Descend Into Despair – The Bearer of All Storms

La giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino fa pensare che i Desced Into Despair possiedano potenzialità per ora ancora inespresse.

Esordio dei giovani rumeni Descend Into Despair con una chilometrica prova a base di death-doom riuscita solo a tratti.

Infatti, proprio la lunghezza del lavoro si presenta come lo snodo dell’intera vicenda: per cimentarsi, al primo full-length, in un doppio cd pari ad oltre un’ora e mezza di musica per sua natura di non facile assimilazione, bisogna possedere sia una buona dose di sana follia sia una notevole autostima.
Usando come termine di paragone una band del settore che da sempre propone uscite di tali proporzioni, è evidente che i Descend Into Despair, purtroppo per loro, non possiedono ancora (e non possiamo far loro una colpa di questo) né la fluidità degli Esoteric né, soprattutto, il talento compositivo di Greg Chandler per potersi permettere di emularne le gesta, almeno dal punto di vista del minutaggio e, quindi, The Bearer of All Storms in diversi frangenti appare come il classico passo più lungo della gamba.
Detto questo, per natura tendo ad apprezzare chi osa rischiando del proprio, e per questo motivo ritengo che l’operato della band di Cluj meriti d’essere ascoltato e valutato senza pregiudizio alcuno: ho letto addirittura alcune recensioni che stroncavano il disco senza mezzi termini facendo uso anche di una stucchevole ironia, ma queste erano palesemente opera di qualcuno al quale il doom estremo, death o funeral che sia, non piace per partito preso e, pertanto, simili giudizi hanno un valore del tutto relativo.
Credo invece che sia più corretto apprezzare i molti buoni momenti che The Bearer of All Storms regala agli ascoltatori, senza nascondere i quasi altrettanti che ne appesantiscono irrimediabilmente la fruizione: sarà forse banale ma pure realistico affermare che traendo il meglio dall’album ne sarebbero venuti fuori tre quarti d’ora di musica di ottimo livello, anche se non sarebbe stato ugualmente semplice fare una cernita delle singole tracce da conservare, proprio perché ogni specifico episodio mostra al suo interno questa dicotomia tra passaggi ispirati ed altri piuttosto forzati nel loro sviluppo. Appaiono esplicativi al riguardo due tra i brani più lunghi del lotto come Triangle of Lies e The Horrific Pale Awakening, capaci di esibire melodie chitarristiche decisamente coinvolgenti alternate a troppi frangenti apparentemente interlocutori; indubbiamente i Descend Into Despair dovevano avere molte idee a livello lirico da utilizzare in quest’occasione (e lo fanno invero piuttosto bene, bisogna ammetterlo, senza apparire mai né banali né eccessivamente criptici) e ciò può averli spinti ad allungare eccessivamente anche il “brodo musicale”.
Tutto sommato la traccia più convincente, pur se neppure questa del tutto esente da pecche esecutive, riscontrabili in particolare nei frangenti atmosferici, è Plânge Glia De Dorul Meu, cantata in lingua madre (il rumeno ha una sua affascinante musicalità che ben si adatta anche a partiture più estreme, come già ampiamente dimostrato da Negura Bunget / Dordeduh) e contraddistinta da quel pathos drammatico che porta i nostri a lambire i territori dei magnifici Eye Of Solitude del connazionale Daniel Neagoe, ma anche la successiva Embrace Of Earth si rivela una chiusura degna per un disco che si colloca ben oltre la sufficienza e che, a tratti, palesa le indiscutibili doti di una band dalle potenzialità ancora tutte da scoprire.
Proprio la giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino mi fa pensare che di questi interessanti rumeni sentiremo parlare in termini ben più positivi anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Portrait of Rust
2. Mirrors of Flesh
3. Pendulum of Doubt
4. Triangle of Lies
5. The Horrific Pale Awakening
6. Plânge glia de dorul meu
7. Embrace of Earth

Line-up :
Denis Ungurean – Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars (lead), Programming, Drums, Keyboards
Iulia Bulancea – Bass
Orza Radu – Drums
Cosmin Farcău – Guitars (rhythm)
Florentin Popa – Keyboards

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Woe Unto Me – A Step into the Waters of Forgetfulness

Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.

Altro ottimo prodotto sfornato dalla sempre prolifica, anche dal punto di vista qualitativo, Solitude Prod.

Stavolta tocca ai bielorussi Woe Unto Me ad essere portati alla ribalta della scena doom europea: la band, condotta dall’eccellente Artyom Serdyuk, viene descritta come dedita al funeral doom ma è evidente, sin dalle prime note, quanto l’approccio sia decisamente più intimista, quasi soffuso a tratti, senza che il senso di palpabile malinconia che contraddistingue il genere venga comunque in qualche modo scalfito.
A Step into the Waters of Forgetfulness è in effetti un lavoro che si discosta, pur senza snaturarsi, dalla coordinate classiche del funeral, proprio perché gli Woe Unto Me optano per composizioni lunghe come da copione che mettono però in risalto particolarmente il riuscito connubio tra le clean vocals dell’ottimo Sergey Puchok e le partitura acustiche, sempre contraddistinte da una certa eleganza di fondo.
L’uso delle voci è davvero il valore aggiunto del lavoro : il growl di Artyom è centellinato il giusto ritagliandosi il ruolo di adeguata spalla alla timbrica evocativa di Sergey (in certi frangenti accostabile ad un Eric Clayton meno enfatico), e lo stesso avviene con il controcanto femminile che ha per lo più un compito di supporto. Tutto ciò si realizza nel migliore dei modi nella traccia finale, la lunga e drammatica Angels To Die, che rappresenta, tra tutti, l’episodio più rispondente all’etichetta associata alla band, mentre i primi tre brani vivono ancor più invece sull’apporto decisivo di suggestioni acustiche, specie l’iniziale Slough Of Despond, che prende avvio con tonalità cristalline prima di abbandonarsi alle più consuete ritmiche funeree.
Il valore indiscutibile di un lavoro come A Step into the Waters of Forgetfulness risiede proprio nella volontà dei ragazzi bielorussi nel cercare con continuità una via maggiormente personale per esprimere il proprio mood malinconico senza cadere con entrambi i piedi nei, comunque graditi, clichè del genere.
Un’operazione che riesce pienamente grazie alle indubbie doti tecniche esibite dal combo di Grodno: evidentemente, nonostante questo disco sia di fatto un esordio su lunga distanza, denota sicuramente un percorso musicale tutt’altro che banale compiuto dai singoli musicisti prima di cimentarsi in quest’opera.
Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.
Gran bel lavoro e altra graditissima sorpresa, è sempre un piacere rischiare di apparire ripetitivi ogni qual volta ci si trovi a lodare sperticatamente le doom band provenienti dal nordest europeo …

Tracklist:
1. Slough of Despond
2. The Gospel Reading
3. Stillborn Hope
4. 4
5. Angels to Die

Line-up :
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Sergey Puchok – male clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums
Julia Shimanovskaya – female clean vocals

WOE UNTO ME – Facebook

Bologna Violenta – Uno Bianca

“Uno Bianca” è il ritratto fedele e musicato delle gesta dei fratelli Savi e complici, una delle pagine più brutte della storia italiana.

Le opere musicali non sono mero intrattenimento, o quantomeno non solo.

E ce lo dimostra in maniera molto efficace il ritorno del violentatore sonoro Nicola Manzan: Uno Bianca è il ritratto fedele e musicato delle gesta dei fratelli Savi e complici, una delle pagine più brutte della storia italiana.
Il periodo preso in considerazione è quello tra il 19 giugno 1987, data della rapina al casello di Pesaro, e il 29 marzo 1998, giorno del suicidio del padre dei fratelli Savi, Giuliano.
In mezzo tantissimo sangue, senza molto senso ad una prima occhiata. La banda della Uno Bianca uccise molti immigrati, ma anche carabinieri e gente comune, lasciando un senso diffuso di insicurezza dopo le loro scorribande.
I componenti della banda erano quasi tutti poliziotti, e anche questo non è certa una casualità. Dietro a tutto ciò vi era un disegno ben preciso, rimasto in parte oscuro, poiché gli unici condannati furono gli appartenenti alla banda, ma queste gesta vennero decise da qualcuno molto più in alto.
Se si leggono i libri, come l’ottimo L’Italia della Uno bianca di G. Spinosa, pm dell’indagine, ci si accorge che la banda armata era solo la punta dell’iceberg, in stretto collegamento con la banda belga del Brabante Vallone, dove vi erano sicuramente elementi dello Stay Behind Belga.
Manzan compie un recupero della memoria e un elettroshock per mezzo della sua musica, che si potrebbe definire symphonic grind metal noise, ma che in realtà è un pugno ben assestato in faccia alla nostra amata Italia. Accompagna il cd un libretto con la pesante cronaca delle gesta della banda, e vi assicuro che leggerlo ascoltando il cd è un qualcosa di veramente chiarificatore. Dischi come questo esulano dal discorso musicale, per andare veramente oltre, là dove la musica è impegno civile, non ostentato ma vero.
In definitiva un disco che serve davvero tanto, per non dimenticare, e per non trovare facili soluzioni, musicali e non.
Un disco disturbante per penetrare una difficile memoria.

Tracklist:
01. 19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14
02. 31 agosto 1987 – San Lazzaro di Savena (Bo): rapina casello A-14
03. 3 ottobre 1987 – Cesena: tentata estorsione
04. 30 gennaio 1988 – Rimini: rapina supermercato Coop
05. 19 febbraio 1988 – Casalecchio di Reno (Bo): rapina supermercato Coop
06. 20 aprile 1988 – Castelmaggiore (Bo): attacco pattuglia Carabinieri
07. 19 settembre 1988 – Forlì: rapina supermercato Coop
08. 26 giugno 1989 – Bologna: rapina supermercato Coop
09. 15 gennaio 1990 – Bologna: rapina ufficio postale
10. 6 ottobre 1990 – Bologna: rapina tabaccheria
11. 10 dicembre 1990 – Bologna: assalto campo Rom
12. 22 dicembre 1990 – Bologna: attacco lavavetri extracomunitari
13. 23 dicembre 1990 – Bologna: assalto campo Rom
14. 27 dicembre 1990 – Castelmaggiore (Bo): rapina distributore
15. 4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri
16. 20 aprile 1991 – Bologna: rapina distributore
17. 30 aprile 1991 – Rimini: attacco pattuglia Carabinieri
18. 2 maggio 1991 – Bologna: rapina armeria Volturno
19. 19 giugno 1991 – Cesena: rapina distributore
20. 18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi
21. 28 agosto 1991 – Gradara (Ps): scontro a fuoco con due poliziotti
22. 24 febbraio 1993 – Zola Predosa (Bo): rapina banca
23. 7 ottobre 1993 – Riale (Bo): rapina banca
24. 3 marzo 1994 – Bologna: rapina banca
25. 24 maggio 1994 – Pesaro: rapina banca
26. 21 ottobre 1994 – Bologna: rapina banca
27. 29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi

Line-up
Nicola Manzan : Tutti gli strumenti.

BOLOGNA VIOLENTA – Facebook

Lenore S. Fingers – Inner Tales

Un lavoro alle tinte decadenti e dal sound atmosferico, riflessivo ed elegante quello proposto, con ottimo piglio, dai Lenore S. Fingers.

In copertina una camera stile anni trenta, una ragazza sdraiata sul letto, lo sguardo verso una finestra illuminata dai raggi del sole: fuori è già cominciata la primavera, la natura si risveglia, tutto dovrebbe essere più gioioso e la stagione che nasce dovrebbe portare via il malessere che inevitabilmente l’inverno porta con sé; invece, qualcosa non va in lei: un primo amore perduto?

Lo scoprirete tra i solchi dell’esordio dei Lenore S Fingers, band calabrese accasatasi presso la My Kingdom Music (etichetta che, in quanto a band di talento se ne intende), protagonista di un lavoro intimista, delicato e di classe, impreziosito dalla voce suggestiva di Federica Lenore Catalano, anche alla chitarra e ai synth e indiscussa leader del combo. Formatosi nel 2010, il gruppo arriva all’esordio con una personalità da band navigata, costruendo un songwriting che pesca in varie direzioni senza perdere una spiccata originalità di fondo, lasciando che la musica fluisca senza alcuna forzatura e rendendo l’ascolto estremamente piacevole. The Gathering, Katatonia e e il dark ottantiano sono nomi e genere che più si avvicinano alla musica della band calabrese che, quando serve, non rinuncia ad indurire il suono, come nella stupenda Victoria o nella sinfonica Doom, pur mantenendo un’eleganza non comune. La buona produzione fa sì che gli strumenti non coprano la bellissima voce di Federica, che in certe circostanze si fa eterea e molto emozionale: esempio lampante è Cry Of Mankind, dove un alternarsi di momenti acustici ed elettrici sono supportati in egual modo dal tono sulfureo della cantante e, sul finire, la song è impreziosita da un bell’assolo di chitarra che metallizza l’atmosfera. Song To Eros è un bellissimo brano dalle coordinate stilistiche vicine al gruppo olandese che fu della divina Anneke van Giesbergen, mentre nella conclusiva An Aching Soul la chitarra acustica accompagna la voce di Federica pere l’episodio più intimista del lotto chiudendo il lavoro con atmosfere dai rimandi dark wave. Inner Tales è un lavoro che potrebbe piacere ad una vasta fetta di pubblico, rivelandosi adatto sia ai fan del gothic metal, sia a chi preferisce un approccio più dark rock ma, soprattutto è l’ennesima buona prova di una band tutta italiana.

Tracklist:
1. Inner Tales
2. The Last Dawn
3. Victoria
4. Cry of Mankind
5. To the Path of Loss
6. Song to Eros
7. Doom
8. The Calling Tree
9. An Aching Soul

Tracklist:
Federica Lenore Catalano – Vocals,Guitars,Guitar synth
Patrizio Zurzolo – Guitars,Guitar synth
Domenico Iannolo – Bass
Gianfranco Logiudice – Drums
Giuseppe Giorgi – Keyboards

LENORE S FINGERS – Facebook

Lenore S Fingers – Inner Tales

Lavoro dalle tinte decadenti e dal sound atmosferico, riflessivo ed elegante quello proposto, con ottimo piglio, dalla band calabrese dei Lenore S Fingers.

In copertina una camera stile anni trenta, una ragazza sdraiata sul letto, lo sguardo verso una finestra illuminata dai raggi del sole: fuori è già cominciata la primavera, la natura si risveglia, tutto dovrebbe essere più gioioso e la stagione che nasce dovrebbe portare via il malessere che inevitabilmente l’inverno porta con se; invece, qualcosa non va in lei: un primo amore perduto?

Lo scoprirete tra i solchi dell’esordio dei Lenore S Fingers, band calabrese accasatasi presso la My Kingdom Music (etichetta che, in quanto a band di talento se ne intende), protagonista di un lavoro intimista, delicato e di classe, impreziosito dalla voce suggestiva di Federica Lenore Catalano, anche alla chitarra e ai synth e indiscussa leader del combo.
Formatosi nel 2010, il gruppo arriva all’esordio con una personalità da band navigata, costruendo un songwriting che pesca in varie direzioni senza perdere una spiccata originalità di fondo, lasciando che la musica fluisca senza alcuna forzatura e rendendo l’ascolto estremamente piacevole.
The Gathering, Katatonia e e il dark ottanti ano sono nomi e genere che più si avvicinano alla musica della band calabrese che, quando serve, non rinuncia ad indurire il suono, come nella stupenda Victoria o nella sinfonica Doom, pur mantenendo un’eleganza non comune.
La buona produzione fa sì che gli strumenti non coprano la bellissima voce di Federica, che in certe circostanze si fa eterea e molto emozionale: esempio lampante è Cry Of Mankind, dove un alternarsi di momenti acustici ed elettrici sono supportati in egual modo dal tono sulfureo della cantante e, sul finire, la song è impreziosita da un bell’assolo di chitarra che metallizza l’atmosfera.
Song To Eros è un bellissimo brano dalle coordinate stilistiche vicine al gruppo olandese che fu della divina Anneke van Giesbergen, mentre nella conclusiva An Aching Soul la chitarra acustica accompagna la voce di Federica pere l’episodio più intimista del lotto chiudendo il lavoro con atmosfere dai rimandi dark wave.
Inner tales è un lavoro che potrebbe piacere ad una vasta fetta di pubblico, rivelandosi adatto sia ai fan del gothic metal, sia a chi preferisce un approccio più dark rock ma, soprattutto è l’ennesima buona prova di una band tutta italiana.

Tracklist:
1. Inner Tales
2. The Last Dawn
3. Victoria
4. Cry of Mankind
5. To the Path of Loss
6. Song to Eros
7. Doom
8. The Calling Tree
9. An Aching Soul

Federica Lenore Catalano – Vocals,Guitars,Guitar synth
Patrizio Zurzolo – Guitars,Guitar synth
Domenico Iannolo – Bass
Gianfranco Logiudice – Drums
Giuseppe Giorgi – Keyboards

LENORE S FINGERS – Facebook

C.O.A.G. – Sociopath

Un piacere intenso e veloce, come una scarica di pura adrenalina.

Ancora una gragnuola di colpi a base di grindcore è quella che ci viene proposta dalla Kaotoxin dopo i Miserable Failure: questa volta il lavoro da prendere in esame è Sociopath dei C.O.A.G.

In realtà, più che “dei C.O.A.G.” andrebbe scritto “di C.O.A.G.”, visto che, caso piuttosto anomalo per il genere, dietro a questo monicker si cela un solo musicista, il belga Déhà, conosciuto soprattutto (e qui l’anomalia raddoppia) per i suo ottimi progetti funeral doom come gli Slow e i Deos, questi ultimi in coabitazione con un altro “workaholic” del metal come Daniel Neagoe, visto all’opera di recente con i magnifici Eye Of Solitude (guarda caso, usciti anch’essi per la Kaotoxin, e in qualche modo qui il cerchio si chiude).
Chi ha ascoltato i lavori citati non deve sorprendersi, quindi, dell’abilità che dimostra Déhà nel cimentarsi in qualcosa che si trova esattamente agli antipodi per stile ed attitudine al doom estremo, perché la peculiarità dei migliori musicisti è proprio quella di risultare credibili quale che sia il genere proposto; infatti, il nostro mostra di sapersi districare in maniera eccellente anche in questo frangente, quando si trova a dover gestire sfuriate dalla velocità parossistica che il più della volte non raggiungono nemmeno il minuto di durata.
Il sociopatico evocato nel titolo del lavoro è ben rappresentato da questo missile sparato a trecento all’ora nelle nostre orecchie, e il fatto che il tutto duri più o meno quanto la parte introduttiva dei brani composti da Déhà con gli Slow non costituisce affatto un problema, anzi, tutto sommato è forse meglio così, visto che un ascolto più prolungato di questo tipo di sound potrebbe avere effetti collaterali devastanti che includono, tra gli altri, la frattura del rachide cervicale e la voglia insopprimibile di uscire di casa e prendere a mazzate una a caso delle tante “squallide figure che attraversano il paese”.
Non vi sto certo a raccontare i brani, intitolati semplicemente come la loro progressione numerica in scaletta, aggiungo solo che l’unica traccia strutturata in maniera pressochè normale, dando all’ascoltatore una minima possibilità di familiarizzare con i suoi contenuti, è non a caso una cover degli Hatebreed, Defeatist, posta in chiusura dell’Ep.
Un piacere inteso e veloce, come una scarica di pura adrenalina.

Tracklist:
01. I
02. II
03. III
04. IV
05. V
06. VI
07. VII
08. VIII
09. IX
10. X
11. XI
12. XII
13. XIII
14. XIV
15. Defeatist

Line-up :
Déhà – Vocals, All Instruments

Leviathan – Beholden To Nothing, Braver Since Then

I Leviathan strizzano l’occhio al progressive rock e piaceranno anche ai fan dei suoni dilatati degli anni settanta.

Nuovo album in questo inizio 2014 per la band americana dei Leviathan, non proprio dei novellini della scena, giunti al quinto album in studio: il loro primo vagito risale al 1991 con un Ep omonimo, per più di vent’anni all’insegna di un prog metal che ha nel dna quella manciata di gruppi che hanno fatto la fortuna del genere.

Dunque parliamo dei Dream Theater ma anche degli Shadow Gallery, con un approccio seventies in grado di rendere il lavoro un buon connubio tra il nuovo prog, che strizza l’occhio a sonorità più dure e l’estetica del progressive rock, quello dei maestri settantiani
Settantacinque minuti di musica che, dall’inizio alla title-track, posta in chiusura, spazia tra varie atmosfere, cambi di tempo ed uno spirito vintage che aleggia per tutto il disco ed esce clamorosamente allo scoperto con la suite Religion ed i suoi sette movimenti: fulcro dell’album, i brani che compongono questo bellissimo puzzle musicale scomodano mostri sacri del suono progressivo, tra richiami che di volta in volta si fanno più marcati, tra suoni intimisti che si trasformano in cavalcate elettriche o ariose aperture melodiche, spezzate da improvvise puntate di tensione sonora dall’incedere emozionale come i nove minuti di If The Devil Doesn’t Exist.
Magical Pills Provided, altra perla del lavoro tra Pink Floyd ed il re cremisi, ci dimostra una volta di più che siamo al cospetto di una band che guarda più al passato che al presente, anche le tastiere in questo disco, diversamente dalle classiche band metal prog, sono relegate ad un lavoro di secondo piano rispetto alle chitarre, che sono invece protagoniste indiscusse sia nei suoni acustici che elettrici.
I Genesis (quelli veri, dei primi meravigliosi dischi con Peter Gabriel), sono chiamati in causa nella bellissima Misanthrope Exhumed, mentre Beholden To Nothing, Braver Since Then che chiude il lavoro, torna a calcare territori più moderni e metallici: a band accelera di quel tanto per regalarci ancora dei cambi di tempo mozzafiato, accomiatandosi con un brano dalle reminiscenze Shadow Gallery.
Complimenti a John Lutzow, chitarrista e tastierista e se non bastasse, compositore di musica e testi di questo ottimo lavoro, ed un plauso a tutti i musicisti coinvolti; non aspettatevi una classica produzione scintillante, in questo lavoro, non so quanto volutamente, i suoni sono piuttosto vintage e per alcuni questo potrebbe costituire un difetto: io non me ne curo e consiglio caldamente questo disco ai fan del progressive tout court.

Tracklist:
1. Ephemeral Cathexis
2. A Shepherd’s Work
3. Intrinsic Contentment
4. Overture of Exasperation
5. Creatures of Habit
Religion: Superstition, Imposed Tradition and The Spiritual Crutch of Human Crux (from 6. to 12.)
6. Solitude Begets Ignorance
7. A Testament for Non-Believers
8. If the Devil Doesn’t Exist…
9. Magical Pills Provided
10. Thumbing Your Nose at Those Who Oppose
11. Empty Vessel of Faith
12. Words Borrowed Wings
13. Bettering Darklighter
14. Misanthrope Exhumed
15. Beholden to Nothing, Braver Since Then 10:23

Line-up:
John Lutzow-Guitars,keyboards,B.vocals
Jeff Ward-Vocals
Dave Rumbold-Drums
Derek Blake-Bass,B.vocals

Gum – But Woman Monkey

Stoner doom annichilente, per il secondo bellissimo album della band toscana.

Come il lento discendere della lava dal pendio di un vulcano che inesorabilmente travolge ogni cosa al suo passaggio: questa è la sensazione primaria data dal secondo album dei fiorentini Gum, combo che suona uno stoner-doom apocalittico, inesorabile nel suo lento incedere, rabbioso e sofferto nella voce di una vittima travolta dalla lingua di fuoco.

Con sette jam che impressionano per maturità compositiva, i ragazzi toscani, forti di un songwriting eccezionale e compatti come un monolite, vanno a scomodare le migliori band del genere mantenendo però una propria e ben salda personalità.
Attivi dal 2006, dopo un paio di demo e un Ep, nel 2013 arrivano all’esordio su lunga distanza con “Agua Caliente”, bissato all’inizio di quest’anno da questo macigno sonoro che non lascia prigionieri, dalla tensione altissima; doom malato e ossessivo, alienato da una disperazione di fondo annichilente.
Un sound che trae spunto dagli Eyehategod, dallo stoner desertico dei Kyuss che appare in più di una occasione, consolidato nella bellissima title-track, il brano dalla ritmica più varia nel quale la band dimostra di saperci fare e non poco con gli strumenti e, ancora, più di un accenno ulteriormente appesantito anche a quel trip allucinato che fu il capolavoro “Sleep’s Holy Mountain”, capace oltre vent’anni fa di superare qualsiasi canone del genere.
La voce è sempre tarata su uno screaming che al primo ascolto potrebbe risultare monocorde ma che è invece l’elemento in più in grado di caratterizzare la musica di una band che non cede a qualsivoglia facile melodia.
I brani sono uno più bello dell’altro ma, oltre alla già citata title-track, a mio parere I’m The Universe, Crop Circle e la conclusiva Water sono capolavori stoner doom che vanno ad affiancarsi tranquillamente ai brani più riusciti dei maestri del genere.
Un altro grande album tutto italiano, che arriva dopo l’immenso lavoro degli Elevators To The Grateful Sky, due autentici must per il genere!

Tracklist:
1. Atomic God
2. But Woman Monkey
3. I’m the Universe
4. Children of Pripyat
5. Ferner & Cola Blues!
6. Crop Circle
7. Water

Line-up:
Boss – Vocals,bass
Gre – Guitar
Ambash – Guitar
Capitano – Drums

GUM – Facebook

Dunkelnacht – Revelatio

Chi volesse ascoltare ancora del black capace di unire melodia, ferocia e tecnica sopraffina, provi a distogliere lo sguardo dai soliti nomi, invero piuttosto imbolsiti, dando una possibilità ai Dunkelnacht.

Quello tra black metal e Francia è ormai da tempo un connubio che produce frutti decisamente poco convenzionali e molto spesso prelibati.

A tale dato di fatto non si sottraggono neppure i Dunkelnacht, accasatisi presso la WormHoleDeath ed autori di una prova convincente oltre ogni rosea aspettativa. Dimentichiamo però le sonorità sperimentali di Blut Aus Nord e Deathspell Omega, l’anomalia del quartetto di Lille risiede soprattutto in una versatilità compositiva che consente di imbastardire il black con un po’ tutti i generi metal più noti : fughe chitarristiche di matrice classica si alternano a passaggi di stampo industrial con frequenti sconfinamenti nel deathcore, mentre in altri frangenti l’attitudine melodica dei migliori Cradle Of Filth e Dimmu Borgir intercetta il sound degli attuali In Flames. Insomma, un pout-pourri al quale i nostri riescono a sopravvivere grazie a capacità tecniche sopra la media, in caso contrario Revelatio sarebbe potuto divenire un minestrone indigeribile. A voler essere severi, benché sia apprezzabile l’accostamento tra due diversi toni vocali, lo screaming più acido, piuttosto filtrato, talvolta è un pò fastidioso, molto meglio allora il semi-growl che irrobustisce ulteriormente i brani. Così una chitarra al fulmicotone poggiata su un blast-beat furioso apre nel migliore dei modi l’album dopo la doverosa intro, rendendo Emergent Primitive Constellations un ottimo brano capace di fotografare in maniera esauriente il sound dei transalpini, tra cambi di tempo, alternanze e vocali e la sensazione che possa in ogni momento accadere qualcosa di imprevisto; Ashes from Stellar Oracles è ancora più bizzarra, con la chitarra a riversare suoni particolari mentre la successiva Dissolveld Fractal Esoterism si muove inizialmente su tempi meno parossistici, ma è solo un illusione prima che la girandola di atmosfere rischi di farci perdere definitivamente la bussola: in quest’occasione si rivela azzeccato il ricorso anche ad una voce pulita all’altezza della situazione. Di stampo più alternativo è invece Through the Reign of Lunacy , mentre la terremotante Le Serment des Hypocrites, con un appropriato utilizzo della lingua madre, finisce per spingersi decisamente su coordinate deathcore. La title-track è un breve quanto piacevole strumentale pianistico che introduce le altre sfuriate Where Livid Lights Emblaze ed Enthroned in the Light, fino ad arrivare all’ottima Rebirth of the Black Procession, con la chitarra solista nuovamente in evidenza, prima che il breve rumorismo di Post Prophetic Rebellion chiuda il lavoro dopo tre quarti d’ora decisamente intensi, caleidoscopici, ma capaci di non annoiare mai, nonostante in certi momenti sia tutt’altro che semplice non farsi disorientare dalle costanti evoluzioni del quartetto. Revelatio è un ottimo disco che probabilmente farà fatica a farsi largo tra la marea di uscite che congestionano il settore ma, chi volesse ascoltare ancora del black capace di unire melodia, ferocia e tecnica sopraffina, provi a distogliere lo sguardo dai soliti nomi, invero piuttosto imbolsiti, dando una possibilità ai Dunkelnacht.

Tracklist:
1. The Fall of Entropy
2. Emergent Primitive Constellations
3. Ashes from Stellar Oracles
4. Dissolved Fractal Esoterism
5. Through the Reign of Lunacy
6. Le Serment des Hypocrites
7. Revelatio
8. Where Livid Lights Emblaze
9. Enthroned in the Light
10. Rebirth of the Black Procession
11. Post Prophetic Rebellion

Line-up :
Heimdall – Guitars
Alkhemohr – Bass
Max Goemaere – Drums
Frost – Vocals

DUNKELNACHT – Facebook

Stamina – Perseverance

Gran salto di qualità quindi per gli Stamina che, con questo album molto ambizioso, dove tutto è professionalmente ineccepibile, raggiungono le vette conquistate dai maestri, meritandosi la doverosa attenzione anche fuori dai patri confini.

Gli Stamina, combo tutto italiano proveniente da Salerno, dopo due full length, “Permanent Damage” del 2008 e “Two Of A Kind” del 2010, firmano per la My Kingdom Music e rilasciano questo autentico gioiellino dal titolo Perseverance, nel quale il prog metal sposa l’Aor, sulla scia dei danesi Royal Hunt di “Moving Target” (1996).

Il fatto di aver suonato di supporto durante il tour europeo della band di Andrè Andersen ha giovato e non poco al gruppo campano, che sfodera una prova sontuosa sia tecnicamente sia a livello di songwriting, aiutati da diversi ospiti, quali Maria McTurk, storica corista della band danese, Goran Edman, singer che ha all’attivo collaborazioni con Malmsteen e John Norum, e Nils Molin, vocalist degli svedesi Dynazty.
Higher, scelta come primo singolo, ci catapulta nel mondo Stamina, fatto di chitarrismo hard rock, tastiere prog metal, cori e controcanti che rendono la musica della band ariosa e piacevolmente melodica.
Breaking Another String, cantata da Edman, è una riuscita amalgama fra i Royal Hunt e i Dream Theater, con intro e stacco sinfonico da applausi, finché il basso di Lorenzo Zarone non ruba la scena, sostenuto da un Luca Sellitto in forma smagliante alla sei corde.
La prova di Giorgio Adamo dietro al microfono impreziosisce la aor song I’m Alive, mentre Just Before The Dawn, nuovamente con Edman alla voce, è una ballad nella quale la chitarra di Sellitto ci inchioda con un assolo clamoroso.
La title-track corre su strade già percorse da “Moving Target” e lo fa con classe, grazie all’interpretazione di Nils Molin e all’ennesimo grande assolo di Sellitto; hard rock scandinavo per Naked Eye, mentre in Umbreakable il sound si indurisce e si modernizza quel tanto che basta per farne la song più originale del lotto, cantata alla grande ancora una volta da Giorgio Adamo.
Jacopo Di Domenico prende il microfono nella conclusiva Winner For A Day, ottima prova di quello che è, di fatto, l’attuale singer della band, su una canzone dagli stupendi cori, dove le coordinate stilistiche tornano ad essere quelle dell’intero lavoro.
Gran salto di qualità quindi per gli Stamina che, con questo album molto ambizioso, dove tutto è professionalmente ineccepibile, raggiungono le vette conquistate dai maestri, meritandosi la doverosa attenzione anche fuori dai patri confini e regalando al metal nazionale un altra grande band della quale andare orgogliosi.

Tracklist:
1. Higher
2. Breaking Another String
3. I’m Alive
4. Just Before the Dawn
5. Perseverance
6. Naked Eye
7. Unbreakble
8. Wake Up the Gods
9. Winner for a Day

Line-up:
Luca Sellitto-Guitars
Andrea barone-Keyboards
Lorenzo Zarone-Bass
Jacopo Di Domenico-Vocals

Special Guests:
Vocals : Goran Edman, Giorgio Adamo, Nils Molin, Maria McTurk
Drums: Alessandro Beccati, Mirkko De Maio

STAMINA – Facebook

Dom – Dom Vampyr

Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al funeral come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Belial (Ivan Manzano) è un musicista spagnolo che, con il monicker Dom, ha già all’attivo due full-length di realizzazione piuttosto recente.

Questa sua nuova uscita avviene invece nel formato dell’Ep, di lunghezza comunque considerevole visto che la sua durata sfiora la mezz’ora.
Dom, non solo per l’assonanza, viene considerato un progetto funeral doom, anche se tale etichetta può apparire parzialmente fuorviante: le composizioni di Belial, integralmente strumentali, sono basate essenzialmente sulle note del pianoforte che, grazie ad un indubbio gusto melodico, guida la musica per lo più su lidi ambient, e della chitarra che sovente si lascia andare in progressioni non del tutto scontate.
Nulla a che vedere quindi, sia con la versione più claustrofobica sia con quella più avvolgente e malinconica del genere: Dom Vampyr, pur mantenendo le connotazioni cupe del funeral, non ne possiede né la ritmica bradicardica nè la pulsione drammatica.
Detto questo, i tre brani si rivelano piuttosto validi e per certi versi differenti tra loro: la lunga opener A Modern Prometheus mostra il lato più sperimentale di Belial il quale, partendo da umori quasi jazzistici si lancia in una fase centrale piuttosto vivace per approdare infine ad una chiusura all’insegna di ritmiche asfissianti.
Les Avaleuses prende vita con una forte impronta Skepticism, dovuta ad un timbro simile delle tastiere, per poi lasciare spazio al consueto contenuto pianistico poggiato su spunti compostivi accostabili agli Ea.
L’episodio senza dubbio migliore e più caratterizzante è, però, The Tomb Of Ethelind Fionguala, traccia che, paradossalmente, tra tutte è proprio quella che meno ha a che vedere con il funeral: una bel giro di piano viene ripetuto per l’intero brano prima da solo, poi con l’ingresso delle tastiere finchè, attorno alla metà del brano, la chitarra solista si prende il proscenio liberandosi in uno splendido assolo di stampo classico.
Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al genere come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Tracklist:
1. A Modern Prometheus
2. Les Avaleuses
3. The Tomb Of Ethelind Fionguala

Line-up :
Iván “Belial” Manzano – Everything

Selfmachine – Broadcast Your Identity

Una quindicina di anni fa i Selfmachine con un album del genere avrebbero fatto il botto, di questi tempi si dovranno accontentare di piacere e non è comunque poco …

Debuttano per la sempre attenta WormHoleDeath gli olandesi Selfmachine con questo Broadcast Your Identity, buon album di quello che una decina di anni fa veniva definito nu metal, per essere poi aggiornato in metalcore, con un’occhiata all’alternative, chiamato in causa parzialmente per via dell’uso della voce pulita e di ritmiche che si fanno più ragionate in molte parti del disco.

Il lavoro risulta vario e non stanca, anche per questo avvicendarsi di atmosfere, tra tensione a mille, con sfuriate che rasentano in certi momenti la violenza del death, e parti melodiche dove la fanno da padrone certi richiami al post grunge di band come i Creed: Becoming the Lie ne è l’esempio più lampante, dove solo un accenno di growl posto nel finale del pezzo ci ricorda che siamo al cospetto di una band che fa del metalcore il suo credo. Il resto dell’album è un sali e scendi sulle montagne russe di un songwriting molto vario, aiutato da vocals che passano dal classico screaming di genere al growl cavernoso di chiara matrice death, fino ad una voce pulita che tra l’altro è anche molto bella. Partendo da Breathe To Aspire, brano nu metal con tanto di cantato dall’accenno rappato, alla più cadenzata Miles Away con tanto di assolo riuscito a metà del pezzo, si passa ad Incorporated dove per la prima volta si intrecciano svariate voci a rendere la song molto varia. L’uso delle voci è appunto il trademark del disco, non ci si annoia con i Selfmachine e si arriva alla fine dell’album senza fatica, anche per l’ottima produzione; c’è ancora tempo per le ottime Void, Out of Depth e la lunghissima (11 minuti, per il genere un record) Closing Statement, bellissimo pezzo dove la band sorprende con un brano dallo spirito progressivo. Una quindicina di anni fa i Selfmachine con un album del genere avrebbero fatto il botto, di questi tempi si dovranno accontentare di piacere e non è comunque poco …

Track list:
1.Breathe to Aspire
2.Miles Away
3.Incorporated
4.Massive Luxury Overdose
5.Void
6.Out of Depth
7.Caught in a Loop
8.Smother the Sun
9.Becoming the Lie
10.Isybian
11.Closing Statement

Line-up:
Steven Leijen – L.vocals
Mark Brekelmans – Bass,vocals
Michael Hansen – Guitars,vocals
John Brok – L.guitars,vocals
Ben Schepers – Drums

SELFMACHINE – Facebook

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Lucid Dream – The Eleventh Illusion

Gran lavoro, maturo, per niente scontato, fruibile ma allo stesso tempo intenso, caldo e molto emozionale, suonato da bravissimi musicisti.

I Lucid Dream sono una band proveniente dalla mia provincia (Genova) capitanata dal chitarrista Simone Terigi e arrivano al secondo album dopo l’esordio del 2011 intitolato “Visions From Cosmos” e una parentesi solista di Simone del 2012 (“Rock Meditations”).

I quattro ragazzi liguri sfornano un album tecnicamente ineccepibile, dalla marcata personalità, un hard rock che si perde in digressioni prog ma tendendo più di una mano al blues, quello energico degli Zeppelin, ma sopratutto di Free e Bad Company, con un vocalist (Alessio Calandriello), in grado di far le veci di quello che, se non fosse mai esistito Robert Plant, sarebbe stato il più grande vocalist hard blues di sempre, Paul Rodgers.
L’album si apre con un intro ( The Way of 7M ) recitata da Beatrice Schiaffino, che sarà protagonista anche nell’outro, e lasciando poi che la chitarra di Simone ci introduca al mondo dei Lucid Dream, con un classico brano hard rock, dove il chitarrista mette subito a disposizione la sua tecnica impreziosendo la song di bellissimi assoli.
Come la precedente Evolution, Leave Me Alone mantiene le stesse coordinate, ma tra i solchi di questa song si riscontrano rimandi al blues che, nei brani a venire, sarà il quid in grado di rendere questo lavoro un must.
River Drained è una ballad dove appare un sax e ricorda la “Another Day” del capolavoro Images and Words” targato Dream Theater, e arriva prima di uno dei capolavori dell’album, The Lightseeker, introdotta da una chitarra prog: il brano si sviluppa su ritmiche intricate dove basso (Gianluca Eroico) e batteria (Paolo Raffo) sfoggiano una gran prova e la chitarra di Terigi, ispiratissima, ricama assoli settantiani con Calandriello che incanta con vocalizzi da cantante di razza.
Back To Cosmos 11, accenno al primo album, è ancora hard rock fluido, godibile già dal primo ascolto, mentre Two Suns In The Sunrise, ballad tutt’altro che scontata, porta con sè la leggera brezza del delta del Mississippi e fa scorrere brividi sull’ascoltatore di turno.
Ci sarebbe già da trastullarsi con quello che la band fin qui ha regalato, se non fosse che mancano all’appello due song splendide: Black, apice del lavoro, dove Il prog metal moderno rincorre l’hard rock settantiano, con tutta la band sugli scudi, un songwriting eccelso e il vocalist che si supera dando vita ad una prova sontuosa e drammatica, con picchi vocali degni di un signore inglese perso nel profondo porpora.
La title-track viaggia ancora su queste strade, più veloce, meno varia strutturalmente, ma altrettanto bella ed essendo praticamente l’ultimo brano (Pulse of Infinity è uno strumentale atmosferico, seguito dal brano recitato) i Lucid Dream mettono in tavola tutte le loro carte e da band scafata si congedano con una prova maiuscola.
Gran lavoro, maturo, per niente scontato, fruibile ma allo stesso tempo intenso, caldo e molto emozionale, suonato da bravissimi musicisti tra i quali spicca il talento di un vocalist che permette alla musica della band di penetrare l’animo dell’ascoltatore.
La musica dei Lucid Dream fa bene all’anima.

Tracklist:
1. The Gates of Shadow
2. Evolution
3. Leave Me Alone
4. River Drained
5. The Lightseeker
6. Back to Cosmos11
7. Connections
8. Two Suns in the Sunrise
9. The Song of the Beyond
10. Black
11. The Eleventh Illusion
12. The Pulse of Infinity
13. The Way of 7M

Line-up:
Gianluca Eroico – Bass
Paolo Raffo – Drums
Alessio Calandriello – Vocals
Simone Terigi – Guitars

LUCID DREAM – Facebook

Hiss From The Moat – Misanthropy

Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Un assalto sonoro di matrice death/black metal è quello che offrono i lombardi Hiss From The Moat, band che farà parecchio parlare di sè, vuoi per i musicisti coinvolti, vuoi per la qualità del prodotto, di livello alto, pronto per fare sfracelli anche fuori dai patri confini.

Siamo all’esordio sulla lunga distanza, che arriva dopo un EP di un paio di anni fa dal titolo “The Carved Flesh Message” dai rimandi metalcore, con il quale i nostri virano in questo album verso sonorità death metal dal forte impatto black, oscuro e devastante. I musicisti sono di primissimo piano e oltre a James Payne (House Of Penance) e Carlo Cremascoli (Tasters), troviamo Giacomo Poli (ex-Stigma) alla sei corde e, a vomitare puro odio nel microfono, quel Paolo Pieri già con House Of Penance e Aborym. Anche gli ospiti non sono da meno, infatti fanno la loro apparizione in due brani Tommaso Riccardi, voce e chitarra dei romani Fleshgod Apocalypse, e Ryan Knight, chitarrista degli americani The Black Dahlia Murder. Stampato dalla Lacerated Enemy Records, il disco ha avuto una prima pubblicazione digitale da parte addirittura della Nuclear Blast, confermando le buone prospettive della band, che convince con trenta minuti di distruzione in puro Behemoth style, assecondato da musicisti capaci, che formano un combo compatto e sicuro nei propri mezzi. Le song, tutte dirette, puntano al sodo, senza inutili orpelli, risultando nella loro natura estrema assimilabili, grazie anche ad un songwriting ispirato, così brani come Honor To The Mother Of Death, Misanthropy, The Descent from the Throne e Caduceus raccolgono l’eredità della band polacca, risultando comunque freschi e suonati da musicisti dalla grande personalità. Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Tracklist:
1. Intro
2. Conquering Christianity
3. Honor to the Mother of Death
4. Moralism as Anesthetic
5. Misanthropy
6. The Path of the Pilgrims
7. The Descent from the Throne
8. Ave Regina Caelorum
9. Caduceus
10. Outro

Line-up:
Giacomo “Jack” Poli – Guitars
James Payne – Drums
Carlo Cremascoli – Bass

HISS FROM THE MOAT – Facebook

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Gabriels – Prophecy

Bravissimo il musicista siciliano ad ideare e portare a termine un lavoro così riuscito, dimostrando ancora una volta su quanti immensi talenti può contare il nostro paese.

Dopo poco tempo dall’uscita di “Thunderproject” da parte del polistrumentista Riccardo Scaramelli, la Indipendence licenzia questa ennesima e molto ben riuscita opera rock composta da un altro talento nostrano, al secolo Gabriels il quale, avvalendosi di un manipolo di ospiti illustri della scena Italiana ed europea, dà vita a questo lavoro di hard rock melodico e orchestrale.

Studioso dell’arte musicale in tutte le sue componenti, il musicista siciliano è già apparso sul mercato discografico con alcune release, che vanno dall’elettroacustica di “The Enchanted Wood”, al rock di “Call Me”, alla prima rock opera, “The Legend Of A Prince”, per passare dal power metal dell’album “Seven Stars” e al prog metal, (“Beyond The Nightfall”), cimentandosi pure nella musica leggera con “Non Dirmi Addio” insieme ad Alex. Come detto, in questo lavoro, incentrato sui fatti dell’11 settembre, sono stati chiamati ospiti di spessore come Mark Boals, vocalist con precedenti illustri, avendo fatto parte della band di Malmsteen, con il quale ha registrato il capolavoro “Trilogy”, oltre ai più recenti “Alchemy” e “War To End All Wars” ed prestato la sua ugola a Royal Hunt e Ring Of Fire. Sul versante italiano troviamo, tra gli altri, Dario Grillo (Thy Majestie), Dario Beretta (Drakkar, Crimson Dawn), Davide Perruzza dei Metaphysics, con il quale il nostro realizzò l’album “Seven Stars”, Simone Fiorletta (Rezophonic) e Andrea “Tower” Torricini (Vision Divine), qui impegnato al basso e alla chitarra. Prodotto in modo impeccabile e suonato benissimo da tutti i musicisti impegnati, l’opera si sviluppa su coordinate stilistiche molto vicine ai Royal Hunt, senza abbandonarsi ai virtuosismi tastieristici cari al buon Andrè Andersen ma lasciando che sia il songwriting ad essere protagonista, il tutto in funzione dell’opera, che risulta fluida, con brani orecchiabili, infarciti di melodie accattivanti, dallo spirito aor. Gabriels, impegnato oltre alla voce su tutti gli strumenti dai tasti d’avorio, rilascia una prova sontuosa, veramente elegante e dal gusto raffinato, regalando emozioni sia nei brani più diretti, sia nelle piacevoli ballad dalle atmosfere drammatiche, in linea con l’argomento trattato. Il lavoro si apre con September 11, strumentale dal mood dolente, con orchestrazioni da colonna sonora che fanno di questo brano un piccolo gioiello; con Omen si viaggia su sentieri cari ai Royal Hunt, mentre il piano introduce Pray To End All Wars, semi-ballad dove chitarre e tastiere si rubano il palcoscenico, segue Falling Stars, dall’incedere cadenzato, impreziosito da suoni tastieristici che ricordano le opere di Ayreon, con aperture ariose, marchio di fabbrica di Lucassen. Go To Fight, richiama a metà del suo cammino un altro maestro, Jon Lord; la voce di Ana Maria Barajas è l’incantevole protagonista della ballad I Can’t Live Forever, mentre si viaggia su sentieri Royal Hunt, tornando all’hard rock tastieristico di scuola nordeuropea, con la band danese a fare da madrina e con i vocalist che si scambiano il microfono negli altri brani in scaletta, protagonisti di performance sempre ad altissimo livello. Bravissimo il musicista siciliano ad ideare e portare a termine un lavoro così riuscito, dimostrando ancora una volta su quanti immensi talenti può contare il nostro paese.

Tracklist:
1. September 11
2. Omen
3. Pray to End All Wars
4. Falling Stars
5. The Crack
6. Shadows
7. Things of the World
8. We Need Peace
9. Roar for the Peace
10. Go to Fight
11. I Can’t Live Forever

Line-up:
Gabriels – keyboards, piano, synth, hammond, vocals
Mark Boals – vocals
Dario Grillo – vocals
Iliour Griften – vocals
Ana Maria Barajas – vocals
Dario Beretta – guitars
Antonio Pantano – guitars
Salvatore Torre – bass
Antonio Maucieri – bass
Giovanni Maucieri – drums
Davide Perruzza- lead guitars
Simone Fiorletta – lead guitars
Andrea “Tower”Torricini – bass, guitars

A Young Man’s Funeral – Thanatic Unlife

Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.

A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.

Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica.
Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.

Tracklist:
1. Curse
2. Remorse
3. Salvation

Line-up :
A.S. All instruments
E.S. Vocals

Demon Eye – Leave The Light

Un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.

La Soulseller Records, dopo il bellissimo disco dei Bloody Hammers, entrato di diritto nella mia top ten del 2013, rilascia nei primi giorni dell’anno nuovo il debut album dei Demon Eye, band del North Carolina, con all’attivo un Ep dello scorso anno dal titolo “Shades Of Black” ,autrice di un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.

Il disco, infarcito di suoni vintage, raccoglie infatti quello che i grandi maestri del suono del destino (Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus, Trouble, Obsessed, Sleep) hanno lasciato in eredità, : qui troverete di che dissetarvi alla fonte del doom, con accenni all’occulto a livello lirico, come il verbo sabbathiano insegna. A rendere il lavoro piacevole magari a chi non è un amante dei suoni pieni e ovattati, classici di questo genere, è la produzione che restituisce un suono pulito, dando risalto al lato hard rock del combo che, nei brani più dinamici, risulta oltremodo convincente. Da Hecate, che apre la danza sabbatica, in poi è un susseguirsi di ottime song, dove i suoni più duri degli anni settanta sono interpretati dalla band con ottimo piglio, non cadendo mai nel tranello stoner, ma mantenendo una linea guida per tutta la sua durata. Shades Of Black,Song, dall’incedere ritmato, con la chitarra di Larry Burlison, protagonista di un riff trascinante, lascia spazio alla bellissima Secret Sect, dove compaiono accenni all’heavy metal, chiaramente old school; Edge a Knife, altro gran brano, torna su atmosfere più doom, mentre Witch’s Blood, aperta da un riff hard rock, è un classico brano alla Pentagram. Ancora la band di Joe Hasselvander fornisce il suo marchio in Fires Of Abalam, vero manifesto di genere, dove il plauso va al vocalist Erik Sugg, cantore messianico del combo americano. C’è ancora tempo per The Banishing, altro brano che entusiasma per melodie e ritmiche, prima che From Beyond e Silent One chiudano un album davvero molto bello, aiutato da un songwriting elevatissimo, per un ascolto mai noioso, dal buon tiro, suonato da una band preparata.

Tracklist:
1. Hecate
2. Shades of Black
3. Secret Sect
4. Adversary
5. Edge of a Knife
6. Witch’s Blood
7. Fires of Abalam
8. Devil Knows the Truth
9. The Banishing
10. From Beyond
11. Silent One

Line-up
Paul Waltz – bass
Bill Eagen – drums, vocals
Larry Burlison – guitars
Erik Sugg – guitars, vocals

DEMON EYE – Facebook