancio con qualche album del passato, direi che l’ascolto della title track, posta a suggello del buon lavoro, svela quale sia una delle fonti alle quali si abbeverano gli Evil Spirit: difficile, infatti, non rinvenire forti richiami al seminale Forest Of Equlibrium dei Cathedral, anche se il terzetto ha una spiccata tendenza a lasciarsi andare ad accelerazioni improvvise, quanto furiose e quasi convulse rispetto al monolitico incedere che fu di Dorrian e soci, ed è questo che conferisce a Cauldron Messiah una piacevole imprevedibilità.
Gli Evil Spirit danno l’impressione di farsi guidare da un istinto a tratti selvaggio, che va a rivestire di una certa freschezza una proposta che affonda le proprie radici comunque nel passato: bravi quindi i nostri nello spremere il massimo dalle loro potenzialità.
Del resto il doom è sempre necessario, pure quando è brutto sporco e cattivo e non offerto nella sua più avvolgente forma melodica ed evocativa.

Tracklist:
1. Intro (Him the Almighty Power)
2. Grey Ashes of the Reptile
3. Eve of the Beholder
4. Let the Dragon Be My Guide
5. Reino sangrento
6. Push Angie Back into the Swamp
7. Cauldron Messiah

Line-up:
Marcelo Aguirre Drums, Vocals, Percussion
Saäth Nokr Bass
Ari Almeida Guitars

EVIL SPIRIT – Facebook

Deprive – Temple of the Lost Wisdom

Chi vuole ascoltare del death doom nella sua forma più oscura e meno ammiccante deve seguire la strada percorsa dai Deprive

Eccoci alle prese con l’ennesimo “workaholic” del metal, uno della genia di personaggi come Déhà, per intenderci, capaci di tenere in piedi un numero di progetti in doppia cifra facendo ragionevolmente ritenere che alcuni mortali siano realmente dotati del dono dell’ubiquità.

La cosa rimarchevole è però che, il più delle volte, tale iperattività non va a discapito della qualità e, addirittura, per il citato musicista di origine belga la tendenza pare essere paradossalmente all’opposto.
Erun-Dagoth, al secolo lo spagnolo Javier Sixto, è un produttore e musicista coinvolto, tra passato e presente, in oltre una ventina di band e progetti tra i quali questo denominato Deprive, con il quale il nostro ci fa ripiombare senza misericordia in atmosfere piacevolmente novantiane.
Chi ha amato gli album pubblicati in quel decennio da Morbid Angel ed Incantation, tanto per citare i due nomi più pesanti che vengono in mente, troverà pane per i propri denti in questo Temple of the Lost Wisdom, lavoro che al detah dei primordi unisce mirabilmente quei mortiferi rallentamenti di matrice doom che fecero la fortune di molti in quel periodo.
La bontà dell’operato del musicista di Santander risiede principalmente nella sua capacità di rendere relativamente vari i diversi brani, rinunciando ad un approccio annichilente e optando, invece, per l’inserimento di parti in cui il sound si fa morbosamente melodico; se a tutto questo aggiungiamo una prestazione rimarchevole sotto tutti gli aspetti, in considerazione della natura rigorosamente solista del progetto, il giudizio finale per quest’opera non può che essere decisamente positivo.
I tre quarti d’ora di musica estrema di prima classe trovano il loro picco in una traccia magistrale come Gospel of the Black Sun, nella quale un appassionato di musica del destino come il sottoscritto non può fare a meno di godere di quello che è, a tutti gli effetti, un’esibizione emblematica del migliore death doom, con le furiose accelerazioni inframmezzate da bruschi rallentamenti nei quali la chitarra disegna armonie tutt’altro che banali, il tutto sovrastato da un growl magari un pizzico monocorde ma perfetto per il contesto.
Ecco, chi vuole ascoltare del death doom nella sua forma più oscura e meno ammiccante deve seguire la strada percorsa dai Deprive, perchè in Temple of the Lost Wisdom si trova lo stato dell’arte del sottogenere, rappresentato da un songwriting ispirato e da una produzione, finalmente, coerente con le sonorità proposte.

Tracklist:
1. Other Earth
2. A Mournful Prophecy
3. Vortex of Repulsion
4. Doomed Tears of Humanity
5. Hyperborean Serenades – The Elder Race Mystery
6. Gospel of the Black Sun
7. Temple of the Lost Wisdom
8. Fall of Atlantis
9. A Desperate Praise
10. Incarnation of the Macabre

Line-up:
Erun-Dagoth – All instruments, Vocals

DEPRIVE – Facebook

Eye Of Solitude – Cenotaph

L’ennesimo grande disco di una band che non finisce mai di regalare emozioni.

Gli Eye Of Solitude, rispetto alla maggior parte delle doom band, si distinguono per una produzione più cospicua che, quasi magicamente, non va affatto a discapito della qualità.

Infatti, a fronte di chi fa trascorrere diversi anni tra un uscita e l’altra, il gruppo guidato da Daniel Neagoe solletica con una certa frequenza il palato dei numerosi estimatori, guadagnati grazie alla pubblicazione di un capolavoro come Canto III (2013) ed ad altri due lavori magnifici come Sui Caedere (2012) ed Dear Insanity (2014).
Nel 2015 il nome del gruppo londinese è balzato agli onori della cronaca, prima grazie allo split con gli olandesi Faal, poi, anche per la valenza benefica dell’operazione, con la pubblicazione on-line del singolo Lugubrious Valedictory, volto alla raccolta di fondi da devolvere a favore dei familiari di coloro che persero la vita nella tragedia del Colectiv Club di Bucarest, risalente allo scorso ottobre.
Fatte le debite premesse, veniamo a parlare del nuovo album Cenotaph, la cui uscita è prevista per il 1 settembre e che, al momento, non vede alcuna etichetta assumersi l’onere (ma soprattutto l’onore) della sua pubblicazione.
Se, come detto, Canto III costituiva la quintessenza del sentire musicale degli Eye Of Solitude potendosi considerare, per certi versi, un qualcosa di irripetibile grazie alla sua perfetta espressione di un deathdoom melodico e parossistico per intensità, Dear Insanity si spostava maggiormente verso un funeral dagli ampi tratti ambient; Cenotaph riesce nella non facile impresa di assimilare il meglio da entrambi i lavori, restando sicuramente su posizioni più vicine all’ep precedente ma arricchendole con quei crescendo emotivi che sono il marchio di fabbrica di Neagoe e soci.
Rispetto all’opera di matrice dantesca, Cenotaph appare sicuramente meno immediato, evidenziando, come già notato in Dear Insanity, un’attitudine chitarristica più propensa ad accompagnare il sound piuttosto che ad ergersi quale protagonista, facendo sì che, alla fine, il vero “strumento” chiave del lavoro divenga proprio l’inimitabile growl di Daniel.
Proviamo per assurdo ad azzerare gli interventi del vocalist rumeno: ne resterebbe comunque un superlativo album strumentale al quale, però, verrebbe meno l’elemento cardine in grado rendere “fisico” il tormento e lo smarrimento evocato dalla musica.
Infatti, la commozione che oggi pochi come gli Eye Of Solitude sono capaci di indurre, nasce da un lavoro d’insieme, dall’afflato compositivo di una band che si muove all’unisono, preparando il terreno, tramite passaggi rarefatti ed atmosfere quasi cullanti, alla deflagrazione di un pathos che assume le sembianze di un crescendo vorticoso e dall’intensità insostenibile.
Questa è, a grandi linee, la descrizione di un brano come A Somber Guest, uno dei picchi assoluti della carriera di una band unica, oggi, per la propria particolare opera di sbriciolamento di ogni barriera psichica che l’inconscio provi ad erigere.
Il dolore, la paura dell’ignoto, l’ineluttabilità della morte: tutto ciò viene rovesciato sull’ascoltatore, prima sgomento ed indifeso di fronte ad una tale offensiva, poi gradualmente capace di compenetrarsi con la musica facendosi consapevolmente travolgere da una marea emotiva che, ritirandosi, lascia quale preziosa traccia del suo passaggio un catartico stupore.
La title track prima, e This Goodbye. The Goodbye, poi, sono esempi di quella rarefazione del suono che, se non raggiunge l’intensità esibita in altri passaggi dell’album, costituisce il magnifico preludio ad aperture melodiche che inducono senza remissione alle lacrime, come avviene in maniera esemplare e definitiva nella seconda parte dell’altro brano capolavoro Loss, a suggello dell’ennesima opera monumentale targata Eye Of Solitude.
Cenotaph è tappa obbligata per chi vuole affrontare privo di preconcetti una forma d’arte che, invece di occultare le miserie dell’esistenza rivestendole grottescamente di una gioia artefatta , le esibisce senza pudori per poi trasformarle in un’esperienza liberatoria, facendo vibrare le corde più profonde dell’animo umano.

Tracklist:
1. Cenotaph
2. A Somber Guest
3. This Goodbye. The Goodbye
4. Loss

Line-up:
Daniel Neagoe – Vocals
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Steffan Gough – Guitars

EYE OF SOLITUDE – Facebook

Vanhelgd – Temple of Phobos

Temple Of Phobos non mancherà di affascinare gli amanti dei suoni oscuri e dalle tematiche occulte ed horror

Scivolando lentamente sul letto di acque scure ci avviciniamo al tempio di Phobos, dove ad aspettarci, sinistri e crudeli ci sono i Vanhelgd, dal 2007 sacerdoti malvagi di litanie metalliche estreme tra doom metal, black e old school death.

Tre full length alle spalle, una discografia che ha dato in pasto ai cultori del metallo più oscuro un disco ogni tre anni circa, partendo da Cult Of Lazarus fino a quest’ultimo lavoro, e con in mezzo Church of Death del 2011, Relics of Sulphur Salvation del 2014, ed un unico ep uscito nel 2010 dal titolo Praise the Serpent.
Accompagnato da una bellissima copertina raffigurante un “Caronte” che si avvicina al tempio, in classico stile doom, Temple Of Phobos non mancherà di affascinare gli amanti dei suoni oscuri e dalle tematiche occulte ed horror, grazie soprattutto ad un songwriting vario e a tratti entusiasmante per quel modo di coniugare i generi citati con grande maestria, creando così un’opera dai tratti nerissimi ma dalle sfumature cangianti.
La pesantezza del doom metal, dai riff che ricordano non poco i Paradise Lost dei primi bellissimi lavori (Gravens lovsång sembra uscita dalle sessions di Gothic), lasciano spazio a sferzate dai rimandi black e mid tempo ispirati dallo swedish death metal di primi anni novanta in un’escalation di emozioni intense, spesse come l’acqua nera come la pece del fiume che porta al sacro tempio di Phobos, mentre tra la boscaglia occhi di fuoco seguono il percorso di questo liquido letto di morte.
Enorme il lavoro delle due asce ispiratissime in tutte le loro cangianti sfumature e che come demoni, a turno, si impossessano di Mattias “Flesh” Frisk e Jimmy Johansson, coppia che non manca di imprimere il loro marchi anche dietro al microfono.
La sezione ritmica (Jonas Albrektsson al basso e Björn Andersson alle pelii) non può che assecondare il mood dell’album con cambi di tempo da una song all’altra, che mantengono un livello alto anche se la parte doom/death è quella che imprime un salto di qualità importante a tutto Temple Of Phobos.
Il death/black dell’opener Lamentation of the Mortals, la già citata e stupenda Gravens lovsång e la conclusiva Allt hopp är förbi sono i picchi qualitativi di un album bello, inquietante e che non può mancare nella discografia di chi ama questi generi e le opere dei primi anni novanta.
Inoltratevi nella foresta (l’inquietante barcaiolo vi sta già aspettando) e andate alla ricerca del tempio di Phobos, non ve ne pentirete.

TRACKLIST
1. Lamentation of the Mortals
2. Rebellion of the Iniquitous
3. Den klentrognes klagan
4. Temple of Phobos
5. Gravens lovsång
6. Rejoice in Apathy
7. Allt hopp är förbi

LINE-UP
Björn Andersson – Drums
Mattias “Flesh” Frisk – Guitars, Vocals
Jimmy Johansson – Guitars, Vocals
Jonas Albrektsson – Bass

VANHELGD – Facebook

Vainaja – Verenvalaja

Death metal di marca doom al servizio della narrazione di una strana storia tutta finlandese. L’opera dei Vainaja si basa tutta sulla vita e i libri di Wilheim Waenaa, una mistica figura del folklore finlandese.

Death metal di marca doom al servizio della narrazione di una strana storia tutta finlandese.

L’opera dei Vainaja si basa tutta sulla vita e i libri di Wilheim Waenaa, una mistica figura del folklore finlandese. Da quel poco che si sa di questo personaggio apprendiamo che era la figura principale dietro al culto rurale di Vainaja, un’entità che terrorizzava i contadini e non solo loro.
Questo culto nacque e prosperò principalmente nel diciottesimo secolo, e rappresenta un unicum, visto le sue peculiarità. Il credo che venerava Vainaja era incentrato sulla blasfemia, sui sacrifici umani e sulla guerra agli infedeli tra le altre cose. E fin qui nulla di strano. Verenvalaja è l’unico scritto conservato e tramandatoci di Waenaa, e parla di una resurrezione, anzi meglio di una morte e successiva reincarnazione in una creatura maligna. I capitoli del libro sono sei come le canzoni del disco. I Vainaja fanno death metal di matrice doom, con uno strano incedere, lento ma inesorabile, e totalmente originale.
Ci sono anche echi di post metal per rendere la miscela esplosiva. I testi in finlandese non aiutano la comprensione, ma state certi che i Vainaja si fanno capire benissimo con la musica. La Svart contribuisce come al solito a portare alla ribalta particolarità tutte finlandesi come questo disco e questa storia. Le atmosfere malate e strane dei Vainaja ci portano in un posto brutale ed estremo, e le cose si svolgono alla velocità del sangue.
Un disco nuovo per un gruppo che va ben oltre la musica.

TRACKLIST
1.Risti
2.Sielu
3.Usva
4.Valaja
5.Kultti
6.Kehto

LINE-UP
Wilhelm – sermons
Aukusti – gravedigging
Kristian – cantoring

VAINAJA – Facebook

Into Coffin – Into Pyramid of Doom

Gli Into Coffin si rivelano buoni interpreti di sonorità aspre e rallentate che restituiscono sensazioni positive grazie ad un’esecuzione senza fronzoli ma sempre precisa.

Dopo un demo uscito lo scorso anno, i tedeschi Into Coffin esordiscono con questo full length a base di un death doom aderente all’ortodossia del genere, soprattutto per quello che ne riguarda gli aspetti più ruvido e meno melodici.

I ragazzi dell’Assia vanno ad inserirsi alla perfezione nel punto in cui la pesantezza del classic doom si interseca con la virulenza del death, prendendo come possibile riferimento una band come gli Winter, ma arricchendone ulteriormente il sound con più di una sfumatura di stampo black.
Gli Into Coffin nel complesso si comportano decisamente meglio di altre realtà simili trattate di recente, come i connazionali The Fog o i redivivi olandesi Spina Bifida, perché si rivelano buoniinterpreti di sonorità aspre e rallentate che restituiscono sensazioni positive grazie ad un’esecuzione senza fronzoli ma sempre precisa e valorizzata da una buona produzione.
Chiaramente, Into Pyramid of Doom è un lavoro che, al netto di qualche tentazione ambient, tende ad essere piuttosto uniforme nel suo cupo incedere, un aspetto questo che viene accentuato anche dall’attenzione posta dagli Into Coffin più all’impatto sonoro che non alla creazione di atmosfere accattivanti; ne deriva che il gradimento di un lavoro come questo dipende molto dal gusto personale, per cui chi è più propenso al doom-death melodico può anche trascurare questo disco mentre, al contrario, chi predilige sonorità più dirette e limacciose potrebbe trovare non poca soddisfazione.
Peraltro i nostri non si limitano a proporre partiture bradicardiche ma, sovente, si lanciano in efficaci accelerazioni che, se non si possono definire effettivamente elementi peculiari o sintomatici di una particolare varietà compositiva, riescono nell’intento di rompere, almeno in parte, il monolitico incedere dell’album.
Come brano da ascoltare per farsi un’idea più precisa della proposta consiglierei la conclusiva Black Ascension, traccia che in poco più di dieci minuti esibisce in maniera esauriente lo spettro sonoro entro il quale si muove la band tedesca.
Into Pyramid of Doom non è un’opera che lascerà il segno negli anni a venire ma non è neppure trascurabile, alla luce della competenza e della convinzione esibita nel corso del lavoro dagli Into Coffin.

Tracklist:
1. The Entrance
2. Stargate Path
3. Into a Pyramid of Doom
4. The Deep Passage for the Infinity of the Cosmo
5. Black Ascension

Line-up:
G. – basso, voce
S. – chitarra, voce
J. – batteria

INTO COFFIN – Facebook

Vuolla – Blood. Stone. Sun. Down.

I quasi settanta minuti di musica riversata in Blood. Stone. Sun. Down. non stancano affatto, dimostrando l’assoluta bontà della proposta e la brillantezza compositiva dei Vuolla

Dalla sempre prolifica Finlandia arrivano i Vuolla, band che dopo diversi anni di attività arriva al full length d’esordio intitolato Blood. Stone. Sun. Down.

Particolare non da poco, i nostri preovengono da Jyväskylä, città situata a circa 300 km a nord di Helsinki, dalla quale sono partiti anche i Swallow The Sun, il che costituisce un indizio piuttosto forte sul tipo di sound che bisogna attenderci da questo lavoro.
In effetti, i Vuolla si cimentano con un death doom melodico che prende spunto più dai primi lavori dei concittadini che non dagli ultimi, anche se viene connotato dalla voce di Kati Kalinen, che si alterna al growl di Kalle Korhonen.
Diciamo subito che la voce della tastierista (nonché moglie del chitarrista Ilari Kallinen ) non è proprio il punto di forza della band, anche se il suo timbro quasi adolescenziale si integra bene con un sound che fa di un mood malinconico la sua ragion d’essere, sviluppandosi lungo coordinate che spesso toccano le giuste corde, con spunti notevoli e tutt’altro che scontati.
I quasi settanta minuti di musica riversata in Blood. Stone. Sun. Down. non stancano affatto, dimostrando l’assoluta bontà della proposta e la brillantezza compositiva dei Vuolla, i quali si lasciano andare talvolta a digressioni di matrice post metal all’interno di qualche brano senza perdere mai di vista l’obiettivo finale, quello di comporre brani emozionanti e dall’andamento dolente.
Peraltro, l’album gode di un livello qualitativo medio elevato, senza tracce che spicchino in maniera decisa rispetto ad una tracklist omogenea in cui, forse si fanno preferire la swallowiana Emperor e, in generale, i momenti in cui le due voci si alternano creando quella contrapposizione di atmosfere che è il sale del genere.
L’esordio dei Vuolla è, quindi, un ulteriore tassello che si va ad aggiungere ad un mosaico nel quale il movimento finnico la fa sempre da padrona, fin dai tempi dei Thergothon, per restare sui versanti più funerei del doom, e dei Decoryah, band che illuminò con due dischi magnifici la scena dei primi ’90 e alla quale riportano talvolta passaggi ed umori contenuti in Blood. Stone. Sun. Down.

Tracklist:
1. Death Incredible
2. Emperor
3. Chambers To Fill With Longing
4. Rain Garden
5. Shadow Layer
6. Rivers In Me
7. Film
8. Quiet Cold

Line-Up:
Kati Kallinen – vocals and keyboards
Mika Laine – bass
Ilari Kallinen – guitars
Kalle Korhonen – growls
Timo Ruunaniemi – drums

VUOLLA – Facebook

Coffin Lust – Manifestation of Inner Darkness

Un mare di odio mosso da onde di sporcizia e sangue.

Un mare di odio mosso da onde di sporcizia e sangue. I Coffin Lust sono un duo australiano che propone un death metal cattivo e sporco, a volte veloce, spesso lento e pregno di malvagità.

I due componenti del gruppo sono due veterani della scena metal australiana. Il loro debutto come Coffin Lust è un demo del 2012 intitolato Beyond The Dark, quattro tracce nelle vene di Autopsy, Dismbember, vecchia scuola insomma. Nel lavoro attuale le coordinate generali sono quelle, ma spesso nel disco nuovo il suono si rallenta per fa affiorare maggiormente la cattiveria e la sporcizia. I Coffin Lust grattano alla ricerca della cattiveria che alberga in ognuno di noi, cattiveria che il death metal riesce a purificare senza grossi danni per noi e per i nostri simili. Sporca cattiveria australiana in lp, cd e cassetta.

TRACKLIST
1. Execration of Mortality
2. Beyond Redemption
3. Chaos Absolute
4. Swarming Black Inferno
5. Damnation’s Bringer
6. Prophecy of Malevolence
7. Manifestation of Inner Darkness

LINE-UP
J.R. – Drums, Guitars.
P.W. – Guitars, Vox.

COFFIN LUST – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

October Tide – Winged Waltz

Pur in presenza di una serie di canzoni ineccepibili formalmente e dotate di notevoli spunti, il disco si adegua ad un andamento che, se non delude, neppure ricrea il pathos raggiunto con lo splendido brano d’apertura.

Gli October Tide, quando mossero i loro primi passi alla fine del secolo scorso, attirarono su di loro una certa attenzione essendo di fatto una sorta di costola death doom dei ben più noti Katatonia, grazie alla presenza in formazione di Fredrik Norrman e di Jonas Renkse.

Peraltro la bontà di lavori come Rain Without End, uscito subito dopo Brave Murder Day, anche se la sua genesi va fatta risalire a qualche anno prima, e Grey Dawn, che arrivò invece subito dopo la coppia di capolavori Discouraged Ones e Tonigth’s Decision , giustificò ampiamente l’attenzione loro riservata da appassionati e addetti al lavori.
Dopo diversi anni di oblio Fredrik Norrman, successivamente alla sua uscita dai Katatonia, decise di ridare nuovo impulso alla band riportandola agli onori della cronaca con due lavori che videro la luce all’inizio di questo decennio, A Thin Shell e l’ottimo Tunnel Of No Light
Questo Winged Waltz, quindi, veniva atteso come una sorta di spartiacque in grado di stabilire quale fosse l’attuale status degli October Tide, ma la risposta a tale quesito credo debba essere rinviata alla prossima occasione: la band, infatti, spara subito la propria cartuccia migliore, Swarm, brano coinvolgente e dalla qualità che non a tutti è concesso raggiungere, ma poi, pur in presenza di una serie di canzoni ineccepibili formalmente e dotate di notevoli spunti, il disco si adegua ad un andamento che, se non delude, neppure ricrea il pathos raggiunto con l’opener.
Ciò che lascia perplessi, negli October Tide, è che solo a tratti riescono e trasmettere le emozioni che chi ascolta questo genere si attende, tanto più quando ad essere coinvolto è, come in questo caso, un musicista come Norrman, oggettivamente di levatura superiore alla media e con alle spalle una storia così importante.
Detto questo, affermare che Winged Waltz non sia un buon disco sarebbe quasi disonesto intellettualmente, perché di rado è dato ascoltare musica così ben eseguita e prodotta, ma qui la tensione drammatica si palesa in maniera troppo intermittente, compressa tra un incedere per lo più ritmato e talvolta relativamente catchy (A Question Ignite) e qualche limpida apertura chitarristica il cui afflato melodico non viene poi sfruttato come si potrebbe.
Alexander Högbom alla voce conferma le buoni impressioni destate in Tunnel Of No Light, Fredrik Norrman è chitarrista sopraffino, ben coadiuvato da Emil Alstermark , dal fratello Mattias al basso e da Jocke Wallgren alla batteria, ma resta il fatto che, oltre alla già citata Swarm ed alla “katatonica” Lost in Rapture, gli October Tide non riescono ad infondere le suggestioni emotive con la continuità che sarebbe lecito attendersi.
Ma forse sono io ad essere troppo esigente nei confronti di un musicista come Norrman, al quale posso essere solo grato per essere stato partecipe di alcuni dischi che hanno fatto la storia; probabilmente chi si porrà nei confronti di Winged Waltz con diverse aspettative potrebbe restare, invece, oltremodo soddisfatto.

Tracklist:
1. Swarm
2. Sleepless Sun
3. Reckless Abandon
4. A Question Ignite
5. Nursed by the Cold
6. Lost in Rapture
7. Perilous
8. Coffins of November

Line-up:
Alexander Högbom – vocals
Fredrik Norrman – guitars
Mattias Norrman – bass
Emil Alstermark – guitars
Jocke Wallgren – drums

OCTOBER TIDE – Facebook

Excruciation – (C)rust

Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature

Torna al full lenght la storica band svizzera Excruciation, dopo una serie di singoli ed ep che ha caratterizzato la discografia degli ultimi due anni.

Partito una trentina di anni fa come thrash metal band, il gruppo di Zurigo ha nel corso del tempo spostato le sue coordinate stilistiche verso un doom/death grezzo, alimentandolo con ottime atmosfere dark, come si evinceva dall’ep Twenty Four Hours, recensito su queste pagine.
Questo lavoro riprende in parte l’irruenza del sound proposto sui precedenti lavori come (G)host, senza perdere le atmosfere oscure ed ottantiane espresse nelle ultime releases.
(C)rust trova nella nuova via intrapresa dal gruppo, una sorta di linfa che contribuisce a rendere il sound più fresco e vario, le atmosfere si alternano, così come il canto di Eugenio Meccariello che passa da uno stile estremo al profondo tono gothic/dark.
I ritmi si mantengono cadenzati, le chitarre abrasive, l’atmosfera sabbatica delle songs viene destabilizzata da sfumature ora dark, ora più orientate verso un metal che, dal vecchio sound suonato dal gruppo, prende l’aggressività e l’impatto.
A mio parere i due brani che si discostano di più dalla proposta monolitica e senza compromessi del gruppo risultano i momenti migliori di (C)rust: la dark oriented Olympus Mons, perfetta via di mezzo tra il gothic/dark classico e quello più intimista e dolente dei Joy Division (di cui la band ha offerto una valida cover nell’ep Twenty For Hours) e la gothic metal Days Of Chaos, che richiama i primi Paradise Lost, specialmente nella performance vocale vicina a quella del Nick Holmes di Icon.
Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature, (C)rust conferma il gruppo svizzero come un valido esponente dello stile proposto e da riscoprire se siete amanti delle sonorità plumbee e cadenzate che fanno capo alla musica del destino.

TRACKLIST
1. Judas’ Kiss
2. Disgrace
3. Olympus Mons
4. Lutheran Psalms
5. The Scent of the Dead
6. Borderline
7. Days of Chaos
8. Glorious Times

LINE-UP
D.D. Lowinger – Bass
Andy Renggli – Drums
Marcel Bosshart – Guitars
Hannes Reitze – Guitars
Eugenio Meccariello – Vocals

EXCRUCIATION – Facebook

www.youtube.com/watch?v=var78obYE3s

Ocean Of Grief – Fortress of My Dark Self

Fortress of My Dark Self consegna agli appassionati una band dalle enormi prospettive

Ep d’esordio per i greci Ocean Of Grief, i quali arrivano a dare man forte agli Immensity nel proporre una via ellenica al melodic death doom dai tratti altamente evocativi.

Rispetto ai concittadini, il sestetto ateniese propone una versione del genere più ortodossa rinunciando del tutto a pulsioni post metal e conseguente abbondante ricorso a break più rarefatti e clean vocals, per concentrarsi esclusivamente sull’impatto di un sound che trae evidentemente linfa dal già sentito, toccando però con costanza le giuste corde dell’emozione.
Considerando, appunto, che trattasi di band all’esordio la relativa mancanza di originalità passa del tutto in secondo piano, specie se la qualità del sound proposto è elevatissima, come nel caso specifico. In effetti, a ben vedere, i ragazzi ellenici non assomigliano a qualcuno in particolare ma assimilano tutte le loro influenze amalgamandole con sapienza, senza offrire mai la sensazione di trovarsi al cospetto di un banale lavoro di copia e incolla.
Così i cinque brani, neppure troppo lunghi per gli standard del genere, si snodano con grande fluidità e ricchezza di spunti, con un growl efficace ed una chitarra solista a tessere con continuità quelle melodie dolenti che non ci si stanca mai di ascoltare. Il pregio maggiore dagli Ocean Of Grief è quello di proporre il genere nella sua forma più pura, cercando di evocare le emozioni in maniera diretta senza ricorrere a complesse circonlocuzioni, facendo propria in tal senso la lezione dei maestri Saturnus.
Nel segnalare, in una tracklist di eccellente livello medio, due brani stupefacenti come House Of Misery e Drowning In Nostalgia, Fortress of My Dark Self consegna agli appassionati una band dalle enormi prospettive: un prossimo passo su lunga distanza potrebbe già risultare decisivo per consolidare gli Oceans Of Grief ai livelli di band quali Enshine (forse la maggiore fonte di ispirazione), When Nothing Remains, Evadne e Frailty, tanto per citare quelle più contigue alla sorprendente band greca.

Tracklist:
1. Spiritual Fortress
2. House of Misery
3. Futile Regrets
4. Drowned in Nostalgia
5. The Birth of Chaos

Line-up:
Aris Nikoleris – Keyboards
Giannis Koskinas – Bass
Thomas Motsios – Drums
Filippos Koliopanos – Guitars
Charalabos Oikonomopoulos – Vocals
Dimitra Zarkadoula – Guitars

OCEAN OF GRIEF – Facebook

Solothus – No King Reigns Eternal

No King Reigns Eternal è davvero un ottimo album, grazie ad una resa sonora ottimale che valorizza una scrittura nell’alveo della tradizione, ma sempre convincente nel suo far convivere in maniera fluida la ferocia del death e la pesantezza del doom.

Dalle gelide lande finniche emerge una nuova inquietante creatura denominata Solothus.

In effetti, No King Reigns Eternal è il secondo full length, che segue di circa tre anni il precedente Summoned from the Void, quindi non su può certo parlare di una band ai primi passi, ma è chiaro che questo nuovo ottimo lavoro potrebbe ampliare il novero dei suoi estimatori.
Il death doom dei Solothus è sbilanciato in maniera netta sulla prima delle due componenti, soprattutto nella prima parte del lavoro, laddove in The Betrayer e nella title track sono umori alla Morbid Angel (epoca Covenant) o alla Asphyx a predominare, per cui qui la melodia è confinata agli ottimi interventi della chitarra solista che, sovente, corrispondono anche ai momenti in cui il sound rallenta fino a farsi soffocante.
Lo stesso growl di Kari Kankaanpää non lascia spazio ad equivoci, le clean vocals sono del tutto bandite e il cavernoso grugnito è perfettamente funzionale alla resa finale del lavoro.
L’accoppiata Darkest Stars Aligned e Malignant Caress trasporta il sound verso il più cupo e grumoso sentire di band com gli Evoken, mentre Towers in the Mist appare più orientata ad un doom “classico”, con i suoi toni sabbatiani ampiamente irrobustiti nel loro incedere.
The Winds Of Desolation chiude nel migliore dei modi l’album: unica a superare i 10 minuti di lunghezza, la traccia è sostenuta da una linea chitarristica relativamente “catchy” senza che per questo vengano meno l’impatto e l’intensità costantemente caratterizzanti il sound dei Solothus.
No King Reigns Eternal è davvero un ottimo album, grazie ad una resa sonora ottimale che valorizza una scrittura nell’alveo della tradizione, ma sempre convincente nel suo far convivere in maniera fluida la ferocia del death e la pesantezza del doom.

Tracklist:
1. The Betrayer
2. No King Reigns Eternal
3. Darkest Stars Aligned
4. Malignant Caress
5. Towers in the Mist
6. The Winds of Desolation

Line-up:
Veli-Matti Karjalainen – Guitars
Kari Kankaanpää – Vocals
Juha Karjalainen – Drums
Sami Iivonen – Guitars, Vocals (backing)
Tami Luukkonen – Bass

SOLOTHUS – Facebook

Immensity – The Isolation Splendour

Il gruppo ellenico, nel corso di questo riuscito esordio su lunga distanza, dimostra d’aver appreso alla perfezione gli insegnamenti dei migliori nomi del settore

Un’altra band si affaccia al proscenio del metal più malinconico e melodico: si tratta dei greci Immensity, i quali con The Isolation Splendour entrano a far parte del ricco novero delle band europeo dedite al doom death atmosferico.

Il gruppo ellenico, nel corso di questo riuscito esordio su lunga distanza, dimostra d’aver appreso alla perfezione gli insegnamenti dei migliori nomi del settore, e parlo in particolare di Swallow The Sun e Daylight Dies, senza dimenticare spunti rinvenibili anche in band dalla storia più recente come Evadne e When Nothing Remains.
Se vogliamo, è questo l’unico punto dolente dell’album, ovvero il fatto di non mettere in mostra ancora un sound del tutto personale a differenza delle band citate, che esibiscono un tratto peculiare e riconoscibile nonostante tra di esse gli scostamenti siano apparentemente minimi.
Di loro, però, i ragazzi ateniesi ci mettono sicuramente un gusto melodico da primi della classe e un’interpretazione vocale impeccabile da parte di Leonidas Hatzimichalis, ottimo sia con il suo feroce growl sia con le più sognanti clean vocals.
The Isolation Splendour è senz’altro molto bello, curato a livelli di suoni, ricco di spunti notevoli e, in fondo, scorre esattamente come l’appassionato se lo aspetterebbe, ora guidato dalle dolenti note chitarristiche, ora con le clean vocals a dare respiro alla drammatica aura fornita dal growl.
Più brillante nella sua prima metà, l’album regala appunto tre preziose gemme come l’opener Heartfelt Like Dying e Irradiance, più orientate allo stile delle band d’oltreoceano (oltre ai già citati Daylight Dies, anche qualcosa dei primi Novembers Doom), anche se a differenza di queste troviamo più caratterizzanti break con clean vocals, e la title track, il brano migliore dell’album nel quale sono rinvenibili anche sfumature progressive; tutt’altro che trascurabili comunque, The Sullen, che offre notevoli spunti emozionali grazie al lavoro della chitarra solista, Everlasting Punishment, brano strumentale piuttosto elegante, e la conclusiva Adornment, sorta di atto d’amore nei confronti dei My Dying Bride nella sua fase iniziale, con successivo sviluppo all’insegna dello struggimento melodico, mentre Eradicate risulta un episodio più opaco rispetto al resto della tracklist.
Va detto che gli Immensity sono attivi comunque fin dai primi anni del decennio (infatti le ultime due tracce citate sono presenti anche nel demo datato 2012), per cui ciò che potrebbe apparire derivativo spesso non è altro che un percorso parallelo, all’insegna di un comune sentire musicale, con altre band emerse in tempi relativamente recenti.
In definitiva, The Isolation Splendour è un lavoro che sarà apprezzato non poco da parte degli appassionati al versante più melodico del death/doom: il prossimo obiettivo per il gruppo ellenico sarà quello di mantenere questo stesso standard qualitativo rendendo però maggiormente personale il proprio sound.

Tracklist:
1. Heartfelt like Dying
2. Irradiance (For the Unlight)
3. The Isolation Splendour
4. The Sullen
5. Everlasting Punishment
6. Eradicate (The Pain of Remembrance)
7. Adornment

Line-up:
Nora Koutsouri – Keyboards
Andreas Kelekis – Guitars
Leonidas Hatzimichalis – Vocals
George Kritharis – Bass
Yiannis Fillipaios – Drums
Chris Markopoulos – Guitars

IMMENSITY – Facebook

Aspercrucio – Dead Water

Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà

La Russia è l’ultima frontiera del metal gotico e romantico, lo è per quantità ma anche per qualità.

Non sono poche, infatti, le band provenienti da quelle lande che si sono rese autrici negli ultimi anni di ottime prove, più o meno estreme o comunque intrise di una componente doom. I siberiani Aspercrucio appartengono a questo novero e, come avvenuto per altre band dell’area ex-sovietica, la Nihil Art ha contribuito a promuovere fuori dai confini il lavoro già edito dalla Dark East, rendendolo più appetibile con la diffusione di note biografiche particolareggiate e rendendo comprensibili ai più i titoli dell’album e dei brani, grazie alla loro traduzione in inglese.
Infatti, il gothic doom degli Aspercrucio è cantato interamente in lingua madre, il che tutto sommato non incide più di tanto sulla sua fruibilità, visto che poi alla fine è sempre la musica a parlare e che, comunque, al giorno d’oggi ottenere una traduzione dei testi è piuttosto agevole.
L’aspetto principale di Dead Water è però il suo essere una sorta di emanazione del gothic doom novantiano: romantico, orecchiabile, con un bel lavoro solista delle chitarre, una tastiera che conduce le danze senza essere invadente ed il growl molto efficace del leader Stanislav Filinov, riporta piacevolmente alla memoria gli Evereve quand’erano ancora guidati dal povero Tom Sedotschenko, oppure quella scuola olandese che aveva per protagonisti, oltre ai più noti The Gathering, nomi “minori” come Moon Of Sorrow, Celestial Season ed Orphanage .
Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà (vedasi anche l’uso appropriato degli inserti vocali femminili), nel senso che non si ricorre mai a soluzioni debordanti per cercare di stupire ad ogni costo.
Pertanto, gli amanti del genere avranno di che godere ala cospetto di brani di ottima fattura come Broken Heart, Dreams e soprattutto Silence … Despair, canzone di oltre diciassette minuti che chiude l’album e che mette in mostra la capacità di offrire sonorità di volta in volta drammatiche, evocative ed intrise di splendide.
Tutto ciò è quanto gli Aspercrucio sono in gradi di offrire: oggettivamente, non poco.

Tracklist:
1.The Darkness Inside
2.Endless Leaf Fall
3.Broken Heart
4.Abyss
5.Alien Reflection
6.Dreams
7.Silence… Despair

Line-up:
Stanislav Filinov – guitars, vocals
Ahndor Yukhnevich – guitars, vocals
Mikhail Sartakov – bass guitar
Natalia Stupina – keyboards
Alexander Schukin – drums