Ecnephias – Ecnephias

Qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media

Parlare del nuovo album di una band che si conosce molto bene e nei confronti della quale si nutrono inevitabilmente aspettative elevate non è mai facile.

Non fa eccezione sicuramente questo disco auto-intitolato degli Ecnephias, provenienti da due grandi prove quali “Inferno” e “Necrogod”; anche in questo caso, come accaduto in occasione del precedente lavoro, l’impatto non è stato dei più semplici, vista un’iniziale difficoltà ad entrare in sintonia con la nuova creazione della band lucana.
Infatti, così come “Necrogod” differiva sensibilmente da “Inferno”, lo stesso si può dire di Ecnephias rispetto al suo predecessore: in entrambi i casi gli album hanno svelato il loro valore in maniera graduale, dopo diversi ascolti, una caratteristica che di norma è sinonimo di una certa profondità delle composizioni.

Mi sono chiesto come mai ciò non mi fosse capitato a suo tempo anche con “Inferno” che, al contrario, mi aveva folgorato fin dai primi ascolti, ma credo che la risposta risieda soprattutto nella collocazione dei brani in scaletta: infatti, se un anthem come “A Satana” spalancava subito all’ascoltatore le porte dell’album, “Necrogod” riservava i suoi momenti migliori nella propria parte discendente con le magnifiche “Kali Ma” e “Voodoo”.

La stessa cosa, tutto sommato, avviene qui, con i due brani più immediati e trascinanti, Nyctophilia e Vipra Negra, che arrivano dopo oltre tre quarti d’ora di musica che necessita d’essere lavorata con una certa pazienza. Tutto questo è paradossale, in fondo, se pensiamo che lo stesso Mancan ha dichiarato che questo lavoro sarebbe stato molto più melodico rispetto ai precedenti, a dimostrazione del fatto che ammorbidire il sound non significa automaticamente rendere la musica più immediata e meno profonda.

È innegabile che le sfuriate di “Necrogod” oggi vengano stemperate in una veste più vicina al gothic dark che al metal, andando a rivangare, di volta in volta, le forme più suadenti di band come Moonspell o Type 0 Negative, fermo restando il tratto originale che il gruppo potentino ha sempre esibito, sia pure mostrando le sue diverse anime.
Infatti, qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media; il loro quinto album (il quarto a partire dal 2010) può e deve essere quello della definitiva consacrazione, in grado di rompere le catene che imprigionano nel nostro paese, tranne rarissime eccezioni, chiunque provi a proporre musica dalle radici ben piantate nel metal.

A un disco come questo, infatti, non manca davvero nulla, in quanto possiede sia la giusta dose di orecchiabilità capace di far breccia anche in chi è meno avvezzo a sonorità più robuste, sia un compatto scheletro metallico in grado di far oscillare spesso il capoccione durante l’ascolto, sia infine quel peculiare gusto melodico mediterraneo che oggi propende più verso i Moospell che non ai Rotting Christ, le due band che costituiscono le estremità del territorio in cui gli Ecnephias si sono mossi in tutti questi anni. La scelta stessa di non intitolare il lavoro è il segno di quanto questo sia considerato dai suoi autori la summa di una già brillante carriera; un punto d’arrivo, per un verso, e nel contempo una base dalla quale muoversi per cercare di ampliare ulteriormente la propria notorietà fuori e dentro i confini nazionali.

Si è detto di una seconda metà dell’album probabilmente superiore a quella iniziale, ma sottovalutare l’intensità di brani quali The Firewalker, A Field of Flowers e Chimera sarebbe delittuoso; certo è che, a partire dalla a tratti pacata Tonight, con il suo splendido lavoro chitarristico, il disco subisce un’ulteriore impennata, prima con Lord Of The Stars, dove riappaiono parzialmente le evocative liriche in italiano, assenti in “Necrogod”, che ben si sposano con le melodie che vengono tessute dalla chitarra di Nikko e dalle tastiere di Sicarius, poi con la vera canzone killer del lavoro, Nyctophilia, il classico capolavoro che da solo varrebbe  un intero disco, grazie al suo refrain indimenticabile, ma che in questo caso è fortunatamente accompagnata da una serie di tracce degne del suo valore.

Detto di Vipra Negra, altro episodio simbolo che, volendo esemplificare al massimo, si può definire, almeno a livello di struttura musicale, la “A Satana” di Ecnephias, ho voluto lasciare per ultimo il brano che spicca sugli altri per la sua diversità, Nia Nia Nia, esperimento assolutamente riuscito nel suo intento di conferire al sound oscuro della band quegli elementi folk esaltati dall’utilizzo del dialetto lucano.

Ho già citato il pregevole lavoro di Nikko alla chitarra e di Sicarius alle tastiere, ma non va dimenticato il sobrio e preciso operato della coppia ritmica Miguel Josè Mastrizzi (basso) e Demil (Batteria), anche se, come è ovvio, i fari sono puntati su quello che degli Encephias è il leader storico, Mancan: il musicista potentino è indubbiamente uno dei vocalist più caratteristici dell’intero panorama metal, non solo tricolore, e continua a progredire in tal senso ad ogni album; le sue clean vocals sono ormai ben più che all’altezza di quelli che per timbrica e genere sono i suoi modelli di riferimento, e parlo di Fernando Ribeiro e del (mai abbastanza) compianto Peter Steele, mentre il suo growl è sempre corrosivo e di rara efficacia anche se, alla luce del mood meno estremo del disco, in alcuni passaggi il ricorso a questo stile vocale non appare più così necessario.

Gli Ecnephias del 2015 sono senza alcuna ombra di dubbio una di quelle band che all’estero ci invidiano e che da noi non trovano invece lo spazio che meriterebbero, un po’ per la difficoltà di chi si muove in questi ambiti nel divulgare la propria arte ad una cerchia più ampia di persone, ma soprattutto a causa del provincialismo che attanaglia l’intero movimento.

Sta agli appassionati (quelli veri) andare oltre questi limiti atavici per apprezzare, prima, e diffondere, poi, un altro grandissimo disco concepito e partorito all’interno della nostra feconda quanto contraddittoria penisola.

Tracklist:
1. Here Begins the Chaos
2. The Firewalker
3. A Field of Flowers
4. Born to Kill and Suffer
5. Chimera
6. The Criminal
7. Tonight
8. Lord of the Stars
9. Wind of Doom
10. Nyctophilia
11. Nia Nia Nia
12. Vipra Negra
13. Satiriasi

Line-up:
Mancan – Vocals, Guitars, Programming
Sicarius – Keyboards, Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass

ECNEPHIAS – Facebook

Soldiers Of A Wrong War – Slow

Bellissimi tre brani di rock moderno e molto melodico da parte dei Soldiers Of Wrong War.

Premessa: il genere proposto dai Soldiers Of A Wrong War non è sicuramente tra i miei preferiti, come sapranno i lettori di Iyezine, abituati a leggere i miei deliri su generi estremi o hard & heavy classico, ma questi tre brani raccolti nel mini Slow sono veramente belli, dall’enorme appeal, suonati benissimo e prodotti in modo professionale.

E ora via con le presentazioni: questa ottima band dedita ad un rock moderno, dai rimandi alternative e molto melodico, nasce nel 2007 ed hanno già licenziato due lavori, un Ep di tre brani nel 2009 ed il primo full length “Lights And Karma” nel 2011.
Tornano oggi con questo Ep e lo fanno con tre splendidi brani che uniscono una buona grinta ad un gusto melodico straordinario: eleganti e raffinati conquistano all’istante, non dimenticando di rockare con ottima verve.
Slow, Walls e Inside My Bones,  scritte da una delle band straniere che passano regolarmente sui canali satellitari avrebbero fatto sfracelli, ma la maggior parte di esse non ha neanche la metà del talento che dimostra il gruppo nostrano nel racchiudere in pochi minuti grinta e melodia, alternative e rock/pop in perfetto equilibrio e con un feeling straordinario.
A detta della band è stata una scelta ben precisa quelle la scelta di pubblicare un Ep convincente al 100%, puntando più sulla qualità che non sulla quantità; infatti un eventuale full length avrebbe del clamoroso se composto da canzoni di questo livello, cosa che auspico nel futuro prossimo del gruppo.
Spegnete la televisione e accendete lo stereo, mettetevi comodi e fatevi cullare dalla musica dei Soldiers Of A Wrong War, non ve ne pentirete.

Tracklist:
1.Slow
2.Walls
3.Inside My Bones

Line-up:
Luca “Difio” Del Fiore – voce, chitarra
Adin Sulic – basso
Luca Cek – chitarra
Simone Fava – batteria

SOLDIERS OF A WRONG WAR – Facebook

Villainy – The View From Ivory Tower

“The View From Ivory Tower” regala agli amanti del genere due ottimi brani

Provenienti dai Paesi Bassi, i Villainy sono una band death/crust nata nel 2010: nel 2013 licenziano il primo full-length dal titolo “Villainy I”, seguito quest’anno da una compilation contenente i due demo d’esordio.

Si ripresentano oggi tramite Hellprod con questo 7″ composto da due ottimi brani, The View from Ivory Tower, dall’andamento al limite del doom/death, e Heir To The Throne, dai ritmi più sostenuti e vicina all’hardcore/punk, caratterizzata da un ottimo lavoro della chitarra e dalle atmosfere rock’n’roll motorheadiane.
Due brani agli antipodi dunque, facce di una stessa medaglia che fa del metal fuori dagli schemi il punto di forza dei tre musicisti orange, con un ottimo impatto nella prima ed una buona attitudine nella seconda.
Jeroen Pleunis al basso e Bram Keijers alle pelli formano la solita sezione ritmica tutta potenza e velocità, mentre la chitarra di Reinien Vrancken (specialmente nel secondo brano) si crogiola in fiammate metal rock grintose e trascinanti.
Prodotto indubbiamente di nicchia, The View From Ivory Tower regala agli amanti del genere due ottimi brani e, per chi vuole avere tutto della band, un acquisto da compiere in fretta visto il limitato numero di copie disponibili.

TrackList:
Side A
1. The View from My Ivory Tower
Side B
2. Heir to the Throne

Line-up:
Jeroen Pleunis – Bass
Reinier Vrancken – Vocals, Guitars
Bram Keijers – Drums

VILLAINY – Facebook

6:33 – Deadly Scenes

“Deadly Scenes” è un’autentica bomba pronta a deflagrare e a conquistare il mondo, solo se chi di dovere (ovvero il pubblico) avesse orecchie per intendere …

“Che cos’è il genio?” si chiedeva uno dei protagonisti in uno dei film culto della commedia all’italiana, “Amici Miei”, e la risposta era: “È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione”.

Chiaramente la genialità in questione era rivolta alla messa in scena delle “zingarate” che sono passate alla storia della cinematografia nostrana ma, in fondo, buona parte di quella definizione si può tranquillamente applicare al disco di questi folli (e quindi geniali, le due cose, si sa, vanno spesso di pari passo) francesi chiamati 6:33.
Certo che, quando nelle note introduttive prodotte dalla Kaotoxin Records, ho letto riferimenti a Mike Patton e Devin Townsend, ovvero due dei massimi emblemi di “genio e sregolatezza” in ambito musicale, un po’ di paura l’ho avuta: in questi casi è un tutt’uno pensare: “oh mamma, chissà che minestrone indigeribile di vari generi dovranno sorbirsi le mie orecchie abituate al molto più lineare doom …”.
Niente di quanto paventato è finito tra i solchi di questo Deadly Scenes, anzi, le promesse della brillante label di Lille sono state mantenute alla grande: questo disco è un’autentica bomba pronta a deflagrare e a conquistare il mondo, solo se chi di dovere (ovvero il pubblico) avesse orecchie per intendere …
Bisogna tenere conto, inevitabilmente, della pigrizia mentale che equivale ad una sorta di Ebola per la maggior parte dei potenziali ascoltatori: proprio qualche giorno fa, parlando di musica con un mio coetaneo, ho dovuto sorbirmi la solita teoria secondo la quale, rispetto alle grandi band di 30-40 anni fa, non ci sia oggi più nulla meritevole d’essere ascoltato e bla bla bla; eppure, paradossalmente, questa persona conosce a menadito l’opera di un certo Frank Zappa, ovvero l’emblema di chi è diventato un mito facendo dell’imprevedibilità e della costante ricerca del melting pot musicale il proprio marchio di fabbrica.
Penso che il mai abbastanza compianto artista italo-americano sarebbe oggi tra i primi estimatori dei 6:33 : era infatti da molto tempo che non mi capitava d’ascoltare qualcosa di così fresco, accattivante, rutilante e innovativo; dove talvolta anche i nomi di grido falliscono, i cinque parigini riescono a tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore per quasi un’ora di balzi senza soluzione di continuità tra soul, funky, metal, pop, prog, swing e qualche altra mezza dozzina di generi musicali a caso che vi possano venire in mente, il tutto senza che vi sia una minima parvenza di frammentarietà o di forzatura.
Dopo poco più di venti minuti, questa congrega di malati di mente ha già sparato quattro brani epocali, capaci di farvi oscillare la capoccia e battere i piedi in maniera incontrollabile, roba che centinaia di musicisti venderebbero i propri cari per rubare almeno una delle innumerevoli intuizioni ivi contenute.
Ed il bello è che, arrivati all’ultima nota della clamorosa I’m a Nerd, col il suo delirante refrain sorretto dal suono di un banjo, non siamo nemmeno a metà di un percorso asimmetrico, solo apparentemente caotico, ma stracolmo invece di TALENTO, quello che, scritto in maiuscolo, è essenziale possedere per poter solo immaginare di comporre un album simile.
Ma alla fine, che vi sto a raccontare, intanto a parole non è possibile descrivere in maniera esauriente quanto contenuto in Deadly Scenes; vi invito caldamente, pertanto, a guardarvi qui sotto il video di Black Widow (il brano vero e proprio parte dopo 1:40), traccia che costituisce una sorta di compendio del disco, oltre che il pretesto per accompagnare la musica con immagini che, in ossequio all’imponderabilità della canzone, non avrebbero potuto in alcun modo essere banali.
Nel segnalare che, anche per cotanto spiegamento di creatività, i tredici minuti della conclusiva title-track risultano forse eccessivi, pur attestandosi ugualmente su livelli qualitativi che i più possono solo sognare, non resta che fare i complimenti a questo dinamico quintetto, capace di trasporre musicalmente nel migliore di modi le tonnellate di idee affiorate in sede compositiva; una particolare menzione va sia alla cura degli arrangiamenti vocali, grazie ad intrecci corali che ricordano ora la buonanima di Prince (ah, mi dicono che è ancora vivo, ma io lo intendevo deceduto musicalmente, scusate …), ora i Queen, ora addirittura i Gentle Giant (per chi se li ricorda), sia alle aperture melodiche repentine che, in certi passaggi, possono richiamare alla mente anche i migliori Pain Of Salvation (e, come nel caso della band di Daniel Gildenlöw, per i 6:33 si può parlare a pieno titolo di musica progressive, nel senso più letterale del termine).
Questi sono solo alcuni minimi accenni di tutti i riferimenti che a ciascuno potranno venire in mente durante l’ascolto (vi cito tra gli altri, doverosamente, il basso pulsante alla “Born To Be Alive” di Ego Fandango), all’interno di un lavoro che non esito a definire entusiasmante e che sta facendo proseliti anche nella clinica psichiatrica dove sono tuttora ricoverato per il mio pervicace rifiuto di spegnere il lettore MP3, bloccato in modalità repeat su Deadly Scenes
Primo botto discografico del 2015 !

Tracklist:
1. Hellalujah
2. Ego fandango
3. The walking fed
4. I’m a nerd
5. Modus operandi
6. Black widow
7. Last bullet for a gold rattle
8. Lazy boy
9. Deadly scenes

Line-up:
Rorschach – vocals
Niko – guitars
S.A.D. – bass
Howahkan Ituha – keyboards
# – keyboards

6:33 – Facebook

Unmercenaries – Fallen In Disbelief

“Fallen In Disbelief”, esordio degli Unmercenaries, si rivela in extremis una delle migliori uscita dell’anno in ambito doom.

Fallen In Disbelief, esordio degli Unmercenaries, si rivela in extremis la migliore uscita dell’anno nell’ambito del doom russo, una scena , questa, che ci aveva abituati molto bene negli anni passati ma che, nel 2014, non ha offerto stranamente lavori sopra la media, almeno nei suoi versanti più estremi quali funeral e death doom.

Gli Unmercenaries non sono certo degli sconosciuti, infatti trattasi di un progetto voluto da Gungrind, chitarrista degli Who Dies In Siberian Slush, il quale, ovviamente, alla voce non poteva che avvalersi di Evander Sinque, frontman di quell’ottima band nonché anima della MFL Records, la label moscovita (MFL è l’acronimo di Moscow Funeral League, per amor di precisione) che pubblica il lavoro; assieme ai due musicisti russi troviamo alla batteria Jürgen Fröhling dei My Shameful, mentre le tastiere sono suonate in veste di ospite dalla ben nota I.Stellarghost degli Abstract Spirit.
Inevitabilmente, specie nei primi due brani, affiorano tratti comuni con i WDISS e, francamente sarebbe stato strano il contrario, ma se ciò avviene è solo per una naturale contiguità stilistica e non a causa di un songwriting asfittico: infatti, se Among the Stars, traccia d’apertura, conserva quelle caratteristiche tipiche del doom moscovita prima d’aprirsi nella sua parte centrale a melodie struggenti delineate dalla brava tastierista, la successiva A Portal, dopo una breve e cacofonica sfuriata strumentale che ritroviamo anche in chiusura, si staglia in tutta la sua dolente solennità, andando a costituire un monolite di dolore nel quale la chitarra di Gungrind recita le proprie magnifiche litanie a supporto del ben noto growl di Evander; questo brano è in assoluto uno dei migliori ascoltati nel genere quest’anno, rivelandosi un’ipotetica summa tra i parametri della scuola ex-sovietica e l’influsso nobile degli Skepticism.
Circles Of Disbelief mantiene elevatissimo il pathos del lavoro e si rivela oltremodo interessante per la presenza alle clean vocals di Daniel Neagoe, il quale ricambia così il favore ad Evander, che aveva cantato una breve parte nel capolavoro degli Eye Of Solitude “Dear Insanity; come talvolta accade (e a mio avviso ciò non è in assoluto un male) la presenza dell’ospite indirizza in qualche modo il sound verso la band di appartenenza di quest’ultimo: è innegabile, infatti, che la traccia possieda i tratti malinconici e drammatici al contempo che contrassegnavano il precedente “masterpiece” degli EOS, “Canto III”. Considerando anche che Evander è uno dei pochi “umani” in possesso di un growl in grado di reggere il confronto con quello di Daniel, appare evidente che qui abbiamo tutti gli ingredienti per la riuscita di un altro brano magnifico, al quale le tastiere di I.Stellarghost donano davvero una particolare enfasi.
A Beggar’s Lesson si snoda per lo più su una linea melodica che richiama le atmosfere austere ed affascinanti dell’estremo est europeo, e la sua considerevole lunghezza viene stemperata da un finale molto evocativo che suggella in maniera ideale uno splendido album.
Senza dimenticare il prezioso contributo del drummer tedesco Jürgen Fröhling e dello stesso Gungrind per quanto riguarda la parte ritmica, l’unico rimpianto è che questo lavoro sia stato pubblicato successivamente alla compilazione delle inevitabili charts di fine anno; oddio, non credo il fatto di trovarsi tra i primi posti nella mia personale graduatoria avrebbe cambiato la vita agli ottimi Unmercenaries, ma è fuor di dubbio che un posticino tra i migliori 5 album doom dell’anno l’avrebbero tranquillamente trovato.
Poco male, per loro, e molto bene, invece, per noi appassionati, che ci ritroviamo come regalo di Natale (il disco è uscito proprio il 25 dicembre …) una nuova grande band capace di proporre ai massimi livelli il nostro genere preferito.

Tracklist:
1.Among the Stars
2.A Portal
3.Circles Of Disbelief
4.A Beggar’s Lesson

Line-up:
Gungrind – guitars,acoustic guitar,bass
E.S. – vocals
Jürgen Fröhling – drums

Guests:
I.Stellarghost – keys
Daniel Neagoe – additional vocals at “Circles Of Disbelief”

UNMERCENARIES – Facebook

Cvinger – The Enthronement Ov Diabolical Souls

I Cvinger si rivelano come una delle realtà più interessanti e in costante evoluzione nel panorama del black metal europeo.

Più o meno un anno e mezzo fa mi esprimevo in questi termini nei riguardi dei Cvinger, parlando del loro Ep “Monastery Of Fallen” : “Il potenziale espresso è davvero interessante, per cui appare più che lecito attendersi qualcosa di importante dal trio sloveno nell’immediato futuro”

Nel frattempo il trio è diventato un quartetto, con Obscurum a raggiungere i due fondatori Lucerus e Bagot e, inoltre, c’è stato anche un avvicendamento alla batteria, con Morgoth a sostituire Krieg Maschine; detto questo, per una volta le premesse sono state mantenute da una band alla quale era stato pronosticato un brillante futuro.
Checché ne possano pensare i soliti incontentabili, The Enthronement Ov Diabolical Souls è esattamente ciò che vorrebbe ascoltare oggi un appassionato del black più ortodosso, specie se orientato verso quello di scuola svedese: i ragazzi sloveni mettono sul piatto un album di tutto rispetto, cupo, cattivo, ottimamente suonato e prodotto, insomma ciò che serve per corrodere l’animo dei benpensanti ed evocare sentimenti morbosamente oscuri.
I Cvinger, salvo i tre brevi Chapter e le loro litanie, non indulgono in fronzoli o passaggi interlocutori: qui il black viene sparato in maniera diretta ma, nel contempo, tutt’altro che banale, visto che i brani risultano sufficientemente elaborati e per nulla scontati.
E’ evidente che la band di Domžale, per cercare di emergere dalla massa, invece di introdurre elementi innovativi nel proprio sound, ha optato invece per una sua estremizzazione, provando a risultare più violenta e corrosiva rispetto alla concorrenza, un progetto che per certi versi appare ancor più ambizioso e di difficile realizzazione che non quello di cercare strade alternative.
Per quanto mi riguarda la missione è compiuta: The Enthronement Ov Diabolical Souls è stata la colonna sonora perfetta per le mie festività natalizie, l’antidoto ideale per riuscire a sopravvivere senza restare invischiati nelle tonnellate di ipocrita melassa che ci viene scaraventata addosso ogni anno in questo periodo.
La prestazione vocale di Lucerus, capace di alternarsi tra screaming e growl sempre con esiti eccellenti, si rivela fondamentale per la resa di due brani come Reclaim the Crown, mid tempo miciadele, e Anguish in Ossuary, assolutamente travolgente con una chitarra a delineare una notevole lineaa melodica, inframmezzandola con rallentamenti mortiferi: sono questi, a mio avviso, gli episodi migliori di un album che, nel complesso, non tradisce le attese proponendo i Cvinger come una delle realtà più interessanti e in costante evoluzione nel panorama del black metal europeo.

Tracklist:
1. Chapter I: Charons Passage To The World Beyond
2. Anno Inferni
3. Summonig
4. Eikmus Manifestation
5. Bogs Of The Ancient Ones
6. Reclaim The Crown
7. Chapter II: Pass The Seventh Gate
8. Anguish In Ossuary
9. Vile Flesh
10. The Enthronement Ov Diabolical Souls
11. Chapter III: Amen II

Line-up:
Lucerus – Vocals,
Bagot – Guitars,
Obscurum – Bass,
Morgoth – Drums

CVINGER – Facebook

 

Mos Generator / Isaak – Split

Disco diviso a metà per due band che sono state separate alla nascita, almeno dopo l’ascolto di questo split album.

Disco diviso a metà per due band che sono state separate alla nascita, almeno dopo l’ascolto di questo split album.

Nel lato A troviamo i Mos Generator: il gruppo, di lunga militanza nella scena stoner rock americana, ci delizia con un pezzo di quasi dodici minuti che spazia davvero alla grande tra musica da colonna sonora di film anni settanta/ottanta a pezzaccio stoner settantiano.
La classe non è davvero acqua e i Mos Generator, con un pezzo che sembra davvero un manuale sonoro, si confermano una delle migliori band del panorama stonato, sebbene a mio avviso non godano della fama che meriterebbero.
Nell’altro lato troviamo gli Isaak: il gruppo genovese sta crescendo molto e, in questo caso, mette sul piatto un gran canzone di 16 minuti che conferma la sua inclinazione all’epicità.
Nati come gruppo stoner, gli Isaak si stanno evolvendo in qualcosa che non è ancora definitivo ma sta già dando grossi risultati e questo split è una tappa decisiva della loro crescita.
Eccezionale la copertina di Solomacello che, come è noto, fa anche i coperchi.

Tracklist:
Lato A : Mos Generator
Lato B : Isaak – The Choice

Line-up:

Mos Generator
Tony Reed
Shawn Johnson
Scooter Haslip

Isaak
Giacomo H Boeddu
Massimo Perasso
Andrea Tabbì De Bernardi
Francesco Raimondi

MOS GENERATOR – Facebook

ISAAK – Facebook

Frowning – Funeral Impressions

“Funeral Impressions” si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale viene esibita un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.

Dopo il riuscito split con gli Aphonic Threnody ritroviamo i Frowning, ovvero il progetto solista del musicista tedesco Val Atra Niteris, alle prese con la prima prova su lunga distanza.

Dopo aver ottenuto un deal prestigioso con quella che è ormai la casa madre del doom europeo, la label russa Solitude Productions, ed aver testato il responso degli appassionati con l’uscita in coabitazione con la band inglese autrice del recente “When Death Comes”, c’erano tutte le condizioni favorevoli perché questa opera prima potesse rivelarsi un nuovo importante tassello in ambito funeral.
Ebbene, si può affermare con certezza che le premesse sono state abbondantemente mantenute, visto che Funeral Impressions si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale Val sciorina un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.
Se la traccia strumentale Day In Black é un episodio meraviglioso quanto parzialmente atipico, nel corso del quale il musicista tedesco esibisce le proprie pregevoli doti di chitarrista, il resto del lavoro si snoda sui ritmi rallentati allo spasimo che il genere impone, raccogliendo svariate influenze, quali soprattutto Mournful Congregation ed Evoken tra quelle dichiarate, oltre ad Ea e Eye Of Solitude per quanto concerne la ricerca della melodia all’interno di partiture gonfie di una malinconica oppressione.
Emblematico in tal senso un brano come Sleep Eternally, che brilla per una parte centrale realmente da brividi, con una chitarra che esprime un dolore quasi lancinante nel suo splendido sviluppo melodico.
E, in effetti, il lavoro prende ulteriormente quota da questo brano fino alla sua conclusione, con le più lunghe ed altrettanto valide Murdered by Grief e A Way into Relief, evidenziando una piacevole progressione che consente al’ascoltatore di mantenere sempre viva l’attenzione.
Frowning si conferma così un altro nome certo sul quale contare negli anni a venire: alla creatura di Val Atra Niteris non manca proprio nessuna delle peculiarità che rendono il funeral doom una delle più efficaci rappresentazioni artistiche del dolore e dell’angoscia destinate ad attanagliare, prima o poi, ogni essere umano.

Tracklist:
1. Intro
2. Obsessed
3. Receive my Tears
4. Day in Black
5. Sleep Eternally
6. Murdered by Grief
7. A Way into Relief

Line-up:
Val Atra Niteris Everything

FROWNING – Facebook

Mortual – Autumn Requiem

Ottimo esordio per i polacchi Mortual: black/death, gothic e dark al servizio di un’opera sognante e di non facile catalogazione.

Siamo ormai giunti alla fine di questo anno, l’inverno si sta prendendo il suo dovuto spazio nel ciclo continuo delle stagioni, i colori si spengono, ed il buio ci accompagna attraverso i mesi più freddi: una stagione perfetta, intrisa di atmosfere plumbee che invogliano ad ascoltare opere dai connotati melanconici, introspettivi, dark.

In nostro aiuto viene l’amato mondo metallico che, con i suoi svariati generi ha di che tenerci compagnia quando le giornate si fanno corte e la tristezza accompagna la voglia di fuggire dal mondo esterno, magari ascoltando opere sognanti e malinconiche come Autumn Requiem dei polacchi Mortual.
Lavoro ambizioso quello della band di Trzebenica, un concept incentrato sulla vita e le battaglie introspettive di un poeta e, per questo, molto drammatico, operistico, e sognante.
Tutto meno che monocorde, l’album musicalmente è composto da un’ottima commistione di vari generi, dai più estremi come il black/death nelle parti più drammatiche, al gothic/dark nei numerosi ed emozionanti passaggi dove i suoni rallentano per far sognare, con ottimi interventi classici mai pomposi.
Le atmosfere cangianti rendono questo lavoro di difficile catalogazione e i brani mediamente lunghi ne fanno un disco da assaporare lentamente, per far nostre tutte le varie sfaccettature che compongono un songwriting molto maturo per una band all’esordio.
Bellissimi gli innumerevoli interventi pianistici e l’uso delle voci, che passano dal growl al recitato fino all’ottima voce femminile (Marta Wolak), elegante, delicata ed ugualmente dai tratti dark.
Continui e ripetuti cambi di tempo, danno ad Autumn Requiem quel tocco prog che alza la qualità di un lavoro davvero bello, emozionante, almeno per chi, delle atmosfere di cui è pregno il lavoro, ne apprezza l’enorme potenziale poetico, ammantato di una malinconia che, a tratti, si fa tragica come i temi di cui il giovane ed immaginario poeta si fa cruccio (amore, morte, fede).
Più di un’ora di musica che è un viaggio nell’io del protagonista ma che potrebbe benissimo essere il nostro, almeno quello di chi ha la sensibilità di confrontarsi con argomenti troppe volte lasciati in sospeso per rincorrere la vita di tutti i giorni, lasciando la nostra vera essenza in balia dei mille problemi di una vita spesso fatta di una superficialità esasperante.
Tra i brani, magnifici risultano i sedici minuti di The Crucible: Prologue, Rainy Ballad e la lunghissima ed affascinante title-track; l’intero album si rivela comunque di assoluto livello ed i Mortual sono decisamente una band dalle potenzialità enormi, migliorabile forse nelle parti più tirate, ma perfetta in quelle atmosferiche.
Fatevi un favore, ascoltateli.

Tracklist:
1. Lisa’s Memory
2. Anhedonia
3. My Apocalypse
4. The Crucible: Prologue
5. Rainy Ballad
6. Lullaby of the Damned
7. Lethargy
8. Autumn Requiem

Line-up:
Michal Zuk – Drums, Tambourine, Glasses, Seashells (Track 4;  Scene III, Tracks 6,8)
Wojtek Michalowski – Vocals, Keyboards
Piotrek Bocian – Guitars, Bass
Czarek Michalkiewicz – Guitars
Marta Wolak-Female – Vocals

MORTUAL – Facebook

Ancillotti – The Chain Goes On

Elegante,metallico, epico, struggente, esaltante, in poche parole un must per gli appassionati dell’hard & heavy.

I lettori della nostra ‘zine che all’apertura della home cliccano sulla sezione metal, non avranno certamente bisogno che mi dilunghi per presentare Bud Ancillotti, un nome che è strettamente legato ad una band leggendaria dell’hard & heavy nazionale come la Strana Officina.

Il singer, accompagnato dal figlio Brian dietro le pelli e dal fratello Sandro al basso, con l’aggiunta dell’ottimo Luciano Toscani alla sei corde, arriva all’esordio sulla lunga distanza (dopo il demo “Down This Road Toghether”) con il progetto che porta il suo glorioso cognome.
Licenziato dall’etichetta tedesca Pure Steel Records, firma di prestigio per i suoni heavy classici, The Chain Goes On aggiunge un’altra tacca sull’asta del microfono del vocalist nostrano, risultando un ottimo lavoro, suonato e prodotto benissimo, uno splendido spaccato di hard & heavy tradizionale che , inevitabilmente, porta alla mente (specialmente a chi quei gloriosi anni li ha vissuti) il passato di una musica che molti danno per morta ma che, al contrario, non solo è la fonte da cui nasce l’immenso fiume metallico, ma vive ed è perfettamente in salute, magari lontana dai riflettori ma sempre fiera ed assolutamente protagonista.
Una raccolta di brani rocciosi dove la grintosa voce di Bud declama anthem metallici, esaltanti, un songwriting sopra le righe che regala momenti pregni di quel sano heavy metal di cui non ci si può che innamorare, acciaio che fonde e si modella tra ritmiche ruvide ma dall’enorme appeal, solos sferraglianti e ballad splendide (Sunrise), a comporre un lavoro completo, curato ed elettrizzante dalla prima all’ultima nota.
Bang Your Head mette subito in chiaro che qui si fa hard rock al suo massimo livello, seguita dalla veloce Cyberland, ma siamo solo all’inizio, perché irrompe poi uno dei brani più belli del disco, Victims Of The Future, cadenzata, sostenuta da un riff mastodontico e da una prova di Bud da applausi: sanguigno ma allo stesso tempo elegante, il singer toscano invita a sedersi al banco e con attenzione seguire la lezione su come si canta su un album di questo tipo.
The Chain Goes On scorre che è un piacere tra canzoni eccezionali come Legacy Of Rock (un brano che i Saxon non scrivono più da vent’anni), I Don’t Wanna Know, Warrior e la già citata e bellissima Sunrise.
Elegante, metallico, epico, struggente, esaltante, in poche parole un must per gli appassionati dell’hard & heavy: l’esordio della band toscana regala brividi a profusione, colmando il vuoto delle uscite discografiche in questo genere, specialmente a questi livelli, aspettando il singer con una nuova prova degli altrettanti grandi Bud Tribe.

Tracklist:
1. Bang Your Head
2. Cyberland
3. Victims of the Future
4. Monkey
5. Legacy of Rock
6. Liar
7. I Don’t Wanna Know
8. Devil Inside
9. Warrior
10. Sunrise
11. Living for the Night Time

Line-up:
Sandro “Bid” Ancillotti – Bass
Brian Ancillotti – Drums
Luciano “Ciano” Toscani – Guitars
Daniele “Bud” Ancillotti – Vocals

ANCILLOTTI – Facebook

Jupiterian – Archaic

I brasiliani Jupiterian fanno il loro esordio con questo ep all’insegna di un death doom dai connotati piuttosto tradizionali.

I brasiliani Jupiterian fanno il loro esordio con questo ep all’insegna di un death doom dai connotati piuttosto tradizionali.

Se il Brasile ha dato alla luce band formidabili in ambito power (Angra) o death/thrash (Sepultura), lo stesso non si può dire per il doom, dove le uniche realtà di una certa rilevanza, resesi protagoniste comunque di buone uscite in tempi recenti, sono i Mythological Cold Towers e gli HellLight, nomi comunque di non primissima fila; se vogliamo, il sound dei Jupiterian si rifà maggiormente ai lavori più datati dei primi pur senza toccarne le vette a livello di epicità.
Soprattutto nei primi due brani, Archaic fa emergere una band piuttosto consistente, in grado di trasformare un approccio relativamente grezzo in qualcosa di davvero efficace: un buon growl, riff pastosi e dilatati e una discreta vena evocativa rendono la title-track e Procession Towards the Monolith tracce senz’altro valide, a testimonianza di un potenziale da non sottovalutare.
Meno efficace, in quanto appesantita da soluzioni ripetitive, appare invece la conclusiva Currents of Io, che pure mostra alcuni sprazzi pregevoli, ma con l’aggravante di diluirli in oltre dieci minuti di durata, nel corso dei quail i Jupiterian propongono tutti gli stilemi del genere.
Decisamente valida quindi la prima metà del lavoro, al contrario della seconda che invece evidenzia qualche limite della band paulista.
Per sapere quale dei due volti sia effettivamente quello più rappresentativo dei Juptiterian non resta che attenderli alla prova del full-length, collocandoli per ora nel novero delle band da tenere sotto osservazione.

Tracklist:
1. Archaic
2. Procession Towards the Monolith
3. Currents of Io

Line-up:
R – Bass
G – Drums
A – Guitars
V – Vocals, Guitars

JUPITERIAN – Facebook

Abysmal Growls of Despair / In Lacrimaes Et Dolor / Until My Funerals Began – In Memoriam

Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.

Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.

Abysmal Growls Of Despair, In Lacrimaes Et Dolor e Until My Funerals Began sono tre progetti solisti rispettivamente provenienti da Francia, Italia e Ucraina e l’opera di assemblaggio è avvenuta grazie all’operato dell’attiva label russa GS Productions, che abbiamo imparato a conoscere grazie ad altri split album con protagonisti di livello quali, tra gli altri Aphonic Threnody, Ennui e Frowning.
La peculiarità di questo lavoro è, intanto, quella di mostrare tre maniere differenti di approcciarsi alla materia, anche se, ovviamente. per saper cogliere tali sfumature è necessario avere una certa dimestichezza con il genere.
L’apertura è affidata alle due tracce degli Abysmal Growls Of Despair, progetto dell’iperattivo musicista di Tolosa, Hangvart: ben quattro, infatti, sono gli album pubblicati negli ultimi due anni, tre dei quali solo nel 2014.
Rispetto ai compagni di split, il transalpino è quello che propone una versione decisamente meno accessibile del funeral, nonostante il primo dei due brani a sua disposizione, Nimis Sero, sia in effetti la pregevole rilettura di un tema arcinoto come quello della marcia funebre di Chopin: le atmosfere restano quasi sempre opprimenti, complici un growl che è soprattutto un rantolo e una scrittura pressoché priva di particolari aperture, benché in Quiet Moments faccia capolino una minima parvenza di melodia che attenua solo parzialmente il senso di soffocamento, sintomo di un dolore che implode letteralmente piuttosto che trovare uno sbocco verso l’esterno.
Superata questa fase di non facile decrittazione, le due tracce affidate agli In Lacrimaes Et Dolor di Dany Noctis, musicista residente a Macerata ma originario dell’est europeo, spostano gli scenari su terreni parzialmente più accessibili.
Dolor Aeternum e On Death’s Row sono le nuove testimonianze di un talento musicale al quale non manca davvero nulla per raggiungere i vertici qualitativi del genere: il suo funeral è decisamente melodico e atmosferico ma rifugge ogni banalità, arricchito com’è da una sensibilità artistica e personale che va a riversarsi in toto nelle composizioni. Se Dolor Aeternum è un bel brano, con l’uso delle clean vocals che ricorda parzialmente i Pantheist più recenti, On Death’s Row è una traccia magnifica che sfoggia una linea portante dal grande potenziale evocativo.
Ritroveremo tra breve gli In Lacrimaes et Dolor alle prese con un altro split, questa volta a quattro, con la presenza tra gli altri degli Aphonic Threnody, il cui cantante Roberto Mura (anche Arcana Coelestia e Urna) ha curato assieme a Dany stesso la parte grafica di In Memoriam, non facendo nulla per nascondere gli orrori della guerra e la stupida caducità del genere umano, anche attraverso immagini piuttosto crude.
Il compito di chiudere l’album è affidato agli Until My Funerals Began di Rumit, che è proprio di Donetsk, ovvero la città all’interno dei confini ucraini che più di altre è stata funestata da morti di civili derivanti dal conflitto. Luctus è un brano già edito, per l’esattezza nell’Ep “May 2, 2014”, ed è costituito principalmente da una musica carica di tensione emotiva che funge da accompagnamento a voci campionate connesse alla guerra in atto, mentre Burn My Flesh è un’altra traccia dall’elevato tasso di drammaticità che conferma quanto di buono era già emerso dal precedente full-length “False Horizon”.
E’ indubbio il fatto che Rumit, toccato molto da vicino dagli eventi che vengono trattati in questo lavoro, sia riuscito ad imprimere nelle proprie composizioni quel qualcosa in più in grado di far risaltare in maniera quasi fisica rabbia, dolore e disperazione.
Uno split album decisamente riuscito, quindi: per qualcuno magari potrebbe costituire lo spunto per informarsi meglio riguardo ad avvenimenti che superficialmente si tendono a sottovalutare in quanto lontani geograficamente ma che, in realtà, sono molto più vicini a noi di quanto vogliamo ammettere.
L’album può essere acquistato presso la GS Productions oppure contattando direttamente le band.

Tracklist:
1.Abysmal Growls Of Despair – Nimis Sero
2.Abysmal Growls Of Despair – Quiet Moments
3.In Lacrimaes Et Dolor – Dolor Aeternum
4.In Lacrimaes Et Dolor – On Death’s Row
5.Until My Funerals Began – Burn My Flesh
6.Until My Funerals Began – Luctus

GS PRODUCTIONS
ABYSMAL GROWLS OF DESPAIR – Facebook
IN LACRIMAES ET DOLOR – Facebook
UNTIL MY FUNERALS BEGAN – Facebook

Soman – World On Fire

“World On Fire” è il racconto di un mondo che sta bruciando, la morte di una civiltà che è solo supposta tale e di un pianeta condannato alla fine dal nostro disgraziato vivere.

Brutalità death in arrivo da Genova, con questo grande album di debutto: i Soman sono dei giovani ragazzi attivi come gruppo dal 2011, con tanta voglia di fare death metal.

I vecchi saggi della Buil2Kill li hanno prontamente messi sotto contratto ed ecco uscire World On Fire; diciamo che il disco è la colonna sonora di una devastazione su scala planetaria neanche troppo futura.
I riferimenti sono certamente ai grandi nomi della scena, Carcass, Misery Index e una spruzzata di Black Dahlia Murder, ma i Soman sono un gruppo che fin dalle prime battute riesce ad imprimersi molto bene nella testa dell’ascoltatore.
Infatti, da tempo non mi capitava di sentire una band death così potente ed originale; intendiamoci, nel death metal difficilmente si inventa qualcosa, ma questi ragazzi genovesi lo fanno in una maniera in stile “Miasma” dei Black Dahlia Murder, ovvero giovinezza, freschezza ed un talento innato che li porta direttamente al livello di gruppi ben più blasonati. World On Fire è il racconto di un mondo che sta bruciando, la morte di una civiltà che è solo supposta tale e di un pianeta condannato alla fine dal nostro disgraziato vivere.
Se tale è l’inizio, i Soman sono un gruppo dal futuro molto luminoso, ma basta il questo presente con  World On Fire.
Risparmiatevi l’ultimo degli Obituary e spendete qualche euro per il futuro del metal, comprando questo disco, album dell’anno death metal, senza se e senza ma.

Tracklist:
1 Genesis
2 Symphony Of War
3 World On Fire
4 Doomsday
5 Fatman
6 Fallout
7 Matrioska
8 Meatgrinder
9 Skullcup
10 Demon’s Coffin
11 The Last Exhalation

Line-up:
Stefano Rodano – Voce
Pietro Giovani – Chitarra
Luca Ansevini – Chitarra
Maurizio Caviglia – Batteria
Mattia Merlo – Basso

SOMAN – Facebook

Sickness – Plague

Compilation a cura della Delusions of Grandeur contenente l’intera produzione dei deathsters americani Sickness.

Plague rappresenta un piccolo framento di storia del death metal statunitense: i floridiani Sickness, infatti, pubblicarono tre lavori tra il 1994 ed il 1997, ovvero il demo “Torture Of Existence”, il full-length “Ornaments Of Mutilation” e l’ultimo vagito prima del scioglimento, un altro demo intitolato semplicemente “Promo 97”.

La Delusions Of Grandeur immette sul mercato, a distanza di diciassette anni, questa compilation che raccoglie praticamente tutto ciò che la band ha prodotto nei tre anni di attività, un buon modo per conoscere una realtà “minore” a livello di popolarità, ma certo non come qualità del prodotto.
Infatti il gruppo, armato di tutto punto, spaccava alla grande, il suo death metal ai confini con il brutal, prendeva spunto sia dalle band madri del genere (Obituary) sia da quelle più brutal-grind (Brutal Truth), offrendo un crescendo di devastante metal estremo senza soluzione di continuità.
Eric Dillon e Gus Rios, rispettivamente basso e batteria, formavano una sezione ritmica dedita al massacro totale, la coppia d’asce formata da Hector Rios e Sergio Cesario, costruiva un wall of sound di riff e solos sempre al limite, mentre Kyle Symons, con un passato nei seminali Malevolent Creation, così come il batterista, cantava di torture e necrofilia in pieno stile Cannibal Corpse.
Una ventina di tracce ci fanno capire di cosa erano capaci, in termini di violenza sonora, le band di quei gloriosi anni, che comunque tenevano sempre d’occhio la musicalità dei brani, molti dei quali davvero notevoli.
I brani provenienti da “Ornaments Of Mutilation” erano eccezionali ed andavano a comporre un album di grande levatura, a suo modo un piccolo gioiello di metal estremo che, grazie a questa operazione, non è finito perso nell’oblio dei meandri dell’underground.
Ottima scelta, dunque, questa compilation della Delusions Of Grandeur, e una buona occasione per conoscere una band vissuta all’ombra dei grandi gruppi della famigerata Bay Area, ma assolutamente in grado di competere con le band più famose.
Un disco consigliato anche agli appassionati più giovani per riscoprire una band di quell’epoca storica, con la speranza che questa compilation possa costituire anche lo spunto per una reunion.

Tracklist:
1. Murder King
2. Plague
3. Yes I Killed Her
4. Controlled With a Knife
5. No Means Yes
6. Domestic Entrallment
7. Food for Worm
8. Union of the Sick
9. Your Time Has Come
10. Anatomy of Murder (Rerecorded Version)
11. I Am Christ (Rerecorded Version)
12. Anatomy of Murder
13. Cold Bitch
14. Necrosick
15. Burn the Soul
16. Putrid Incest
17. Postmortal Ceremony
18. Deceased
19. I Am Christ

Line-up:
Eric Dillon – Bass
Gus Rios – Drums
Hector Rios – Guitars
Sergio Cesario – Guitars
Kyle Symons – Vocals

De Puglia Madre – 100 % Trazzcore

Band pugliese con un suono demolitore, un strano tipo di metal di grande effetto: il trazzcore.

Band pugliese con un suono demolitore, un strano tipo di metal di grande effetto: il trazzcore.

Provenienti da Ascoli Satriano, i De Puglia Madre, o meglio ditta demolizione De Puglia Madre, si sono formati appunto per demolire con il loro suono , che è potente e devastante, con una struttura nu metal ma con uno stile molto particolare, a partire da una pesantezza davvero voluminosa ed al cantato in italiano che si rivela una scelta azzeccata.
Il trazzcore è un animale ferito sull’asfalto che, nel finire i suoi giorni, uccide ancora e lo fa con ancor più rabbia contro tutto e tutti.
Difficilmente in Italia si sentono dischi di questo tipo e di questo livello, con una produzione più che buona nonostante sia artigianale, ma forse la sua forza è proprio in questo.
I De Puglia Madre sono un gruppo che impressiona fin dal primo ascolto e sicuramente i metallari più contaminati apprezzeranno questo disco: a me ha fatto davvero piacere sentirlo e sta in continuo nelle mie orecchie.
Il cantato in italiano è un qualcosa che li rende molto particolari e soprattutto dona moltissimo alla loro musica, la nostra metrica si rivela perfetta per i De Puglia Madre.
Un’ altra loro particolarità è l’uso del basso a sei corde suonato con attitudine chitarristica e che rende il tutto più cupo.
I testi perfettamente intelligibili sono notevoli e parlano delle malattie mortali delle nostre società, del nostro essere isole, della merda che ci sta in giro, e lo fanno molto bene.
Una conferma che in certi ambiti di provincia il metal arriva davvero a toccare vette alte, tutto ciò partendo dal basso.

Tracklist:
1. Rimorso
2. Amico Nemico
3. Collasso
4. Sotto Controllo
5. Millennio
6. Indiani
7. Metamorfosi
8. Demoni Dentro
9. Mamba Negro

Line-up:
Francesco Petrillo – Batteria
Antonio Perruggino – Chitarra
Danilo Moscano – Voce
Stefano Cautillo – Basso Sei Corde

DE PUGLIA MADRE – Facebook

Aphonic Threnody – When Death Comes

Dopo un Ep e due split album gli Aphonic Threnody giungono al full-length d’esordio non tradendo le attese che i lavori in coabitazione con gli Ennui prima, e con i Frowning poi, avevano indubbiamente creato.

Dopo un Ep e due split album gli Aphonic Threnody giungono al full-length d’esordio non tradendo le attese che i lavori in coabitazione con gli Ennui prima, e con i Frowning poi, avevano indubbiamente creato.

Nell’occasione avevo benevolmente bacchettato il combo di Riccardo Veronese affermando che, mettendo assieme le tracce presenti nei due split, ne sarebbe venuto fuori un album eccellente invece di disperdere tale potenziale in uscite diverse.
Non ho certo cambiato idea al riguardo, ma per fortuna il musicista inglese ha messo sul piatto un’altra ora abbondante di funeral death-doom di grande spessore, dimostrando una vena compositiva decisamente molto fertile.
Veronese, che ritroviamo anche con altre due ottime band come Gallow God e Dea Marica, negli Aphonic Threnody si avvale della collaborazione di nostri due connazionali, i sardi Roberto M. alla voce (Dea Marica, Arcana Coelestia, Urna) e Marco Z. (Arcana Coelestia, Urna), del belga Kostas P. alle tastiere (Pantheist, Clouds), il quale, con questo disco, ha concluso la sua collaborazione con la band, e dell’ungherese Abel L. al violoncello.
Il ricorso a line-up dalle nazionalità variegate pare essere una costante per le band dedite al doom di base a Londra, basti pensare anche agli Eye Of Solitude: probabilmente è un caso, visto che spesso il peso compositivo ricade su un solo componente, ma verrebbe da pensare che questi autentici mix culturali siano in grado di far scoccare la scintilla in grado di accendere la creatività di tutti i musicisti coinvolti.
When Death Comes è, infatti, un lavoro magnifico, che rappresenta esattamente ciò che un appassionato di questo genere vorrebbe sempre ascoltare: linee chitarristiche struggenti, tastiere avvolgenti, capaci di evocare atmosfere solenni e drammatiche allo stesso tempo, un growl di rara efficacia, una base ritmica dinamica nonostante l’andamento sia inevitabilmente compassato, ed il violoncello che, in diversi frangenti assesta ai brani un’ulteriore pennellata di tinte oscure e malinconiche.
Indubbiamente la prima mezz’ora del disco è stupefacente per la bellezza delle linee melodiche proposte da Riccardo, capaci di far piombare l’ascoltatore in un’ovattata sensazione di ineluttabile dolore, facendo sì che la lunghissima Death Obsession finisca per essere un ideale prolungamento portato alle estreme conseguenze della già splendida traccia d’apertura The Ghost’s Song.
Dementia non è certo un brano trascurabile, ed è forse quello più vario all’interno della tracklist, ma risente parzialmente della sua collocazione immediatamente dopo questi due dolenti monoliti sonori, rispetto ai quali risulta meno evocativo.
The Children’s Sleep riporta le coordinate sonore verso vette emotive non comuni , grazie anche al contributo di ospiti illustri quali sua maestà Greg Chandler (Esoteric) alla chitarra e David Unsaved (Ennui) alle backing vocals.
Due minuti di delicati tratteggi pianistici introducono la nuova straziante esibizione di angoscia e sofferenza rappresentata da Our Way To The Ground, un altro brano, l’ultimo, che ci consegna una band capace di collocarsi al primo colpo ai piani nobili del funeral death-doom melodico, divenendo così un nuovo punto di riferimento per gli adoratori di Saturnus, Officium Triste e, ovviamente, My Dying Bride.

P.S. : l’ascolto di “When Death Comes” in funzione della scrittura della recensione è coinciso con un evento tragico che ha colpito persone alle quali sono molto legato: questo, indubbiamente, mi ha fatto trovare privo di difese di fronte alla sofferenza evocata dagli Aphonic Threnody, costringendomi a versare infine quelle lacrime liberatorie che, fino ad un certo punto, ero riuscito a trattenere.
Queste righe sono dedicate ad Ale, che un destino atroce ha sottratto a genitori ed amici troncando bruscamente quello che sarebbe dovuto essere il suo lungo cammino su questa terra …

Tracklist:
1. The Ghost’s Song
2. Death Obsession
3. Dementia
4. The Children’s Sleep
5. Our Way to the Ground

Line-up:
Riccardo V. – Guitars, Bass
Roberto M. – Vocals
Abel L. – Cello
Marco Z. – Drums
Kostas P. – Keyboards, Piano

Guests :
Greg Chandler – Guitars on “The Children’s Sleep”
Josh Moran – Guitars on “Dementia”
David Unsaved – Backing Vocals on “The Children’s Sleep”

APHONIC THRENODY – Facebook

Dead Alone – Nemesis

Lasciatevi rapire dalla musica dei Dead Alone, Nemesis vi entrerà dentro per non lasciarvi più, impossessandosi del vostro corpo e della vostra anima.

Quarto, bellissimo lavoro per i tedeschi Dead Alone: Nemesis raccoglie in sessanta minuti molte delle sfumature del metal estremo ed in un unico cd le amalgama per creare un sound nero come la pece.

Black, death, doom ed atmosfere dark per un’opera che affascina, colma com’è di elementi che, specialmente in Europa, hanno trovato negli anni molti estimatori.
A dispetto di un’età media dei musicisti bassa, la band sforna album dal 2006, con l’esordio “Silvering Marrow”, da lì in poi un’uscita ogni due anni, il che dimostra come il gruppo cose da dire ne abbia molte.
L’ep “Phobia” del 2008 e poi due full-length, “Vitium” e “Ad Infinitum”, tracciano la strada che porta all’arrivo dell’ottimo Nemesis, licenziato dalla Supreme Chaos.
Il sound della band è un magniloquente death/doom che, nelle parti veloci, viene violentato da ritmiche black, sempre cattivo, disperato, buio, colmo di quella oscurità che ne fa un prezioso diamante nero.
Scordatevi soluzioni ruffiane di moda negli ultimi tempi: Nemesis è estremo, come deve esserlo un’opera dove la struttura portante dei brani si nutre dei generi elencati, lasciando alla sola The Awakening, posta in chiusura, qualche accenno orchestrale (arrangiata da Christos Antoniou, già con Septic Flesh e Chaostar), non lasciando tregua dal primo all’ultimo minuto, ed è facile annegare in un mare di suoni tremendamente oscuri ma molto affascinanti.
La musica dei Dead Alone risulta, così, pregna di quelle inevitabili influenze, per niente scontate, riscontrabili nel black/death dei polacchi Behemoth, rallentati dal death/doom suonato dalle band greche, Septic Flesh su tutti, ma anche Nightfall, con accenti meno orchestrali ma molto più estremi, lasciando che le atmosfere dark che aleggiano nelle canzoni si presentino a noi come fantasmi in un vecchio maniero, raggelando l’atmosfera che si fa inquietante ad ogni passaggio.
I Dead Alone dimostrano una maturità ed una personalità da gruppo ormai scafato, e ciò rende inevitabilmente Nemesis un’opera riuscita, che ha nelle stupende Great New World, Confession e Watch Me Fall i picchi di un lavoro che piacerà proprio per il suo eclettismo ad ascoltatori abituati a suoni diversi, ma uniti sotto questo tetto fatto di ottime note oscure.
Lasciatevi rapire dalla musica di questi quattro musicisti tedeschi, Nemesis vi entrerà dentro per non lasciarvi più, e come un demone si impossesserà del vostro corpo e della vostra anima. Da avere.

Tracklist:
1. Nemesis
2. Eclipse
3. Great New World
4. Of Ash & Flesh
5. Confession
6. Wreckage
7. Watch Me Fall
8. As Worlds Collide
9. Shade
10. The Awakening
11. Confession (Alternative Mix) *

Florian Hefft – Bass, Vocals
Martin Hofbauer – Guitars
Sebastian Bichler – Drums
Fred Freundorfer – Guitars

DEAD ALONE – Facebook

Folkstone – Oltre… L’Abisso

Un album che è una perla per chi vuole provare emozioni diverse in un’epoca di plastificazione del passato e desertificazione del presente, per non parlare di un futuro che non esiste.

Nuovo disco per il migliore gruppo folk metal italiano e non solo: tornano i Folkstone con il loro quinto album in studio e con la loro miscela di metal e musica medioevale, ma sotto c’è molto di più.

La fantastica produzione di questo disco mette in risalto la grandezza dei Folkstone i quali, con un tappeto di musica dura, strumenti medioevali e melodie che abbiamo ormai dimenticato, scrivono testi bellissimi e davvero inediti alle nostre latitudini. Nel folk metal è facile cadere nel ridicolo, tentando di scimmiottare musiche ed atteggiamenti del passato, mentre è altrettanto difficile fonderli con la modernità musicale. I Folkstone riescono dove molti falliscono e vanno anche oltre, ponendosi davvero nella prospettiva di antichi cantori dei borghi medioevali dell’Alta Italia, in un epoca che ha lasciato tracce indelebili nella nostra cultura. Durante tutto il loro percorso i Folkstone hanno sempre avuto ben chiara in testa la direzione e questo disco è il compimento, non necessariamente un arrivo definitivo, della loro poetica. Per chi non avesse ancora letto la bibbia del folk metal, il libro “Folk Metal” di Fabrizio Giosuè, il genere è un universo affollatissimo nel quale la bellezza convive con la faciloneria e tanto altro. Con Oltre … L’Abisso i Folkstone mostrano d’essere una delle migliori band del movimento, le loro liriche sono incredibili e sembrano davvero scritte in un tempo ormai andato: per esempio L’Ultima Notte è davvero una canzone ansiogena, per come descrive gli ultimi momenti di vita della vittima di razzia notturna in un villaggio, mentre In Caduta Libera, scelto come singolo, è una chiarissima dichiarazione d’intenti. Compare anche una bellissima interpretazione di Tex, dei Litifiba, e non deve stupire poiché i primi Litfiba sono molto vicini ai Folkstone. Ogni passaggio del disco, ogni giro di chitarra e ritmo di batteria è curato in tutti i particolari ed è un valore aggiuntivo per un’opera già di per sé ottima. Un album che è una perla per chi vuole provare emozioni diverse in un’epoca di plastificazione del passato e desertificazione del presente, per non parlare di un futuro che non esiste. Ma la forza può arrivare da un passato che in fondo è dentro a tutti noi. O se va male può essere una grande festa e basta.

Tracklist:
1. In Caduta Libera
2. Prua Contro Il Nulla
3. La Tredicesma Ora
4. Mercanti Anonimi
5. RespiroAvido
6. Manifesto Sbiadito
7. Le Voci Della Sera
8. Nella Mia Fossa
9. Fuori Sincronia
10. Soffio Di Attimi
11. L’Ultima Notte
12. Ruggine
13. Tex ( Litfiba )
14. Oltre… L’Abisso

Line-up:
Lore – Bagpipes, Bombard, Flute, Vocals (lead)
Roberta – Bagpipes, Bombaurd, Vocals
Andrea – Bagpipes, Percussions, Vocals
Matteo – Bagpipes, Vocals
Edoardo – Drums
Maurizio – Guitars, Bagpipes, Citern, Woodwind instruments
Federico – Bass
Silvia – Harp, Tambourine, Percussions
Luca – Guitars

FOLKSTONE – Facebook

My Shameful – Hollow

I My Shameful sciorinano oltre un’ora di dolorose litanie prive di sbocchi atmosferici ma intrise di un mood opprimente.

Per essere una band dedita al funeral-death doom, i finlandesi My Shameful sono senz’altro piuttosto prolifici, visto che Hollow è il loro sesto album in poco più di un decennio (dal 2003, anno della pubblicazione di “Of All the Wrong Things”), alla luce anche della pausa di 5 anni intercorsa tra il quarto ed il quinto full-length.

Il ritorno con “Penance”, avvenuto lo scorso anno, era stato buono ma non eccezionale, anche se nel sound della creatura di Sami Rautio emergeva quale tratto distintivo un umore molto più cupo che non malinconico, finendo per rendere decisamente più impegnativo l’ascolto.
Tratti distintivi, questi, che non subiscono mutamenti particolari in Hollow, dove vengono semmai accentuati e focalizzati tali aspetti, sciorinando oltre un’ora di dolorose litanie prive di sbocchi atmosferici ma intrise di un mood opprimente ai limiti dell’asfissia.
Pregio e limite, questo, per un disco la cui lunghezza certo costituisce un parziale ostacolo ad una fruizione agevole e, del resto, il genere non è fatto per essere cantato sotto la doccia ma, semmai, per essere assimilato con calma e pazienza pari alla lentezza dei tempi dilatati lungo i quali i musicisti che vi si dedicano srotolano le loro lunghe composizioni.
Il lavoro pare comunque vivere di due fasi piuttosto distinte: infatti, se i primi quattro brani mostrano un passo decisamente più lento, salvo le accelerazioni presenti nell’opener Nothing Left At All, culminante nel soffocante funeral di Hour Of Atonement, da The Six in poi il sound prende a lambire sonorità dai tratti meno claustrofobici; in questa traccia, in particolare, la migliore del disco a mio avviso, i My Shameful si muovono come se fossero una versione più dinamica degli Worship, anche se, nel complesso, la scuola funeral finlandese è quella che imprime il proprio marchio indelebile nel sound di Sami, partendo dagli imprescindibili Thergothon, passando per i Colosseum senza dimenticare Shape Of Despair e Skepticism, pur se depurati dall’uso delle tatsiere.
Sprazzi chitarristici di matrice gothic si affacciano nella successiva Murdered Them All ma è un apparizione fugace, visto che No Greater Purpose ci fa ripiombare una disperazione composta ma terribilmente plumbea, per un altro degli episodi chiave dell’album.
Now And Forever, titolo che non fa presagire certo una chiusura rivolta ad un futuro roseo, con il suo finale magnifico e leggermente più ritmato mette la pietra tombale sul quello che è il miglior album che potessero pubblicare oggi i My Shameful, con suoni essenziali ma sorretti da una buona produzione, e una prestazione vocale davvero efficace per la cruda negatività che Sami Rautio riesce ad evocare.
Con la dipartita, ahimè forzata, dei Colosseum e l’ormai (troppo) lungo silenzio di Skepticism e Shape Of Despair, i My Shameful, meritatamente, si dividono oggi con i Profetus lo scettro del funeral doom nordeuropeo.

Tracklist:
1. Nothing left at all
2. Hollow
3. And I will be worse
4. Hour of atonement
5. The Six
6. Murdered them all
7. No greater purpose
8. Now and forever

Line-up:
Sami Rautio – vocals, guitars
Twist – bass
Jürgen Fröhling – drums

MY SHAMEFUL – Facebook

Bretus – The Shadow Over Innsmouth

Il suono di questo disco è fangoso e non lascia speranza, accompagnandoci per mano verde e lasciva nell’antico porto di Innsmouth.

Nuovo disco della band doom catanzarese Bretus, una delle migliori in Italia e non solo.

Alla fine, è successo ciò che era nei nostri migliori incubi, ovvero che il lento e corrosivo suono dei Bretus incontrasse il più grande medium di incubi di tutti i tempi: H.P. Lovecraft.
La quinta fatica discografica dei Bretus, dopo l’epico split con i Black Capricorn (difficile immaginare uno split migliore), è incentrata su uno dei racconti del ciclo di Cthulhu.
Innsmouth e il suo porto sono una discesa verso gli inferi, anzi chi conosce Lovecraft sa che c’è qualcosa di ben peggiore dell’inferno.
I Bretus mettono superbamente in musica tutta l’angoscia dello scrittore ed effettivamente il doom metal è forse la musica più indicata per musicare l’angoscia lovecraftiana: la sua lentezza, la sua profondità, lo scavare incessante ma senza fretta, il lasciare grande spazio all’immaginazione dell’ascoltatore sono tutte caratteristiche che questo genere musicale condivide con l’uomo di Providence.
I Bretus portano avanti dal 2000 l’incubo in musica, ispirandosi ad un immaginario ben definito e ben presto si conquistano la loro fama nella scena tanto da essere invitati al Malta Doom Fest e più recentemente al Doom Over Vienna IX. Il festival maltese è uno dei migliori festival doom del globo anche perché a Malta c’è un’ottima scena, forse eredità dei Templari ?
Nel 2012 pubblicano “In Onirica” che è appunto un disco maggiormente sognante e con un suono più etereo rispetto a questo; in  The Shadow Over Innsmouth il velo dell’incubo notturno è un dolce ricordo, poiché l’incubo diventa realtà, anche se in Lovecraft c’è sempre il dubbio di cosa sia davvero reale o no, lasciandoci con una domanda : è la nostra vita in fondo ad essere un incubo, o gli incubi sono la vita ?
Il suono di questo disco è fangoso e non lascia speranza, accompagnandoci per mano verde e lasciva nell’antico porto di Innsmouth.
Forse è l’opera migliore dei Bretus fino a questo momento, anche se essendo una band dalle infinite potenzialità ci aspettiamo sempre qualcosa di grandioso.
Recentemente ho letto che alcuni studiosi, cosiddetti eretici, affermano che le opere di Lovecraft non siano affatto di fantasia, ma che descrivano, in maniera romanzata qualcosa che esiste davvero, siano essi annunaki o antichi dei di qualche pianeta lontano.
A voi la scelta.

Tracklist:
1 Intro
2 The Curse Of Innsmouth
3 Captain Obed Marsh
4 Zadok Allen
5 The Oath Of Dagon
6 Gilman House
7 The Horrible Hunt
8 A Final Journey

Line-up:
Ghenes – Chitarra
Zagarus – Voce
Azog – Basso
Striges – Batteria

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