NONSUN – Black Snow Desert

Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.

Dopo circa due anni dalla sua prima uscita in autoproduzione, l’album d’esordio dei Nonsun viene pubblicato in formato cd e digitale dalla Cimmerian Shade Recordings ed in vinile dalla Dunk!Records. Per l’occasione riproponiamo la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes, anche perché vale la pena di riportare questo buonissimo lavoro all’attenzione di chi non lo avesse intercettato all’epoca.

Gli ucraini Nonsun di sicuro non si sono posti dei problemi legati alla commercializzazione del loro prodotto, nel momento di comporre l’album: se già il proporre un genere come uno sludge/drone/doom dai tratti sperimentali riduce all’osso il bacino dei potenziali ascoltatori, farlo con un doppio cd per una durata di circa un’ora e mezza equivale all’atto di piantare i chiodi su una bara in cui è stata rinchiusa ogni forma di possibile ammiccamento.
Il bello di tutto questo, però, è che il duo di Lviv riesce a mettere sul piatto un lavoro sicuramente mastodontico ma non pesante, nel senso che, fatta salva la sua natura, si rivela un ascolto impegnativo senza risultare noioso.
Del resto, uno stile musicale di questo tipo, se interpretato senza un minimo di variazioni sul tema, rischia di rimanere troppo indigesto a chiunque: Black Snow Desert non si riduce, quindi, ad una sequela interminabile di sequenze droniche ma offre anche abbondanti porzioni di sludge doom, disturbate e disturbanti quanto basta per attrarre fatalmente l’attenzione. Per assurdo, una lunghezza che potrebbe apparire quasi una forma di autolesionismo,  consente invece ai Nonsun di sviluppare ed esprimere in maniera più congrua quanto hanno da offrire.
Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito dal polistrumentista Goatooth e dal batterista Alpha, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.
Bravi pertanto i Nonsun nell’aggirare questo ostacolo, proponendosi con questo loro esordio su lunga (anzi, lunghissima …) distanza, come qualcosa in più di un semplice surrogato a Sunn O))), Earth e compagnia di sperimentatori.

Tracklist:
1.No Pity for the Beast, No Shelter for the Innocent
2.Ashes of Light, Demons of Justice
3.Peace of Decay, Joy of Collapse
4.Heart’s Heavy Burden
5.Observing the Absurd
6.Rest of Tragedy

Line-up:
Goatooth – guitars
Alpha – drums

NONSUN – Facebook

Faal – Desolate Grief

Desolate Grief è un lavoro ottimo, che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.

Gli olandesi Faal appartengono ad una scena che, in ambito funeral/death doom, conta su una tradizione consolidata.

L’ultima uscita della band di Breda risale al 2015, quando occupò la seconda meta di uno split album in compagnia degli Eye Of Solitude.
Il brano offerto in quell’occasione, Shattered Hope, era piuttosto rappresentativo del sound dei Faal, una band che, seppure ascrivibile a pieno titolo all’interno del funeral melodico, non rinuncia a a proporre spunti più robusti ed aspri, rendendo sicuramente meno prevedibile la proposta.
Restano però quale fulcro del lavoro le dolenti armonie che i Faal, mai come questa volta, riescono a rendere nel migliore dei modi, avvolgendo l’ascoltatore di una cappa di tristezza che non sfocia mai nella disperazione, lasciando spazio ad una malinconia che si sublima in una brano magnifico come Grief.
No Silence, invece, è esempio lampante di quanto il gruppo olandese riesca a fare quando aumenta i giri del motore, mantenendo alta la tensione e senza smarrire la componente melodica che sarà nostra fedele compagna fino al termine di Desolate Grief: è bellissimo in questa traccia (vicino ai dieci minuti così come le altre tre, escludendo l’intro) il lavoro chitarristico che punteggia prima un notevole crescendo emotivo e poi si lascia andare a quelle litanie funebri, che tanto amano gli appassionati del genere.
Una buona ma meno intensa (nonostante il titolo) Evoking Emotions fa da cuscinetto prima della degna conclusione dell’album con The Horizon, con il growl di William Nijhof che fa vibrare anche le casse, mentre fanno capolino gradite sfumature post metal che vanno ad intrecciarsi con ritmiche ingannevolmente rallentate, visto che a metà brano arriva una sfuriata che rappresenta un ultimo sussulto, quasi una reazione scomposta all’ineluttabile e penosa discesa agli inferi coincidente con la fine di un lavoro ottimo, e che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.

Tracklist:
1. Intro
2. Grief
3. No Silence
4. Evoking Emotions
5. The Horizon

Line-up:
William Nijhof – Vocals
Gerben van der Aa – Guitars
Pascal Vervest – Guitars
Remco Verhees – Drums
Vic van der Steen – Bass
Cátia Uiterwijk Winkel-André Almeida – Synths

FAAL – Facebook

Anatomia – Cranial Obsession

Cranial Obsession, se riferito a questa particolare interpretazione del death doom, è una delle cose migliori ascoltate ultimamente, nonostante le uscite di qualità nel settore non manchino di certo, e questo la dice lunga sul valore intrinseco dell’album e di chi l’ha concepito.

I giapponesi Anatomia sono in circolazione ormai da oltre quindici anni e, anche se Cranial Obsession è solo il loro terzo full length, hanno una discografia disseminata di split album che ne testimoniano un’incessante e non solo quantitativa attività.

Cranial Obsession dovrebbe riconciliare chiunque con il death doom, non quello melodico e intriso di malinconia tipico del vecchio continente, bensì con quello più aspro e diretto proveniente dall’altra parte dell’oceano: il malefico terzetto nipponico ci costringe ad un headbanging furioso con brani killer come Morbid Hallucination. per poi subito dopo rallentare i ritmi fino all’asfissia con Excarnated.
Se vogliamo, in questi quindici minuti centrali dell’album risiede la chiave di lettura dell’operato degli Anatomia, i quali, da una matrice death nel solco degli Autopsy, spaziano a loro piacimento in universo doom mai così distorto, cupo, ossessivo e poco rassicurante: tutto quanto viene fatto con una cura tipicamente giapponese senza che per questo la ruvidezza e la sporcizia ne risultino attenuate  a livello d’impatto sonoro.
Il sound dei nostri è istintivamente malsano, ma possiede una misteriosa capacità di avvolgere l’ascoltatore nelle proprie minacciose spire fino a renderne vana ogni possibile difesa: se Vanishment e Uncanny Descension sono l’equivalente di una navigazione a vista piena di mortali insidie , Absymal Decay descrive un’idea di funeral doom priva di spazio per recriminazioni o atti misericordiosi, mentre la dronica e sperimentale Recurrence ci anticipa il pianto e lo stridore di denti che attende tutti, si spera il più tardi possibile.
Cranial Obsession, se riferito a questa particolare interpretazione del death doom, è una delle cose migliori ascoltate ultimamente, nonostante le uscite di qualità nel settore non manchino di certo, e questo la dice lunga sul valore intrinseco dell’album e di chi l’ha concepito.

Tracklist:
1. Necrotic Incisio
2. Fiend
3. Vanishment
4. Morbid Hallucination
5. Excarnated
6. Uncanny Descension
7. Abysmal Decay
8. Recurrence

Line-up:
Jun Tonosaki – Bass, Vocals
Takashi Tanaka – Drums, Vocals
Yukiyasu Fukaya – Guitars, Vocals (backing)

ANATOMIA – Facebook

Bunkur / Mordor – Split LP

Gli olandesi Bunkur e gli svizzeri Mordor, prendono due brani a loro modo storici e li stravolgono piegandoli alla loro deviata idea di metal estremo.

Affermare a proposto di questo split album che non si tratta di musica alla portata di tutti è quantomeno un eufemismo: le due band coinvolte, gli olandesi Bunkur e gli svizzeri Mordor, prendono due brani a loro modo storici e li stravolgono piegandoli alla loro deviata idea di metal estremo.

I Bunkur vedono la loro genesi nei primi anni del secolo, ma a parte un certo attivismo tra il 2002 ed il 2004, le loro ultime tracce risalgono al full length Nullify, del 2009.
Dopo tutto questo tempo il quartetto di Tilburg torna a resettare certezze ed alimentare inquietudini, ripescando The
Subhuman
, terza traccia del demo d’esordio dei Carnivore del mai abbastanza compianto Peter Steele; se l’originale sbatteva in faccia all’ascoltatore un sentire misantropico e politicamente scorretto, che per l’epoca (si era nel 1984) era senza’altro una rarità, i Bunkur ne esaltano e dilatano la negatività deformandolo, destrutturandolo e restituendone l’impatto sotto forma di un doom dronico e penoso nel suo trascinarsi, tra una voce che vomita disperazione e un percussivismo malato che punteggia il rumoristico rombo creato dagli altri strumenti.
In sintesi, oltre venti minuti pressoché inascoltabili con più di un buon motivo per la maggior parte delle persone e, quindi, assolutamente e genialmente unici per una probabilmente risibile minoranza (della quale faccio parte).
Dopo essere usciti da quest’esperienza il passaggio al mondo dei Mordor diviene paradossalmente più semplice, anche se pure qui l’idea condivisa di musica viene accartocciata e cestinata quasi subito: questa band di Losanna ritorna addirittura sulle scene dopo oltre vent’anni, avendo alle spalle una manciata di split e demo usciti tra il 1991 ed 1994.
Gli elvetici prendono In League with Satan dei Venom, ne cambiano il titolo consacrandola a Wotan e la trasfigurano rendendola un grottesco coacervo di black, doom e industrial a suo modo affascinante, ma che ha il solo difetto d’arrivare dopo la prova di forza impartita dai Bunkur, per cui il tutto finisce per impressionare inevitabilmente molto meno. A loro va dato il merito, così come per i compagni di split, di avere stravolto e deformato un brano, portando avanti un’idea di cover che ha, comunque, molto più senso di chi si limita a prendere il pezzo originale cambiandone più o meno solo l’arrangiamento ma mantenendone intatta la struttura musicale.
Qui sta alla fine il motivo per cui questo split album acquisisce un valore notevole, a maggior ragione tenendo conto del fatto che l’imprevedibilità e la sporadicità delle apparizioni di queste due band non forniscono alcuna garanzia sul fatto che le si possano nuovamente incontrare in tempi ragionevolmente brevi.

Tracklist:
1. Bunkur – The Subhuman (Carnivore cover)
2. Mordor – In League with Wotan (Venom cover)

Line-up:
Bunkur
S. van Bussel – Bass
T13 – Drums, Vocals
G.J. – Broers Keyboards
M07 – Vocals, Bass

Mordor
Dam Gomhory – Bass, Vocals, Percussion
S3th – Guitars
Opale Ablasorh – Vocals
Scorh Anyroth – Vocals, Guitars, Machines

Esoteric – Esoteric Emotions-The Death of Ignorance

Riedizione in formato cd, da parte della Aesthetic Death, del demo d’esordio degli Esoteric, rimasterizzato dallo stesso Greg Chandler e rivestito di una nuova veste grafica: come si vede, non mancano i motivi di interesse per gli appassionati di doom.

Se ogni tanto la riedizione dei primi passi discografici di una band può risultare superflua se non addirittura fuorviante, sia a causa di suoni non ottimali sia perché poco rappresentativa dello stile musicale sviluppato in seguito, di certo lo stesso non si può dire riguardo alla riproposizione in formato cd del primo demo degli Esoteric, intitolato Esoteric Emotions – The Death Of Ignorance.

E’ stata una serie di favorevoli coincidenze, tra le quali la ricorrenza del venticinquesimo anno di attività della band e l’unità di intenti da parte di Greg Chandler e Stu Gregg (proprietario della Aesthetic Death), a rendere nuovamente disponibile sul mercato un lavoro che ormai era reperibile solo sotto le sembianze di bootleg dallo scadente rapporto qualità/prezzo, offrendolo al contrario in un formato curato anche dal punto di vista grafico e sonoro.
Al di là della bontà dell’opera, che per assurdo andrebbe ascoltata senza conoscere la successiva produzione di uno dei gruppi monumento del doom, in modo da poterla apprezzare senza subire una percezione distorta del suo valore, preme rimarcarne l’importanza storica, dato che uscì in un periodo, l’inizio degli anni novanta, nel quale diverse band stavano cominciando a proporre quella forma diluita e rallentata all’inverosimile di death metal che sarebbe poi divenuta il funeral.
A differenza di molti altri musicisti, Greg Chandler non rinnega affatto quanto composto e pubblicato agli inizi della carriera e, nonostante gli Esoteric sia siano con il tempo trasformati in una band giustamente oggetto di culto per la sua interpretazione del genere che ne rifugge gli stilemi tipici , la scelta di riproporre il demo in versione rimasterizzata dimostra più di tante parole quanto egli stesso ritenga quella prima uscita un passo importante, non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello dello sviluppo futuro del sound del suo gruppo.
D’altra parte Esoteric Emotions – The Death of Ignorance non appare neppure oggi così obsoleto, a ben vedere, perché non di rado capita di ascoltare lavori di band che si rifanno senza troppe remore a quelle sonorità, a tratti crude ed essenziali, che racchiudono i prodromi di quel funeral doom dei quali gli Esoteric, assieme a Thergothon, Skepticism, Evoken, Mournful Congregation  e Disembowelment, hanno dettato alcune delle principali linee guida.
Per chi nutrisse qualche dubbio, l’ascolto di due brani magnifici come Scarred e Eyes of Darkness (non a caso i due più lunghi e “funerei” dell’opera) dovrebbe dissipare ogni residua perplessità, rendendo l’acquisto di questo frammento di storia del metal estremo qualcosa in più di un semplice atto dovuto.

Tracklist:
1. Esoteric
2. In Solitude
3. Enslavers of the Insecure
4. Scarred
5. Eyes of Darkness
6. Infanticidal Fantasies
7. Expectations of Love
8. The Laughter of the Ignorant

Line-up:
Original line-up
Bryan Beck – Bass
Stuart – Guitars
Gordon Bicknell – Guitars, Keyboards
Greg Chandler – Vocals
Darren Earl – Drums
Simon Phillips – Guitars

ESOTERIC – Facebook

Thal – Reach For The Dragon’s Eye

I Thal sono un gruppo che attira con immediatezza, provocando sensazioni molto forti e che non ti aspetteresti da un suono così minimale ma potente.

Un interessante composto sonoro minimale che ha come attori la chitarra e la batteria e che, attraverso una particolare alchimia, ci porta lontano.

Al primo ascolto questo debutto dei Thal potrebbe sembrare particolarmente scarno e privo di alcuni elementi sonori. Invece, quando si compenetra maggiormente la musica del gruppo, si può capirne la grande forza. Il genere percorso è un qualcosa fra Clutch, Hollow Leg per rimanere in casa Argonauta, e lo stoner doom più minimale. Grazie ai loro intrecci sonori il duo composto da John “ Vince Green “ Walker alla chitarra ed altro e alla batteria da Kevin Hartnell riesce a far nascere una psichedelia pesante altra, piena dell’essenza lisergica capace di portare in alto l’ascoltatore. Le stimmate del suono dei Thal fanno facilmente intuire la grande capacità compositiva nel comporre musica pesante, non soffermandosi su un solo elemento ma investendo molto sull’ampliare le reazioni al loro suono. I Thal sono nati come progetto solista di John Walker, che registrando l’album dei wytCHord, Death Will Flee, si è accorto del particolare modo di suonare la batteria di Kevin Hartnell, ed ascoltandolo in questo album si può facilmente capire. Oltre a questo Hartnell c’è un qualcosa di primitivo in questo disco, un suono che diventa pienamente groove e sale verso il cielo come fosse un rituale in musica. I Thal sono un gruppo che attira con immediatezza, provocando sensazioni molto forti e che non ti aspetteresti da un suono così minimale ma potente. Ci sono moltissimi elementi condensati in queste onde sonore che parlano della durezza e delle difficoltà della vita, il tutto attraverso un filtro di forte esoterismo, che è la chiave per molte cose.

Tracklist
1. Rebreather
2. Under Earth
3. Her Gods Demand War
4. Thoughtform
5. Soulshank
6. Death of the Sun
7. Punish
8. Reach for the Dragon’s Eye

Line-up
John “Vince Green” Walker – Vocals, Guitars and Bass
Kevin Hartnell – Drums, Guitars and Synth

THAL – Facebook

Aura Hiemis – Silentium Manium

Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva.

V. è un musicista cileno che ha fatto parte anche degli ormai disciolti Mar De Grises, forse la maggiore band di sempre partorita in ambito doom dal paese sudamericano.

Aura Hiemis è il monicker del suo personale progetto che giunge, con Silentium Manium, al quarto full
length: il genere assume sovente, qui, una forma più eterea ma nel contempo guitar oriented e ciò spinge l’album ad avere un’ampia porzione puramente strumentale.
L’approccio alla materia di V. e senz’altro più emotivo che tecnico, per cui il predominio dello strumento a sei corde è foriero di malinconici arpeggi acustici, così come di brani constraddistinti da dolenti linee melodiche di matrice solista.
Detto ciò, sono comunque i brani cantati ad assumere un ruolo chiave nell’economia dell’album in quanto sicuramente più efficaci ed più impattanti a livello emotivo: forse quello che manca un po’ è una certa continuità in tal senso, perché è indubbio che i brani strumentali, pur avendo una loro funzione all’interno dello sviluppo del lavoro, talvolta paiono spezzare la tensione che riescono a creare due gioielli come Sub Luce Maligna e soprattutto Danse Macabre, brano funeral di grande spessore
Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva e, soprattutto, intento a seguire una propria strada che porta a quelle rovine immortalate in copertina, volte a simboleggiare l’impossibilità di ricostruire ciò che il tempo e l’abbandono hanno definitivamente sgretolato.
Da notare anche la presenza di quella che dovrebbe essere una ghost track, visto che nel libretto i brani dichiarati sono dieci, mentre dopo un prolungato silenzio parte un undicesima traccia, altro brano notevole nel quale V., mette in mostra un growl di notevole profondità oltre ad una naturale propensione alla creazione di linee chitarristiche davvero evocative.
Silentium Manium è senz’altro un gran bel disco, anche se un death doom melodico ed ispirato come quello offerto per lunghi tratti dagli Aura Hiemis verrebbe ulteriormente valorizzato se sviluppato su pochi brani di consistente durata piuttosto che distribuito su una decina di tracce, cinque delle quali, quelle intitolate Maeror Demens, sono frammenti strumentali pregevoli ma che, come detto, finiscono per spezzettare eccessivamente l’incedere del lavoro.
L’album resta comunque vivamente consigliato a chi ama il genere, a patto di approcciarlo con la giusta pazienza visto che, proprio per le suddette caratteristiche, l’assimilazione viene completata solo dopo diversi passaggi nel lettore.

Tracklist:
1. Maeror Demens I
2. Cadaver Fessum
3. Maeror Demens II
4. Sub Luce Maligna
5. Maeror Demens III
6. Between Silence Seas
7. Frozen Memories
8. Maeror Demens IV
9. Danse Macabre
10. Maeror Demens V

Line-up:
V. – Vocals, Guitars, Programming
Lord Mashit – Drums, Bass

AURA HIEMIS – Facebook

Godwatt – Necropolis

Misterioso e onirico, Necropolis non lascia speranze e si presenta come un ‘oscura valanga di note che toccano vette di perdizione senza pari.

Questa volta Moris Fosco (voce e chitarra), Mauro Passeri (basso) e Andrea Vozza (batteria) ci invitano ad un sabba nella città dei morti, avvolti dal buio millenario e dall’odore della morte, unica signora di questi luoghi dimenticati dal tempo.

Appena entrati nelle buie e labirintiche caverne, i tra sacerdoti nostrani ci lasciano al nostro destino, la musica accompagna l’alienante e drammatica ricerca di una via d’uscita che non troveremo mai più, inghiottiti nel buio eterno di questa civiltà parallela dove riposano i morti.
I Godwatt sono tornati dopo L’Ultimo Sole, sorta di compilation che la Jolly Roger aveva licenziato lo scorso anno e che era formata da sette brani ri-registrati da MMXVXMM (uscito nel 2015) più un paio dall’album Senza Redenzione (2013), e Necropolis conferma il gruppo come uno dei migliori interpreti di doom metal tricolore.
Avvolti da una nebbia stoner, anche i nuovi brani (cantati rigorosamente in italiano) formano un monolite metallico pesantissimo: misterioso e onirico, Necropolis non lascia speranze e si presenta come un’oscura valanga di note che toccano vette di perdizione senza pari, una continua alternanza tra heavy doom ispirato agli anni settanta, momenti di nere trame metalliche provenienti dal decennio successivo ed ispirate alla tradizione italiana, e più moderne pulsioni stoner che contribuiscono a rendere il sound pesantissimo e psichedelico.
La title track è l’intro che ci accompagna nelle oscure trame di questo Moloch musicale, che ha momenti di intenso incedere lavico già da Morendo, mentre Siamo Noi Il Male rappresenta tutto il credo musicale del gruppo, nove minuti di metallo che equivalgono ad un asteroide in caduta libera sulle nostre teste, con testi che raccontano di morte ed eterna dannazione.
Necropolis non lascia tempo nè speranza, e La Tua Ora prosegue l’opera, lasciando a Tra Le Tue Carni la palma di brano più heavy rock dell’album, prima che il capolavoro La Morte E’ Solo Tua si prenda la scena.
Tenebre è il primo singolo licenziato dal gruppo per questo lavoro che ci lascia con l’atmosfera stoner di Necrosadico (bonus track della versione in cd), dove i Godwatt si avvicinano allo sludge e noi ormai agonizzanti ci ritroviamo sepolti dalla polvere sollevata dal passaggio in questi abissi di morte e disperazione.
Necropolis è un’altro bellissimo lavoro da parte di questa grande band che tiene alto il vessillo del metal italiano nella sua veste più oscura.

Tracklist
1.Necropolis
2.Morendo
3.Siamo noi il male
4.E’ la tua ora
5.Tra le tue carni
6.La morte è solo tua
7.Tenebre
8.R.I.P.
9.Necrosadico

Line-up
Moris Fosco – Guitars, Vocals
Mauro Passeri – Bass
Andrea Vozza – Drums

GODWATT – Facebook

Sinistro – Sangue Cássia

Terzo full length per i Sinistro, che affinano la propria capacità compositiva donandoci un doom atmosferico, personale, ricco di pathos e tensione, con vocals in portoghese: stupefacenti.

Band in costante e forte ascesa, i portoghesi Sinistro agli albori del nuovo anno consegnano ai nostri padiglioni auricolari il loro terzo full length, sempre per Season of Mist.

Visti dal vivo, di supporto ai Paradise Lost, mi avevano impressionato con un doom intenso e atmosferico accompagnato in modo molto efficace e teatrale dalla voce di Patricia Andrade, che nonostante le minute forme è in grado di ammaliare la platea con i suoi vocalizzi e le sue movenze. La band, con il nuovo Sangue Cassia ha ulteriormente affinato il lato compositivo, ancorando il proprio sound ad un doom molto atmosferico, fluido, sempre carico di tensione ma “addolcito” dalla cangiante vena interpretativa di Patricia, capace di donare a ogni brano un valore aggiunto; fin dai primi splendidi dieci minuti di Cosmos Controle, la parte strumentale molto carica e decisa viene seduttivamente accarezzata da vocals raffinate ed eleganti per creare un’atmosfera calda, trafitta da note di keyboard dal sentore cosmico. Il cantato in portoghese aggiunge una velo di tristezza e di mistero affascinante e la parte strumentale non erige muri di suono, ma spiega la propria possanza in modo calmo e imponente, cercando più l’atmosfera che la forza. I brani, otto, per quasi un’ora di musica, acquistano profondità con gli ascolti, le chitarre ricercano melodie non convenzionali interagendo con le tastiere e, ripeto, l’ interpretazione vocale è stupefacente, così intensa, ricca di pathos (Lotus) da trasportare la musica verso orizzonti sconfinati. Qualche aroma darkwave e cinematografico permea il lavoro, così come le ritmiche trip hop presenti in Nuvem danno un quid in più a questo bel disco.
In definitiva una band personale e il consiglio è quello di non perderla dal vivo, dove potrete gustare al meglio le capacità interpretative di Patricia.

Tracklist
1. Cosmos Controle
2. Lotus
3. Petalas
4. Vento Sul
5. Abismo
6. Nuvem
7. Gardenia
8. Cravo Carne

Line-up
RICK CHAIN – GUITAR
FERNANDO MATIAS – BASS
PAULO LAFAIA – DRUMS
PATRICIA ANDRADE -VOCALS
RICARDO MATIAS – GUITAR

SINISTRO – Facebook

Zom – Nebulos

Nebulos è un disco di incontro e di sintesi di diverse maniere di intendere la musica pesante e non solo, ed è un tentativo molto riuscito.

Gli Zom sono una macchina di riff chitarristici potenti e contenenti un elevato tasso di groove dal gusto forte.

I tre americani provenienti da Pittsburgh non sono certamente un gruppo giovanile e lo si sente molto forte nel disco, hanno una grande esperienza e la usano tutta ed in maniera adeguata. In buona sostanza siamo dalle parti dello stoner fortemente imparentato con il grunge, e non tutti sanno fare questo ibrido, che è tale solo a parole, perché poi viene tutto molto naturale, siamo noi che dobbiamo sempre delimitare il territorio. Il trio è composto da Gero Von Dehn, anche nei Monolith Wielder, gruppo che abbiamo già potuto apprezzare sempre su Argonauta Records, Andrew D’Cagna dei Brimstone Coven e da Ben Zerbe, anche lui gravitante intorno ai Monolith Wielder. Gli Zom sono attivi dal 2014, questo è il loro debutto e sono molto chiari su cosa vogliono essere. Il loro suono è composto da un’importante base chitarristica, con la voce che va ad incastonarsi perfettamente con il lavoro del resto del gruppo, creando un groove molto coinvolgente, che seppur non rappresentando nulla di nuovo riesce ad essere molto incisivo e godibile. Nebulos si rivolge ad una platea ampia di amanti della musica pesante ma non solo, perché anche la componente grunge è ben presente e forma il dna di questo disco. Tutto il disco è pervaso da una consapevole malinconia di fondo, messa mirabilmente in musica e ogni passaggio ha un filo logico. Nebulos è un disco di incontro e di sintesi di diverse maniere di intendere la musica pesante e non solo, ed è un tentativo molto riuscito.

Tracklist
1. Nebulos/Alien
2. Burning
3. Gifters
4. Solitary
5. The Greedy Few
6. There’s Only Me
7. Bird On a Wire
8. Final Breath
9. New Trip

Line-up
Gero von Dehn
Andrew D’Cagna
Ben Zerbe

ZOM – Facebook

Pissboiler – In The Lair Of Lucid Nightmares

I Pissboiler possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità.

Gli svedesi Pissboiler sono un’altra delle interessanti novità portati alla luce dalla Third I Rex.

Il trio scandinavo esordisce su lunga distanza con questi In The Lair Of Lucid Nightmares, lavoro la cui base di partenza è un funeral doom che viene ampiamente contaminato da una componente sludge, oltre che da pulsioni droniche che trovano eccellente sfogo nell’ultima traccia.
L’interpretazione dei Pissboiler  è comunque abbastanza ortodossa nell’opener Ruins of the Past, dove il sound si trascina con tutto il suo penoso carico di dolore , senza far venire meno la caratteristica principale del genere che è la reiterazione di accordi dolentemente melodici.
Questi svedesi, però, possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità, e il tutto viene evidenziato nei disturbati dieci minuti di Pretend It Will End, nel corso dei quali i suoni si fanno più aspri ma senza che scemi l’atmosfera ottundente che avvolge l’intero lavoro.
La lunga traccia finale Cutters, come detto, è un delirio drone rumoristico che attrae e respinge allo stesso tempo, un aspetto che diviene tratto comune quando la componente claustrofobica finisce per soffocare gli sporadici spunti melodici.
Ma questo è un modo di intendere la materia funeral che non fa sconti, andando a scavare nelle carni esacerbando il dolore invece che lenirlo: i Pissboiler con In The Lair Of Lucid Nightmares dimostrano che non c’è un modo giusto od uno sbagliato di approcciare il genere, perché a fare la differenza è sempre il filo sottile, eppure ugualmente solido come quelli tessuti da un ragno, che riesce indissolubilmente a unire il sentire dei musicisti con quello degli ascoltatori.

Tracklist:
1. Ruins of the Past
2. Stealth
3. Pretend It Will End
4. Cutters
Line-up:
Pontus Ottosson – Guitars
Karl Jonas Wijk – Drums, Guitars
LG – Vocals (lead), Bass

PISSBOILER – Facebook

Greyfell – Horsepower

Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e synth.

Un’avanguardia, per sua definizione, è un qualcosa che va avanti, marca il sentiero per chi da dietro la vuol seguire, fa nascere cose che ancora non c’erano.

I francesi Greyfell fanno questo e tanto altro, con un suono composto da elementi conosciuti ed usati ma totalmente rielaborati in una sintesi davvero molto efficace. Prendete per quanto riguarda le chitarre un suono ribassato ma non lentissimo, uno sludge doom tanto per intenderci, aggiungete un cantato molto alla Pentagram a volte basso a volte possente, un basso sgusciante, una batteria psichedelica e tastiere che permeano l’atmosfera che vi circonda, e sarete forse arrivati ad un decimo del suono di questi francesi. Il loro particolare impasto sonoro è una psichedelia profondamente altra, dove tutto non è ciò che sembra, e lo scenario muta in continuazione. Certamente vi sono elementi riconoscibili e tutto l’impianto non è totalmente inedito, ma è il tocco dei Greyfell che lo rende una cavalcata davvero senza freni in mezzo agli dei serpenti generati dal grembo di funghi allucinogeni. Non è tanto la potenza, che è tanta, ma è la saturazione mentale che generano nell’ascoltatore, i Greyfell ti catturano la mente e ti fanno volare lontano, ti scagliano per spiegarla meglio. Il disco che esce per Argonauta Records è totalmente fato in autonomia, e il suono è costruito molto bene, in maniera molto chiara e sequenziale come fosse un film. Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e ai synth, aggiunti in questo disco, una scelta che ha pagato moltissimo. Molto intenso, molto etereo, una prova di vera avanguardia.

Tracklist
1. The People’s Temple
2. Horses
3. No Love
4. Spirit of the Bear
5. King of Xenophobia

Line-up
Boubakar – Bass
Thierry – Drums
Clément – Guitars
Hugo – Vocals

GREYFELL – Facebook

Sufffer In Paradise – Ephemere

I Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Dopo il bellissimo esordio su lunga distanza This Dead Is World, risalente al 2016, che riprendeva in parte il materiale edito nel demo uscito all’inizio di questo decennio, i Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Come era prevedibile, anche per l’appartenenza ad un filone musicale nel quale non si è molto inclini a soverchie variazioni sul tema (e per chi lo ama questo è pregio e non difetto), il trio russo si stabilizza sulle coordinate del precedente lavoro, prendendo quali riferimenti maestri del genere quali Ea, Skepticism e Profetus e per restare in area ex sovietica, anche i mai abbastanza rimpianti Comatose Vigil.
Ephemere si rivela così un album di rara bellezza e profondità, con i ragazzi di Voroneh che si dimostrano in grado di imprimere ad ognuna delle sei lunghe tracce (più outro) quel dolente afflato melodico che eleva il funeral a forma d’arte musicale suprema: se la title track, posta in apertura, rappresenta l’ideale manifesto musicale dei Suffer In Paradise, è affidato alla successiva My Pillory il compito di scaraventare l’ascoltatore in quegli abissi di disperazione propedeutici ad una catartica risalita.
The Swan Song of Hope inizia portando con sé il marchio dei migliori Worship, con il valore aggiunto di arrangiamenti tastieristici che sono il tratto comune fondamentale dell’intero lavoro e che, nello specifico, rende questo brano qualcosa di una bellezza a tratti insostenibile; con The Wheels of Fate il sound si inasprisce nella parte finale mentre The Bone Garden e Call Me to the Dark Side riconducono il tutto ad un piano di funesta accettazione di un dolore che, seppur latente, è compagno fedele dell’esistenza di ciascuno.
Posso solo aggiungere che, a fini statistici, è un peccato che nel suo lungo peregrinare attraverso l’Europa il cd inviato dalla Endless Winter sia arrivato solo poco prima della fine dell’anno, perché Ephemere avrebbe meritato l’inserimento nella lista delle miglior uscite del 2017, con menzione quale opera di punta del settore funeral, ma in fondo chi se ne importa: quello che importa è l’aver ricevuto la conferma che i Suffer In Paradise hanno tutti i crismi per raccogliere l’eredità dei Comatose Vigil e degli Abstract Spirit (sperando sempre che entrambe le band si rifacciano vive, prima o poi), perpetuando la tradizione di recente consolidamento del funeral doom russo.

Tracklist:
1. Ephemere
2. My Pillory
3. The Swan Song of Hope
4. The Wheels of Fate
5. The Bone Garden
6. Call Me to the Dark Side
7. Outro

Line-up:
A.V. – Guitars, Vocals
Defes Akron – Keyboards, Drum programming
R. Pickman – Bass

Rotting Kingdom – Rotting Kingdom

Licenziato dall’attivissima Godz Ov War, questo ottimo mini cd è composto da tre brani medio lunghi che formano una lunga litania oscura di death metal old school.

Tre brani bastano ai Rotting Kingdom per presentarsi al meglio sulla scena doom/death mondiale con il loro ep di debutto omonimo.

Licenziato dall’attivissima Godz Ov War, questo ottimo mini cd è composto da tre brani medio lunghi che formano una lunga litania oscura di death metal old school, ricco delle atmosfere dark e malinconiche che hanno fatto la fortuna dei My Dying Bride, probabilmente il gruppo che più ha ispirato la musica del combo statunitense.
Vario e colmo di riferimenti ai primi passi delle storiche band del genere, i Rotting Kingdom non dimenticano che il doom ha una sua origine classica, e Pentagram e Solitude Aeturnus si mescolano alle trame estreme e romantiche della sposa morente e dei primi Paradise Lost come si evince dalla seconda traccia, The Castle Of Decay, brano incentrato su passaggi più tradizionali rispetto alle atmosfere dark e decadenti dell’iniziale Adrift In A Sea Of Souls.
Il riff ripetuto che annuncia la conclusiva Demons In Stained Glass porta venti di morte sul sound del gruppo e si intensificano le ritmiche per quella che è la traccia più death metal del lotto.
Ovviamente nei suoi dieci minuti di durata i rallentamenti non mancano, con richiami agli olandesi Asphyx (maestri in queste sonorità), ed un finale che sfuma lento e inesorabile, creando un’atmosfera di paziente attesa per un prossimo full length assolutamente da non perdere.
Votata alla parte più atmosferica del death metal, la band americana, formata alla scuola europea, è una delle migliori novità del genere di questo inizio anno: per gli amanti di queste sonorità un album da non perdere.

Tracklist
1.Adrift In A Sea Of Souls
2.Castle Of Decay
3. Demons In Stained Glass

Line-up
Anton Escobar – Vocals
Kyle Keener – Guitar
Chuck Mcintyre – Bass
Clay Rice – Guitar
Brandon Glancy – Drums

ROTTING KINGDOM – Facebook

Monolithe – Nebula Septem

Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Sono passati quindici anni da quando i Monolithe pubblicarono il proprio album  d’esordio.

Ci volle relativamente poco perché la band francese, guidata da Sylvain Bégot, si ritagliasse un suo status di culto presso gli estimatori del funeral doom, soprattutto perché a livello concettuale, invece di ripiegarsi sulle sventure terrene, tentava di elevarsi verso un sentire cosmico con risultati ugualmente angoscianti, a ben vedere.
Ogg, ad accompagnare il leader, tra i membri originari è rimasto solo l’altro chitarrista Benoît Blin, visto che per la prima volta i Monolithe non si avvalgono della voce di Richard Loudin, cosicché in Nebula Septem le parti vocali sono state registrate da Sebastien Pierre (Enshine, Cold Insight), mentre in sede live il ruolo verrà assunto dal terzo chitarrista Remi Brochard.
Come si può intuire dal titolo siamo arrivati alla settima puntata su lunga distanza per la band transalpina (alla cui discografia vanno aggiunti anche i due Interlude, importanti Ep usciti tra Monolithe II e Monolithe III) e tale numero ricorre in maniera puntuale sia nel numero dei brani che nella loro durata, ma al di là di questi aspetti, è confortante constatare come la cadenza di uscite ormai annuale non abbia per nulla scalfito la qualità degli album.
Nebula Septem per certi versi sorprende, perché se in Epsilon Aurigae certe aperture progressive potevano far presagire un ulteriore incremento della componente melodica, il suono al contrario pare addirittura inasprirsi, senza che venga comunque mai meno la propensione atmosferica e l’afflato cosmico che è tratto distintivo dei Monolithe.
Se IV resta, anche a detta dello stesso Bégot nel corso dell’interessante documentario Innersight, l’album più riuscito nella discografia dei nostri, qui andiamo molto vicini al raggiungimento di quel livello, sebbene sia da mettere subito in chiaro che, per un’assimilazione soddisfacente, sono necessari diversi ascolti, in modo da riuscire a cogliere ogni volta sfumature diverse pur se racchiuse in un “monolite” sonoro molto compatto, eretto dalle tre chitarre e sostenute da un eccellente lavoro tastierisco, dal growl magnifico di Pierre e da una base ritmica molto più attiva e in evidenza rispetto alle abitudini del genere.
Del resto la collocazione dei Monolithe nell’ambito del funeral doom appare più una convenzione che non una reale fotografia delle loro attuali sonorità, definibili più correttamente come un metal estremo cosmico e avanguardista, non troppo distante per approccio neppure da certe forme di black/space atmosferico.
Nebula Septem, per come è strutturato, va assorbito nella sua interezza, perché parlare dei singoli brani sarebbe abbastanza inutile: basti sapere comunque che almeno i primi ventotto minuti sono superlativi (dovendo scegliere mi prendo l’accoppiata Burst in the Event Horizon / Coil Shaped Volutions), mentre l’incipit da videogame di Engineering the Rip potrebbe risultare spiazzante per cui è bene dire che il tutto dura ben poco, prima che la galassia musicale denominata Monolithe ricominci ad abbattersi come di consueto sull’ascolatore, fino a chiudere i giochi con lo strumentale Gravity Flood, spruzzato di elettronica all’avvio e poi melodico e dolente come da copione doom.
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Tracklist:
1. Anechoic Aberration
2. Burst in the Event Horizon
3. Coil Shaped Volutions
4. Delta Scuti
5. Engineering the Rip
6. Fathom the Deep
7. Gravity Flood

Line-up
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums
Rémi Brochard – Guitars, Vocals
Matthieu Marchand – Keyboards

Sebastien Pierre – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Into Coffin – The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos

Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo.

Credo che una delle ipotesi più terrorizzanti per ogni essere umano sia l’eventualità di risvegliarsi all’interno di una bara collocata circa sei piedi sottoterra …

E’ normale, quindi, che una band denominata Into Coffin sia autrice di un sound annichilente, capace di rendere tangibile il senso di soffocamento e la disperata alternanza tra il parossismo ed il deliquio che precede una morte vera e mai cosi invocata.
Questi tre figuri provenienti da Marburg mettono in scena due lunghi brani per una mezz’ora scarsa di death/black doom asfissiante, spaventoso nel suo monolitico incedere: un qualcosa che davvero riesce a scuotere anche la coscienza più assopita, attirandola in un vortice di alienazione al quale non è possibile sottrarsi.
I rallentamenti morbosi sono propedeutici ad un crescendo inarrestabile, una colata di lava che pare risalire le pendici vulcaniche, partendo da uno stato semisolido per divenire incandescente e ridurre in cenere tutto ciò che incontra sul suo passaggio
The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos è un epche possiede quel quid in più rispetto ad offerte di simile tenore: devo ammettere che questa forma di doom, per quanto apprezzabile, l’ho sempre ritenuta alla lunga piuttosto prevedibile in virtù della totale assenza di sbocchi o aperture atmosferiche, ma gli Into Coffin vanno al di là di ogni tipo di considerazione di genere, perché l’intensità che viene espressa in ogni attimo del lavoro è a dir poco sorprendente, e probabilmente ineguagliabile in un’offerta di questo tipo.
In sede di presentazione il trio tedesco viene associato ad una band seminale come gli Winter ma, a mio avviso, il loro valore va ben oltre, e sono certo di non esagerare.
Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo e a questo punto, per completare il luttuoso cammino, conviene fare un passo indietro andando a recuperare il full length del 2016 intitolato Into a Pyramid of Doom, uscito sempre per Terror Of Hell Records.

Tracklist:
1. Crawling In Chao
2. The Evanescence Creature From Nebula’s Dust

Line-up:
G. – Bass & Vocals
J. – Drums
S. – Guitars & Vocals

INTO COFFIN – Facebook

Ilienses Tree – Edda

Una band del genere è assolutamente pronta a giocarsi la carta del full length, lo dicono la qualità della musica creata e la cura nei dettagli che emergono all’ascolto di Edda.

Gli Ilienses inaugurano con l’ep Edda la collaborazione con la Maculata Anima Rec.

La band sarda offre un metal che ha nei passaggi doom/death il proprio punto di forza, e l’orgoglio di appartenere ad una terra leggendaria si rispecchia in un sound estremo ma fortemente epico: queste sono le caratteristiche che rendono peculiare il sound degli Ilienses Tree, i quali come valori aggiunti immettono un ottimo songwriting ed un guerresco approccio alla materia estrema, che divengono poi i tramiti per un elegante viaggio lungo la storia secolare dell’isola.
Edda è un’opera interessante e ricca di sonorità che passano dal doom/death classico al death/black, e resta incollata perfettamente al padiglione uditivo grazie a tremende sfuriate estreme, in un mastodontico marciare tra mid tempo nei quali l’epicità dilaga, con non pochi riferimenti ad alcune leggende del panorama death/doom metal: ritroviamo così i primi Anathema e Paradise Lost arricchiti da una solennità che ricorda i Primordial, e Candlemass /Penance nelle jam di doom metal classico.
Tutto ciò rende tutti i brani che compongono Edda dei potenziali classici all’interno dei quali le citazioni esaltano l’atmosfera di brani epici ed oscuri come Ragnarok o Agony, cuore nero e pulsante sangue di questo album.
Una band del genere è assolutamente pronta a giocarsi la carta del full length, lo dicono la qualità della musica creata e la cura nei dettagli che emergono all’ascolto di Edda.

Tracklist
1.Edda
2.The Birth
3.Ragnarok
4.Agony
5.Dark Age

Line-up
Maurizio Meloni – Vocals
Claudio Kalb – Bass
Simone Milia – Guitar
Francesco Carboni – Guitar
Giammarco Vacca – Drums

ILIENSES TREE – Facebook

Abysmal Grief – Blasphema Secta

Gli Abysmal Grief hanno sempre fatto della creatività e dell’immaginario il proprio punto di forza, e questo, per chiunque sia in odore di metal, o soprattutto di doom, è un vero toccasana.

Dopo vent’anni di attività, gli Abysmal Grief dimostrano di non essere ancora paghi per il cammino tracciato e, dopo aver ascoltato questo nuovo album, Blasphema Secta, non possiamo che rallegrarcene.

Sicuramente nessun fan si aspettava passi indietro da parte della band genovese, che ci regala ancora un doom di altissima qualità e dagli scenari sempre più tetri.
Il fattore magia domina per tutta la durata del disco, aiutato dall’utilizzo di violini e sintetizzatori, ma non solo. È proprio il lato oscuro a soggiogarci fin dall’intro, preannunciando che ne saremo immersi fino alla fine. Gli Abysmal Grief hanno sempre fatto della creatività e dell’immaginario il proprio punto di forza, e questo, per chiunque sia in odore di metal, o soprattutto di doom, è un vero toccasana. Ogni intermezzo dai tratti gotici comunica solennità mista a vero e proprio terrore, come nella esemplare When Darkness Prevails, che non lascia spazio a fraintendimenti e rappresenta letteralmente la manifestazione di spiriti indomiti.
La gran varietà strumentale e vocale di ogni brano è scandita dalla batteria e da riff di chitarra in grado di causare talvolta potenti scapocciate, talvolta un clima cupo ma mai banale. Blasphema Secta rispecchia perfettamente ciò che viene annunciato già dalla copertina: l’esaltazione e la ritualità del male. Proprio ciò che cerca chi ascolta gli Abysmal Grief.
Una chicca da non perdere di vista per gli amanti del genere: il doom degli Abysmal Grief percorre sempre una strada propria, aprendosi ad orizzonti inediti.

Tracklist
1. Intro (The Occult Lore)
2. Behold the Corpse Revived
3. Maleficence
4. Witchlord
5. When Darkness Prevails
6. Ruthless Profaners

Line-up
Lord Alastair – Bass
Lord of Fog – Drums
Regen Graves – Guitars
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals