Dom – Dom Vampyr

Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al funeral come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Belial (Ivan Manzano) è un musicista spagnolo che, con il monicker Dom, ha già all’attivo due full-length di realizzazione piuttosto recente.

Questa sua nuova uscita avviene invece nel formato dell’Ep, di lunghezza comunque considerevole visto che la sua durata sfiora la mezz’ora.
Dom, non solo per l’assonanza, viene considerato un progetto funeral doom, anche se tale etichetta può apparire parzialmente fuorviante: le composizioni di Belial, integralmente strumentali, sono basate essenzialmente sulle note del pianoforte che, grazie ad un indubbio gusto melodico, guida la musica per lo più su lidi ambient, e della chitarra che sovente si lascia andare in progressioni non del tutto scontate.
Nulla a che vedere quindi, sia con la versione più claustrofobica sia con quella più avvolgente e malinconica del genere: Dom Vampyr, pur mantenendo le connotazioni cupe del funeral, non ne possiede né la ritmica bradicardica nè la pulsione drammatica.
Detto questo, i tre brani si rivelano piuttosto validi e per certi versi differenti tra loro: la lunga opener A Modern Prometheus mostra il lato più sperimentale di Belial il quale, partendo da umori quasi jazzistici si lancia in una fase centrale piuttosto vivace per approdare infine ad una chiusura all’insegna di ritmiche asfissianti.
Les Avaleuses prende vita con una forte impronta Skepticism, dovuta ad un timbro simile delle tastiere, per poi lasciare spazio al consueto contenuto pianistico poggiato su spunti compostivi accostabili agli Ea.
L’episodio senza dubbio migliore e più caratterizzante è, però, The Tomb Of Ethelind Fionguala, traccia che, paradossalmente, tra tutte è proprio quella che meno ha a che vedere con il funeral: una bel giro di piano viene ripetuto per l’intero brano prima da solo, poi con l’ingresso delle tastiere finchè, attorno alla metà del brano, la chitarra solista si prende il proscenio liberandosi in uno splendido assolo di stampo classico.
Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al genere come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.

Tracklist:
1. A Modern Prometheus
2. Les Avaleuses
3. The Tomb Of Ethelind Fionguala

Line-up :
Iván “Belial” Manzano – Everything

Selfmachine – Broadcast Your Identity

Una quindicina di anni fa i Selfmachine con un album del genere avrebbero fatto il botto, di questi tempi si dovranno accontentare di piacere e non è comunque poco …

Debuttano per la sempre attenta WormHoleDeath gli olandesi Selfmachine con questo Broadcast Your Identity, buon album di quello che una decina di anni fa veniva definito nu metal, per essere poi aggiornato in metalcore, con un’occhiata all’alternative, chiamato in causa parzialmente per via dell’uso della voce pulita e di ritmiche che si fanno più ragionate in molte parti del disco.

Il lavoro risulta vario e non stanca, anche per questo avvicendarsi di atmosfere, tra tensione a mille, con sfuriate che rasentano in certi momenti la violenza del death, e parti melodiche dove la fanno da padrone certi richiami al post grunge di band come i Creed: Becoming the Lie ne è l’esempio più lampante, dove solo un accenno di growl posto nel finale del pezzo ci ricorda che siamo al cospetto di una band che fa del metalcore il suo credo. Il resto dell’album è un sali e scendi sulle montagne russe di un songwriting molto vario, aiutato da vocals che passano dal classico screaming di genere al growl cavernoso di chiara matrice death, fino ad una voce pulita che tra l’altro è anche molto bella. Partendo da Breathe To Aspire, brano nu metal con tanto di cantato dall’accenno rappato, alla più cadenzata Miles Away con tanto di assolo riuscito a metà del pezzo, si passa ad Incorporated dove per la prima volta si intrecciano svariate voci a rendere la song molto varia. L’uso delle voci è appunto il trademark del disco, non ci si annoia con i Selfmachine e si arriva alla fine dell’album senza fatica, anche per l’ottima produzione; c’è ancora tempo per le ottime Void, Out of Depth e la lunghissima (11 minuti, per il genere un record) Closing Statement, bellissimo pezzo dove la band sorprende con un brano dallo spirito progressivo. Una quindicina di anni fa i Selfmachine con un album del genere avrebbero fatto il botto, di questi tempi si dovranno accontentare di piacere e non è comunque poco …

Track list:
1.Breathe to Aspire
2.Miles Away
3.Incorporated
4.Massive Luxury Overdose
5.Void
6.Out of Depth
7.Caught in a Loop
8.Smother the Sun
9.Becoming the Lie
10.Isybian
11.Closing Statement

Line-up:
Steven Leijen – L.vocals
Mark Brekelmans – Bass,vocals
Michael Hansen – Guitars,vocals
John Brok – L.guitars,vocals
Ben Schepers – Drums

SELFMACHINE – Facebook

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Revenge – Survival Instinct

Il metal americano degli esordi si sposa all’hard rock stradaiolo e ne esce un lavoro stupendo.

Vanadium, Strana Officina, Vanexa … Revenge: negli anni ottanta queste band, ognuna a modo proprio, hanno dato moltissimo all’hard’n’heavy italiano, una scena che faticava ad imporsi nella nostra penisola, storicamente sempre poco incline alle sonorità più dure che, invece, in quegli anni, avevano raggiunto una buona popolarità un pò in tutta Europa, con l’esplosione della scena losangelina e la NWOBHM inglese.

Il gruppo di Pesaro debuttò con un demo nel lontano 1983 e, dopo varie apparizioni in altrettante compilation, uscì sul mercato con un Ep, “Hotzone” nel 1985, e dopo con un altro demo, nel 1987, dal titolo “Sweet Revenge”, per poi sciogliersi. Nel 2008 la Markuee Records pubblicò una raccolta dal titolo “Archives”, il nome della band ricominciò a circolare tra i fans fino ad arrivare alla reunion, con le partecipazioni ad alcuni festival, tra i quali l’italian Heavy Metal Legends e, finalmente, a questo nuovo bellissimo album. Il metal americano degli esordi si sposa all’hard rock stradaiolo e ne esce un lavoro stupendo, dove la coppia Red Crotalo, chitarrista dal talento smisurato e Fabrizio”Kevin Throat”Ugolini, vocalist dotato di un carisma terremotante, colpevole di far venire la pelle d’oca sia nei brani tirati sia nelle song dove la band rallenta regalandoci ballad riuscitissime. Questi due musicisti in particolare e tutto l’album in questione, mi hanno ricordato altri due grandi rocker ed il loro sottovalutato ma stupendo progetto: John Corabi e Bruce Kulick con i due bellissimi album sotto il monicker Union, l’omonimo del 1998 e il capolavoro “The Blue Room” del 2000. I compagni di questa avventura non sono da meno: Erik Lumen, nella band anche agli esordi, che è stato dietro alle pelli, tra gli altri, nella band di Paul Chain, insieme al basso di Valerio De Angelis va a formare una sezione ritmica di tutto rispetto. Chiaramente, rispetto alla band citata, i Revenge mantengono il dna metal in evidenza e i primi due brani, Dead Or Alive e la title-track, sono due grandi song dall’approccio heavy , dove la chitarra di Red sprigiona rasoiate metal ispiratissime. Crazy Nights e Can’t Hold Me Down sembrano uscite direttamente dalle session di “The Blue Room”, hard rock americano suonato con una classe ed una personalità disarmanti, ma i Revenge ci sanno fare anche con le ballad e Flying ci porta in dote uno stupendo assolo del chitarrista pesarese. Ancora Shelter, Bite The Bullet, la stupenda e ariosa Not The Same, la metallica e stradaiola Cannonball (e qui il Corabi del sottovalutato album con i Crue fa capolino nei solchi della song), fino alla ballad Home Again, posta in chiusura, fanno di questo lavoro un diamante hard rock; speriamo a questo punto che la band recuperi gli anni persi e torni al più presto con nuove canzoni, i Revenge sono tornati … a casa.

Tracklist:
1. Dead or Alive
2. Survival Instinct
3. Crazy Nights
4. Can’t Hold Me Down
5. Flying 6. Shelter
7. Bite the Bullet
8. Not the Same
9. Cannonball
10. Home Again

Line-up:
Fabrizio “Kevin Throat” Ugolini – vocals,guitars
Paolo “Red Crotalo” Pedretti – lead guitars
Valerio “Vallo” De Angelis – bass
Enrico “Erik Lumen” Gianpaoli – drums

REVENGE – Facebook

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Lucid Dream – The Eleventh Illusion

Gran lavoro, maturo, per niente scontato, fruibile ma allo stesso tempo intenso, caldo e molto emozionale, suonato da bravissimi musicisti.

I Lucid Dream sono una band proveniente dalla mia provincia (Genova) capitanata dal chitarrista Simone Terigi e arrivano al secondo album dopo l’esordio del 2011 intitolato “Visions From Cosmos” e una parentesi solista di Simone del 2012 (“Rock Meditations”).

I quattro ragazzi liguri sfornano un album tecnicamente ineccepibile, dalla marcata personalità, un hard rock che si perde in digressioni prog ma tendendo più di una mano al blues, quello energico degli Zeppelin, ma sopratutto di Free e Bad Company, con un vocalist (Alessio Calandriello), in grado di far le veci di quello che, se non fosse mai esistito Robert Plant, sarebbe stato il più grande vocalist hard blues di sempre, Paul Rodgers.
L’album si apre con un intro ( The Way of 7M ) recitata da Beatrice Schiaffino, che sarà protagonista anche nell’outro, e lasciando poi che la chitarra di Simone ci introduca al mondo dei Lucid Dream, con un classico brano hard rock, dove il chitarrista mette subito a disposizione la sua tecnica impreziosendo la song di bellissimi assoli.
Come la precedente Evolution, Leave Me Alone mantiene le stesse coordinate, ma tra i solchi di questa song si riscontrano rimandi al blues che, nei brani a venire, sarà il quid in grado di rendere questo lavoro un must.
River Drained è una ballad dove appare un sax e ricorda la “Another Day” del capolavoro Images and Words” targato Dream Theater, e arriva prima di uno dei capolavori dell’album, The Lightseeker, introdotta da una chitarra prog: il brano si sviluppa su ritmiche intricate dove basso (Gianluca Eroico) e batteria (Paolo Raffo) sfoggiano una gran prova e la chitarra di Terigi, ispiratissima, ricama assoli settantiani con Calandriello che incanta con vocalizzi da cantante di razza.
Back To Cosmos 11, accenno al primo album, è ancora hard rock fluido, godibile già dal primo ascolto, mentre Two Suns In The Sunrise, ballad tutt’altro che scontata, porta con sè la leggera brezza del delta del Mississippi e fa scorrere brividi sull’ascoltatore di turno.
Ci sarebbe già da trastullarsi con quello che la band fin qui ha regalato, se non fosse che mancano all’appello due song splendide: Black, apice del lavoro, dove Il prog metal moderno rincorre l’hard rock settantiano, con tutta la band sugli scudi, un songwriting eccelso e il vocalist che si supera dando vita ad una prova sontuosa e drammatica, con picchi vocali degni di un signore inglese perso nel profondo porpora.
La title-track viaggia ancora su queste strade, più veloce, meno varia strutturalmente, ma altrettanto bella ed essendo praticamente l’ultimo brano (Pulse of Infinity è uno strumentale atmosferico, seguito dal brano recitato) i Lucid Dream mettono in tavola tutte le loro carte e da band scafata si congedano con una prova maiuscola.
Gran lavoro, maturo, per niente scontato, fruibile ma allo stesso tempo intenso, caldo e molto emozionale, suonato da bravissimi musicisti tra i quali spicca il talento di un vocalist che permette alla musica della band di penetrare l’animo dell’ascoltatore.
La musica dei Lucid Dream fa bene all’anima.

Tracklist:
1. The Gates of Shadow
2. Evolution
3. Leave Me Alone
4. River Drained
5. The Lightseeker
6. Back to Cosmos11
7. Connections
8. Two Suns in the Sunrise
9. The Song of the Beyond
10. Black
11. The Eleventh Illusion
12. The Pulse of Infinity
13. The Way of 7M

Line-up:
Gianluca Eroico – Bass
Paolo Raffo – Drums
Alessio Calandriello – Vocals
Simone Terigi – Guitars

LUCID DREAM – Facebook

Hiss From The Moat – Misanthropy

Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Un assalto sonoro di matrice death/black metal è quello che offrono i lombardi Hiss From The Moat, band che farà parecchio parlare di sè, vuoi per i musicisti coinvolti, vuoi per la qualità del prodotto, di livello alto, pronto per fare sfracelli anche fuori dai patri confini.

Siamo all’esordio sulla lunga distanza, che arriva dopo un EP di un paio di anni fa dal titolo “The Carved Flesh Message” dai rimandi metalcore, con il quale i nostri virano in questo album verso sonorità death metal dal forte impatto black, oscuro e devastante. I musicisti sono di primissimo piano e oltre a James Payne (House Of Penance) e Carlo Cremascoli (Tasters), troviamo Giacomo Poli (ex-Stigma) alla sei corde e, a vomitare puro odio nel microfono, quel Paolo Pieri già con House Of Penance e Aborym. Anche gli ospiti non sono da meno, infatti fanno la loro apparizione in due brani Tommaso Riccardi, voce e chitarra dei romani Fleshgod Apocalypse, e Ryan Knight, chitarrista degli americani The Black Dahlia Murder. Stampato dalla Lacerated Enemy Records, il disco ha avuto una prima pubblicazione digitale da parte addirittura della Nuclear Blast, confermando le buone prospettive della band, che convince con trenta minuti di distruzione in puro Behemoth style, assecondato da musicisti capaci, che formano un combo compatto e sicuro nei propri mezzi. Le song, tutte dirette, puntano al sodo, senza inutili orpelli, risultando nella loro natura estrema assimilabili, grazie anche ad un songwriting ispirato, così brani come Honor To The Mother Of Death, Misanthropy, The Descent from the Throne e Caduceus raccolgono l’eredità della band polacca, risultando comunque freschi e suonati da musicisti dalla grande personalità. Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Tracklist:
1. Intro
2. Conquering Christianity
3. Honor to the Mother of Death
4. Moralism as Anesthetic
5. Misanthropy
6. The Path of the Pilgrims
7. The Descent from the Throne
8. Ave Regina Caelorum
9. Caduceus
10. Outro

Line-up:
Giacomo “Jack” Poli – Guitars
James Payne – Drums
Carlo Cremascoli – Bass

HISS FROM THE MOAT – Facebook

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Gabriels – Prophecy

Bravissimo il musicista siciliano ad ideare e portare a termine un lavoro così riuscito, dimostrando ancora una volta su quanti immensi talenti può contare il nostro paese.

Dopo poco tempo dall’uscita di “Thunderproject” da parte del polistrumentista Riccardo Scaramelli, la Indipendence licenzia questa ennesima e molto ben riuscita opera rock composta da un altro talento nostrano, al secolo Gabriels il quale, avvalendosi di un manipolo di ospiti illustri della scena Italiana ed europea, dà vita a questo lavoro di hard rock melodico e orchestrale.

Studioso dell’arte musicale in tutte le sue componenti, il musicista siciliano è già apparso sul mercato discografico con alcune release, che vanno dall’elettroacustica di “The Enchanted Wood”, al rock di “Call Me”, alla prima rock opera, “The Legend Of A Prince”, per passare dal power metal dell’album “Seven Stars” e al prog metal, (“Beyond The Nightfall”), cimentandosi pure nella musica leggera con “Non Dirmi Addio” insieme ad Alex. Come detto, in questo lavoro, incentrato sui fatti dell’11 settembre, sono stati chiamati ospiti di spessore come Mark Boals, vocalist con precedenti illustri, avendo fatto parte della band di Malmsteen, con il quale ha registrato il capolavoro “Trilogy”, oltre ai più recenti “Alchemy” e “War To End All Wars” ed prestato la sua ugola a Royal Hunt e Ring Of Fire. Sul versante italiano troviamo, tra gli altri, Dario Grillo (Thy Majestie), Dario Beretta (Drakkar, Crimson Dawn), Davide Perruzza dei Metaphysics, con il quale il nostro realizzò l’album “Seven Stars”, Simone Fiorletta (Rezophonic) e Andrea “Tower” Torricini (Vision Divine), qui impegnato al basso e alla chitarra. Prodotto in modo impeccabile e suonato benissimo da tutti i musicisti impegnati, l’opera si sviluppa su coordinate stilistiche molto vicine ai Royal Hunt, senza abbandonarsi ai virtuosismi tastieristici cari al buon Andrè Andersen ma lasciando che sia il songwriting ad essere protagonista, il tutto in funzione dell’opera, che risulta fluida, con brani orecchiabili, infarciti di melodie accattivanti, dallo spirito aor. Gabriels, impegnato oltre alla voce su tutti gli strumenti dai tasti d’avorio, rilascia una prova sontuosa, veramente elegante e dal gusto raffinato, regalando emozioni sia nei brani più diretti, sia nelle piacevoli ballad dalle atmosfere drammatiche, in linea con l’argomento trattato. Il lavoro si apre con September 11, strumentale dal mood dolente, con orchestrazioni da colonna sonora che fanno di questo brano un piccolo gioiello; con Omen si viaggia su sentieri cari ai Royal Hunt, mentre il piano introduce Pray To End All Wars, semi-ballad dove chitarre e tastiere si rubano il palcoscenico, segue Falling Stars, dall’incedere cadenzato, impreziosito da suoni tastieristici che ricordano le opere di Ayreon, con aperture ariose, marchio di fabbrica di Lucassen. Go To Fight, richiama a metà del suo cammino un altro maestro, Jon Lord; la voce di Ana Maria Barajas è l’incantevole protagonista della ballad I Can’t Live Forever, mentre si viaggia su sentieri Royal Hunt, tornando all’hard rock tastieristico di scuola nordeuropea, con la band danese a fare da madrina e con i vocalist che si scambiano il microfono negli altri brani in scaletta, protagonisti di performance sempre ad altissimo livello. Bravissimo il musicista siciliano ad ideare e portare a termine un lavoro così riuscito, dimostrando ancora una volta su quanti immensi talenti può contare il nostro paese.

Tracklist:
1. September 11
2. Omen
3. Pray to End All Wars
4. Falling Stars
5. The Crack
6. Shadows
7. Things of the World
8. We Need Peace
9. Roar for the Peace
10. Go to Fight
11. I Can’t Live Forever

Line-up:
Gabriels – keyboards, piano, synth, hammond, vocals
Mark Boals – vocals
Dario Grillo – vocals
Iliour Griften – vocals
Ana Maria Barajas – vocals
Dario Beretta – guitars
Antonio Pantano – guitars
Salvatore Torre – bass
Antonio Maucieri – bass
Giovanni Maucieri – drums
Davide Perruzza- lead guitars
Simone Fiorletta – lead guitars
Andrea “Tower”Torricini – bass, guitars

A Young Man’s Funeral – Thanatic Unlife

Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.

A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.

Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica.
Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.

Tracklist:
1. Curse
2. Remorse
3. Salvation

Line-up :
A.S. All instruments
E.S. Vocals

Demon Eye – Leave The Light

Un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.

La Soulseller Records, dopo il bellissimo disco dei Bloody Hammers, entrato di diritto nella mia top ten del 2013, rilascia nei primi giorni dell’anno nuovo il debut album dei Demon Eye, band del North Carolina, con all’attivo un Ep dello scorso anno dal titolo “Shades Of Black” ,autrice di un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.

Il disco, infarcito di suoni vintage, raccoglie infatti quello che i grandi maestri del suono del destino (Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus, Trouble, Obsessed, Sleep) hanno lasciato in eredità, : qui troverete di che dissetarvi alla fonte del doom, con accenni all’occulto a livello lirico, come il verbo sabbathiano insegna. A rendere il lavoro piacevole magari a chi non è un amante dei suoni pieni e ovattati, classici di questo genere, è la produzione che restituisce un suono pulito, dando risalto al lato hard rock del combo che, nei brani più dinamici, risulta oltremodo convincente. Da Hecate, che apre la danza sabbatica, in poi è un susseguirsi di ottime song, dove i suoni più duri degli anni settanta sono interpretati dalla band con ottimo piglio, non cadendo mai nel tranello stoner, ma mantenendo una linea guida per tutta la sua durata. Shades Of Black,Song, dall’incedere ritmato, con la chitarra di Larry Burlison, protagonista di un riff trascinante, lascia spazio alla bellissima Secret Sect, dove compaiono accenni all’heavy metal, chiaramente old school; Edge a Knife, altro gran brano, torna su atmosfere più doom, mentre Witch’s Blood, aperta da un riff hard rock, è un classico brano alla Pentagram. Ancora la band di Joe Hasselvander fornisce il suo marchio in Fires Of Abalam, vero manifesto di genere, dove il plauso va al vocalist Erik Sugg, cantore messianico del combo americano. C’è ancora tempo per The Banishing, altro brano che entusiasma per melodie e ritmiche, prima che From Beyond e Silent One chiudano un album davvero molto bello, aiutato da un songwriting elevatissimo, per un ascolto mai noioso, dal buon tiro, suonato da una band preparata.

Tracklist:
1. Hecate
2. Shades of Black
3. Secret Sect
4. Adversary
5. Edge of a Knife
6. Witch’s Blood
7. Fires of Abalam
8. Devil Knows the Truth
9. The Banishing
10. From Beyond
11. Silent One

Line-up
Paul Waltz – bass
Bill Eagen – drums, vocals
Larry Burlison – guitars
Erik Sugg – guitars, vocals

DEMON EYE – Facebook

Abbotoir – Reclaim

Una proposta migliorabile ma che già oggi risulta sicuramente intrigante oltre che coraggiosa.

I nord irlandesi Abbotoir propongono una forma di funeral lontano da qualsiasi ammiccante forma di melodia e ciò, ovviamente, non ne aumenta l’appeal nei confronti di chi segue il genere in maniera marginale.

Reclaim è il titolo di questo Ep, costituito da un unico brani di circa 26 minuti (Descension), che arriva dopo il full-length d’esordio uscito lo scorso anno; stilisticamente il trio di Belfast si colloca dalle parti di un act come i Bosque, ponendosi quindi alla ricerca costante di sonorità disturbanti grazie al massiccio contributo di elementi ambient-drone.
La reiterazione pressoché ininterrotta di un riff di volta in volta accompagnato da effetti elettronici, inclusa una drum-machine e una voce filtrata, potrebbe far pensare a un qualcosa di terribilmente noioso e, oggettivamente, il rischio esiste, stante la mancanza di uno sviluppo armonico capace di restare memorizzato in qualche modo nella mente dell’ascoltatore.
Ma, se vogliamo, proprio l’apparente freddezza del sound, che pone gli Abbotoir nella posizione privilegiata di distaccati osservatori delle miserevoli vicende umane, si rivela un elemento caratterizzante capace di provocare quello straniamento che è sicuramente uno degli obiettivi della band britannica.
Un produzione volutamente intrisa di riverberi ed un sound che definire ossessivo è un eufemismo, rendono oggettivamente complessa la fruizione di Reclaim, fornendo la sensazione che talvolta gli Abbotoir travalichino quel labile confine posto tra la sperimentazione e l’autocompiacimento.
E, in effetti, a partire dal minuto 19, Descension offre quei minimi appigli, che fino a quel momento aveva pervicacemente negato, mostrando parvenze infinitesimamente umane ed è proprio su questo lato della proprio sound che gli Abbotoir potrebbero maggiormente insistere in futuro, per migliorare ulteriormente una proposta che già oggi risulta sicuramente intrigante, oltre che coraggiosa.

Tracklist:
1. Descension

Line-up :
_ – Bass
J – Guitars
D – Vocals

ABBOTOIR – Facebook

Bosque – Nowhere

Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Quattro anni dopo il disco d’esordio, riappare con un nuovo full-length la one-man portoghese Bosque.

Non che nei quasi dieci anni di esistenza della sua creatura musicale DM si sia limitato a questi soli due album, visto che la produzione a nome Bosque è disseminata di demo ed ep, ma è normale che la dimensione su lunga distanza sia sempre la più probante, specie per chi si cimenta in ambito funeral doom.
I quaranta minuti di Nowhere ci trascinano di peso, appunto, in un non luogo, nel quale la sofferenza è il sentimento prevalente, capace di soffocare ogni accenno di melodia imprigionandolo in un sound disturbante, pregno di rumorismi collocati in sottofondo.
Lo straziato canto gregoriano che cerca di farsi largo tra strutture dissonanti e strumenti distorti ai limiti del parossismo potrebbe essere l’ideale rappresentazione dell’autoflagellazione, di un dolore auto inferto andato in loop, metafora di un’esistenza costretta a trascinarsi penosamente e confinata all’interno di schemi univoci e ripetitivi.
Un accenno melodico si fa largo pietosamente grazie a una chitarra acustica che traccia linee consolatorie prima che il martirio della carne e dello spirito riprenda, culminando nell’ossessiva reiterazione dei riff in Metamorphosis, ipotetico quanto illusorio punto di svolta oltre il quale ad attenderci c’è il nulla, ben rappresentato dal titolo della traccia conclusiva e dalla ricomparsa dei cori a conferire al disco un andamento circolare, quasi a dimostrare che l’inizio e la fine sono solo effimere definizioni.
DM non mostra alcun segno di empatia verso l’ascoltatore, la sofferenza si manifesta attraverso un dolore diffuso e straziante, senza alcuna soluzione di continuità; Nowhere mostra una forma di funeral agli antipodi del versante più melodico del genere, ma non per questo va sottovalutato: è piuttosto evidente, peraltro, che la fruizione di un lavoro di queste caratteristiche è impresa per quei pochi che possiedono la pazienza e quel pizzico di masochismo necessario per lasciarsi avvolgere da suoni che fanno ben poco per rendersi gradevoli al primo impatto; un aspetto, questo, che a seconda dei punti di vista può apparire sia un pregio sia un un limite invalicabile.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Tracklist:
1. Lethargy
2. Crawling
3. Metamorphosis
4. Nothing

Line-up :
DM – all instruments

Ea – A Etilla

Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.

Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.

Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere  certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla

Karnak – The Cult Of Death

Ventidue minuti di death metal privo di compromessi e suonato in maniera impeccabile.

Per chi non li conoscesse, i Karnak non sono affatto dei novellini della scena death tricolore, essendo attivi già dalla metà degli anni novanta, la band di Gorizia ha nel suo curriculum tre full-length: “Perverted” del 1997, “Melodies Of Sperm Composed” del 1999 e “Dismemberment” datato 2010, più un paio di Ep, licenziati all’inizio del millennio.

Alla già consistente discografia si va ad aggiungere l’ultimo The Cult Of Death, ancora un Ep contraddistinto da un death metal ai limiti del brutal in certi passaggi, molto vicino quindi allo spirito di Gorguts, Morbid Angel e Nile.
Il lavoro dei nostri è composto da un’intro, tre brani e la cover riuscitissima di Jewel Throne dei seminali Celtic Frost, in tutto ventidue minuti di privi di compromessi, sempre suonati in maniera impeccabile, con diversi rimandi old school, tra un growl demoniaco, sfuriate violentissime e frenate, sull’orlo di un abisso sonoro pronto ad inghiottirci.
Stupendo esempio di ciò è The Construction Of The Pyramid Beta (Invocation), brano veramente terrificante nel suo lento discendere nei meandri di un sound, nel quale non esiste più speranza di luce ma solo dannazione eterna.
Le altre due parti di The construction, The Demon’s Breath e Gamma, sono un massacro brutal death dove le due asce sciorinano assoli e ritmiche inumane e la batteria di Stefano Rumich è un tir senza freni che tutto travolge.
Se questo è l’antipasto del prossimo lavoro sulla lunga distanza ne vedremo, ma soprattutto sentiremo, delle belle.

Tracklist:
1. Intro
2. The Construction of the Pyramid -α- (The Demon’s Breath)
3. The Construction of the Pyramid -β- (Invocation)
4. The Construction of the Pyramid -γ-
5. Jewel Throne (Celtic Frost cover)

Line-up:
Stefano Rumich – Drums, Egyptian percussions
Francesco Ponga – Vocals, Guitars
Lorenzo Orsini – Bass, Vocals
Marco Polo – Guitars

KARNAK – Facebook

Paganizer – Cadaver Casket (On A Gurney To Hell)

Un assaggio di death old school fornitoci tra un album e l’altro da una band dalla qualità non intaccata da una certa prolificità

Veterani della scena Death metal svedese, i Paganizer tornano con un mini CD, dopo World Lobotomy, lavoro sulla lunga distanza licenziato in questo 2013, a dimostrazione della prolificità del combo; sono ben nove, infatti, gli album immessi sul mercato dal 1998, anno di debutto, più svariati mini e split.

Rogga Johansson, leader, voce e chitarra, sembra essere instancabile vista la moltitudine di band della scena con cui ha collaborato, ma i Paganizer sono sicuramente la creatura a cui è più legato e alla quale dedica buona parte delle sue energie. Il mini in questione, sorta di appendice dell’ultimo album, non si discosta né musicalmente né concettualmente dai lavori passati, sempre di old style death metal si tratta, dalle tematiche gore e anticristiane e fortemente influenzato o per meglio dire, visti gli anni di militanza di Rogga nella scena, vicino a band del calibro di Dismember e Grave.
I cinque pezzi che compongono il lavoro risultano così dei buoni esempi di death old school e dove, nell’ultimo album, si riscontravano elementi di scuola grind, in questa occasione i Paganizer sterzano verso sonorità e ritmiche più thrash oriented.
Buoni come sempre sono gli assoli della sei corde e lavoro di ordinaria amministrazione per tutti i musicisti, va elogiata sempre e comunque la volontà e la passione che artisti come Johansson mettono ancora, dopo così tanti anni, nel portare avanti un discorso musicale fuori dai circuiti modaioli, aggiungendo qualità e esperienza alla scena underground e meritandosi doverosamente il massimo rispetto.

Tracklist:
1. On a Gurney to Hell
2. Rot
3. Souls for Sale
4. Afterlife Burner
5. It Came from the Graveyard

Line-up:
Rogga Johansson – Vocals, Guitars
Matthias Fiebig – Drums
Dennis Blomberg – Guitars (lead)

PAGANIZER – Facebook

Teodasia – Reflections

Se il livello delle produzioni nostrane in campo symphonic-gothic continuerà a mantenersi su questi livelli, chissà che un giorno, quando si parlerà di questo genere, non si finisca per fare riferimento alla scena italiana invece che a quella nordeuropea.

Sirgaus, Poemisia, Elegy Of Madness (e non solo) ed ora i Teodasia: la scena symphonic/gothic metal italiana sta diventando una certezza in questo genere e ad ogni uscita è un piacere constatare come le band nostrane sappiano tutte essere, a modo loro, diverse l’una dall’altra puntando all’originalità pur evidenziando le proprie influenze, come è naturale che sia.

I veneti Teodasia dopo un demo eun full length datato 2012 dal titolo “Upwards”, sono usciti sul mercato nel 2013 con due mini, “Stay” e quest’ultimo Reflections, che vede un cambio di cantante,con Giulia Rubino a prendere il posto di Priscilla Fiazza, e soprattutto un sound esplosivo da portare in giro per i palchi, non solo della nostra penisola.
Ben nove brani, due de i quali sono delle intro ed uno è la cover di un pezzo dance di tale dj Sash, per mezzora di musica che mi ha letteralmente ammaliato.
La prima vera canzone, Where I Belong, suona molto hard rock nello stile chitarristico, con tanto di bellissimo assolo e ritornello orecchiabilissimo, in grado di entrare in testa già al primo ascolto.
Altro intermezzo strumentale e cambio di registro: il primo minuto e mezzo della title-track è folk oriented, per poi trasformarsi in un brano symphonic da antologia, dove sono le tastiere a prendere per mano il brano conducendolo in territori cari ai Sirenia.
Land Of Memories, divisa in due parti, è il brano che si accosta di più ai Nightwish, e vede una grande prova della vocalist la quale, pur non essendo un soprano, possiede una gran bella voce.
Infinity è uno strumentale dal sapore cinematografico, supportato dal pianoforte e da bellissimi arrangiamenti sinfonici.
La traccia conclusiva è una ballad, degna chiusura di un dischetto suonato, prodotto e arrangiato a meraviglia; continuando di questo passo chissà che un giorno, quando si parlerà di questo genere, non si finisca per fare riferimento alla scena italiana invece che a quella nordeuropea.
Un’altra grande band.

Tracklist:
1. Back to the Past
2. Where I Belong
3. Mirrors
4. Reflections
5. Land of Memories, Pt. 1
6. Land of Memories, Pt. 2
7. Stay (2013)
8. Infinity
9. Windy Night

Line-up:
Giulia Rubino – Vocals
Fabio Compagno – Guitars
Nicola Falsone – Bass
Michele Munari – Keyboards
Francesco Gozzo – Drums

TEODASIA – Facebook

Hollow Leg – Instinct

La musica qui incede e incide lentamente con la potenza dell’acqua, scorrendo sotterranea e trovando sempre una via per passare.

Riedizione da parte della Argonauta Records del debutto degli Hollow Leg, disco pubblicato dalla band nel 2010 e andato ormai esaurito.

Il debutto da parte di questo gruppo schiacciasassi testimonia la nascita come duo chitarra e batteria, ovvero alla sei corde Brett e alla batteria Tim. Entrambi sono originari dell’area di Boston, dove hanno militato in svariati gruppi hardcore, dato che l’hardcore a Boston lo bevi nell’acqua. Da Boston si sono poi trasferiti e Jacksonville in Florida. Qui hanno dato vita agli Hollow Leg, che da duo sono poi diventati quartetto per incidere “Abysmal” del 2013. Ma questa è un’altra storia. Instinct è un disco poderoso, un lento incedere verso qualcosa di terribile che sta proprio oltre la strada che stiamo percorrendo. La musica qui incede e incide lentamente con la potenza dell’acqua, scorrendo sotterranea e trovando sempre una via per passare. E’ stupefacente sentire quello che possono fare due persone sole, ma con le idee molto chiare su che musica fare. Sarebbe una perdita di tempo ed un spreco di energie notevole tentare di catalogare definitivamente il suono degli Hollow Leg. Sicuramente siamo dalle parti dello sludge, in quei territori che prendono vita nell’underground, e che vivono nell’umido e traggono linfa da cose viscide. Uno dei più grossi pregi di questo disco è che non annoia mai, e fa venire voglia di schiacciare play di nuovo. Gli Hollow Leg si inseriscono quindi nel filone dello sludge americano, che ha sempre dato gioie a noi ascoltatori viziosi, ma si distinguono per un suono ed una composizione molto personale. Grande merito va dato all’Argonauta Records che ha ristampato il cd in 300 copie con un libretto lussuoso. Perchè non poter sentire questa chicca era proprio un gran peccato.

Tracklist:
1 Caretaker
2 Shattered
3 The return
4 The source
5 Bacchus
6 Nothing left
7 Spit in the fire
8 Warbeast
9 Grace
10 Wayside

Line-up:
Brett : voce e chitarre
Tim : batteria

HOLLOW LEG – Facebook

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Madness Of Sorrow – Take The Children Away From The Priest

Un lavoro che non deve passare inosservato a chi di queste sonorità horror-gothic ne fa il pane quotidiano.

Nel cinema, da trent’anni i media ci continuano a far credere che in Italia siamo capaci solo a produrre cinepanettoni da dare in pasto alle masse nel periodo natalizio, ultimamente sconfinando anche negli altri mesi dell’anno, e arrivando, al massimo, a far girare nelle sale filmetti pseudo intellettuali, che fa tanto figo e politicamente corretto dire di aver visto ad amici e colleghi, dimenticando invece che abbiamo una tradizione nel cinema horror capace di influenzare gli ultimi decenni anche e, soprattutto, in America.

Lucio Fulci, Lamberto Bava, il Pupi Avati de “La casa dalle finestre che ridono” e “Zeder”, Umberto Lenzi, il primo Dario Argento, sono solo i più famosi protagonisti di una scena tutta italiana che ha fatto storia nel mondo.
Chiaramente anche nella musica, soffocati da sempre dalle tirannie mediatiche, solo pochi fortunati hanno la consapevolezza che nel nostro paese esiste una scuola rock di altissima qualità, parlando poi di metal, direi che mai come in questi ultimi tempi in tutti i vari generi che si raggruppano sotto la stessa etichetta, abbiamo avuto così tanto spessore.
Fanno sicuramente parte di questo tesoro purtroppo, ancora sommerso, almeno da noi, i Madness Of Sorrow, band nata dopo lo scioglimento dei Filthy Teens e capitanata dal polistrumentista e factotum Muriel Saracino, cantante e chitarrista che, oltre a suonare il basso in alcuni brani, ha prodotto e mixato l’album, aiutato da Freddy Delirio dei Death SS.
Altri musicisti che gravitano nell’ambito della band di Steve Sylvester hanno accompagnato Muriel nel suo progetto: Ross Lukater nei live, che ha visto protagonista la band dopo l’uscita dell’album “Signs”, insieme a Simon Garth, presente anche sul nuovo disco che, a scanso di equivoci è veramente ben fatto.
Sostanzialmente il lavoro si divide in due parti: la prima è un’esaltante mix tra l’horror metal e il dark di band quali Sisters Of Mercy e Fields Of The Nephilim, grazie al drumming programmato ma sopratutto al cantato di Muriel, che in certi passaggi ricorda le due icone del dark anni ‘80 Andrew Eldritch e l’inarrivabile Carl McCoy.
Caged, I Hate You e la bellissima Martial Execution, spinta da un riff marziale e quel “Kill” ripetuto marchio di fabbrica dei Fields Of The Nephilim.
Fino a I’m No Perfect, l’influenza Death SS si riscontra nei suoni delle tastiere e sporadicamente in qualche assolo; fin qui ci sarebbe già da applaudire la band, ma il bello arriva da Guilty in poi: l’anima metal prende il sopravvento, i suoni di chitarra si induriscono e ne escono brani dal tiro micidiale come Don’t Talk About Church, The Death Crusade, la riuscitissima Spirit, con i cori di Alexandra Lynn nuovamente ad impreziosire il tutto, la mansoniana The Ogre, un brano dove Muriel prende sottobraccio Steve Sylvester e il reverendo americano con una prova maiuscola alle vocals.
Chiude il lavoro Ghost, il pezzo più gothic dell’album, dove protagonista è la voce di Alexandra e un giro di piano melanconico che mette la parola fine ad un lavoro che non deve passare inosservato a chi di queste sonorità ne fa il pane quotidiano, ponendosi come ennesima conferma di quanto la nostra scena sia fucina di artisti di ottimo livello.
Bravi.

Track list:
1. Caged
2. King must die
3. I hate you
4. Martial execution
5. I’m not perfect
6. Guilty
7. Don’t talk about the church
8. The death crusade
9. Spirits
10. The ogre
11. Ghost

Muriel Saracino: Vocals, Guitars
Simon Garth: Guitars
Federico Dalli: Drums
David Dalcò: Bass
Francis Fury: Keyboards

MADNESS OF SORROW – Facenbook

Deathless Legacy – Rise From The Grave

Un bellissimo lavoro, complimenti al gruppo, che dal vivo immagino grandissimo, e disco consigliato non solo ai fans dei Death SS.

Questa recensione mi permette di spendere due parole sul più grande gruppo metal nato nella nostra penisola, riconosciuto in tutto il mondo, guidato da un leader che è una delle nostre poche icone, dotato di carisma e personalità e vero artista a 360°: sto parlando ovviamente dei Death SS e naturalmente di Steve Sylvester.

Questo grande gruppo ha rilasciato dei dischi fondamentali, prima negli anni 80′ basati su un Metal più classico, e diventando poi un’entità a parte e inventando, di fatto, un genere come l’horror Metal. Impossibile quindi non essersi imbattuti in almeno uno dei loro numerosi capolavori, da “In Death Of Steve Sylvester” a “Black Mass”, da Heavy Demons alla svolta semi-industrial di “Do What Thou Wilt” e “Panic”, fino ad arrivare all’ultimo “Resurrection”,datato 2013: una grande band che ha rilasciato lavori bellissimi e sempre con quell’integrità e coerenza (dicendola alla Pino Scotto, altra icona del nostro metal) che l’hanno resa un mito
I toscani Deathless Legacy nascono come tribute band dei Death SS e, dopo innumerevoli apparizioni dal vivo, arrivano al debutto discografico con un album di horror metal scritto come Steve Sylvester insegna, e non poteva essere altrimenti.
Anche loro, come i maestri, hanno optato per travestimenti e pseudonimi, la copertina con le mani di zombie che escono dal terreno è rigorosamente in stile horror ma, fortunatamente, in questo disco c’è anche tanta buona musica.
Intanto i brani sono cantato da una vocalist, al secolo Steva La Cinghiala, protagonista di una prova magistrale (non è così facile cantare su di un disco del genere e risultare perfetta); le somiglianze, inevitabili, con i Death SS si riscontrano nei suoni delle tastiere, poi però l’album ha una sua vita ( anche in questo caso sarebbe meglio dire morte … ) propria, i brani sono belli, tra song dall’impatto più moderno e altri intrisi di atmosfere più classiche.
Apre il sabba Will-O’-The Wisp, e si entra subito al centro del Grand Guignol dove è protagonista una band che sfodera tutte le proprie virtù musicali, con brani dal forte impatto e dalla immediata presa.
Queen Of Necrophilia, Octopus,la sparata Killergeist, fanno da antipasto al picco dell’album, quella Flamenco De La Muerte, dove il Metal del combo accompagna una chitarra spagnola in una song geniale.
Ancora ottimi brani sono Spiders e Devil’s Thane, prima di arrivare ad un altro brano top, Death Challenge, dove Steva inasprisce la voce e si accentuano i suoni moderni, per un brano dal sapore nu metal.
Step Into The Mist conclude un bellissimo lavoro, complimenti al gruppo che dal vivo immagino grandissimo e disco consigliato, non solo ai fans dei Death SS.

Tracklist:
01 – Will-O’-The Wisp
02 – Queen Of Necrophilia
03 – Bow To The Porcellan Altar
04 – Octopus
05 – Killergeist
06 – Flamenco De La Muerte
07 – Spiders
08 – Devil’s Thane
09 – Death Challenge
10 – Step Into The Mist

Line-up
Steva La Cinghiala – Vocals and Performances
Frater Orion (The Beast) – Drums and Scenographies
El “Calàver” – Guitar
C-AG1318 (The Cyborg) – Bass and Vocals
Pater Blaurot – Keyboard
The Red Witch – Performances

DEATHLESS LEGACY – Facebook

Mechina – Xenon

Se vogliamo dare un senso alle contaminazioni nel death metal, beh, allora qui siamo veramente nel futuro del genere e non solo, ma di tutta la musica estrema.

Il primo gennaio 2014 verrà ricordato, da chi avrà avuto la fortuna di ascoltarlo, come il giorno dell’uscita della colonna sonora dell’apocalisse, secondo gli americani Mechina.

Noi siamo fortunati, perchè questo lavoro è talmente avanti che l’anno di uscita potrebbe essere il realtà il 3014. Questo stupendo lavoro è ciò che più si avvicina a “Demanufacture” dei seminali Fear Factory, datato 1995 e, addirittura, sotto certi aspetti, riesce a superarlo in impatto e nell’uso massiccio di musica sinfonica in una miscela annichilente.
Ma facciamo un passo indietro e andiamo a conoscere un pò di più questi quattro geni: intanto il disco è autoprodotto e non è il primo, e arriva dopo che la band dell’Illinois ha già partorito svariati mini e tre full- length: “The Assembly Of Tyrants” del 2005, “Conqueror” del 2011 e Empyrean.
Xenon è un macigno industrial cyber metal dalla potenza devastante, dove il drumming di David Gavin è al limite dell’umano, il growl di David Holch sembra arrivare direttamente dalla gola di qualche essere relegato in un profondo abisso perso nell’iperspazio, la voce pulita, così come i cori operistici, non fanno altro che conferire al tutto, come se non bastasse, un’aura ancor più inquietante.
A rendere questo lavoro qualcosa di veramente ultraterreno è la parte sinfonica che, attenzione, non è usata in stacchi solo per alleggerire il sound, ma è parte integrante dello stesso per un risultato sconvolgente.
In pratica è come se l’essere immondo di cui parlavo affrontasse una battaglia per il dominio dell’universo contro gli angeli, intervenuti direttamente dal paradiso per rigettarlo nell’abisso.
I ritmi sincopati e la base industrial è più o meno la stessa ma, laddove i Fear Factory si muovevano intorno a strutture di stampo metalcore, i Mechina vanno anni luce oltre, con orchestrazioni apocalittiche da pelle d’oca. Zoticus, Terrae, Tartarus, Thales, sono solo alcuni tra i dieci brani capolavoro di questo mostro chiamato Xenon.
Se vogliamo dare un senso alle contaminazioni nel death metal, beh, allora qui siamo veramente nel futuro del genere e non solo, ma di tutta la musica estrema.
Disco epocale!

Track list:
1. Xenon
2. Ailthea
3. Zoticus
4. Terrae
5. Tartarus
6. Phedra
7. Thales
8. Erebus
9. Amyntas
10. Actaeon

David Holch – Vocals
Joe Tiberi – Guitars, Programming
Steve Amarantos – Bass
David Gavin – Drums

MECHINA – Facebook