Assaulter – Meat Grinder

Un album che sprizza metal devastante e tripallico da tutti i pori, un altro lavoro convincente dalla sempre meno provinciale scena italiana.

Un altro gradito ritorno sulla scena metallica nostrana è quello dei pugliesi Assaulter, thrashers di Taranto che avevano rotto non poche teste con il primo ep, Crushed by Raging Mosh, uscito ormai sei anni fa.

Thrash metal dirompente, bilanciato tra tradizione americana ed europea, suonato e prodotto molto bene e, per questo, esplosivo il giusto per non fare prigionieri ma solo macerie.
Riff veloci e taglienti, tanta grinta che a tratti si trasforma in pura rabbia, ed una dose molto alta di adrenalina continuano ad essere le maggiori qualità del gruppo di Taranto, in guerra contro tutto e tutti con un approccio speed che ne rende appetibile il sound ai thrashers dai gusti classici ed old school.
Meat Grinder non lascia scampo, le tracce più veloci vengono rallentate e si trasformano in muri sonori, mentre il gruppo viene impossessato da uno spirito hardcore/punk nei quarantadue secondi della violentissima L.M.T., oppure quando il gioco al massacro è condotto dallo speed/thrash old school di Assaulter o Mind Control.
L’alternanza tra velocità e mid tempo risulta più marcato nelle tracce in cui il minutaggio si allunga, come in Terror World ed After The Countdown, anche se l’approccio al genere, per il gruppo è da guerra totale per tutta la durata dell’opera.
Meat Grinder è un album che i thrashers duri e puri troveranno perfetto, perché la band usa a suo piacimento tutti i cliché del genere con personalità e tecnica, affidandosi ad un suono esplosivo che trasporta l’ascoltatore, affascinato dal tagli di un lavoro curato nei minimi dettagli.
Un album che sprizza metal devastante e tripallico da tutti i pori, un altro lavoro convincente dalla sempre meno provinciale scena italiana.

TRACKLIST
1.Assaulter
2.Meat Grinder
3.Dead End Siding
4.Terror World
5.L.M.T.
6.Liesocracy
7.Mind Control
8.Pay to Play
9.After the Countdown
10.Bestial Vomit

LINE-UP
Paolo Iori – Guitars
Enzo – Vocals, Bass
Rodolfo – Drums
Gigi – Guitars

ASSAULTER – Facebook

Heavy Temple – Chassit

La musica racchiusa in Chassit, secondo ep degli Heavy Temple, trio nato da un sabba in qualche locale di Philadelphia cinque anni fa, la si può senz’altro descrivere come un trip di rock vintage alla massima potenza.

Doom metal e psichedelia: un connubio pericolosissimo se non viene usato con estrema cautela, se poi ci si aggiunge un pizzico di stoner ed una vena leggermente progressiva si ottiene un cocktail micidiale di musica rock dalle reminiscenze settantiane, fatte amoreggiare con sonorità pescate dai decenni successivi.

La musica racchiusa in Chassit, secondo ep delle Heavy Temple, trio nato da un sabba in qualche locale di Philadelphia cinque anni fa la si può senz’altro descrivere in questo modo, un trip di rock vintage alla massima potenza.
Siamo giunti quindi al secondo album (il primo ep omonimo è datato 2014) e la band formata da Saint Columbidae alle pelli, Arch Bishop Barghest alla sei corde e la sacerdotessa High Priestess NightHawk al basso e voce, continua la sua immersione nella musica dal puzzo di zolfo e la potenza di uno schiaccia sassi, ornata da ricami lisergici e cadenzate parti stonerizzate, mentre il rituale prende vita tra teschi ornati di serpi e pentoloni a bollire su fuochi che emanano esalazioni infernali.
Un accenno al prog con In The Court Of The Bastard King, titolo dallo spunto crimsoniano, e lente agonie liturgiche (Pink Glass), mentre il sole sorge ma noi si rimane imprigionati nel vortice di colori innaturali che sguazzano nella nostra mente, ormai in balia delle tre sacerdotesse americane.
Per chi i piace il genere le Heavy Temple possono rivelarsi un’autentica e gradita sorpresa.

TRACKLIST
1.Key and Bone
2.Ursa Machina
3.Pink Glass
4.In the Court of the Bastard King

LINE-UP
Saint Columbidae – Drums
Arch Bishop Barghest – Guitars
High Priestess NightHawk – Bass, Vocals

HEAVY TEMPLE – Facebook

Graveyard Of Souls – Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado

Il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il genere con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre convince meno il tentativo di rendere il sound più catchy nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic.

Degli spagnoli Graveyard Of Souls ci eravamo già occupati qualche anno fa, in occasione del loro primo full length Shadows Of Lifes.

Autori di un buon gothic death doom, all’epoca i nostri non erano apparsi in grado di elevarsi oltre un livello medio, comunque apprezzabile, e non è che l’impressione vada a modificarsi più di tanto con questo nuovo Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado, album che arriva dopo altre due opere su lunga distanza, Infinitum Nihil e Todos los caminos llevan a ninguna parte.
L’interpretazione del genere da parte di Raul e Angel non lascia spazio a particolari critiche né dal punto di vista esecutivo né da quello della produzione (anche se quest’ultimo aspetto è senz’altro migliorabile), perché in questo genere li ritengo elementi marginali rispetto al potenziale emotivo di un’opera: il problema è che, in buona sostanza, vengono meno quei guizzi capaci di rendere identificabile il sound.
Va detto, ad onore dei Graveyard Of Souls, che alcuni brani si dimostrano senz’altro all’altezza della situazione, specie quando questi possiedono un maggiore respiro atmosferico: non mancano così spunti melodici di buona fattura, come nelle buone Entre fragmentos de locura, Cementerio de ilusiones e Al atardecer, che contribuiscono a mantenere l’album al di sopra della linea di galleggiamento senza però che l’attenzione dell’ascoltatore venga catturata con la necessaria continuità.
Sicuramente il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il death doom con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre le fasi contraddistinte dal tentativo di rendere il sound più catchy, nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic, non convincono anche per l’apparente discrasia stilistica che si manifesta in alcuni momenti dell’album (piuttosto superfluo, per esempio, lo strumentale Across the Cygnus Loop).
Come per l’album d’esordio, non resta così che derubricare l’operato dei Graveyard Of Souls ad un’interpretazione gradevolmente retrò di queste sonorità, senza però che lo scorrere del tempo abbia portato all’auspicato salto di qualità.

Tracklist:
1. Todo se desvanece lentamente
2. Entre fragmentos de locura
3. Beyond the Black Rainbow
4. Cementerio de ilusiones
5. As Lightday Yields (Lake of Tears cover)
6. Al atardecer
7. Across the Cygnus Loop
8. Kristallnacht

Line-up:
Angel Chicote: Music & Lyrics
Raúl Weaver: Vocals

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

Pestilence – Presence of the Pest (Live at Dynamo Open Air 1992)

La Vic Records ci presenta i Pestilence in un concerto al Dynamo Open Air Festival nel 1992, una chicca per i fans del gruppo olandese e per i cultori del death metal old school.

Si continua a parlare di chicche del metal estremo degli anni novanta, riesumati e messi sul mercato per la gioia dei collezionisti e amanti del genere, con la label olandese Vic Records che, negli ultimi tempi, è salita alle cronache metalliche proprio per le sue ristampe atte a lustrare vecchi gioielli death metal.

I Pestilence erano già stati toccati dalla mano della label in seguito alla raccolta di demo e rarità Reflections Of The Mind, uscita qualche mese fa e che riguardava brani in fase embrionale che andarono poi a comporre i tre album della prima fase del gruppo proveniente dal paese dei tulipani: Consuming Impulse, Testimony of the Ancients e, appunto, il capolavoro Spheres.
Si torna dunque al 1992 ed al live che la band tenne al Dynamo Open Air Festival, allora uno dei Festival più in voga e già palcoscenico di live album importanti per band del calibro di Testament e Death.
Presence Of The Pest è un documento affascinante e che non presenta grossi aggiustamenti in studio da parte di Tom Palms (Phlebotomized) che ha rimasterizzato il tutto.
Il gruppo all’epoca viaggiava a mille, perciò aspettatevi una concerto intenso dove, almeno per una volta, le imperfezioni non inficiano il risultato finale, così che chiudendo gli occhi sembra di tornare a venticinque anni fa, sotto il palco dove Patrick Mameli e gli altri componenti del gruppo scrivevano un pezzo di storia del death metal con brani del calibro di Presence Of The Dead, Testimony e Stigmatized.
L’album si arricchisce di tre bonus registrate nello stesso periodo a Rotterdam, quindi ci troviamo davanti ad un’opera esaustiva rispetto alla carica e all’energia che il gruppo olandese sapeva tirare fuori in sede live.
La scelta di non ritoccare troppo il suono da parte della label va a mio parere elogiata, proprio perché non viene snaturato lo spirito old school ed assolutamente estremo dell’opera.

TRACKLIST
1.Dehydrated
2.Chemo Therapy
3.Presence of the Dead
4.The Process of Suffocation
5.Lost Souls
6.Twisted Truth
7.Testimony
8.Chronic Infection
9.Stigmatized
10.Out of the Body
11.Darkening
12.Presence of the Dead
13.Prophetic Revelations
14.Suspended Animation
15.The Secrecies of Horror
16.The Trauma
17.Land of Tears

LINE-UP
Patrick Mameli – Lead guitar/Vocals
Santiago Dobles – Lead guitar
Alan Goldstein – Bass
Septimiu Hărşan – Drums

PESTILENCE – Facebook

Dustrider – Event Horizon

Le canzoni di Event Horizon superano di gran lunga la forma canzone e sono jam spirituali e spaziali, fumosamente particolari e molto godibili.

Viste le premesse e soprattutto i componenti questo debutto non poteva suonare diversamente.

I Dustrider vengono da Roma e fanno uno strumentale space stoner e molto più in là ancora. Il loro suono è un viaggio psichedelicamente distorto, un addentrarsi tra asteroidi e galassie immaginarie, per mezzo di potenti cavalcate sonore fatte di stoner metal pesante e fluttuante. I Dustrider sono il batterista Francesco “Krundaal” Romano (Riti Occulti and Jarman), il bassista Andrea “Keoma” Romano e il chitarrista Bruno “Brüno” Bellisario. Vorrei porre l’attenzione sui gruppi dove milita il batterista Francesco Romano, perché nei loro distinti campi sono due realtà eccellenti, e anche gli altri due componenti non sono da meno. Il disco è quindi nato sotto ottimi auspici, per poi venire fuori anche meglio. L’ ipnosi strumentale che ci regalano i Dustrider è molto ampia e ci offre una gamma pressoché infinita di generi, dallo space al desert, a momenti maggiormente psichedelici e sognanti, però sempre con la distorsione inserita e, cosa ancora più importante, volendo sempre esprimere canzoni e momenti in uno stile molto ben definito. Le canzoni di Event Horizon superano di gran lunga la forma canzone e sono jam spirituali e spaziali, fumosamente particolari e molto godibili. Un gruppo molto al di sopra della media .

TRACKLIST
1. Warped
2. Cosmo
3. They Live!
4. Fallout Criminal
5. Agartha
6. Stratosphere
7. Event Horizon
8. Ultima IV
9. Dust Devil

LINE-UP
Bruno ‘Brüno’ Bellisario – Guitar
Andrea ‘Keoma’ Romano – Bass
Francesco ‘Krundaal’ Romano – Drums

DUSTRIDER – Facebook

Running Death – Dressage

Un sound che, se si può senz’altro considerare classico, risulta comunque fresco, potente e melodico, grazie ad un songwriting sopra la media, ad un tocco di speed power di tradizione europea e a tanto thrash metal statunitense.

Le buone impressioni suscitate dallo scorso full length (Overdrive, uscito un paio di anni fa) sono state confermate e i tedeschi Running Death, con il nuovo lavoro Dressage, faranno la gioia degli amanti del metal in generale.

Questo avviene grazie ad un sound che, se si può senz’altro considerare classico, risulta ugualmente fresco, potente e melodico, grazie ad un songwriting sopra la media, ad un tocco di speed power di tradizione europea e a tanto thrash metal statunitense, tra Testament e Forbidden.
Dressage si avvale di un gran lavoro melodico, punto di forza del sound del gruppo bavarese, con il bravissimo cantante Simon Bihlmayer che, oltre a suonare la sei corde, possiede una voce che ricorda il giovane Chuck Billy.
Non cede un attimo questo album, i brani si susseguono potenti, veloci e melodici, senza mai avvicinarsi al groove, tanto di moda di questi tempi, mantenendo un approccio heavy/power che con l’irruenza e l’impatto del thrash fa fuoco e fiamme su tracce ritmicamente colme di cambi di tempo e impreziosite da una tecnica notevole.
Velocità e mid tempo si danno il cambio tra i solchi di brani che a tratti entusiasmano, entrando a forza nella testa dell’ascoltatore.
Si decolla senza indugi con l’opener Courageous Minds e si punta dritti alla zona da bombardare con una serie di tracce notevoli (la title track, Duty Of Beauty, Beneath The Surface) thrash metal tecnico ed heavy power fanno la voce grossa e chiedono a gran voce lo scettro di sovrani dei generi metal classici, mentre Andrej Ramich al basso e
Jakob Weikmann alle pelli sorprendono con una prova gagliarda e Daniel Baar lavora la sua sei corde con perizia melodica sopra le righe.
Dressage è metal con la M maiuscola, ha tutto per fare breccia nei cuori non solo dei thrashers ma di chiunque ami il metal dal taglio classico.

TRACKLIST
01. Courageous Minds
02. Dressage
03. Delusive Silence
04. Heroes Of The Hour
05. Duty of Beauty
06. Numbers
07. Beneath the Surface
08. Anthem of Madness (instrumental)
09. Safety Second
10. Refuse to Kill

LINE-UP
Simon Bihlmayer – Vocals, Guitars
Daniel Baar – Guitars
Andrej Ramich – Bass
Jakob Weikmann – Drums

RUNNING DEATH – Facebook
URL YouTube, Soundcloud, Bandcamp

Sinlust – Sea Black

Sono mari oscuri e pericolosissimi quelli su cui navigano i Sinlust, gruppo black metal transalpino al secondo album dopo il debutto di ormai sei anni fa (Snow Black).

Il nuovo Sea Black è, di fatto la seconda parte di un concept sviluppato con il primo disco, una storia dark/fantasy scritta dal cantante Firefrost con lo pseudonimo di Nicolas Skinner, diventato un romanzo (Noire Neige) che ha ottenuto un discreto successo.
La musica che accompagna la storia è un metal estremo dai rimandi black metal, con molte parti atmosferiche tra soluzioni progressive ed ovviamente dark, seguendo lo sviluppo della trama.
Sea Black è un’opera davvero riuscita ed affascinante, l’album è curato e prodotto bene così da poter godere dei passaggi a tratti più intricati che il combo usa a suo piacimento, non mancando di travolgere l’ascoltatore con la furia, come in una tempesta al largo delle coste dove, le onde altissime prendono la forma di demoni prima di scagliarsi violentemente sulla prua straziata dagli elementi.
Un’ora esatta di metal estremo ben eseguito dove non manca la melodia: il lavoro delle sei corde ha spunti classici nei solos, lo scream declama epico e cattivo la trama, mentre la sezione ritmica si accanisce senza pietà sui navigli dal timone spezzato.
Black metal epico e dark travolgente (Dawning Of The Volcano God è splendidamente epica e terrificante) con un uso perfetto delle atmosfere: poche, quasi nulle le tastiere, ma tanta musica oscura pregna di epicità progressiva.
Echi dei primi Opeth in un contesto black metal che ricorda la cattiveria di Gorgoroth e primi Satyricon, otto perle nere che non scendono sotto i cinque minuti e regalano intense emozioni estreme come in Cannibal Beast, Sea Of Trees e nella conclusiva e spettacolare Forgotten’s Master, progressive black metal in un crescendo di straordinario trasporto emotivo.
I Sinlust suonano musica estrema spettacolare: una grande band ed un album bellissimo, ovviamente consigliato.

TRACKLIST
01. Red Priestess
02. Sea Conquerors
03. Dawning Of The Volcano God
04. Cannibal Beast
05. Streams Attractions
06. Sea Of Trees
07. Trilateral Conflict
08. Forgotten’s Master

LINE-UP
Firefrost – Vocals
Infernh – Drums
Chris in lust – Guitars
Rain Wolf – Bass

SINLUST – Facebook

Necromutilator – Ripping Blasphemy

Dalla fredda e nebbiosa pianura mantovana arrivano i Necromutilator, trio diabolico al servizio dell’oscuro signore attivo dal 2009 e con un paio di lavori alle spalle: il demo The Devil Arisen del 2011 ed il full length Eucharistic Mutilations, uscito tre anni fa.

Tornano con Ripping Blasphemy, ep di quattro brani licenziato dalla Terror From Hell, quindici minuti di metal estremo oscuro e malato, tra death, black e thrash old school.
Un’atmosfera malsana accompagna tracce malefiche come la title track, brano dall’impronta death metal con una forte anima black, mentre Exhorted Sacrifice si avvicina al mood del thrash vecchia scuola.
Un sound senza compromessi, che vuole rappresentare il puro male in musica, è quello che accompagna i tre diabolici musicisti (P. voce e chitarra, R. batteria e E. al basso) nel loro glorificare la morte e la malvagità a colpi di death/thrash/black ispirato da Morbid Angel, Venom e primi Darkthrone.
I Necromutilator si confermano una band da seguire per i fans del metal estremo più nero ed abissale .

TRACKLIST
1.Ripping Blasphemy
2.Exhorted Sacrifice
3.Unholy Semen of Doom
4.Gate to Eternal Possession

LINE-UP
P – Vocals, Guitars
R – Drums
E – Bass

NECROMUTILATOR – Facebook

King Woman – Created in the Image of Suffering

Una buona prima opera da una band che “condensa” doom emozionale con shoegaze e post rock.

Bastano poco meno di quaranta minuti ai King Woman per presentarci la loro arte!

A chi segue il doom, come me, il trovarsi di fronte un disco con un minutaggio “ristretto” può infastidire; il suono doom ha bisogno di tempi dilatati per esprimere al meglio la propria dolente spiritualità; in questo caso però la proposta musicale del gruppo guidato dalla vocalist Kristina Esfandiari, nel miscelare doom, post rock, shoegaze e aromi psych crea un flusso continuo, avvolgente come una liturgia ammantata da chitarre ora decise, ora morbide che fanno da cangiante tappeto alle liriche di sofferta introspezione scritte dalla stessa vocalist, segnata da un’infanzia imprigionata nel fanatismo religioso della famiglia. La voce della Esfandiari rappresenta il valore aggiunto con i suoi toni drammatici, carichi, capaci di ammaliare creando un’atmosfera mistica, sussurrata (Hierophant), un ipnotico viaggio che non presenta picchi qualitativi ma si fa, forse, preferire negli ultimi quattro brani dove le note di un suggestivo violino e gocce di psichedelia d’annata inondano i brani di una profonda disperazione.
Anche questa volta la Relapse ha visto giusto, andando un po’ oltre le sue normali coordinate sonore, dando lo spazio per esordire ai King Woman (finora avevano soltanto un EP al loro attivo) che attendiamo fiduciosi ad altre prove, sperando in uno sviluppo maggiore dei brani (lo spirito doom è duro a morire); opera interessante che merita …

TRACKLIST
1. Utopia
2. Deny
3. Shame
4. Hierophant
5. Worn
6. Manna
7. Hem

LINE-UP
Kristina Esfandiari – Vocals, Lyrics
Colin Gallagher – Guitars
Peter Arensdorf – Bass
Joey Raygoza – Drums

KING WOMAN – Facebook

Sunroad – Wing Seven

Un album onesto di musica dura come si faceva una volta, con un cantante in palla, buone trame chitarristiche ed almeno due o tre brani meritevoli d’attenzione.

La tradizione metallica del Brasile si concretizza in tutti i generi e sotto generi dell’universo musicale che più ci piace, con il death metal ed i suoni hard’n’heavy che si giocano il ruolo di traino per tutto il movimento.

I Sunroad suonano hard & heavy da quando il secolo scorso ha lasciato il passo al nuovo millennio, un ventennio circa di suoni tradizionali ora marchiati a fuoco da un nuovo cantante (Andre Adonis), novità di non poco conto nell’economia del sound del gruppo.
Unico membro originale rimasto è il batterista Fred Mika, da sempre in sella al gruppo di Goiania che arriva, con questo Wing Seven, al sesto lavoro sulla lunga distanza di una carriera discografica che si completa con un ep ed una raccolta di brani dei primi tre album.
Hard ed heavy metal che si uniscono come nella migliore tradizione in un sound a tratti esplosivo, pescando tra Europa e Stati Uniti, rigorosamente in ambiti ottantiani: ne esce un buon album, forse appesantito da un che di già sentito, ma è comunque un ascolto rivolto agli amanti dei suoni che hanno fatto la storia dell’ hard & heavy mondiale.
Si passa così da brani chiaramente hard rock e che richiamano lo stile losangelino, a composizioni più in linea con l’heavy metal europeo, con le tastiere che prendono il comando delle operazioni ed i Rainbow che diventano principale fonte di ispirazione per la band brasiliana.
Un album onesto di musica dura come si faceva una volta, con un cantante in palla, buone trame chitarristiche ed almeno due o tre brani meritevoli d’attenzione (In The Sand, Day By Day e Brighty Breakdown): da ascoltare, visto che potrebbe piacere a più di un appassionato.

TRACKLIST
1.Destiny Shadows
2.White Eclipse
3.In the Sand
4.Misspent Youth
5.Tempo (What Is Ever)
6.Whatever
7.Skies Eyes
8.Day by Day
9.Craft of Whirlwinds
10.Drifting Ships
11.Brighty Breakdown
12.Pilot of Your Heart
13.Last Sunray in the Road

LINE-UP
Akasio Angels – Bass, Vocals
Netto Mello – Guitars, Backing Vocals
Fred Mika – Drums, Vocals
Andre Adonis – Vocals (lead)

SUNROAD – Facebook

Funeralium – Of Throes And Blight

Un disco magnifico, ma da maneggiare con estrema cura anche da parte di chi frequenta lidi sonori contigui al funeral doom.

Nati da una costola degli Ataraxie, i Funeralium perseguono con buon successo da oltre un decennio una forma di estremizzazione del funeral doom.

La band francese fa di un approccio del tutto negativo il proprio punto di forza, rinunciando a spunti melodici o atmosferici per calcare la mano sul senso di ineluttabile che ci attanaglia .
La voce utilizzata più spesso, non a caso, è uno screaming di matrice quasi depressive piuttosto che il consueto growl, a rimarcare un inquietudine più rabbiosa o ancor meglio intrisa di un rancore non circoscrivibile. Quando termina la prima discesa negli inferi dell’umana psiche, Slowly We Crawl Towards Crumb, è trascorsa quasi mezz’ora di funeral soffocante all’ennesima potenza, solo un po’ inasprito da tracce di black, e ci attende ancora un’altra ora di sonorità che lacerano, ora lasciandoci in uno stato di angosciosa sospensione, ora evocando il pianto e stridore di denti di apocalittica memoria.
Of Throes And Blight è un’agonia resa interminabile da una durata complessiva che nessuna persona sana di mente potrebbe ritenere ragionevole, ma alla categoria certo non appartengono né i Funeralium né chi decide di abbandonarsi al deliquio provocato da questi quattro monoliti eretti alla follia.
Un disco magnifico, ma da maneggiare con estrema cura anche da parte di chi frequenta lidi sonori contigui al funeral doom.

Tracklist:
1.Slowly We Crawl Towards Crumb
2.Spit At My Face, I Will Pluck Your Tongue Out
3.Vermin
4.Vanishing Once And For All

Line-up:
Berserk – Guitars
Marquis – Vocals, Guitars
Asmael LeBouc – Bass, Vocals
A.D. K’shon – Drums
Charles Ward – Bass

FUNERALIUM – Facebook

Malkavian – Annihilating the Shades

Le influenze sono riscontrabili nei gruppi estremi thrash/death metal statunitensi, ma i Malkavian ci mettono del loro, d’altronde l’ esperienza è secolare e la fame di sangue inesauribile…

Una bomba sonora questo ultimo lavoro dei vampiri di Nantes che, sotto il monicker Malkavian, ci aggrediscono con il loro thrash/groove metal assolutamente devastante.

Difficile trovare un gruppo che, con un nome e un concept vampiresco, distrugga tutto con la forza del thrash moderno, invece di ipnotizzarci con languide melodie gotiche, ma si sa, la cattiveria dei vampiri dipende dal ceppo e dagli anni in cui la loro stirpe comanda e il 2017 è l’anno dei Malkavian.
Annihilating the Shades è dunque un devastante e violentissimo esempio di metal moderno dai rimandi thrash e dal groove che sprizza come sangue dalle vene e dalle arterie: qui i vampiri sono quelli di Underworld e non del classico Dracula (tanto per intenderci), guerrieri della notte in lattice ed automatiche, un esercito di super uomini in una battaglia che dura dalla notte dei tempi e dalla colonna sonora estrema ed esaltante, pura follia omicida rappresentata da inni al male come Alter Of The Damned, Ruins, l’annichilente, oscura e maligna The Great Overset e il muro di creature della notte pronti a colpire al segnale di Encryption Process.
Romaric “Riko” Lamare è un non morto che sputa odio dal microfono, la sezione ritmica un massacro di innocenti (Florian Pesset al basso ed Alex Jadi alle pelli), le chitarre armi micidiali tra ventate di morte e melodie allucinate che, invece di smorzare la tensione, rendono ancora più terrificante e violento il sound (Nicolas Bell e Mathieu Deicke).
Le influenze sono riscontrabili nei gruppi estremi thrash/death metal statunitensi, ma i Malkavian ci mettono del loro, d’altronde l’ esperienza è secolare e la fame di sangue inesauribile…

TRACKLIST
1.Resurgence
2.Altar of the Damned
3.Spit Away
4.Ruins
5.Annihilating the Shades
6.The Great Overset
7.Encryption Process
8.Kba
9.Void of a Thousand Eyes

LINE-UP
Florian Pesset – Bass
Nicolas Bel – Guitars & Backing Vocals
Romaric Lamare – Vocals
Alex Jadi – Drums
Mathieu Deicke – Guitars

MALKAVIAN – Facebook

Tod Huetet Uebel – N.A.D.A.

Un’altra prova di grande efficienza da parte di rappresentanti della scena black metal lusitana.

Tod Huetet Uebel è una delle diverse band che contribuiscono a rendere sempre più fresca e stimolante la scena black metal lusitana.

Dopo il full length del 2015, il duo composto da Daniel C. e Marcos M. si ripropone con un ep di una ventina di minuti fatto di due soli brani dalla durata decisamente diversa tra loro, con il secondo di questi (Da) che da solo occupa in pratica tutto lo spazio del lavoro.
A differenza di altre band trattate di recente, i Tod Huetet Uebel appaiono molto più spostati verso una forma di black più esasperato, ai confini del depressive: ne consegue un ascolto molto più complesso, derivante da un modus operandi che bandisce del tutto o quasi la melodia, passando da ossessive sfuriate, contraddistinte dalle urla incessanti di Marcos, a rallentamenti improvvisi che riportano il tutto ad una matrice ambient.
Il primo e più breve brano, Nå, è soprattutto una furiosa espressione di urgenza compositiva, con un mood tra il disperato e l’apocalittico che poi verrà convogliato nella ben più lunga e frastagliata traccia conclusiva.
Non è affatto banale per una band black spingere un singolo brano su simili minutaggi, ma non è certo il coraggio a fare difetto ai Tod Huetet Uebel, ed e così che, tra campi di tempo dovuti a frenate alternate a parossistiche accelerazioni, sempre sovrastate dalle vocals straziate di chi non ha un domani, N.A.D.A. si rivela un altro consistente tassello posto a puntellare un movimento, sorprendente solo per chi è meno predisposto a cogliere i segnali di vitalità provenienti da realtà musicali considerate (a torto) ai margini della scena internazionale.

Tracklist:
1. Nå
2. Da

Line up:
Daniel C. – Guitars, Bass
Marcos M. – Vocals

TOD HUETET UEBEL – Facebook

Hot Cherry – Wrong Turn

Non così scontato come potrebbe sembrare ad un primo approccio, Wrong Turn si fa apprezzare per la sua energia e per quell’atmosfera sanguigna e vera che è alla base della riuscita di un album del genere.

Wrong Turn è il primo lavoro dei toscani Hot Cherry, uscito qualche mese fa autoprodotto ed arrivato a MetalEyes tramite l’etichetta napoletana Volcano Records, che si è aggiudicata le prestazioni del gruppo del cantante Jacopo Mascagni.

La band nasce nel 2009, ma purtroppo, dopo l’uscita del singolo Scar In The Brain, nel 2013 si scioglie, con il cantante che di fatto rimane l’unico componente e, non arrendendosi, comincia il reclutamento di nuovi componenti.
Nel corso degli anni gli sforzi per dare una nuova vita al gruppo vengono ripagati e con la formazione al completo vede la luce Wrong Turn, una mazzata di metal/rock, dal groove micidiale, potente e dall’anima thrash.
Jacopo Mascagni viene così raggiunto da Nik Capitini e Luca Ridolfi alle chitarre, Kenny Carbonetto al basso e Stefano Morandini alle pelli, e insieme danno vita a questa mezz’ora di muro sonoro che non lascia dubbi sull’impatto di questa nuova formazione e del suo sound, vario nel saper pescare da vari generi, senza mai abbandonare la strada del metal moderno ricco di groove e di un pizzico di pazzia rock ‘n’ roll.
Mascagni canta come se non ci fosse un domani, le frustrazioni passate vengono riversate su nove tracce che non lasciano respiro fin dall’opener Anonymous: una mazzata senza soluzione di continuità tra hard rock, groove, stoner rock, ed attitudine thrash ‘n’ roll che si evince dal singolo Scar In The Brain, dalla mastodontica Craven e dalla devastante Call To The Void.
Non così scontato come potrebbe sembrare ad un primo approccio, Wrong Turn si fa apprezzare per la sua energia e per quell’atmosfera sanguigna e vera che è alla base della riuscita di un album del genere.
Immaginatevi una jam tra i Pantera, gli Anthrax, i Corrosion Of Conformity e i Beautiful Creatures ed avrete un’idea della proposta degli Hot Cherry, non male davvero.

Tracklist:
1.Anonymous
2.8000 HP
3.Scar In The Brain
4.Narrow Escape
5.Craven
6.On Your Own
7.Call To The Void
8.Modern Vampire
9.Bloody Butterfly

Line-up:
Jacopo Mascagni – Vocals
Nik Capitini – R&L Guitars
Luca Ridolfi – R Guitars
Kenny Carbonetto – Bass
Stefano Morandini – Drums

HOT CHERRY – Facebook

Hesperia – Caesar. Roma Vol. I

Mai ovvio e sempre interessante, Caesar, primo disco di una serie dedicata a Roma, rappresenta una delle punte più alte del metallo italiano, che definire tale è molto riduttivo.

Sesto disco per questo progetto solista attivo da molti anni. Lo scopo di Hesperia è di fare metallvum italicvm come afferma lui stesso, cercando di concepire una via italica al pagan metal vicino al black.

Il suono di questo concept album sulla vita di Giulio Cesare è molto più sfaccettato, e partendo dal pagan si avvicina molto al metal nella sua accezione più folk, perché qui oltre alla musica c’è molto da dire e scoprire. Hesperia parte da lontano, a cominciare dal nome che è quello antico della nostra penisola, in un fulgido passato pagano che abbiamo dimenticato in fretta abbagliati dalle falsità cristiane. Il disco, dal punto si vista musicale, è una minuziosa ricerca di un suono che sia solennemente adatto a far risuonare questa storia, che è speciale e non può essere raccontata senza l’ausilio di un metal speciale. Hesperus è un musicista di talento e trova sempre un’adeguata impalcatura sonora a testi molto belli che mostrano la storia sotto il punto di vista dei protagonisti, facendo rivivere e sanguinare la storia di Giulio Cesare. Il disco potrebbe essere anche rappresentato sulle assi di un teatro, tanto è ricca la drammatizzazione; una continua meraviglia sonora, passando dal folk al metal, dal quasi black a rock progressivo o anni novanta, il tutto al servizio della storia narrata. Mai ovvio e sempre interessante, Caesar, primo disco di una serie dedicata a Roma, rappresenta una delle punte più alte del metallo italiano, che definire tale è molto riduttivo. La musica è ottima e le storie sono un nostro passato che è stato sepolto troppo presto, ma che rimane un paradigma.

TRACKLIST
1. Ivlia Gens (Incipit) / Svpremvs Dvx
2. Trivmviratvm
3. De Bello Gallico
4. Britannia Capta Erit / Alea Iacta Est
5. Roma
6. Aegyptvs (Tema di Cleopatra)
7. Caesar (Tema di Cesare)
8. Romana Conspiratio (Tema di Bruto)
9. Divini Praesagii (Romanorvm Deorvm)
10. Le idi di marzo (The Ides of March)
11. Ivlivs Caesar (Divvs et Mythvs)

LINE-UP
Hesperus: Everything

HESPERIA – Facebook

Critical Solution – Barbara The Witch

In Barbara The Witch si parla streghe, roghi ed inquisizione e il gruppo ci va a nozze, tra devastanti fughe thrash, atmosfere classicamente heavy e sfumature horror metal.

I thrashers norvegesi Critical Solution fecero innamorare il sottoscritto un paio d’anni fa, in occasione dell’uscita del bellissimo Sleepwalker.

Tornano oggi con Barbara The Witch, un concept album tratto da un’opera di Arthur Brown (The God Of Hellfire) e ci troviamo ancora una volta davanti ad un album esaltante, che mescola thrash metal e tematiche horror metal.
Per chi non conoscesse ancora i quattro stregoni norvegesi ricordo che la band è attiva da una dozzina d’anni, arriva con questo album al traguardo del terzo full length dopo aver dato alle stampe un paio di ep, il debutto sulla lunga distanza Evil Never Dies del 2013 ed il precedente Sleepwalker.
Dunque si parla di streghe, roghi ed inquisizione e il gruppo ci va a nozze, tra devastanti fughe thrash metal di ispirazione statunitense (Metallica, Testament), atmosfere classicamente heavy (Rainbow, Black Sabbath) e le sfumature horror metal prese in prestito dal King Diamond e valorizzate da un songwriting sopra la media.
Non ci si annoia con la musica dei Critical Solution, le loro ispirazioni danno vita ad un saliscendi di emozioni metalliche, tra ritmiche che corrono all’impazzata, arpeggi melodici che creano atmosfere oscure, chitarre come le fiamme che ricoprono i corpi delle streghe e segnano la pelle con frustate solistiche.
La splendida thrash horror metal The Burning Pyre risulta il cuore dell’album, un crescendo drammatico che parte con un recitato, mentre la furia prende il sopravvento per poi lasciare spazio ad una marcetta tragica, mentre il cielo si oscura, le fiamme toccano i nuvoloni grigi e la strega grida ai carnefici la sua maledizione: in due parole, brano fantastico.
Chiaramente Barbara The Witch non si ferma certo qui, regalando ancora almeno un paio di tracce spettacolari come The Village, Red Hooded Devils e The Headless Horsemen brano che i Metallica non scrivono da una vita.
Quando tutto sembra finito, il bonus cd incluso nell’album ci dona una manciata di cover di classici dell’hard & heavy suonati alla maniera dei Critical Solution, ed allora preparatevi alle esaltanti nuove versioni di Let It Die (Ozzy Osbourne) e, tra le altre, Speed King dei Deep Purple, e la straordinaria versione dell’indimenticabile Gypsy degli Uriah Heep.
Come scritto in occasione del precedente lavoro, siamo al cospetto di una grande band, imperdibile per gli amanti dell’horror metal e soprattutto del thrash old school.

TRACKLIST
1. Natas Fo Live
2. The Village
3. Barbara the Witch
4. Red Hooded Devils
5. Peter Crow
6. The Burning Pyre
7. End of the Beginning
8. The Headless Horsemen
9. Officer Green
10. A Lady in White
11. Return of the Witch
12. Into the Abyss

CD 2 – “Covers From Hell”
1. Locked up in Snow (King Diamond’s Black Rose cover)
2. Let it Die (Ozzy Osbourne cover)
3. Killed by Death (Motörhead cover feat. Whitfield Crane/LaRocque)
4. Iron Man (Black Sabbath cover)
5. Speed King (Deep Purple cover)
6. Gypsy (Uriah Heep cover feat. Snowy Shaw)

LINE-UP
Christer Slettebø – Vocals/Lead Guitar
Egil Mydland – Drums
Eimund Grøsfjell – Bass
Guitar Bjørnar Grøsfjell – Guitar

http://www.facebook.com/CriticalSolution

Longhouse – II: Vanishing

I Longhouse, seppure nell’ambito di un territorio angusto come quello del doom, brillano proprio per la loro versatilità, evitando la reiterazione stilistica lungo tutti i brani e riuscendo anche con buon successo a districarsi lungo minutaggi importanti.

Il secondo full length dei Longhouse, doom metal band di Ottawa, è la fotografia più realistica di quello che è effettivamente lo scenario musicale dei giorni nostri.

Questo trio guidato da Josh Cayer propone un doom di ottimo livello, mai scontato e con diverse venature che vanno dallo sludge alla versione più tradizionale del genere, eppure non ha la notorietà che meriterebbe, probabilmente schiacciato dalle caterve di materiale di livello nettamente inferiore, ma con superiore visibilità, immesso quotidianamente su un mercato ipersaturo; del resto, con la musica del destino non ci si arriva a fine mese e, spesso, chi la suona le gratificazioni deve trovarle più dentro se stesso piuttosto che nella risposta del pubblico.
Questo è ciò che fa il buon Cayer che, essendo discendente di nativi americani, pensa bene di creare un inedito connubio tra il doom e testi intrisi della spiritualità e del rispetto per la natura di cui gli indiani d’America sono rimasti tra i pochi depositari sul pianeta.
Il sound dei Longhouse non presenta però alcuna sfumatura etnica e si snoda lungo cinque lunghe e bellissime tracce, andando a toccare diversi punti focali del genere, approfonditi con una tipica formazione a tre che, assieme al già citato bassista e cantante, annovera anche i bravi Marc Casey alla chitarra e Mike Hache alla batteria.
Si parte, così, dalla dissonante e pesantissima Hunter’s Moon, con la quale si bazzica anche dalle parti del post metal, e che ingannevolmente fa pensare ad un brano strumentale, visto che le harsh vocals di Cayer entrano in scena solo nella parte finale; proprio la voce potrebbe costituire un punto di controversia per gli amanti del doom tradizionale, abituati a voci più stentoreee e meno ringhiose: personalmente, tale scelta invece non mi dispiace affatto, né deve indurre in errore quanto avviene nel brano conclusivo The Vigil, dove il timbro vocale pulito viene esibito con successo in un contesto molto più adeguato, trattandosi dell’episodio senza dubbio più melodico, con sconfinamento conclusivo nella psichedelia, dell’intero lavoro.
Come si può intuire, i Longhouse, seppure nell’ambito di un territorio angusto come quello del doom, brillano proprio per la loro versatilità, evitando la reiterazione stilistica lungo tutti i brani e riuscendo anche con buon successo a districarsi lungo minutaggi importanti.
Devo fare un mea culpa per aver messo da parte, inizialmente, II:Vanishing pensando ad un’opera minore o comunque trascurabile, ma solo dopo qualche passaggio nel lettore ne è emerso appieno il valore e da questo se ne deducono due cose: la prima è che l’album necessita d’essere lavorato per bene prima della sua assimilazione, mentre la seconda è che i Longhouse sono un’ottima realtà, meritevole della massima attenzione da parte degli appassionati di doom.

Tracklist:
1. Hunter’s Moon
2. Vanishing
3. Blood and Stone
4. No Name, No Marker
5. The Vigil

Line up:
Josh Cayer – Bass, Vocals
Mike Hache – Drums
Marc Casey – Guitars

LONGHOUSE – Facebook

Voltax – No Retreat… You Surrender

La tradizione metallica del continente americano è una delle più importanti e gloriose, ma i Voltax devono ancora fare quel salto che permetta di entrare nella storia del metal classico d’oltreoceano.

Heavy metal old school dal lontano Messico, terra non certo ricettiva per i suoni tradizionali, dunque eccezione che conferma la regola con l’ultimo lavoro dei Voltax.

Attivo nella capitale da oltre dieci anni, il quintetto messicano non le manda certo a dire e sforna un buon lavoro di metal tradizionale, epico, melodico ed assolutamente legato all’heavy metal classico, diviso tra la tradizione europea e quella americana.
No Retreat… You Surrender è il quarto full length di una carriera che va a completare una discografia comprendente pure un live in quel di Wacken nel 2011, cosa non da poco per un gruppo underground sudamericano.
Chiariamo subito che l’album poteva essere prodotto meglio, che la copertina è bruttina e qualche brano ripete la stessa formula, ma è indubbio che la bravura del vocalist (Jerry) e le cavalcate maideniane che fanno capolino in molti dei brani, tengono l’opera ancorata ad un livello buono, anche se andrebbe maggiormente sviluppata la parte americana del sound (quella alla Metal Church, per intenderci), lasciando da parte certe soluzioni fin troppo abusate e prese in prestito dalla New Wave Of British Heavy Metal.
No Retreat… You Surrender si rivela così un lavoro tra alti e bassi, con qualche buon brano (This Void We Raid e The Hero su tutti) che ne avrebbero potuto dar vita ad un ottimo ep, ed alcune tracce che abbassano la media relegando l’album ad una sufficienza piena, ma non di più.
La tradizione metallica del continente americano è una delle più importanti e gloriose, ma i Voltax devono ancora fare quel salto che permetta di entrare nella storia del metal classico d’oltreoceano.

TRACKLIST
1.El fin
2.Broken World
3.This Void We Ride
4.Deadly Games
5.Go with Me
6.Starless Night
7.Night Lasts Forever
8.Explota
9.The Hero
10.25, 6 to 4 (Chicago cover)

LINE-UP
Ganso – Drums, Bass
Jerry – Vocals
Diego – Guitars
Mario “Boludo” – Drums
Ricardo Doval – Guitars

VOLTAX – Facebook

Condor – Unstoppable Power

Un sound che rimane confinato nei meandri dell’underground, a sola esclusiva dei fans legati al thrash metal più rozzo, ignorante ed accecato dalla furia malefica del black metal.

Secondo album per i norvegesi Condor, attivi dal 2009, con il loro sound che esprime l’irruenza del thrash unita alla morbosa devastazione del black metal, tutto rigorosamente old school e sporcato da una cattiveria notevole.

Un sound che rimane confinato nei meandri dell’underground, a sola esclusiva dei fans legati al thrash metal più rozzo, ignorante ed accecato dalla furia malefica del black metal.
Unstoppable Power è tutto qui, un po’ poco per uscire dagli ascolti dei fanatici del genere, con il caos, che regna su brani senza compromessi come l’opener Embrace By Evil o Chained Victims, a ripetersi per tutti i trentasei minuti di durata, tra esplosioni ritmiche di scuola thrash metal, attitudine black e velocità fine a sé stessa.
Chris Sacrifice declama con rabbioso tono le malefatte delle truppe infernali, mentre davanti a noi passano i primi Slayer, i Venom ed i Darkthrone in un mulinello di suoni estremi che ci trascinano sotto e ci lasciano annegare nel sangue delle vittime, massacrati in una battaglia senza fine.
In 83 Days Of Radiation, spunti black’n’roll portano il sound dei Condor davanti all’anima di Lemmy, che arriccia il naso e boccia il gruppo norvegese, impegnato ad essere oltremodo cattivo ma poco incisivo e ripetitivo nelle soluzioni adottate per questo Unstoppable Power.
Sinceramente, qui non ho trovato che una serie di idee abusate fino allo sfinimento dai gruppi che bazzicano nell’underground da un po’ di anni, rendendo questo album perlomeno trascurabile: qualche spunto classico nei solos alza il livello dell’album fino ad una sufficienza risicata.

TRACKLIST
1. Embraced By Evil
2. Riders Of Violence
3. Chained Victims
4. You Can’t Escape The Fire
5. Unstoppable Power
6. 83 Days Of Radiation
7. Malevolent Curse
8. Horrifier

LINE-UP
Chris Sacrifice – vocals, bass, guitars
Maggressor – guitars
Obskurvind – drums

CONDOR – Facebook

Sincarnate – In Nomine Homini

Il death doom dei Sincarnate è pervaso da una costante tensione: la band si muove con grande consapevolezza su un terreno scivoloso, sul quale una minore competenza nel maneggiare la materia porterebbe inevitabilmente a tediare l’audience, cosa che non avviene mai grazie a spunti ora ritmici, ora melodici, esaltati da un produzione di qualità.

Ancora da un suolo rumeno che si sta rivelando sempre più fertile in tema di metal, giunge una proposta di grande interesse a base di death doom, dalla buona personalità ed altrettanta intensità, da parte dei Sincarnate.

In effetti, il genere citato non fotografa correttamente lo stile del gruppo di Bucarest, che immette anche nel proprio sound massicce dosi di black e death metal, con un’aura epica e liturgica che sposta le coordinate altrove rispetto all’interpretazione del genere delle band scandinave, per esempio.
In Nomine Homini, così come fanno presagire il titolo e la copertina, oltre che presentare molte parti corali cantate in latino, verte su tematiche religiose, ovviamente rivedute e corrette secondo la personale visione di questo gruppo di musicisti.
L’album, considerando anche le due bonus track, si spinge oltre l’ora complessiva di durata, mettendo comunque alla prova l’attenzione degli appassionati, visto che l’approccio stilistico proposto dai Sincarnate non è mai ammiccante o sbilanciato sul versante melodico, bensì mostra l’intento della band di trascinare l’ascoltatore nel proprio gorgo, rappresentando la religione come tutt’altro che un’estrema ancora di salvezza.
Una rilettura, quella contenuta in In Nomine Homini, che ridisegna a tinte fosche l’impatto del culto del divino sull’umanita, evidenziandone le discrasie e, di fatto, spiegandone attraverso diversi fermi immagine quanto le varie credenze abbiano frenato lo sviluppo dell’autoderminazione dell’uomo, cosa della quale ancora oggi finiamo per pagarne le conseguenze, per assurdo forse ancor più che in epoche definite oscurantiste.
Il death doom dei Sincarnate è pervaso da una costante tensione, che il frequente ricorsi a campionamenti di urla strazianti o di voci recitanti contribuisce a mantenere sempre elevata; la band si muove con grande consapevolezza su un terreno scivoloso, sul quale una minore competenza nel maneggiare la materia porterebbe inevitabilmente a tediare l’audience, cosa che non avviene mai grazie a spunti ora ritmici, ora melodici, esaltati da un produzione di qualità (alla quale ha contribuito anche un nume tutelare della scena estrema rumena come Edmond Karban).
Non serve più di tanto entrare nel dettaglio dei vari brani, visto che In Nomine Homini deve essere assimilato come un continuum che trova il suo termine con la magnifica Liwyatan, traccia che tra voci angeliche, canti gregoriani, ritmiche squadrate ed il growl impietoso di Marius Mujdei, si rivela quale autentica summa concettuale e musicale dei Sincarnate.
Infatti, i due pur ottimi brani finali sono altrettante bonus track che vanno considerate come a sé stanti nell’economia di un album decisamente bello, da lavorare però con dedizione e proprio per questo foriero di soddisfazione non appena si riesce a decrittarne l’essenza.

Tracklist:
1. Attende Domine
2. Agrat bat Mahlat
3. Curriculum Mortis
4. She-Of-The-Left-Hand (Sophia Pistis)
5. In Nomine Homini
6. The Grand Inquisitor
7. Lamentatio Christi
8. Dies Illa
9. Liwyatan
10. De Luctum Perpetuum
11. Atonement

Line up:
Andrei Jumuga – drums
Andrei Zala – bass
Marius Mujdei – vocals
Giani Stanescu – guitars
Cristian Stilpeanu – guitars

SINCARNATE – Facebook