SPOIL ENGINE

Il video di Stormsleeper, tratto dall’album omonimo in uscita a Maggio (Arising Empire/Nuclear Blast)

Il video di Stormsleeper, tratto dall’album omonimo in uscita a Maggio (Arising Empire/Nuclear Blast)

Il nuovo album »Stormsleeper« contiene 10 brani (mixati e masterizzati nei Fredman Studios) e uscirà il 5 Maggio su Arising Empire/Nuclear Blast.

L’artwork della cover è stato creato da Heilemania (Nightwish, Kreator, Legion of the Damned).

Per un primo assaggio degli SPOIL ENGINE, guarda il video “Stormsleeper” qui: https://youtu.be/r2LdZ2RGdbc

La band ha recentemente firmato un contratto con Arising Empire.

“Gli SPOIL ENGINE sono una delle più talentuose metal band moderne, siamo orgogliosi di aver dato loro una nuova casa!” – Tobbe Falarz, Arising Empire

La band ha commentato: “Siamo lieti di annunciare di essere entrati a far parte della famiglia Arising Empire/Nuclear Blast!

Arising Empire, la nuova costola di Nuclear Blast per le band modern metal, punk e metalcore, è la nostra nuova etichetta; Nuclear Blast distribuirà a livello internazionale e promuoverà il nostro nuovo album.

Visto il successo riscontrato in Benelux, l’EP “Stormsleeper” sarà trasformato in un full album e sarà distribuito a livello mondiale.

Non vediamo l’ora di collaborare con questa rete di professionisti del metal e speriamo di vedervi presto a uno dei nostri show! Grazie da subito per il vostro supporto!”

Gli SPOIL ENGINE sono:

Iris Goessens – Voce
Steven ‘Gaze’ Sanders – Chitarra
Kristof Taveirne – Basso
Matthijs Quaars – Batteria
Bart Vandeportaele – Chitarra

Ben Blutzukker – Analogic Blood

Quattro tracce tra heavy metal e thrash/black per questa one man band del tedesco Ben Blutzukker.

Ben Blutzukker è un polistrumentista tedesco e questo ep di quattro brani è il suo primo lavoro a suo nome.

Analog Blood prende il titolo da un progetto elettronico del 2007 a cui Ben ha partecipato (Digital Blood) e da cui sono stati tratti e rivisitati in versione metallica quattro brani.
Non è la prima volta che il musicista si avventura nel mondo del metal, visto la sua militanza nei thrash metallers Jormundgard, con cui ha collaborato dal 2000 al 2004.
Un ritorno metallico, dunque, con questo ep dove Blutzukker reinterpreta questi brani conferendogli una veste heavy metal, tra le sue ispirazioni ed influenze che vanno dal thrash metal a mid tempo dal flavour oscuro e gotico:
Analog Blood vede una voce aggressiva sporcata da uno scream black che ricorda quello di Abbath, e l’alternanza di ritmiche tra veloci cavalcate thrash metal e potenti mid tempo, dove la sei corde traccia linee di sangue con il black, altro genere nelle corde del musicista di Aschaffenburg.
Tra le quattro tracce si distinguono Digital Blood, title track dell’album targato 2007 e reinterpretata in versione black metal, per poi trasformarsi in un brano di heavy classico attraversato da oscure atmosfere dark/gothic, e la conclusiva Red, anch’ essa concettualmente un brano black vicino al sound solista del leader dei norvegesi Immortal.
Un ascolto che può diventare interessante se siete amanti tanto del metal estremo che di quello classico.

TRACKLIST
1. Walpurgisnacht
2. From Hell
3. Digital Blood
4. Red

LINE-UP
Ben Blutzukker – All Instruments

BEN BLUTZUKKER – Facebook

2nd Face – Nemesis

L’opera prima di 2nd Face dimostra come non sia necessario imbracciare delle chitarre e dotarsi di un aspetto truce per proporre musica ugualmente minacciosa e rumorosa.

Notevole esordio per il progetto 2nd Face guidato dal giovane tedesco Thorn.

Prendendo le mosse (tenendo parzialmente fede a quanto dichiarato in sede di presentazione) dalla scuola canadese dei primi anni ottanta, il musicista di Mainz mette in scena un’interpretazione dell’elettro industrial in grado di metter d’accordo fasce di ascoltatori confluenti da svariati generi, partendo dall’ebm per spingersi fino al metal alternativo.
Il marchio di garanzia applicato su Nemesis dalla Dependent Records si rivela fondamentale per schiudere i contenuti musicali di 2nd Face a chi tende a non prestare attenzione a nomi che non siano già affermati: l’album si rivela un’ottimo compendio di elettronica disturbante, mai banale e con tutte le caratteristiche per risultare gradito anche a chi apprezza sonorità più aspre.
Sono dodici i brani che vanno a comporre l’intrigante puzzle sonoro formato da Nemesis, uno sforzo compositivo che supera abbondantemente l’ora di durata ma non stanca, in virtù della brillante alternanza tra ritmi incalzanti e melodie (Instinct, Brother), cupe aperture atmosferiche (la magnifica Mindlapse, nella quale ho rinvenuto richiami agli Ultravox di Lament,  e la solenne Nemesis), spunti ossessivi (Deathspread) e momenti più robusti, dall’indole metal pur senza usarne la strumentazione canonica (Punisher).
Non va neppure dimenticato che Thorn (al secolo Vincent Uhlig) è ancora giovanissimo, ma questo dato diviene un valore aggiunto, in quanto la palese maturità compositiva viene esaltata dalla freschezza nell’interpretare un genere in cui il pericolo dell’adagiarsi al manierismo si annida dietro ogni angolo.
L’opera prima di 2nd Face dimostra come non sia necessario imbracciare delle chitarre e dotarsi di un aspetto truce per proporre musica ugualmente minacciosa e rumorosa: davvero una bella sorpresa, il cui ascolto è vivamente consigliato ai frequentatori della nostra webzine dotati di mentalità aperta (che mia auguro siano il 100% …).

Tracklist:
1.Instinct
2.Movement
3.Divine
4.Mindlapse
5.Deathspread
6.Weapon
8.Brother
9.1st Of His Name
10.Now You Can See
11.Punisher
12.Insanity

2ND FACE – Facebook

Lantern – II: Morphosis

Tutto puzza di zolfo e bruciato in questo album, con un growl in arrivo da una bara sprofondata nel girone più lontano degli inferi, ed un sound in perfetto stile primi anni novanta, almeno per quanto riguarda il death metal scandinavo.

Dai meandri più putridi di una fredda e diabolica Kuopio ritornano i Lantern, death metal band vicina al decimo anno di attività come duo (Cruciatus e Necrophilos, rispettivamente chitarra e voce), ma ora di fatto un quintetto con l’aggiunta di J. Noisehunter al basso, St. Belial alla seconda chitarra e J. Poussu alle pelli.

Il gruppo estremo proveniente dalla terra dei mille laghi arriva al secondo full length, dopo Below licenziato nel 2013 ed una manciata di lavori minori, ed ora tramite la Dark Descent, label specializzata in opere ed artisti dai rimandi old school, propone questo catacombale II: Morphosis, death metal album vecchia scuola, morboso e dalle atmosfere cimiteriali, pur conservando una carica estrema e devastante.
Tutto puzza di zolfo e bruciato in questo album, con il growl in arrivo da una bara sprofondata nel girone più lontano degli inferi, ed un sound in perfetto stile primi anni novanta, almeno per quanto riguarda il death metal scandinavo.
Riff che vomitano maledizioni, pesanti come incudini, stacchi melodici che hanno fatto la storia della musica estrema ed un’attitudine morbosa e misantropica per un album che non può non produrre brividi a chi gli anni d’oro del death metal li ha vissuti, e ghigni satanici che si trasformano in risate soddisfatte all’ennesimo ritorno di un suono che rinasce, ogni volta che gruppi come i Lantern lo tributano.
Ed allora lasciatevi avvolgere dal signore oscuro che, tramite la musica dei Lantern si ripropone a voi, vile e bugiardo signore del male, serpente che vi avvolge tra le sue spire e vi porta con sé, bruciando nella sua casa per l’eternità a colpi delle putride note che scaturiscono da Black Miasma, Cleansing Of The Air, Lucid Endlessness e gli altri piccoli sacrifici in musica che compongono II: Morphosis.
Agli amanti dei suoni old school e senza compromessi l’album è consigliato senza riserve.

TRACKLIST
1. Black Miasma
2. Sleeper of Hypnagog
3. Hosting Yellow Fungi
4. Cleansing of the Air
5. Necrotic Epiphanies
6. Transmigration
7. Virgin Damnation
8. Morphosis
9. Lucid Endlessness

LINE-UP
Cruciatus – lead guitar
Necrophilos – vocals
J. Noisehunter – bass
St. Belial – rhythm guitar
J. Poussu – drums

LANTERN – Facebook

Fuzz – A.R.T.

A.R.T. è quello che vuole essere, un ottimo disco di musica rumorosa in italiano, con un gusto particolare che abbiamo solo qui nello stivale per il noise grunge, ma che abbiamo tirato fuori poche volte, e questa è una di quelle.

I Fuzz vengono da Torino e fanno un gran bel rumore. Il loro suono è una interessante summa fra Verdena, Queens Of The Stone Age, Marlene Kuntz e Fluxus per citarne solo alcuni.

Nati nel 2010 i Fuzz portano avanti un discorso incentrato sulla libertà sonora, coniugando cattiveria e qualità, rumore e inusuali melodie. In Italia non ci sono molto gruppi capaci di sintetizzare in questa maniera la lezione della migliore musica alternativa italiana con gli esempi di rumore che arrivano da oltreoceano. Al centro dei Fuzz sta la possente e inviperita voce di Luca, che sciorina le giuste rimostranze contro il cielo, e il gruppo stende un ottimo tappeto sonoro, con molte influenze ma estremamente personale. Il disco è semplicemente bello, con molte soluzioni sonore distorte, un’ottima rabbia di fondo che ci riporta a quel sentire che si poteva provare nel migliore momento della musica cosiddetta alternativa italiana. Che poi diciamolo una volta per tutte : la musica non è mai alternativa, è sempre e solo musica. A.R.T. (Andare Restare Tornare) è quello che vuole essere, un ottimo disco di musica rumorosa in italiano, con un gusto particolare che abbiamo solo qui nello stivale per il noise grunge, ma che abbiamo tirato fuori poche volte, e questa è una di quelle. Il disco è un grido armonioso, una musica che incrocia deserto, New York e vie acciottolate di qualche centro storico, come impersonali rotonde e prati di periferie. I Fuzz fanno un disco che è davvero un piacere ascoltare, con una grossa punta di veleno, che è il giusto antidoto alla nostra merda quotidiana. A.R.T. in definitiva, è un lavoro molto interessante, cattivo e dolce al tempo stesso, e soprattutto c’è tanto bel rumore.

TRACKLIST
1 Suononero
2 Immobile
3 Ebola
4 Sasha
5 Linoeranza
6 Isola Blu
7 A Testa Bassa
8 La Parola Chiave
9 Noia
10 Io Ho In Mente Te

LINE-UP
Luca – chitarra,voce;
Marco – basso;
Paolo – chitarra;
Luca – batteria;

FUZZ – Facebook

Lomax – Oggi Odio Tutti

Un buon inizio per il gruppo modenese ed un ascolto consigliato agli amanti del rock alternativo cantato in lingua italiana, accompagnato dall’irruenza giovanile e ribelle dell’hardcore.

Un salto nel rock cantato in italiano con i Lomax, trio proveniente dalla provincia di Modena che con Oggi Odio Tutti, arriva ad un traguardo importante come l’esordio.

Un ep di sei brani per presentare la propria proposta, un indie rock attraversato da un’urgenza hardcore, che ne indurisce il sound quel tanto che basta per accontentare gli amanti dei generi sopracitati: questo è ciò che troverete tra le trame dell’opener Rigore, della title track e della bellissima Manhattan, trittico iniziale del lavoro.
La band è composta da due ragazze Greta Lodi e Valentina Gallini, che ricoprono i ruoli di batterista e chitarrista/cantante, con il basso lasciato a Matteo Capirossi: un giovane trio con tanto entusiasmo e rabbia, con Fuoco che abbandona lo spirito hardcore per un rock alternativo che si trasforma poi in puro punk rock in Non Vedo L’Ora che Muori.
Dio rappresenta il congedo della band: un brano lunghissimo, ricco di saturazione noise ed uno sguardo ai Sonic Youth del capolavoro Dirty, un arrivederci da parte dei Lomax mentre le ultime note della canzone ci lasciano respirare l’aria elettrica di jam alternative dai rimandi statunitensi.
Un buon inizio per il gruppo modenese ed un ascolto consigliato agli amanti del rock alternativo cantato in lingua italiana, accompagnato dall’irruenza giovanile e ribelle dell’hardcore.

TRACKLIST
1. Rigore
2. Oggi odio tutti
3. Manhattan
4. Fuoco
5. Non vedo l’ora che muori
6. Dio

LINE-UP
Valentina Gallini – Guitars, Vocals
Matteo Capirossi – Bass, Vocals
Greta Lodi – Drums

LOMAX – Facebook

The Royal – Seven

Questi cinque ragazzi sanno come suonare metal moderno cercando di piacere non solo a giovanissimi dal capellino rovesciato, ma anche ai metallari che hanno raggiunto la maggiore età, con una serie di melodie che si incastrano in brani aggressivi e perfettamente studiati.

Si torna a parlare di metalcore sulle pagine di MetalEyes con il secondo full length (il primo per Long Branch) dei The Royal, quintetto di Eindhoven attivo dal 2012 e con un primo album autoprodotto uscito tre anni fa (Dreamcatchers).

Moderno e molto melodico, avaro di ritmiche sincopate e più vicino ad un nu metal maturo, il sound di Seven indubbiamente trova qualche spunto personale, lasciando ad altri gli ormai triti e ritriti cliché del genere, per un approccio aggressivo nelle vocals che si mantengono in scream per tutta la durata dell’album senza scendere in ormai abusati miagolii dai toni (in molti casi) fastidiosamente puliti, e concentrandosi più nel creare atmosfere varie e molto ben orchestrate.
A tratti i The Royal si spingono ai confini del prog moderno, specialmente quando la furia si placa e le dita sui manici delle sei corde creano arpeggi drammaticamente intimisti.
Questi cinque ragazzi sanno come suonare metal moderno cercando di piacere non solo a giovanissimi dal capellino rovesciato, ma anche ai metallari che hanno raggiunto la maggiore età, con una serie di melodie che si incastrano in brani aggressivi e perfettamente studiati, come l’opener Thunder, la cattivissima Thalassa, la nervosa Feeding Wolves e la title track, la canzone che più rispecchia l’anima nu metal del combo olandese.
Un album che si estranea dalle solite uscite del genere, ed un gruppo su cui si può contare per non cadere nelle solite ed abusate soluzioni alle quali il metalcore ci ha abituato, spesso annoiandoci.

TRACKLIST
1.Thunder
2.Feeding Wolves
3.Wildmind
4.Creeds And The Vultures
5.Counterculture
6.Interlude (*CD only)
7.Seven
8.Life Breaker
9.Thalassa
10.Draining Veins

LINE-UP
Sem Pisarahu – Vocals
JD Liefting – Guitars
Pim Wesselink – Guitars
Loet Brinkmans – Bass
Tom van Ekerschot – Drums

THE ROYAL – Facebook

Winter Deluge – Devolution-Decay

Quello dei Winter Deluge non è un black per palati raffinati ma neppure per gli appassionati duri e puri: si colloca piuttosto in una sorta di terra di mezzo nella quale, a mio avviso, riesce nell’intento di intrigare tutti piuttosto che non accontentare nessuno

Il secondo full length dei neozelandesi Winter Deluge è un classico esempio di come il black metal, in fondo, sia qualcosa in più rispetto ad un semplice genere musicale, almeno per chi lo apprezza per quello che è, senza troppo perdersi in menate connesse a look, stile, tecnica e stucchevoli diatribe su quanto sia o meno “true”.

Devolution – Decay lo ascolti una prima volta e pensi che sia nient’altro se non un normale album, onesto e corrosivo il giusto per attirare un minimo di attenzione ma, in fondo, privo di quel quid in più per renderlo in qualche modo “necessario”.
Poi, come quasi sempre avviene (spingendomi ad affermare che chi liquida un disco dopo uno o due ascolti commette non solo un atto di presunzione e superficialità, ma una sorta di reato di falso ideologico) i passaggi successivi sono quelli che rendono accessibile buona parte delle pieghe che increspano il sound: è solo allora che di Devolution – Decay si capisce molto di più, potendo osservare il tutto sotto una luce diversa.
L’operato dei Winter Deluge perde via via la sua apparente ed uniforme opalescenza per mostrare spunti dalla malevola incisività che non risparmiano la vanità umana (Tentacles Of Time), l’ingerenza della religioni su ogni aspetto dell’esistenza (Corrupt Prophets) o la deriva psichica che sempre più affligge un’umanità priva di certezze (The Negation of Existence): Devolution – Decay scorre ruvido su tempi medi e mai parossistici, ma con accelerazioni repentine che esaltano la rapidità percussiva di Autumnus e qualche rallentamento che va a lambire il doom.
Qualche parvenza gradita di melodia chitarristica la si riscontra in forme omeopatiche, come avviene nell’ottima …Now You Reap, ma è in generale la sensazione disturbante che pervade il lavoro a renderne l’ascolto molto più di un atto dovuto.
Quello dei Winter Deluge non è un black per palati raffinati ma neppure per gli appassionati duri e puri: si colloca piuttosto in una sorta di terra di mezzo nella quale, a mio avviso, riesce nell’intento di intrigare tutti piuttosto che non accontentare nessuno: certo, nesuna novità, ma il tutto va a favore di una asciutta ortodossia e, soprattutto, di una consistente profondità, che è proprio quanto serve per connotare il proprio operato di un valido segno distintivo.

Tracklist:
1.Der Letzte Atemzug
2.The Negation Of Existence (The Cotard Syndrome)
3.Corrupt Prophets
4.Yersinia Pestis
5.Tentacles Of Time
6….Now You Reap
7.Perversion Of Common Sense
8.Winter Deluge
9.The Image That Remains

Line-up:
Arzryth – Lead, Rhythm, Bass Guitars
Autumus – Drums
Mort – Rhythm Guitars
Seelenfresser – Vocals

WINTER DELUGE – Facebook

The Helldozers – Carnival

Non sono eleganti e raffinati gli The Helldozers, anzi sono brutti, sporchi e cattivi ma a noi piacciono proprio per questo, quattro teppisti persi tra la bruma tedesca giocando a fare i cowboy, divertendosi e facendoci divertire.

Tedeschi, ma dal sound e dall’impatto che più americano di così non si potrebbe, tornano i The Helldozers con il secondo lavoro sulla lunga distanza  a base di groove southern metal.

La band originaria di Colonia è attiva dal 2010 e dopo aver dato alle stampe due mini cd ed il primo album (Hate Sweet Hate) ci sconquassa con Carnival, nuovo lavoro che conferma la belligeranza metal’n’roll con cui infiammano i palchi del centro Europa.
Una serie di cannonate che lasciano una scia di fumo, mentre le vittime sono finite a colpi di machete dal teschio sudista che, con sguardo pericolosamente ironico, fa bella mostra di sè sulla cover del cd.
Le foreste tedesche divengono il deserto statunitense, ed è un attimo tramutare la rigogliosa e umida natura delle terre germaniche in sabbia del deserto, che maligna si fa spazio in ogni poro mentre il gruppo comincia il suo macello sonoro con Burning Like A Flame, opener di questo assalto southern metal, tutto groove e whiskey.
I The Helldozers rompono gli indugi e fin dalle prime avvisaglie veniamo travolti dall’impatto del quartetto, i brani si susseguono violenti e colmi di groove,  grazie un metal-rock di matrice live, un carro armato che non si ferma e travolge tutto a colpi di Pantera, Motorhead (che tributano con la traccia We Love Motorhead), ed un pizzico di Metallica, ma quel tanto per rendere l’assalto sonoro leggermente più melodico.
Non sono eleganti e raffinati gli The Helldozers, anzi sono brutti, sporchi e cattivi ma a noi piacciono proprio per questo, quattro teppisti persi tra la bruma tedesca giocando a fare i cowboy, divertendosi e facendoci divertire.

TRACKLIST
1.Burning like a Flame
2.Not My Way
3.Carnival
4.Dead or Alive ’16
5.Hell
6.Fuck the King
7.Dark Water
8.Bullet in a Gun
9.Revolution ’16
10.Life Is a Fucking Game ’16
11.We Love Motörhead ’16
12.Don’t Be like Me

LINE-UP
Atha Vassiliadis – Guitars
Philipp Reissfelder – Guitars, Vocals, Bass
Tony Rynskiy – Vocals
Alex Müller – Drums

THE HELLDOZERS – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Aksaya – Kepler

Kepler è un disco non comune e nemmeno conforme, ma che segue una poetica tutta sua, ed è assai notevole poiché esula dal mero significato black, per andare a ricercare qualcosa di diverso.

Fondati nel 2013 i francesi Aksaya non sono affatto un gruppo black comune, poiché hanno una forte impronta personale, che rende unico il loro suono.

Sin dalle prime battute di Kepler gli Aksaya rendono satura l’atmosfera con il loro black geneticamente modificato, che si muove tra l’ortodossia classica, l’atmospheric, un pizzico di depressive e una forte carica hardcore. I tempi sono veloci ma all’occorrenza si dilatano, per trovare soffocanti aperture melodiche, che puntellano maggiormente l’impianto di sofferenza. Gli Aksaya parlano delle nostre vite, di sofferenza e della guerra che quotidianamente combattiamo, e che a volte si trasferisce sui tristemente noti campi di battaglia. Non c’è speranza in questo affascinante tipo di black metal, ma solo una dolorosa catarsi, che comunque non è poco. La potenza del gruppo è molto ben calibrata e precisa e si abbatte in improvvise sfuriate, ma la loro peculiarità maggiore è il fare mid tempo davvero carichi, progressivi e molto strutturati. Sono presenti anche pezzi più melodici, che impreziosiscono il tutto. Il cantato in francese conferisce un timbro molto personale alla musica degli Aksaya, e ciò funziona splendidamente, poiché la metrica della lingua dell’esagono è assai votata alla potenza.
Kepler è un disco non comune e nemmeno conforme, ma che segue una poetica tutta sua, ed è notevole poiché esula dal mero significato black per andare a ricercare qualcosa di diverso. Tutto l’album è sopra il buono, mentre alcuni passaggi sono davvero entusiasmanti.

TRACKLIST
1.Kepler
2.Laїka
3.Fractale
4.Anomalie, Prélude À La Découverte
5.Tau Ceti E
6.Syn 1.0
7.K-701.04
8.Non Morietur

AKSAYA – Facebook

Hell’s Crows – Hell’s Crows

Un album spettacolare di power heavy prog metal perfettamente in bilico tra la tradizione europea e quella americana.

Nel nostro paese si continua a fare grande musica metal, molte volte purtroppo poco considerata da fans e addetti ai lavori ma supportata dalle webzine di riferimento che, con volontà e passione, provano ogni giorno a cambiare questo trend tutto italiano.

Si perché una band come gli oscuri, potenti e melodici Hell’s Crows, in Germania (tanto per fare un esempio di terre metalliche) sarebbero sicuramente sulla bocca e nelle orecchie degli amanti dei suoni heavy power, di quelli ricamati come negli ultimi anni di parti progressive che non solo sottolineano la bravura dei musicisti ma donano un tocco nobile al sound dei gruppi.
Niente di nuovo, per carità, ma entusiasmante sì, specialmente quando si parla di schiacciare il pedale a tavoletta, partire sgommando con cavalcate heavy, colme di drammatica oscurità, mentre i corvi pasteggiano sui cadaveri dei più deboli di cuore.
Gli Hell’s Crows avevano già dato prova delle loro capacità nei primi due lavori , il demo licenziato nel 2008 e l’ep Screaming Death uscito due anni dopo, dunque sette anni sono passati prima che gli uccelli infernali tornassero a banchettare sulla terra, questa volta aiutati dalla Valery Records e da un album spettacolare: power heavy prog metal, perfettamente in bilico tra la tradizione europea e quella americana, un passato da band hard rock ed un futuro tra Symphony X, Iron Maiden e Judas Priest, mentre Back To The Future continua a girarmi nella testa, le atmosfere di drammatico metallo americano si alternano alle cavalcate maideniane e alle taglienti chitarre priestiane che animano brani come Fall Of The Divine e Nightmares.
Hanno vita facile gli Hell’s Crows, vista la qualità del songwriting, le intuitive parti progressive che tanto sanno di Symphony X, obbligata parentesi per entrare nei cuori dei defenders del nuovo millennio, ed un vocalist dal talento melodico sopra la media, senza perdere un grammo di quell’attitudine old school che mette d’accordo pure gli ascoltatori più avanti con gli anni (Across The Sea).
All’inno Hell’s Crows è lasciato il compito di concludere l’album e darci l’arrivederci sui palchi di un’estate calda, troppo calda, specialmente se gli uccelli di nero piumato si poseranno sul davanzale della vostra casa.

TRACKLIST
1.Prelude To Decadence
2.Fall Of The Divine
3.Back To The Future
4.Mechanical Quantum
5.Fist Of Steel
6.Sons Of The Wind
7.Nightmares
8.Executioner
9.Across The Sea
10.In The Eyes Of Raider
11.Hell’s Crows

LINE-UP
Randy Rush – Vocal, Guitar
Yuri Fetisov – Lead Guitar
Alan Johns – Bass
Johnny Pezzola – Drums

HELL’S CROWS – Facebook

Van Halst – World Of Make Believe

Un album americano doc in cui la componente alternative ha il sopravvento su quella gotica, con buone idee che diventano geniali quando il diavolo ha la meglio sui vampiri ed il blues irrompe con tutto il suo dannato appeal nel sound del gruppo.

I Van Halst sono un gruppo canadese presentato come gothic metal band, ma che di gotico hanno davvero poco, se non il monicker, il look che fa tanto Underworld (il film sui vampiri con la bellissima Kate Beckinsale) e qualche accenno agli Evanescence nei brani intimisti e melanconici, mentre per il resto si viaggia discretamente sullo spartito di un alternative metal dal buon tiro.

La voce aggressiva della cantante Kami Van Halst fa il resto, avvicinando il gruppo a band di hard rock moderno stile Halestorm, quindi partite con il piede giusto con l’ascolto dell’album e World of Make Believe saprà regalarvi buone soddisfazioni.
Tensione a mille, ritmiche dure richiamanti il modern metal, linee vocali che seguono il trend growl/voce pulita e, come già espresso, un tocco di oscura malinconia nelle ballad, variano quel tanto che basta per arrivare alla fine senza fatica,: l’ascolto infatti viene valorizzato da una buona produzione e da suoni puliti, con la prova della vocalist che nel mezzo del mare di interpreti sdolcinate e operistiche risulta una buona variante al genere.
Il resto lo fanno le canzoni, alcune molto belle (Ryan’s Song, la title track,) altre leggermente soffocate da una coltre di nebbia gotica, altre clamorose come il blues sporco di sangue che cola dai canini aguzzi di Put Him Down.
Un album americano doc in cui la componente alternative ha il sopravvento su quella gotica, con buone idee che diventano geniali quando il diavolo ha la meglio sui vampiri ed il blues irrompe con tutto il suo dannato appeal nel sound del gruppo.
La band canadese, se saprà sviluppare le buone idee che a tratti valorizzano World Of Make Believe, di certo potrà ritagliarsi il suo spazio nel mondo del metal alternativo, perché le potenzialità ci sono tutte.

TRACKLIST
1. The End
2. Save Me
3. Ryan’s Song
4. World of Make Believe
5. Questions
6. Denying Eyes
7. Monster
8. Plastic Smile
9. Put Him Down
10. Perfect Storm

LINE-UP
Kami Van Halst – Vocals
Scott Greene- Guitar
Tara McLeod- Guitar
Brett Seaton- Drums
Brendan McMillan- Bass

VAN HALST – Facebook

Don’t Try This – Wireless Slaves

Un esordio che non passerà inosservato quello dei Don’t Try this: un perfetto connubio tra rabbia, potenza e melodia sorprenderà anche l’ascoltatore più esigente.

I Don’t Try This ci provano eccome, con questo disco d’esordio ricco di musica, pensieri ed energia.

Nonostante la band tedesca definisca la propria musica come “Modern-Metal”, devo dire che risulta davvero difficile inquadrarli in un qualche genere di sorta.
Proprio per questa ragione, ho pensato che potrebbe essere un po’ più utile fare una breve analisi delle songs che compongono questo intenso Wireless Slaves.
Il disco si apre con due pezzi molto potenti e diretti, nei quali screaming e growling si alternano a momenti di pura energia, ma anche di una strana quiete apparente (Suffocation e When They Rise); successivamente, i Don’t Try This ci fanno ascoltare qualcosa di più melodico, meno aggressivo grazie a Nothing Is Like Before e My Burden; il colpo di scena lo incontriamo con la piacevole e acustica Falling Deeper, di cui è presente anche la demo registrata nel 2013.
I momenti di melodia continuano attraverso The End of Everything, una delle tracce che ho apprezzato maggiormente per il suo ritornello e il cantato pulito; la potenza della band riprende con la collaborazione di Rudi Schwarzer in I Will Never Forget, di cui troveremo la Piano Version alla fine dell’album; Living A Lie mostra un lato più malinconico e introspettivo del gruppo, un pezzo che permette di tirare un pò il fiato, mentre I.W.N.E. vs. Polytox è un qualcosa di inspiegabile, sembra provenire dai Depeche Mode, molto intensa la presenza di componenti elettronici ad arricchire e “stranire” il sound, non so davvero se fosse necessaria questa canzone.
Wireless Slaves arriva alla fine con due brani (Falling Deeper e The Requiem) tratti dal demo del neanche troppo lontano 2013, utili per dimostrare il progresso generale di questi ragazzi, e I Will Never Forget eseguita magnificamente con il piano.
Ascoltando questo primo lavoro dei Don’t Try This , si nota molto chiaramente quanto la voglia di distinguersi sia tanta, ma anche quanto impegno e studio ci sia dietro tutto questo.
Non si tratta quindi di una decina di canzonette buttate lì solo per dire di aver “scritto un cd”, bensì di un qualcosa di ben strutturato e pensato razionalmente.
Considerando anche la giovane formazione, ritengo che Wireless Slaves si dimostri come una piacevole rivelazione e non posso che incoraggiare il talento dimostrato.
Dovrebbe partire a breve il loro tour, io non me li farei sfuggire se fossi amante del metal più forte, ma comunque ricercato e non solo urlato.

TRACKLIST
01 – Suffocation
02 – When They Rise
03 – Nothing Is Like Before
04 – My Burden
05 – Falling Deeper
06 – The End Of Everything
07 – I Will Never Forget (feat. Rudi Schwarzer)
08 – Living A Lie
09 – I.W.N.F. Vs. Polytox
10 – Falling Deeper (Demo 2013)
11 – The Requiem (Demo 2013) [feat. David Baßin]
12 – I Will Never Forget (Piano Version)

LINE-UP
Carlo Kasanya – voce
Markus Kopitzki – basso
Stephan Renner – chitarra
Philipp Müller – chitarra
René Wähler – batteria

DON’T TRY THIS – Facebook

Hypocras – Implosive

Un folk metal semplice e battagliero, infuocato di passione che brucia per le tematiche care al viking.

Dalla Svizzera, abbattendo tutto quello che incontra a colpi di zanne, arriva la carica del cinghiale simbolo degli Hypocras, band di Ginevra al secondo ep in carriera, intervallato da un full length uscito nel 2013 (The Seed Of Wrath).

Il gruppo death viking metal dagli spunti folk, rilascia questo mini cd di quattro brani, con due inediti (Implosive Absolution e At The Edge), la cover di A Song for Them dei Djizoes ed una versione alternativa pop techno di At The Edge che, sinceramente, con il genere suonato centra veramente poco.
I due brani inediti ci presentano un gruppo tosto, il metal estremo di questi ragazzi svizzeri è senza fronzoli e diretto pur mantenendo l’approccio folk dato dal flauto, sempre presente nella struttura delle canzoni.
Un folk metal ignorante, se mi passate il termine usato per altri generi, semplice e battagliero, infuocato di passione che brucia per le tematiche care al viking metal e che ha permesso al gruppo di aprire per nomi di un certo rilievo come Orphaned Land ed Ensiferum.
Peccato per la versione da spiaggia e cocktail di At The Edge, che vorrà senz’altro essere uno scherzo ma che in un ep già di per se corto avremmo lasciare spazio ad brano originale, da assalto al fortino.
Comunque il gruppo si fa valere, aspettiamo il prossimo full length per vedere all’opera un cinghiale ancora più inferocito.

TRACKLIST
1.Implosive Absolution
2.At the Edge
3.A Song for Them (Djizoes cover)
4.At the Edge (Fucked Up Ibiza Vikings Remix by BAK XIII)

LINE-UP
Nicolas SauthierGuitars – Guitars
Arnaud Aebi – Flute
Alexandre Sotirov – Vocals
Benjamin Alfandari – Bass
Olivier Sutter – Drums

HYPOCRAS – Facebook

Fen – Winter

Opere che emozionano cosi profondamente sono perle rare che non possiamo perdere.

Ritornano gli albionici Fen con il loro quinto full a tre anni di distanza da “Carrion Skies”, un altro meraviglioso opus, intriso di quella oscura vena malinconica, figlia diretta della paludosa zona dell’est dell’Inghilterra da cui provengono, le Fenland.

Il trio inglese, attivo dal 2007, continua ad elaborare un suono che si bilancia sempre meglio tra intuizioni post-rock e influssi black metal creando un equilibrio che ha pochi eguali; la nuova opera Winter, dalla copertina, come al solito, evocativa e dalle tinte pastello si dipana per una abbondante ora in sei movimenti (Pathway, Penance, Fear, Interment, Death, Sight) che descrivono il senso di perdita e l’eterno dilemma vita – morte, conducendo noi ascoltatori a un profondo viaggio interiore ricco di contrasti e dubbi; l’opera nella sua alternanza di atmosfere tristi, meditative e momenti black condotti con grande maestria da una solida sezione ritmica, da un guitar sound convinto e variegato e da uno scream incisivo, ha bisogno di essere centellinata con molti attenti ascolti perché, ad un approccio superficiale non rivela la sua alta qualità.
Le atmosfere suggestive sono molteplici, passando dall’ opener di diciassette minuti, Pathway, dove anime sferzate da tormente di neve urlano la loro ribellione all’infinito, al viaggio introspettivo di Fear dove una circolare melodia si infrange su stalattiti black affilate e disperate; l’urlo feroce di Death non lascia scampo e ci trasporta velocemente verso una “blessed death”, mentre i delicati arpeggi tinteggiati di ambient di Sight si aprono in una ultima decisa cavalcata che conclude un lavoro superbo … I Surrender, I Descend, I Dissolve, I End.
Da ricordare a lungo .

TRACKLIST
1. I (Pathway)
2. II (Penance)
3. III (Fear)
4. IV (Interment)
5. V (Death)
6. VI (Sight)

LINE-UP
Grungyn Bass, Vocals
The Watcher Guitars, Vocals
Derwydd Drums, Percussion

FEN – Facebook

Bastian – Back To The Roots

Torna il chitarrista Sebastiano Conti con il suo progetto Bastian, arrivato al terzo bellissimo lavoro: un album di hard rock classico suonato e cantato a meraviglia, che conferma il musicista e compositore italiano come uno dei migliori interpreti del genere negli ultimi anni.

Si torna a parlare del chitarrista nostrano Sebastiano Conti e del suo progetto Bastian, questa volta sulle pagine di MetalEyes, anche se il sottoscritto segue le avventure musicali di Conti da quando di metal e hard rock si parlava sul sito madre (InYourEyes).

Among My Giants, debutto licenziato nel 2014, vedeva il musicista e compositore siciliano cimentarsi con la musica che ha sempre amato, aiutato da una manciata di musicisti storici della scena metal rock mondiale, nonché idoli di Conti.
Gente del calibro di Vinny Appice, Mark Boals, Michael Vescera e John Macaluso, facevano da contorno prelibato al succulento piatto confezionato dal chitarrista, assolutamente a suo agio tra i suoi giganti e perfetta macchina hard rock con la sua sei corde.
Lo scorso anno Rock On Daedalus confermava quello che poteva non essere così scontato ed i Bastian tornavano ad incendiare lettori cd con un altro pezzo di granito hard & heavy, sempre con le partecipazioni di Macaluso e Vescera dietro al microfono.
Un anno esatto separa questa volta i due lavori, con Back To The Roots che porta un paio di novità importanti in seno alla band capitanata da Conti.
Al microfono, questa volta, troviamo nientemeno che Apollo Papathanasio, ex Firewind e, insieme al fido Corrado Giardina al basso, le bacchette di sua maestà Vinny Appice.
Il nuovo lavoro, licenziato dalla Sliptrick Records, porta una nuova ventata di hard rock, classicamente fresco e dannatamente bluesy, andando a colpire e spaccare il cuore dei rockers con una serie di brani sanguigni in cui il vocalist greco dimostra il suo talento per le atmosfere classiche e da crocicchi sperduti e presieduti dal diavolo in persona; la chitarra imperversa tra riff pesanti di rock duro, solos che sputano sangue, facendo l’occhiolino ad una sezione ritmica ora funkizzata, ora hard blues come si faceva nel regno unito dominato dal serpente bianco, ora appesantita dal groove che fa capolino tra lo spartito di meraviglie sonore come Rock Age, canzone capolavoro dell’album, un hard blues tra Whitesnake e Led Zeppelin con un finale in cui la chitarra ci scava dentro e arrivata al cuore lo sollecita con sfumature blues da applausi.
Papathanasio dà spettacolo, perfetto nel giocare con il Coverdale d’annata ma con piglio da vocalist metal e già dall’opener Goodbye To My Room si capisce che la sterzata è stata naturale, sentita e che non poteva essere altrimenti, anche perché Writing My Rock And Roll, il funky blues di Moth Woman, il riff di Spirit With The Hatchet ed il ritmo irresistibile di Poor Town, aiutano l’album a raggiungere una qualità strumentale ed espressiva straordinariamente alta.
Altro da aggiungere non c’è, a parte l’invito a non ignorare questo bellissimo e terzo centro del musicista siciliano, nel genere uno dei migliori interpreti degli ultimi anni.

TRACKLIST
1.Goodbye to My Room
2.Midsummer Night’s Dream
3.Writing My Rock and Roll
4.The Kite
5.Jasmine & Sebastien
6.Moth Woman
7.Warrior Friend
8.Dreamer
9.Rock Age
10.Little Angel
11.Spirit With the Hatchet
12.Poor Town
13.The Demon Behind Me
14.Jasmine & Sebastien

LINE-UP
Apollo Papathanasio – Vocals
Sebastiano Conti – Guitars
Vinny Appice – Drums
Corrado Giardina – Bass

BASTIAN – Facebook

BURIDDA PESANTE VOLUME 6

Sabato 1 aprile: benefit Brigata Solidarietà Attiva Genova:

Eccezionale serata il 1 aprile al Centro Sociale Buridda di Genova, con la reunion dei grandi Stalker, uno dei gruppi hardcore e tanto altro fra i migliori da Genova. Molto interessanti anche le altre band in cartellone (Malclango, Satanic Youth, Naat).
La serata è di beneficenza per le Brigate di Solidarietà Attiva, una rete antifascista di solidarietà che opera dove c’è bisogno, come nelle zone del centro Italia colpite dal terremoto. Non farti fregare dalla Salamandra.

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