Aphonic Threnody – Of Loss and Grief

Il death doom regala un’altra perla nel 2017 con il secondo full length degli Aphonic Threnody, band capace di raggiungere notevoli vette di lirismo e di emozioni.

Una delicata melodia ci introduce al secondo full length degli Aphonic Threnody e diventa subito complicato esprimere a parole il profondo senso di smarrimento di cui queste note si nutrono; la disperazione, l’abbattimento, il viaggio verso una profonda depressione che permeano i settantatré minuti di Of Loss and Grief  rappresentano uno specchio in cui l’ascoltatore deve riflettersi per catturare appieno l’arte della band, attiva dal 2013 con l’EP First Funeral.

Una creatura internazionale comprendente musicisti italiani, cileni e inglesi che, in questo disco, si circondano di ospiti provenienti da alcune tra le migliori band del settore (My Shameful, Worship, Mournful Congregation, Ataraxie, Alunah) per dare “vita” a un’opera intensa, affascinante e debitrice del migliore death doom degli anni 90 ammantato di oscurità funeral.
Il disagio emozionale è grande, così come è importante la capacità creativa dei musicisti che trovano sempre il “quid” giusto in ogni brano per farci intraprendere un viaggio carico di disperazione e dolore; non si inventa nulla di nuovo, ma colpisce la sensibilità e l’intensità della’arte espressa.
Il growl espressivo, presente in tutti i brani, colpisce profondamente e l’alternarsi con female vocals in All I’ve Loved dà un’ulteriore sapore tragico al brano, che pur iniziando con una melodia più limpida si inabissa in lidi doom di gran livello e in liriche di tristezza sconfinata … all I’ve loved is lost.
Brani lunghi con punte di circa venti minuti (Lies) in cui il suono si dipana lento, maestoso quando le chitarre erigono muri melodici ricchi di sfumature, sfrangiandosi talvolta in intarsi acustici e madrigaleschi molto suggestivi per poi lasciarsi andare in parti soliste cariche di lirismo e forza.
Nei sei brani non ci sono riempitivi, tutto è frutto di una vera e sentita ispirazione per il lato oscuro della vita che è in ognuno di noi e di cui l’ascoltatore del doom si alimenta costantemente. Le idee e i suoni fluiscono naturalmente, non vi è nulla di manieristico: questi brani raccontano un viaggio nelle miserie umane, nella perdita di ogni speranza, e un interminabile brano come Lies deve trovare l’ascoltatore predisposto verso questa forma d’arte che, in un mondo frenetico e spesso inconcludente, ha bisogno di essere metabolizzata lentamente per poter penetrare a fondo nell’anima. Disco perfetto per le fredde e umide serate novembrine.

Tracklist
1. Despondency
2. Life Stabbed Me Once Again
3. All I’ve Loved
4. Lies
5. Red Spirits in the Water
6. A Thousand Years Sleep

Line-up
Roberto Mura – vocals
Riccardo Veronese – bass\guitars
Juan Escobar – keys\vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

Omega – Eve

Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo.

Eve degli Omega è un disco che va ben oltre le emozioni che da un supporto fonografico, fa vedere orizzonti lontani.

Il disco è composto da vari livelli, quello più immediato può essere descrivibile come un tenebroso disco di black metal misto a doom ed un pizzico di death, con stacchi dark ambient. Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo. Le tracce sono quattro, il disco va sentito come un continuum sonoro, una lunga suite di musica estrema. Eve è ispirato dal manoscritto Voynich, forse il libro più misterioso mai scritto, o forse soltanto un tentativo di oltrepassare la realtà andando oltre i sensi, in un flusso che lega tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà. Lo stile musicale è pienamente narrativo, veniamo trasportati in una storia dall’architettura profonda con l’uomo al centro, ed intorno un universo che vortica. Il black metal qui è un punto di partenza, perché il suono di questo disco ne ha molti elementi, ma è un’opera nuova ed originale. Nel nuovo splendido libro Black Metal Compendium Volume II – Europa e Regno Unito – di Vavalà e Ottolenghi per i tipi della Tsunami Edizioni, gli autori spiegano molto bene cosa sia il black metal per noi mediterranei, ed in particolare per noi italiani, ovvero un codice da far evolvere, un punto di partenza per profonde esplorazioni, e Eve ne è la spiegazione perfetta: un manoscritto Voynich che ognuno deve decifrare, perché parla di noi stessi, della nostra storia, e della cosmogonia che abbiamo dentro. Un’esperienza, molto più di un disco.

Tracklist
1.Arboreis
2.Sidera
3.Mater
4.Laudanum

Line-up
Alexios Ciancio – Vocals
Mike Crinella – Guitars, Synths, Samples
Fabio Arcangeli – Bass
Marco Ceccarelli – Drums

DUSKTONE – Facebook

The Father Of Serpents – Age Of Damnation

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i The Father Of Serpents riescono senza dubbio nella non facile impresa e, laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta, si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.

Gothic death doom di buona fattura è quello che ci arriva da Belgrado grazie ai The Father Of Serpents.

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da giganti del genere come Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i nostri riescono senza dubbio nella non facile impresa e laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.
In effetti, l’unica critica attribuibile alla band serba è proprio quella di sembrare ogni tanto una congrega di bravissimi assemblatori delle intuizioni altrui, sensazione che prende piede, per esempio, fin dal secondo brano The Flesh Altar, con il suo riff portante simile a quello di Lesbian Show dei Nightfall, e che si protrae sino al termine, con l’appassionato più esperto che si diletterà nel rinvenire passaggi che rievocano, in maniera comunque mai troppo marcata, il meglio offerto dal genere negli ultimi vent’anni.
Detto ciò, veniamo ai lati positivi, che poi sono nettamente prevalenti su qualsiasi altra considerazione: i The Father Of Serpents, con Age Of Damnation mettono assieme un’opera dal notevole spessore qualitativo, con una decina di brani caratterizzati da un invidiabile equilibrio tra ruvidezza e melodia, esprimendo un gothic doom spesso elegante nel quale l’utilizzo appropriato del violino (ad opera di Pavle Sovilj, che si occupa anche delle clean vocals) conferisce in più di un frangente un decisivo tocco malinconico.
Il sestetto slavo fornisce una prova priva di sbavature, i suoni sono ottimi così come gli arrangiamenti, l’uso della doppia voce risulta inattaccabile (l’ottimo growl è opera di Tamerlan, il quale però ha da poco abbandonato la band) e si fatica davvero a trovare un brano che non sia all’altezza della situazione, con menzione d’obbligo per la notevole Tainted Blood e non solo per la citazione dantesca (“lasciate ogni speranza voi che entrate”, declamata con una dizione invero rivedibile).
Questo quadro complessivo ci suggerisce che Age Of Damnation è un album rimarchevole, prodotto da una band dal sicuro potenziale che deve fare, però, solo un piccolo sforzo per imprimere un marchio personale alla propria musica, pena la permanenza nel confortevole limbo delle realtà di buon livello ma nulla più.

Tracklist:
1. The Walls of No Salvation
2. The Flesh Altar
3. Tale of Prophet
4. The Grave for Universe
5. Tainted Blood
6. The Afterlife Symphony
7. The Quiet Ones
8. The God Will Weep for You
9. The Last Encore
10. Viral

Line-up:
Tamerlan – Vocals (growls/screams/narrations)
Pavle Sovilj – Vocals (clean) & Violin
Igor Lončar – Guitars
Željko Zec – Guitars
Milan Šuput – Bass
Aleksandar Maksimović – Drums

THE FATHER OF SERPENTS – Facebook

I, Forlorn – My Kingdom Eclipsed

Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.

Il primo full length del progetto solista denominato I, Forlorn, dietro al quale troviamo il musicista olandese Jurre Timmer, si propone come uno dei debutti su lunga distanza più riusciti in ambito death doom melodico negli ultimi tempi.

My Kingdom Eclipsed è un album nel quale viene sviluppato al meglio il potenziale atmosferico ed evocativo del genere, e ciò avviene attraverso un’interpretazione magistrale sia a livello vocale che strumentale, in aggiunta a doti compositive di primo livello.
Timmer, che in quest’occasione si firma con il nickname I, non è uno sconosciuto nell’ambiente, in quanto attivo già da qualche anno con un altro progetto solista denominato Algos, mentre dalle nostri parti ha collaborato in veste di vocalist alla riuscita del primo album de Il Vuoto, ma non c’è dubbio che quanto fatto con il monicker I, Forlorn lo ponga ancor di più all’attenzione generale.
Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed, pur con qualche sconfinamento nel funeral, è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.
Chiaramente I, Forlorn non apre un nuovo fronte nel genere ma raccoglie il meglio delle istanze già espresse in passato da Saturnus, Officium Triste, Doom Vs. e When Nothing Remains, mettendo sul piatto un’ora abbondante di musica dolente e coinvolgente che trova il suo picco, come è giusto che sia, nella title track, un monumento di depressiva bellezza che si sublima in un finale davvero toccante.
My Kingdom Eclipsed è un album inattaccabile per qualità e potenziale evocativo, composto da una musicista come Jurre Timmer dotato di quella innata sensibilità che è poi la dote in comune con la fascia di ascoltatori ai quali la sua opera è rivolta.

Tracklist:
1. Behind the Sun
2. House of Glass
3. My Kingdom Eclipsed
4. Hysteria
5. Spiral’s End
6. Through Her Eyes
7. The Fragile Beast
8. Embers

Line up:
I – All instruments, Vocals

I, FORLORN – Facebook

Spectral Voice – Eroded Corridors of Unbeing

Eroded Corridors of Unbeing è un lento e penoso trascinarsi lungo un sentiero scosceso e dall’approdo ancor meno accogliente rispetto al punto di partenza, un luogo dove l’orrore non può essere descritto a parole.

Dopo una serie di demo e di split a partire dal 2014, gli statunitensi Spectral Voice giungono al primo full length rivelandosi una delle sorprese più piacevoli dell’anno.

Il death doom proposto dalla band di Denver, composta per tre quarti, batterista/cantante escluso, da componenti dei deathsters Blood Incantation, è di matrice prettamente d’oltreoceano, rivelandosi quindi una sorta di tratto d’unione tra il death asfissiante degli Incantation (…appunto) e il doom più estremo e per lo più privo di sbocchi melodico in quota Evoken / Disembowelment.
Fin dalle prime note, l’operato degli Spectral Voice appare volto a creare atmosfere plumbee e minacciose, con le corde degli strumenti ribassate all’inverosimile per creare una muraglia di impenetrabile e tenebrosa incomunicabilità, senza disdegnare neppure disturbati sussulti di matrice ambient.
Il brano più lungo del lotto, Visions Of Psychic Dismemberment, costituisce a ben vedere la summa del buon lavoro compositivo degli Spectral Voice, ma tutto il resto del lavoro si colloca sullo stesso piano, risultando monolitico ma di notevole spessore ed intensità; del resto, quando i nostri si spingono dalle parti degli Evoken, anche il sound acquista un minimo di respiro grazie a più limpidi arpeggi chitarristici (Lurking Gloom e Terminal Exhalation Of Being) senza perdere nemmeno per un attimo la sua presa mefitica sulla psiche dell’ascoltatore.
Eroded Corridors of Unbeing è un lento e penoso trascinarsi lungo un sentiero scosceso e dall’approdo ancor meno accogliente rispetto al punto di partenza: lungo gli “erosi corridoi” veniamo condotti con passo vacillante in un luogo dove l’orrore non può essere descritto a parole, in ossequio al metodo narrativo utilizzato da Lovecrat, la cui opera potrebbe risultare perfettamente complementare ad un approccio musicale di questo tenore.
Davvero un ottimo disco, che gli estimatori delle band citate quali possibili numi tutelari degli Spectral Voice non dovrebbero farsi sfuggire.

Tracklist:
1. Thresholds Beyond
2. Visions Of Psychic Dismemberment
3. Lurking Gloom (The Spectral Voice)
4. Terminal Exhalation Of Being
5. Dissolution

Line-up:
J. Barrett – Bass
P. Riedl – Guitar
E. Wendler – Drums and Voice
M. Kolontyrsky – Guitar

SPECTRAL VOICE – Facebook

Paradise Lost – Medusa

I Paradise Lost c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, sicuramente invecchiati e forse un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.

Passano gli anni, cambiano le stagioni ed il clima della terra, mentre la persona che si riflette nello specchio non è più un giovane irrequieto ma un uomo che un tempo sarebbe stato definito di mezz’età.

I Paradise Lost però restano: c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, anch’essi invecchiati e un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.
Certo. anche loro hanno dovuto superare lunghi momenti di appannamento, il primo subito dopo la svolta di One Second, subendo la fascinazione “depechemodiana” fin quasi a snaturarsi del tutto, e poi quando, resisi conto di non potersi spingere oltre in quella direzione, hanno fatto marcia indietro pubblicando una manciata di album non brutti ma nemmeno indimenticabili.
Per fortuna, dopo le avvisaglie costituite dai discreti In Requiem e Faith Divides Us – Death Unites Us, nel corrente decennio i maestri di Halifax hanno riportato la barra del timone sulla giusta rotta, e a questo non è stato del tutto estraneo l’impegno di Gregor Mackintosh con i suoi Vallenfyre che, facendogli esplorare nuovamente il lato più estremo del death/doom, ha inevitabilmente riversato parte di questo rinnovato spirito nelle nuove uscite dei Paradise Lost, confluito in altre due buoni dischi come Tragic Idol e The Plague Within.
Medusa (quindicesimo full length della band) spinge ulteriormente verso un sound più indurito ed incupito, con il doom che si riappropria della sua importanza nell’economia del songwrtiting, e a tale proposito l’iniziale Fearless Sky dimostra tale tendenza in maniera manifesta spazzando via ogni ammiccamento gothic rock che, del resto, ritroveremo nel corso dell’album nella sola Blood And Chaos, orecchiabile quanto si vuole anche nella sua veste di singolo, ma lontanissima per grinta e pesantezza dai brani più carezzevoli ed inoffensivi epoca Host/Believe In Nothing.
Si sussegue così una serie di tracce rocciose, plumbee ma sempre caratterizzate dal tocco chitarristico di Mackintosh, spingendoci ad affermare che, fino alla title track, l’album è uno dei maggiormente ispirati tra quelli usciti nel nuovo millennio: Gods Of Ancient, con i suoi rallentamenti soffocanti, è il degno seguito di Fearless Sky, mentre From The Gallows è una cavalcata che riporta stilisticamente ai fasti di Icon.
The Longest Winter è il primo dei due singoli usciti e, non a caso, Nick Holmes utilizza per la prima volta la voce pulita nel corso dell’album, ma ciò non rende meno efficace un brano che si dimostra l’ideale trait d’union tra gli estremi stilistici della produzione targata Paradise Lost, mentre in Medusa riprendono a prevalere ritmiche dolenti, con il cantante ad alternare le due gamme vocali e Mackintosh che continua a dominare la scena con il suo innato gusto melodico.
Si era detto che quest’ultimo brano segnava una sorta di spartiacque qualitativo del lavoro e, in effetti, la virulenta No Passage For The Dead, la gradevole Blood And Chaos e la robusta Until The Grave, per quanto valide, si rivelano meno brillanti rispetto al resto della tracklist.
Come tutti i nuovi lavori editi dalle band storiche, l’album ha già ampiamente diviso sia i fans che gli addetti ai lavori: dal mio punto di vista è vero che Medusa non riporta i Paradise Lost ai fasti del passato e non è escluso che i primi due brani possano risultare persino ostici per chi si era abituato negli anni all’ascolto di un sound più edulcorato, ma il fatto stesso che un gruppo così “pesante” ed influente sia ancora in grado di regalare buona musica è segno tangibile di un’ispirazione ancora non del tutto evaporata, al contrario di quanto accade a gran parte delle band aventi lo stesso stato di servizio.

Tracklist:
1. Fearless Sky
2. Gods Of Ancient
3. From The Gallows
4. The Longest Winter
5. Medusa
6. No Passage For The Dead
7. Blood and Chaos
8. Until The Grave

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Waltteri Väyrynen – Drums

PARADISE LOST – Facebook

Clouds – Destin

I quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento di Daniel Neagoe, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

E’ passato davvero poco tempo da quando mi ritrovai ad esaltare quel capolavoro di malinconia fatta musica intitolato Departe ed eccomi nuovamente alle prese con una nuova uscita marchiata Clouds, frutto dell’instancabile creatività di Daniel Neagoe.

Mai tale prolificità fu più gradita, visto che il livello del pathos resta elevatissimo anche in questa uscita intitolata Destin che, trattandosi di un ep, non consta solo di brani inediti ma anche di riedizioni di altri già usciti in precedenza.
Quello che conta, ovviamente, sono le quattro nuove tracce, ognuna di esse incisa con l’apporto di un diverso ospite alla voce capace di rendere sempre più peculiare e nel contempo completo l’operato di questo supergruppo del doom atmosferico.
In The Wind Carried Your Soul troviamo la voce angelica di Ana Carolina dei cileni The Mourning Sun (dei quali raccomando vivamente, a chi non lo conoscesse, lo splendido Último Exhalario) duettare con Daniel, creando un’alchimia vocale magica ed esaltata da un substrato melodico di rara bellezza; la successiva Fields of Nothingness è interpretata da Mikko Kotamäki (Swallow The Sun, lo specifico per chi fosse capitato qui per sbaglio …), sempre in grado di restituire ogni brano che lo vede protagonista al massimo del suo potenziale evocativo, cosa che avviene anche con questa magnifica canzone che ricorda per struttura quella interpretata da Pim Blanckenstein in Departe (Driftwood).
In Nothing but a Name la parte vocale viene affidata a Mihu, frontman dei meno conosciuti rumeni Abigail, dalla timbrica abbastanza simile a quella di Daniel: qui a fare la differenza è una melodia dolente delineata dal pianoforte e da una chitarra che si ritaglia un maggior spazio solistico rispetto al solito; il quarto e ultimo brano inedito, In this Empty Room, è quello più soprendente, soprattutto perché ci consente di scoprire una grande interprete come la cantante greca Gogo Melone (Aeonian Sorrow), in possesso di una voce versatile e del tutto personale: il duetto con il growl di Neagoe porta il sound su lidi diversi rispetto a quelli più consueti dei Clouds, conferendogli un aspetto meno cupo, sebbene sempre intriso di malinconia.
Destin nella sua fasce discendente presenta le versioni acustiche di You Went so Silent ed Even If I Fall (entrambe tratte da Doliu), che in tale veste perdono parte del loro pathos drammatico ma evidenziano come Daniel sia diventato un magnifico interprete anche quando si trova alle prese con le sole clean vocals, e la riedizione del singolo Errata, uscito nel 2015 nell’intervallo tra i due full length, che si conferma episodio di buona levatura senza raggiungere i picchi di gran parte della produzione dei Clouds.
Nel complesso, i quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento del musicista rumeno, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. The Wind Carried Your Soul feat. Ana Carolina (Mourning Sun)
2. Fields of Nothingness feat. Mikko Kotamäki (Swallow the Sun)
3. Nothing but a Name feat. Mihu (Abigail)
4. In this Empty Room feat. Gogo Melone (Aeonian Sorrow)
5. You Went so Silent (acoustic Destin version)
6. Even if I fall (Destin version)
7. Errata (re-mixed)

Line up:
Daniel Neagoe – Vocals
Déhà – Bass
Steffan Gough – Guitars
Chris Davies – Violn
Anders Eek – Drums

CLOUDS – Facebook

Incantation – Profane Nexus

Un’apoteosi di scorribande in doppia cassa, lentissimi e claustrofobici passaggi doom ed atmosfere malvagie: Profane Nexus ribadisce l’assoluta qualità della proposta degli Incantation, band che risulta una garanzia ed una delle poche dal sound personale.

Il 2017 verrà sicuramente ricordato dai fans del metal estremo per il ritorno di molte bands storiche del panorama death metal mondiale, con album che non andranno sicuramente ad intaccare la loro reputazione, degni successori delle opere uscite negli anni di maggior fama per il genere.

Si aggiungono a questa invasione di vecchie glorie gli statunitensi Incantation, gruppo proveniente dalla Pensylvania che John McEntee ha tenuto attivo dal 1989 con undici album licenziati ed una marea di lavori minori, sempre all’insegna di un blasfemo death metal dalla forte componente doom.
Anche in questo nuovo lavoro intitolato Profane Nexus la formula non cambia, con il gruppo che continua imperterrito ad alternare, amalgamare e modellare death metal old school e doom funereo, come da tradizione.
Niente di nuovo direte voi, vero è che anche questo oscuro e diabolico album non mancherà di crogiolare le anime possedute dal verbo Incantation, tra devastanti ripartenze e lunghe cadute nell’abisso dove le anime soffrono di una infinita e tragica disperazione, seviziate e torturate dalla lava che lenta scorre ai loro piedi.
McEntee, con il suo satanico growl, detta i tempi di questa macchina infernale, assecondato da Sonny Lombardozzi alla sei corde, Chuck Sherwood al basso e Kyle Severn alle pelli, con il valore aggiunto del lavoro in studio di Dan Swanö e la “benedizione” della Relapse.
E’ un’apoteosi di scorribande in doppia cassa, lentissimi e claustrofobici passaggi doom ed atmosfere malvagie: Profane Nexus ribadisce l’assoluta qualità della proposta di una band che risulta una garanzia ed una delle poche dal sound personale.
Gli Incantation da anni suonano come … gli Incantation, se sia difetto o virtù dipende dai punti di vista, l’importante è che brani come Visceral Hexahedron, Incorporeal Despair, Lus Sepulcri continuino a dispensare metal estremo oscuro e blasfemo suonato da uno schiacciasassi.

Tracklist
01. Muse
02. Rites of the Locust
03. Visceral Hexahedron
04. The Horns of Gefrin
05. Incorporeal Despair
06. Xipe Totec
07. Lus Sepulcri
08. Stormgate Convulsions from the Thunderous Shores of Infernal Realms Beyond the Grace of God
09. Messiah Nostrum
10. Omens to the Altar of Onyx
11. Ancients Arise

Line-up
John McEntee – Guitar, Vocals
Sonny Lombardozzi- Lead Guitar
Chuck Sherwood – Bass
Kyle Severn – Drums

INCANTATION – Facebook

Vin de Mia Trix – Palimpsests

Inattesa, ma di gran valore, seconda opera della band ucraina… un blend di doom, funeral e death doom ricco di intuizioni e magnifiche emozioni.

Una buona annata, il 2017, per le sonorità doom e funeral doom!

Dopo l’opera molto valida dei Funeralium e quella eccellente dei Fuoco Fatuo, senza dimenticare altre belle cose (Facade, Mourning Dawn, etc), arriva del tutto inatteso il secondo full dei Vin de Mia Trix, quartetto ucraino attivo dal 2009, autore di una buona prima prova nel 2013 per Solitude Productions; ora la band realmente esplode con un enorme opus doppio, di soli quattro brani per la canadese Hypnotic Dirge; stupisce che l’etichetta russa Solitude Production si sia lasciata sfuggire questa gemma di grande musica dove si fondono in modo naturale e fluido derive funeral, aromi death doom, meraviglie doom adagiate su partiture ambient e post metal. Mettetevi comodi perché le tracce sono lunghissime, come deve essere un suono funeral che si rispetti, ma come dicevo sono anche molto naturali e non ci sono forzature e difficoltà nell’ascolto.
La band ha grandi capacità di songwriting e riesce ad amalgamare in modo sopraffino tante influenze creando qualcosa di abbastanza unico; l’ascolto è stimolante, ci sono sempre idee che mantengono vivo l’ interesse e in pezzi della durata media di oltre 20′ non è per niente facile.
Il suono elaborato dalle due chitarre è semplicemente maestoso, deciso, possente ma anche fortemente dolente e melanconico, sempre alla ricerca della atmosfera particolare; la band con questo concept intende tramandare, riscrivendole, le storie e gli archetipi che sono presenti nell’inconscio collettivo e nelle varie culture e mitologie di molti popoli.
Anche i titoli dei quattro brani hanno un sapore misterioso (Matarisvan, Pharmakos, Fuimus e Noe) e gli inizi ambient dei primi due brani non fanno che offrire un substrato particolare al tutto e la buonissima produzione con tutti gli strumenti ben equilibrati confeziona un “lavoro” veramente notevole; tutti i brani sono un lungo viaggio in cui  tutti gli ingredienti sono magicamente fusi:  ad esempio in Matarisvan, il primo brano, l’introspettivo incipit ambient si modula in atmosfere death doom e post rock debitrici del suono delle migliori band in questo settore.
Non vi è nulla di opprimente nel suono dei Vin De Mia Trix, e l’alternarsi di clean e harsh vocal (black e death) daà un ulteriore quid al tutto: questa forma d’arte, che sia doom, funeral o death doom ha sempre la capacità, quando viene manipolata da band dotate di sensibilità fuori dal comune, di scrivere pagine incommensurabili ed emozionanti.

Tracklist
1. Matarisvan
2. Pharmakos
3. Fuimus
4. Noe

Line-up
Serge Pokhvala – Guitars
Andrew Tkachenko – Vocals
Alex Vynogradoff – Bass, Vocals, Guitars, Piano
Igor Babaev – Drums

VIN DE MIA TRIX – Facebook


Descrizione Breve

Evadne – A Mother Named Death

Una delle espressioni più alte del death doom melodico, collocabile alla pari delle migliori produzioni di Saturnus e Swallow The Sun.

Le doom band, salvo rare eccezioni, hanno dei tempi compositivi lenti e diluiti che corrispondono in fondo ai ritmi del genere suonato.

L’ultimo full length degli Evadne risale ormai al 2012, quando con The Shortest Way si segnalarono come una delle migliori band in circolazione dedite al death doom melodico; il successivo ep Dethroned Of Light, uscito due anni dopo, pareva essere propedeutico ad un’imminente replica di quel lavoro, mentre invece abbiamo dovuto attendere fino ad oggi prima di tornare a godere di nuova musica composta dal gruppo spagnolo.
Per fortuna, come molto spesso accade, la lunga attesa è stata ampiamente ripagata dal livello stupefacente di un album come A Mother Named Death, che non è solo una conferma bensì la vera e propria consacrazione degli Evadne ai vertici della scena.
In poco più di un’ora il gruppo valenciano regala brividi senza soluzione di continuità, mantenendo lo stesso elevato livello di tensione dalla prima all’ultima nota, lasciandolo scemare solo per dare il tempo all’ascoltatore di riprendere il controllo delle proprie emozioni con il breve strumentale 88.6, prima di rituffarsi senza possibilità di riemergere dalle acque plumbee che, metaforicamente, giacciono nel fondo del nostro animo.
La voce di Albert ci scaraventa in abissi di disperazione che solo la bellezza delle melodie riesce a stemperare, assieme a clean vocals, talvolta accompagnate da voci femminili, che paiono offrire un’illusoria ancora di salvezza prima che sia nuovamente l’incedere tragico dei brani a riprendere il sopravvento.
Già detto della traccia strumentale, una leggiadra pennellata di atmosferica malinconia, l’album consta di altre sette autentiche gemme sonore, capaci di sconvolgere emotivamente le menti più sensibili, tra le quali si fatica non poco a scegliere quali ergere ad emblemi dell’opera, anche se Abode Of Distress, Heirs Of Sorrow e Colossal riescono a stupirmi e commuovermi ogni volta, più dei restanti e ugualmente magnifici episodi; in particolare, la seconda delle due beneficia di un afflato melodico che eleva all’ennesima potenza la percezione del valore dell’album, mentre la terza già la si conosceva, trattandosi dell’opener di Dethroned Of Light, eppure in tale contesto il suo cristallino splendore finisce ancor più per risplendere.
In definitiva, qui ci si trova al cospetto di una delle espressioni più alte del death doom melodico, collocabile alla pari delle migliori produzioni di Saturnus e Swallow The Sun.
E proprio a questi ultimi pare ricondurre più di una volta il sound degli Evadne, che già in passato avevano dimostrato di prendere come ideale punto di riferimento, per poi sviluppare una cifra stilistica propria, una delle pietre miliari del genere quale è The Morning Never Came.
Detto questo, a chi avesse da obiettare sull’originalità dell’operato della band iberica, rispondo solo che l’appassionato di doom è diverso da tutti gli altri, in quanto necessita di vedere gratificata la propria sensibilità da una forma d’arte che narri il male di vivere, più o meno latente, presente in ogni essere umano, trovando requie, infine, nel suo smisurato potenziale catartico e lasciando ad altri l’eterna (e per lo più vana) ricerca della pietra filosofale costituita da un qualcosa di totalmente innovativo.
Quindi, il fatto di rinvenire collegamenti più o meno espliciti con la produzione passata di Raivio e soci appare semmai un valore aggiunto (raggiungere quelle stesse vette evocative non può che essere un merito) piuttosto che un aspetto in grado di offuscare il valore di un lavoro che, salvo auspicabili sorprese, difficilmente a fine anno non si troverà sul podio della mia personale classifica.
Per una volta faccio mia una frase contenuta nelle note di presentazione dell’album a cura della Solitude Productions: “l’ascolto di A Mother Named Death vi costringe ogni volta a mostrare le vostre emozioni” e, aggiungo io, non abbiate paura di commuovervi fino alle lacrime, compenetrati dalla musica degli Evadne.

Tracklist:
1. Abode Of Distress
2. Scars That Bleed Again
3. Morningstar Song
4. Heirs Of Sorrow
5. Colossal
6. 88.6
7. Black Womb Of Light
8. The Mourn Of The Oceans

Line up:
Albert Conejero – vocals
Josan Martin – guitars
Jose Quilis – bass
Juan Esmel – drums, vocals
Marc Chulia – guitars

EVADNE – Facebook

Cold Insight – Further Nowhere

Rispetto alla pre-produzione ascoltata diversi anni fa, il growl di Sébastien Pierre conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.

Quattro anni fa rinvenni on line un album intitolato Further Nowhere, a nome Cold Insight, che mi aveva incuriosito in quanto si trattava del progetto solista di Sébastien Pierre, tastierista degli ottimi ma appena disciolti death-doomsters francesi Inborn Suffering, nonché partner di Jari Lindholm nei magnifici Enshine

La musica contenuta in quelle tracce di natura esclusivamente strumentale mi colpì favorevolmente, tanto che ritenni di scrivere due righe al riguardo, ben conscio del fatto che si trattava di una pre-produzione messa in circolazione sul web per sondare il terreno, come ci tenne a chiarire anche il musicista francese, pur se lusingato dal riscontro positivo.
Approdato ad un’etichetta specializzata in musica oscura e di qualità come la Naturmacht / Rain Without End, Pierre ha finalmente dato alle stampe la versione definitiva di Further Nowhere e, come era prevedibile, l’inserimento della voce rende un’opera magnifica quella che nel 2013 era apparsa un già notevole abbozzo.
Il growl di Sébastien conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.
Ovviamente le tracce che già a suo tempo mi avevano colpito per la loro bellezza vengono esaltate in questa loro nuova veste, impreziosita dal contributo alla chitarra dello stesso Lindholm ed del suo connazionale (nonché compagno negli Exgenesis) Christian Netzell alla batteria: così, affreschi melodici e dal groove irresistibile come The Light We Are, Above ed Even Dies A Sun (solo per citare quelle che prediligo) vengono offerte all’interno di un progetto che trova finalmente un suo sbocco ben definito, e sarebbe stato un vero delitto se ciò non fosse avvenuto.
L’unica traccia che ha conservato la propria veste strumentale è proprio la title track, ed è giusto così perché, in fondo, è tra tutte quella che esprime le melodie più struggenti e che, forse, sarebbero state intaccate dall’inserimento delle vocals; la chiusura invece è affidata a Deep, unico brano non presente nella prima stesura e dotato di un chorus che non lascia scampo, come del resto avviene in quasi tutte le altre canzoni, nelle quali questa capacità da parte di Pierre viene perpetuata con un approccio non dissimile a quello dei migliori Amorphis.
L’ascolto di questo effettivo primo full length targato Cold Insight conferma una volta di più quanto ho sempre sostenuto riguardo alla tendenza ormai diffusa, emersa in questi ultimi anni, di pubblicare opere interamente strumentali: avendo, per una volta, l’occasione di confrontare lo stesso lavoro nell’una e nell’altra versione, si può oggettivamente constatare come non ci sia competizione tra le due soluzioni, in particolare quando le linee vocali sono incisive ed espressive come quelle del musicista parigino.
Alla fine della recensione scritta quattro anni fa per In Your Eyes Eyes affermavo che a un album come Furter Nowhere mancava solo la parola … ora che l’ha trovata è davvero un bel sentire.

Tracklist:
01. The Light We Are
02. Midnight Sun
03. Sulphur
04. Close Your Eyes
05. Above
06. Rainside
07. Stillness Days
08. Even Dies a Sun
09. Distance
10. I Will Rise
11. Further Nowhere
12. Deep

Line-up:
Sébastien Pierre – vocals, keyboards, guitar, bass

Jari Lindholm – guitar solos, mixing, mastering
Christian Netzell – drums

COLD INSIGHT – Facebook

Descend Into Despair – Synaptic Veil

Synaptic Veil è un’opera varia e matura, nella quale i meandri del doom più estremo e nel contempo atmosferico vengono esplorati senza nessuna remora ma con i giusti dosaggi, passando da attimi più eterei ad altri intrisi di ineluttabile dolore.

Tre anni dopo l’esordio su lunga distanza, intitolato The Bearer of All Storms, ritornano i rumeni Descend Into Despair con il loro funeral/death doom melodico ed atmosferico.

Parlando del precedente lavoro, all’epoca della sua uscita ero rimasto perplesso su alcune scelte effettuate dai ragazzi di Cluj-Napoca, in particolare quella di riversare su disco una mole esorbitante di materiale, finendo per diluire quanto di buono era stato possibile riscontare tra le righe di un songwriting ancora relativamente acerbo: ebbene, il valore del nuovo album dimostra nel migliore dei modi che, quando c’è il talento, bisogna solo dare tempo al tempo perché questo si manifesti compiutamente.
Synaptic Veil è infatti un’opera varia e matura, nella quale i meandri del doom più estremo e nel contempo atmosferico vengono esplorati senza nessuna remora ma con i giusti dosaggi, passando da attimi più eterei ad altri intrisi di ineluttabile dolore, grazie ad un lavoro chitarristico prezioso, esaltato per di più dal lavoro in studio affidato alle mani del musicista rumeno più noto nel settore, ovvero Daniel Neagoe (Eye Of Solitude, Clouds).
Il passaggio anche al microfono di Xander (che come chitarrista ha prestato i suoi servigi sugli ultimi due album dei Deos del duo Dehà/Neagoe, tanto per chiudere il cerchio) costituisce un ulteriore e decisivo passo avanti, visto che il suo growl è pressoché all’altezza di quello del suo connazionale ed anche le clean vocals convincono senza apparire mai forzate.
Con tutti questi ingredienti, Synaptic Veil si rivela così un album superbo, che va elaborato con la giusta pazienza per consentire all’ascoltatore d’essere annichilito dalla dolente bellezza di brani come Alone with My Thoughts e Demise, con quest’ultima vero fulcro del lavoro in virtù di quasi un quarto d’ora in cui i Descend Into Despair esprimono lo stato dell’arte del genere, edificando un monumento di rara intensità e malinconico abbandono.
Momenti acustici, spunti corali e stupende melodie chitarristiche, che spesso vanno in crescendo nella parte finale dei brani, rappresentano in questo l’ideale per l’appassionato del genere che non verrà deluso neppure dalla profondità delle liriche, tutte opera del vocalist e già brillanti in The Bearer of All Storms, ulteriore punto di forza della band nel loro tentativo di sviscerare le complessità e le contraddizioni della psiche umana.
Synaptic Veil consacra i Descend Into Despair come nuova e splendente realtà, espressione di un movimento metal underground rumeno che brulica di band di eccellente livello.

Tracklist:
1. Damnatio Memoriae
2. Alone with My Thoughts
3. Demise
4. Silence in Sable Acrotism
5. Tomorrow

Line-up:
Xander (guitars, vocals)
Florentin (keys)
Cosmin (guitars)
Luca (drums)
Alex (bass)
Flaviu (keys)
Dragoș (guitars)

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Lying Figures – The Abstract Escape

The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.

Primo full length per questa band francese che ha mosso i sui primi passi alla fine dello scorso decennio e che, oggi, dà finalmente un seguito consistente agli accenni di ottimo death doom fornito con un demo ed un ep rilasciati qualche anno fa.

The Abstract Escape si rivela infatti un’opera di notevole spessore, anche perché il gruppo di Nancy spicca per un approccio alla materia leggermente diverso, senza tralasciare di immettere nelle proprie composizioni passaggi riconducibili al gothic più depressivo, sfumatura quest’ultima che ben si sposa a tematiche legate a disagi psichici ed esistenziali.
Dei Lying Figures colpisce la capacità di toccare notevoli vette evocative subito dopo averne preparato il terreno con passaggi più rarefatti e solo apparentemente interlocutori, il tutto in qualche modo aderendo all’andamento schizofrenico di una mente malata che prova, invano, a riemergere dagli abissi nella quale è sprofondata.
In circa 50 minuti la creatura fondata dai due chitarristi Mehdi Rouyer e Matthieu Burgaud offre questi otto brani di ottima fattura, dimostrando la padronanza tipica di chi si è preso tutto il tempo necessario (come non sempre avviene) prima di imbarcarsi in un’avventura tutt’altro che scontata come il primo passo su lunga distanza: anche grazie a questo The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.
La voce di Thibault Robardey interpreta tutto ciò con la giusta enfasi e, anche se magari certi passaggi possono risultare un po’ forzati, l’effetto desiderato viene raggiunto ampiamente: tutto ciò contribuisce a rendere diversi brani delle opalescenti e dolorose perle, il cui afflato melodico è sempre in primo piano e capace di illuminare il disco con improvvise aperture.
Tormented Soul e There was a hole here, it’s gone now sono due trace magnifiche per intensità, aderendo alle caratteristiche appena descritte, ma sono di poco superiori, probabilmente solo per gusto personale, al resto di una tracklist che vede anche la disperata Monologue of a sick brain, la gothicheggiante e più ritmata Remove the black e la conclusiva Zero, all’insegna invece di un sound più rallentato, quali altri punti di spicco di un disco bellissimo.
The Abstract Escape, come molte altre opere simili, va lavorato con pazienza perché non entra nelle corde dell’ascoltatore con particolare agio, ma quando ciò avviene rilascia quelle sensazioni che ogni amante del doom che si rispetti ricerca con doverosa e tenace pazienza.

Tracklist:
1. Hospital of 1000 deaths
2. Tormented souls
3. Monologue of a sick brain
4. The Mirror
5. There was a hole here, it’s gone now
6. My Special place
7. Remove the black
8. Zero

Line-up:
Thibault Robardey – vocals
Matthieu Burgaud – guitars
Mehdi Rouyer – guitars
Frédéric Simon – bass
Charles Pierron – drums

LYING FIGURES – Facebook

Below the Sun – Alien World

Spesso il secondo disco può nascondere insidie ma la band siberiana, traendo linfa vitale da un masterpiece della fantascienza, crea un viaggio affascinante e misterioso.

DOOM, profondamente doom con intense venature “progressive” e sfumature death il secondo lavoro dei siberiani Below the Sun a due anni di distanza dall’esordio Envoy; il misterioso quartetto si ripresenta con un’opera difficile, con un concept tratto dal masterpiece Solaris del 1961 del grande scrittore polacco Stanislaw Lem, libro affascinante di fantascienza filosofica trasposto cinematograficamente dal regista russo Tarkovskij.

I musicisti russi raccolgono la sfida e in otto lunghi brani ci impressionano con un lavoro cangiante, ricco di suoni e idee creando una immaginifica “colonna sonora”, un viaggio carico di emozioni, di introspezione, di ricerca interiore; opera non facile da comprendere, sono necessari molti ascolti per apprezzare appieno il labirinto di suoni che la band crea senza utilizzare alcun synth o keyboard: ciò è stupefacente perché chi ascolta non può non rimanere rapito di fronte agli ampi spazi strumentali concepiti all’interno dei vari brani.
L’opener Blind Ocean nei suoi dieci minuti di durata esplora lo spazio fin dall’inizio per poi porci di fronte alla grandezza di una forma aliena, l’oceano intelligente che ricopre completamente la superficie del pianeta Solaris, creando un mix di emozioni che vanno dallo stupore alla paura, fino al lirismo intenso della parte finale dove la chitarra solista intesse trame fitte, ricche, romantiche e molto introspettive. Suoni post-metal avvolgono e rendono le altre composizioni cariche di mutevole fascino come in Giants Monologue dove una cadenza pesante e lenta crea una atmosfera di misteriosa attesa che lentamente si richiude in sé stessa. Un sentito plauso alla band perché sicuramente l’idea del concept ha stimolato molto l’inventiva dei musicisti e li ha suggestionati nell’elaborare e comporre un disco veramente bello, maestoso e misterioso.

TRACKLIST
1. Blind Ocean
2. Mirrors
3. Giant Monologue
4. Dawn for Nobody
5. Release
6. Dried Shadows
7. Black Wave
8. In Memories

LINE-UP
Void Drums, Vocals
Vacuum Guitars
Quasar Guitars, Vocals
Lightspeed Bass

BELOW THE SUN – Facebook

Fuoco Fatuo – Backwater

Un meraviglioso, oscuro opus di grande arte funeral senza eguali in Italia: una grande crescita artistica di questa band che ha prodotto uno dei migliori dischi del 2017.

Impenetrabile dai raggi del sole, ma proiettato costantemente verso il nero vuoto cosmico, verso le nostre più ataviche angosce e paure!

I Fuoco Fatuo, band varesina attiva dal 2012, stupiscono con una seconda opera di funeral doom di altissimo livello; nel roster della famosa etichetta canadese Profound Lore, dopo essersi fatti scoprire nel 2014 con The Viper Slithers in the Ashes of What Remains, più ancorato su lidi death/doom, con l’attuale opera Backwater esprimono veramente un colossale suono funeral, opprimente, angosciante che prende alla gola e non ti fa respirare dall’inizio alla fine dei suoi 62 minuti.
Non vi è una sola nota, nei quattro lunghissimi brani, che non crei un’atmosfera ammorbante, come un magma lavico denso, viscoso che ricopre ogni cosa, che si muove lentamente e ti soffoca; forse l’ unica possibilità di fuga è verso il vuoto cosmico, dove però le nostre paure non sono affatto lenite ma saranno ulteriormente accresciute: brani con titoli suggestivi come la meravigliosa Sulphureous Hazes, in cui la componente death, rimane legata solo alla parte vocale, mentre il suono può in parte ricordare i finnici Tyranny o gli Swallowed di Lunarterial, con in aggiunta una componente lisergica e visionaria molto particolare.
La misteriosa cover virata su colori nero e viola, la masterizzazione del suono da parte di un grande musicista come James Plotkin (Scorn, Khanate solo per nominare alcune collaborazioni) arricchiscono un’opera che non ha, al momento, molti eguali nel nostro territorio; come ha detto un amico, bisogna lasciarsi intercettare dalla buona musica e in questo caso, una volta entrati nell’inferno, non va opposta resistenza e si deve imparare a convivere con le nostre paure.
Dall’ascolto di quest’opera si esce lacerati nel profondo dell’anima: brani come Perpetual Apochaos e Nemesis, nel loro mastodontico svolgersi, non possono lasciare indifferenti chi si nutre di funeral doom. Non per molti, ma forse neanche per pochi … tra i migliori dischi del 2017.

TRACKLIST
1. Sulphureous Hazes
2. Rainfalls of Debris
3. Perpetual Apochaos
4. Nemesis

LINE-UP
G. Guitars, Bass
M. Vocals, Guitars
F. Drums

FUOCO FATUO – Facebook

Soijl – As The Sun Sets On Life

As The Sun Sets On Life si sviluppa per poco più di un’ora, offrendo un death doom nel quale vengono rielaborati nel migliore dei modi gli influssi delle principali scuole, restituendoli impeccabilmente con personalità e brillantezza.

Il ritorno dopo due anni dei Soijl, band fondata dall’ex chitarrista dei Saturnus Mattias Svensson, non può che costituire una buona notizia per tutti gli amanti del death doom melodico.

Così come scritto all’epoca, in relazione all’album d’esordio Endless Elysian Fields, chi è stato parte in causa nella realizzazione di un capolavoro come Saturn In Ascension non può certamente ignorarne o ripudiarne i contenuti, per cui quella dei Soijl è un’interpretazione del genere che si avvicina per modalità a quella dei maestri danesi, pur senza aderirvi pedissequamente.
Infatti, il sound che il chitarrista svedese continua ad offrire è, in qualche modo, meno immediato rispetto a quello dei Saturnus, in virtù di un incedere a tratti più arcigno e che, comunque, non fa venire meno anche certe influenze provenienti dalla scena d’oltreoceano.
Proprio per questo As The Sun Sets On Life è un album che lascia qualche dubbio nel corso dei primi due-tre ascolti, per poi mostrare finalmente le sue vere sembianze, quelle di ottimo esempio di musica dolente ed emozionante. Rispetto al precedente full length Svensson non si è occupato di tutti gli strumenti, affidando la batteria al giovane Malphas e confermando, invece, alla voce l’ottimo Henrik Kindvall: in buona sostanza poco cambia, sia nelle caratteristiche di un sound che possiede coordinate chiare ed inequivocabili, sia nella qualità con la quale queste vengono seguite.
As The Sun Sets On Life si sviluppa per poco più di un’ora, offrendo un death doom nel quale vengono rielaborati nel migliore dei modi gli influssi delle principali scuole, restituendoli impeccabilmente con personalità e brillantezza, con una menzione speciale per la terna Weapon Of Primordial Chaos, Salvation, Deception e Spiritual Asphyxiation, brani che uno dopo l’altro dimostrano senza lasciare dubbi la bontà del lavoro compositivo di Svensson.
Forse non si rinviene un progresso netto rispetto al precedente lavoro, anche perché la base di partenza era già comunque consistente, ma siamo senz’altro in presenza di una prova notevole, in grado di riaffermare una posizione di rilievo dei Soijl nella scala dei valori della scena, e non è poco.

Tracklist:
1. Death Do Us Part
2. Weapon Of Primordial Chaos
3. Salvation, Deception
4. Spiritual Asphyxiation
5. On Antediluvian Shores
6. Alive In A Sea Of Dying Flowers
7. The Abyss, My Tomb

Line-up:
Henrik Kindvall – Vocals & lyrics
Mattias Svensson – Guitars, bass, keyboards & music
Johan Mathisson – Drums

SOIJL – Facebook

Martyrdoom – Grievous Psychosis

Per i Martyrdoom un gran bell’esordio, di quelli che magari non cambieranno la vita ma la miglioreranno senz’altro a chi si nutre di tali sonorità.

Dopo qualche anno di rodaggio contrassegnato da uscite dal minutaggio ridotto, i polacchi Martyrdoom giungono al full length d’esordio con il quale ci riportano bruscamente nell’ultimo decennio del secolo scorso, a colpi di feroce e malsano death doom.

Non siamo, quindi, dalle parti del versante più melodico e melanconico del genere, bensì su quello decisamente sbilanciato verso la prima delle due componenti, andando ad attingere principalmente, a livello di ispirazione, alle band autrici appunto di un death morboso e spesso rallentato.
Pertanto, più che alla vecchia Europa i ragazzi di Varsavia volgono il loro sguardo oltreoceano, focalizzandolo su capisaldi del genere quali Obituary, Incantation ed Immolation, tutti gruppi che cominciavano ad incidere pesantemente sulla scena quando i nostri, nella migliore delle ipotesi, erano ancora innocui bimbetti in età scolare.
Questa riscoperta dei suoni cosiddetti old school non deve apparire necessariamente uno stratagemma per sfuggire alla mancanza di spunti innovativi, e i Martyrdoom in tal senso dimostrano ampiamente che è possibile rileggere il passato facendolo in maniera ugualmente personale.
Per fare questo è necessario immettere nella propria musica una dose massiccia di convinzione e devozione alla causa, esattamente ciò che avviene in questo corrosivo ed oscuro Grievous Psychosis: la voce aspra, in stile John Tardy, di Sociak conduce nei meandri putridi di un sottobosco estremo che continua a lanciare segnali importanti che non possono esser ignorati.
Leggendo di titoli come Lucifer Rise, Oldshool Death, Corpsefuck e Bloody Incarnations non è difficile intuire dove si andrà a parare, ma che siano accelerazioni sempre abbastanza controllate o rallentamenti che lasciano spazio a qualche pregevole passaggio chitarristico, il bello di un album come questo è che non stanca e non annoia mai, anche se la varietà stilistica non può essere annoverata certo tra i suoi punti di forza.
Chi se ne importa, però, quanto tutto è suonato con l’onestà e la competenza di questo quintetto polacco che, in meno di quaranta minuti, completa la sua notevole opera regalando un brano dai tratti parzialmente diversi come Corpsefuck, più doom oriented rispetto al resto della tracklist, tanto per ricordare che la ragione sociale non è affatto campata per aria, nonostante una chiusura ritmicamente furiosa.
Per i Martyrdoom un gran bell’esordio, di quelli che magari non cambieranno la vita ma la miglioreranno senz’altro a chi si nutre di tali sonorità.

Tracklist:
1. Betrayed Trust
2. Bloody Incarnations
3. Oldschool Death
4. Lucifer Rise
5. Drowned in Void
6. Face Without a Person
7. Psychosis
8. Corpsefuck

Line-up:
Sociak – Vocals
Marol – Guitar
Młynar – Guitar/Vocals
Artur – Bass
Wasyl – Drums

MARTYRDOOM – Facebook

Red Moon Architect – Return of the Black Butterflies

Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte dei Red Moon Archiect, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del funeral death doom melodico.

Se può essere inutile rimarcare come la Finlandia sia, per distacco, la patria delle sonorità più oscure e melanconiche, non lo è affatto continuare ad esaltare la qualità che le diverse band provenienti dalla terra dei mille laghi, alle prese con la materia funeral death doom, offrono ad ogni uscita.

In questo caso il lavoro preso in esame è il terzo dei Red Moon Architect, nati nel 2011 come progetto solista del talentuoso Saku Moilanen e poi trasformatisi nel tempo in una band a tutti gli effetti: Concealed Silence (2012), infatti, vedeva accreditato il solo musicista di Koivolua con l’ausilio di diversi ospiti, tra i quali la sola vocalist Anni Viljanen è rimasta a costituire il tratto d’unione tra quel lavoro e quelli successivi della band, ovviamente assieme al suo mastermind.
Se Fail, uscito nel 2015, consolidava il valore e lo status dei Red Moon Architect, questo nuovo Return of the Black Butterflies ha tutte le carte i regola per innalzare ulteriormente il livello della band finlandese e portarla a riempire un certo vuoto lasciato dai Draconian, dopo la svolta verso sonorità più morbide attuata da questi ultimi nell’ultimo decennio.
Certo, rispetto alla band svedese i nostri si spingono con più frequenza verso lidi prossimi al funeral, ma il connubio tra la voce femminile della Viljanen ed il growl del nuovo arrivato Ville Rutanen riporta automaticamente in quell’ambito, avendo in comune lo stesso senso drammatico ed evocativo che contraddistingueva le prime opere della creatura di Johan Ericsson.
Saku Moilanen si conferma compositore di grande spessore, offrendo una cinquantina di minuti di sonorità plumbee ma intrise di melodie dolenti che, come da copione, assumono sembianze drammatiche in coincidenza con il growl per poi aprirsi malinconicamente con l’entrata in scena della voce femminile.
Questo fa capire che non c’è da aspettarsi proprio nulla di nuovo ma, paradossalmente, tale aspetto si rivela la pietra angolare sul quale i Red Moon Architect erigono il loro magnifico monumento al dolore che, comunque, non assume mai un aspetto monocorde perché, pur tra gli scostamenti ridotti consentiti dal genere, il funeral opprimente esibito in maniera magistrale in End of Days è, per esempio, ben diverso sia dal gothic di Tormented sia dall’atmospheric doom di NDE.
Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte della band finlandese, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del genere.

Tracklist:
1. The Haunt
2. Tormented
3. Return of the Black Butterflies
4. Journey
5. End of Days
6. NDE

Line up:
Saku Moilanen – Schlagzeug & Keyboard
Ville Rutanen – Gesang
Matias Moilanen – Gitarre
Anni Viljanen – Gesang
Jukka Jauhiainen – Bass

RED MOON ARCHITECT – Facebook