Una proposta come questa al giorno d’oggi non può essere minimamente competitiva, men che meno in un settore già di per sé di nicchia come quello del doom metal.
Emptiness Filling the Void è il disco d’esordio per questo duo di Anversa dedito a un death doom davvero minimale.
L’album è uscito nel 2016 ma viene riproposto ora dalla Sepulchral Silence, anche se sinceramente non vedo quale spazio possa trovare anche nell’ambito degli appassionati più accaniti del genere.
L’operato degli Svarthart è poco più che amatoriale: suoni scarni, produzione approssimativa e una coesione strumentale che pare essere tenuta assieme da colla scadente, senza che si abbia mai l’impressione di essere al cospetto di una costruzione musicale organica.
L’idea di death doom ci sarebbe pure, ma manca pressoché del tutto una trasposizione esecutiva all’altezza: il sound si trascina penosamente lungo le sette tracce, con le due chitarre che se ne vanno ognuna per proprio conto accompagnando un rantolo privo della minima espressività.
Spiace doverlo scrivere, perché comunque chi si dedica a questo genere riscuote la mia simpatia a prescindere, ma una proposta come questa al giorno d’oggi non può essere minimamente competitiva, men che meno in un settore già di per sé di nicchia come quello del doom metal.
Tracklist:
1 The Void
2 A Fading Image
3 Dark Visions From The Past
4 Almost Alive
5 Inside This Darkness
6 Deep Within
7 Disappearance
8 The Awakening
Line-up:
Zeromus – (Tom M) – All instruments
Svartr – (Dieter M)
Il racconto della prima edizione del Doom Heart Fest., con Marche Funèbre, Tethra, Hadal e Theta.
La prima edizione del Doom Heart Fest. ha radunato al Blue Saloon di Bresso alcune realtà di grande interesse della scena internazionale ed italiana.
L’evento, ottimamente organizzato dalla RED MIST Booking & Management e da Doom Heart, pagina Facebook italiana di riferimento per gli appassionati di doom metal, nonché patrocinato anche da MetalEyes IYE, ha avuto il merito di portare in Italia i belgi Marche Funèbre, band attiva da diversi anni ma decisamente consacratasi quest’anno con il bellissimo album Into the Arms of Darkness.
A completare il bill sono stati chiamati i Tethra, anch’essi ormai assurti ad uno status superiore dopo l’ottimo Like Crows For The Earth, i triestini Hadal, autori del notevole Painful Shadow e la one man band Theta, fattasi notare sempre quest’anno con il sound sperimentale di Obernuvshis’.
E’ toccata proprio a Mattia Pavanello, ideatore di quest’ultimo progetto, l’apertura della serata: un compito non facile il suo, quello di rompere il ghiaccio con sonorità di complessa fruizione di fronte ad una platea ancora abbastanza diradata e disattenta e non ancora abbastanza numerosa, come sarebbe avvenuto in seguito.
Il giovane musicista milanese è salito sul palco, ha fatto partire le proprie basi e, senza dire una parola, nascosto dal cappuccio della sua felpa ha imbracciato la chitarra offrendo una mezz’ora di interessante doom drone. Chiaramente la proposta di Theta non è certo un qualcosa che possa coinvolgere con immediatezza e quindi, dal vivo, tutto ciò si rivela ancor più difficile: eppure, dopo alcuni minuti ci si è ritrovati del tutto accerchiati da questi accordi dilatati e distorti, poggiati su una base dronica volta a creare un flusso musicale che trova la sua forza e ragion d’essere nell’annullamento dei concetti di spazio e tempo.
Sicuramente un’introduzione ideale per un set come quello dei triestini Hadal, band composta da musicisti esperti e capaci di offrire una prova convincente, pervasa da uno stile versatile che fa delle sonorità doom le fondamenta sulle quali erigere un metal allo stesso tempo robusto ed evocativo, comunque piuttosto sfaccettato aprendosi di volta in volta ad influenze che riportano anche al migliore alternative rock/metal.
Soprattutto si rivela vincente una spiccata componente grunge che, andandosi a fondere con le ritmiche e gli umori del gothic/death doom, conferisce al sound un certo tiro pur mantenendone intatte le malinconiche caratteristiche di fondo.
Molto vario ed efficace è apparso l’uso delle voci, con un Alberto Esposito a suo agio alle prese con le diverse gamme vocali e ben coadiuvato nel controcanto in growl dai suoi compagni d’avventura (tra i quali cito il simpaticissimo bassista Teo, una di quelle rare persone con cui parlare di musica, e non solo, è tempo speso benissimo), abili nel costruire un’impalcatura sonora solida e precisa in ogni frangente.
A rappresentare ulteriormente il doom tricolore sono stati successivamente i Tethra, la cui salita sul palco era piuttosto attesa giocando in qualche modo in casa: della band guidata oggi da Clode ho già ampiamente parlato nel corso di quest’anno sia in sede di recensione, sia con una successiva intervista ed infine raccontando del release party di Like Crows for the Earth, per cui non posso che ribadire quanto di buono scritto in quelle occasioni, trovando anzi, come è normale, la band ancora più incisiva nella trasposizione live dei propri brani: infatti, specialmente quelli più datati sono parsi ancor meglio assimilati da una line up che, vocalist a parte, non ha più nulla in comune con quella che incise Drown into the Sea of Life. A proposito di formazione, va segnalato che rispetto all’ultimo full length il bravo chitarrista Luca Mellana ha dovuto abbandonare la band per problemi di lavoro ed è stato rimpiazzato dall’altrettanto valido Federico Monti.
La band ha sciorinato nel tempo a propria disposizione i brani miglior di un repertorio di qualità, decisamente graditi da un pubblico che, con il passare delle ore , è decisamente aumentato, raggiungendo un dato numerico soddisfacente, almeno se rapportato al normale afflusso agli eventi doom sul suolo italiano.
Il gruppo più atteso della serata erano senz’altro i belgi Marche Funèbre, non fosse altro perché per la prima volta si spingevano a suonare all’interno dei nostri confini: va detto però che la data di Bresso non è stata in assoluto una primizia visto che il giorno prima Arne e compagni, sempre con i Tethra a precederli sul palco, si erano esibiti a Collegno, in questo caso purtroppo di fronte ad un pubblico più esiguo.
Forte di un album di grande spessore come il recente Into the Arms of Darkness la band fiamminga ha nettamente elevato la potenza di fuoco della serata, in virtù di un death doom che dal vivo diviene ancora più ruvido e di impatto: la scaletta ha oscillato tra brani recenti ed altri più datati, spesso superiori ai dieci minuti di durata, interpretati con vigore e convinzione da un gruppo di musicisti che ha senz’altro lasciato il segno.
In tal senso non si può non citare la prestazione del frontman Arne Vandenhoeck, capace di passare con buona disinvoltura dal growl allo screaming fino ad una evocativa voce pulita, ed arricchendo il tutto con una presenza scenica ed un’espressività che non è proprio consueta per i suoi colleghi di genere.
Ovviamente il momento clou dell’esibizione è stata l’esecuzione di Lullaby Of Insanity, quello che a mio avviso è uno tra i migliori brani death doom del 2017: trattasi di una traccia che supera il quarto d’ora di durata e nella quale i Marche Funèbre sono riusciti a far confluire tutte le loro anime, racchiuse tra le dolenti melodie tessute dalla chitarra solista di Peter Egberghs e le violente accelerazioni di matrice death, con la band capace davvero di viaggiare a pieno regime senza mai andare fuori giri.
Il set è stato chiuso da Crown Of Hope, brano manifesto che racchiude al suo interno il riferimento al monicker della band con la ripresa, nella parte conclusiva, della celeberrima Marcia Funebre di Chopin, il tutto tra i meritati applausi e ringraziamenti dei presenti.
Applausi e ringraziamenti che devono essere estesi, senza ombra di dubbio, ad Alberto “Morpheus” Carmine, motore di Doom Heart e portatore (in)sano di una passione per il doom che trova il suo naturale corrispettivo nel sottoscritto e in tutti quelli che, fottendosene delle mode e delle convenienze, continuano a promuovere un genere che “parla della morte ma è suonato ed ascoltato da persone che amano la vita”.
Resta lo spazio per un auspicio, ovvero che questa sia stata solo la prima edizione di un evento che, senza ambire ad assumere le dimensioni di un “Doom Over Kiev”, possa comunque trasformarsi un appuntamento fisso e tradizionale per tutti gli amanti del doom italiano.
Nel complesso l’intero album è contraddistinto da una naturale eleganza, oltre ad un invidiabile equilibrio compositivo che conferma gli Odradek Room come l’ennesima grande band doom proveniente dalle fredde lande dell’est europeo.
Quello degli ucraini Odradek Room non è il tipico death doom che ci si attenderebbe quando viene accompagnato dal marchio Solitude, questa volta tramite la sublabel BadMoodMan e in associazione con la canadese Hypnotic Dirge.
Non che l’etichetta russa sia solita proporre il genere nelle sue vesti più scontate, anzi, ma diciamo che nella maggior parte dei casi le band che fanno parte del suo roster offrono un doom dalla preponderante componente emotiva.
Il quartetto di Mariupol, invece, con questo A Man Of Siltprosegue il discorso iniziato quattro anni or sono con l’esordio intitolato Bardo. Relative Reality, immettendo nel genere un’ampia dose di post metal e di pulsioni progressive.
Ne deriva pertanto un album che necessita d’essere lavorato con una certa pazienza per coglierne l’indubbio valore, visto che qui non troviamo quelle aperture melodico/atmosferiche capaci di colpire al cuore con immediatezza, ma piuttosto un approccio obliquo e molto tecnico che, ad un primo approccio, fatica appunto non poco a lasciare delle tracce.
Del resto, anche concettualmente il death doom degli Odradek Room si pone in maniera anticonvenzionale, fornendo in tal senso un indizio decisivo fin dal monicker che si ispira al personaggio di un racconto di Kafka, e a A Man Of Silt si rivela così un’efficace quanto complessa elaborazione del genere, restituendolo nelle sue vesti più rarefatte e liquide.
La complessità dell’ascolto è testimoniata dal fatto che il primo abbozzo di chorus memorizzabile arriva nella bellissima quarta traccia Mirror, ma già nella successiva Rain Trip i riferimenti jazzistici offerti dai fiati ammantano il brano di un’aura crimsoniana rafforzata da un lavoro chitarristico di grande pregio, mentre Silt Flower prosegue nell’opera di decostruzione del genere così come siamo abituati ad incrociarlo.
Nel complesso l’intero album è contraddistinto da una naturale eleganza, oltre ad un invidiabile equilibrio compositivo che conferma gli Odradek Room come l’ennesima grande band doom proveniente dalle fredde lande dell’est europeo, con soprattutto la scena ucraina in primissimo piano (e ne è eloquente dimostrazione l’importanza che ha assunto un evento magnifico come il Doom Over Kiev, alla cui ultima edizione i nostri hanno ovviamente preso parte).
Non resta che fare i più sentiti complimenti a questi ragazzi, invitando gli appassionati di death doom dal palato più fine a fare proprio A Man Of Silt.
Tracklist:
1. Arising in the Void
2. Selfness
3. Texture of Reality
4. Mirror Labyrinth
5. Rain Trip
6. Silt Flower
7. Divide
8. Conditional Eternity
Evil Desire è un lavoro più che onesto da parte di una band capace comunque di trasmettere buone vibrazioni e che trova il modo di non tediare l’ascoltatore grazie ad un approccio piacevolmente naif.
Full length d’esordio per i paulisti Dirty Grave, band il cui sound deriva in maniera quanto mai esplicita dai giganti del classic doom, partendo dai Black Sabbath per arrivare ai Saint Vitus e, soprattutto, ai Pentagram.
Il gruppo del redivivo Bobby Liebling pare essere, infatti, il principale punto di riferimento di questi musicisti, i quali non si pongono particolari problemi al riguardo, offrendo una prova di sostanza che, probabilmente, non entrerà negli annali del genere ma è ugualmente in grado di lasciare buone sensazioni all’ascoltatore.
Uno dei pregi del trio brasiliano è quello di non risultare monotematico, consentendo alla propia matrice tradizionalmente doom di espandersi verso sfumature diverse, come il blues della cover di Willie Dixon, Evil (Is Going On), l’inprinting hendrixiano della title track, l’hard rock psichedelico di Satan’s Wings, questo tanto per citare solo alcune della canzoni di un album piuttosto scorrevole e che lascia in chiusura la più oscura e minacciosa The Black Cloud Comes.
Psichedelia e blues sono comunque le due componenti che vanno a compenetrarsi con le radici più profonde del doom il che, complice una produzione abbastanza sporca, conferisce all’album quell’aura vintage che indubbiamente si confà a simili coordinate sonore. Evil Desire è un lavoro più che onesto da parte di una band capace comunque di trasmettere buone vibrazioni e che trova il modo di non tediare l’ascoltatore grazie ad un approccio piacevolmente naif.
Tracklist:
01. Satan’s Wings
02. Until The Day I Die
03. Evil Desire
04. Evil (Is Going On) [Willie Dixon cover]
05. Beyong The Door
06. Remorse
07. You Dead
08. The Black Cloud Comes
Line-up:
Mark Rainbow – vocal, bass
Victor Berg – guitar
Arthur Assis – drums
Timewrought Kings è un lavoro aspro e piuttosto parco di spunti melodici, e nonostante il suo buon livello la sensazione è che gli Apotelesma non abbiano ancora dato per intero quanto sembra essere nelle loro possibilità, sperando che questo non sia davvero il loro ultimo atto.
Timewrought Kings è il primo album degli olandesi Apotelesma ma rischia d’essere anche l’ultimo, visto che subito dopo la sua realizzazione la band ha deciso di sospendere l’attività a tempo indeterminato.
Un peccato, perché questi ragazzi, partiti nel 2012 con il monicker Monuments, con il quale hanno prodotto un ep, paiono padroneggiare con buona disinvoltura la materia death doom e, non a caso, hanno attirato l’attenzione di una label specializzata in tali sonorità come la Solitude. Timewrought Kingsè un lavoro aspro e piuttosto parco di spunti melodici, riconducibili a qualche fugace litania chitarristica o nei passaggi che accompagnano la voce pulita, per cui le uniche variazioni sul tema sono quelle ritmiche, sotto forma di momenti più liquidi e rarefatti che si trovano in queste quattro tracce principali (la terza, che dà il titolo all’album, è in realtà un breve episodio strumentale).
Rispetto alla scuola olandese gli Apotelesma hanno attinto qualcosa dagli Officium Triste, soprattutto nelle fasi più rallentate ed evocative, quando l’incedere si fa più dolente, ma della band di Blankenstein non possiedono lo stesso appeal melodico, il che rende l’album decisamente valido ma piuttosto avaro di sprazzi di autentica e dolorosa bellezza.
La tracklist è di valore piuttosto uniforme, con la più rocciosa The Weakest of Men che si fa preferire per la sua organicità unita a diversi ottimi spunti chitarristici, ma il tutto fa ritenere ragionevolmente che gli Apotelesma non abbiano ancora dato per intero quanto sembra essere nelle loro possibilità; a questo punto, non fosse altro che per verificare la fondatezza di questa impressione, non resta che sperare che il periodo di riflessione preso dalla band sia solo un momento di stand-by e non la fine definitiva di un avventura, in fondo, appena iniziata.
Tracklist:
1. Aural Emanations
2. The Weakest of Men
3. Timewrought
4. Our Blooming Essence
5. Remnants
I Ceased si rivelano davvero bravi nel conferire al proprio sound umori diversi, a seconda delle sensazioni descritte attraverso testi diretti ma tutt’altro che scontati.
Resurrection Of The Flesh, il primo full length dei tedeschi Ceased arriva dopo una serie di singoli che sono confluiti nell’album, essendo peraltro legati tra loro da un valido concept lirico.
La band di Karlsruhe sviscera in maniera piuttosto profonda il rapporto del’uomo con la morte che va a cozzare con il desiderio di una vita eterna, andando ad alimentare le varie credenze religiose e tutto quanto ne consegue: il mezzo musicale per descrivere tutto ciò è un death doom piuttosto melodico e di buona fattura, con una Black Room che apre di fatto il lavoro andando a lambire sonorità non distanti dai Forgotten Tomb, mente con Virus Of The World il sound si fa molto più cupo e privo di luminosità.
Cambiano le cose, in tal senso, nella parte centrale grazie a due brani più rallentati e dolenti come Emptiness e Resurrection Of The Flesh , decisamente attraenti ne loro sviluppo melodico affidato ad una chitarra solista lineare ma molto efficace, mentre le conclusive Before The Law e Meaningless Words riprendono un ritmo più incalzante, esprimendo in maniera credibile la disillusione e la rabbia verso le molte esistenze sprecate nel percorrere una strada piena di speranza al termine della quale c’è solo un portone chiuso a doppia mandata.
I Ceased si rivelano davvero bravi nel conferire al proprio sound umori diversi, a seconda delle sensazioni descritte attraverso testi diretti ma tutt’altro che scontati, anche se, alla luce dei risultati ottenuti, fossi in loro spingerei maggiormente in futuro verso quella vena maggiormente evocativa che dimostrano d’avere ampiamente nelle corde.
Tracklist:
01. I – Denial
02. Black Room
03. Virus Of The World
04. II – Depression
05. Emptiness
06. Resurrection Of The Flesh
07. III – Acceptance
08. Before The Law
09. Meaningless Words
Line-up:
N – vocals
D – guitar
Y – guitar
E – bass
I Bréag Naofa sorprendono e convincono con un’interpretazione di grande maturità, pienamente espressa tramite una ricerca melodica che viene sempre anteposta al riffing ossessivo che caratterizza di norma lo sludge.
Dalla fucina musicale di Seattle si palesano i Bréag Naofa, fautori di uno sludge post metal piuttosto personale.
La band ha all’attivo due full length e qualche split album e, alla luce di quanto contenuto in questo ep intitolato Cearo, sarà il caso di recuperare al più presto tali lavori: infatti i Bréag Naofa (in gaelico significa pressapoco “menzogna sacra”) con questi due lunghi brani dimostrano quanto lo sludge non debba essere necessariamente monocorde o basato per lo più su un impatto ruvido e possente.
Specialmente il crescendo che caratterizza The Morning of è l’elemento distintivo di uno dei brani più belli ascoltati ultimamente, con il suo liquido post metal che si sviluppa con pazienza regalando splendide melodie, anche quando il gruppo alza al massimo i giri del motore, cosa che avviene invece per l’intera durata di Phosphorus, molto più spinta a livello ritmico ma ugualmente avvolgente nel suo incedere più lineare ma non meno intenso.
Il sestetto, che si avvale di una tripla chitarra, sorprende e convince con un’interpretazione di grande maturità, pienamente espressa tramite una ricerca melodica che viene sempre anteposta al riffing ossessivo che caratterizza di norma lo sludge. Cearo si rivela così la molla ideale per sviscerare anche quanto già fatto dai Bréag Naofa, apprezzabili anche per la loro drammatica proposta lirica, che si rivelano non solo un interessante e futuribile prospetto bensì una realtà già fatta, compiuta ed assolutamente da portare alla conoscenza di chi vuole godere di musica rabbiosa ma allo stesso tempo capace di commuovere e di far pensare.
Tracklist:
1. The Morning of
2. Phosphorus
Line-up
Roger Kilburn – Guitar
Sam Lettes – Guitar
Tre Tre – Guitar
Rob Mcfeters – Vocals
Dustin Carroll – Bass
Bobby Hamana – Drums
I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale.
I Forgotten Tomb sono una delle eccellenze italiane del nostro metal estremo fin dagli esordi, quando scuotevano l’audience con un black metal dalla forte impronta depressive sia musicalmente sia a livelli di tematiche.
Il tempo ha parzialmente smussato questo aspetto, anche se una certa disincantata negatività permane a livello lirico, mentre il sound si evoluto in una forma di black death con ampie venature doom, sempre in grado di offrire notevoli spunti melodici e soprattutto, mantenendo una cifra stilistica unica, che è poi il vero e proprio segno distintivo delle band di livelli superiore. We Owe You Nothing è il nono full length del gruppo di Ferdinando Marchisio (alias Herr Morbid) e ad ogni nuova uscita di band provviste di un simile status è sempre grande il timore di riscontrare un appannamento irrimediabile della freschezza compositiva ma, a giudicare da questi sei brani, si può tranquillamente affermare che tale pericolo sia stato scongiurato.
Certo, bisogna partcire forzatamente dall’assunto che i Forgotten Tomb di oggi non sono più gli stessi di Love’s Burial Ground e nemmeno quelli di Negative Megalomania, il che appare tutt’altro che scontato vista la tendenza di molti a soffermarsi sul passato invece di focalizzarsi sul presente; detto questo We Owe You Nothing mantiene impresso a fuoco il marchio della band e ciò accade sia quando nella title track si palesano quelle sfumature southern che Marchisio ha sfogato nel recente passato con i Tombstone Highway, sia in Second Chances, allorchè il brano si stempera in un magnifico rallentamento di pura matrice doom.
L’ormao storica base ritmica, formata da Alessandro “Algol” Comerio al basso e da Kyoo Nam “Asher” Rossi alla batteria), che accompagna il leader fin da Love’s Burial Ground è un sinonimo di garanzia e coesione che valorizza ulteriormente il lavoro, anche quando prendono piede le caratteristiche progressioni chitarristiche come in Saboteur e, soprattutto, nel tellurico finale di Abandon Everything. Longing For Decay è un buon brano dalle pesanti sfumature stoner sludge che però scorre via senza fornire particolari scossoni emotivi, che giungono invece con Black Overture (che contraddicendo il titolo in realtà chiude il lavoro) , splendido strumentale contraddistinto da un black doom atmosferico e melodico.
I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale; per quanto mi riguarda, ritengo che We Owe You Nothing sia il miglior album sfornato dalla band piacentina in questo nuovo decennio, rivelandosi molto più incisivo e ricco di sfumature rispetto ai pur buoni Under Saturn Retrograde, …and Don’t Deliver Us from Evil e Hurt Yourself and the Ones You Love, e questo non affatto cosa da poco …
Tracklist:
1. We Owe You Nothing
2. Second Chances
3. Saboteur
4. Abandon Everything
5. Longing For Decay
6. Black Overture
Claws possiede in gran parte le caratteristiche in grado di soddisfare ampiamente fasce di ascoltatori come gli estimatori del doom classico o dell’heavy metal dalle trame occulte, alle quali un disco di questa fattura è naturalmente indirizzato.
Gli Epitaph sono una tra le prime band italiane ad essersi cimentate con il doom metal e questo giustifica sicuramente la buona notorietà ottenuta in questi ultimi anni.
Infatti, il loro primo demo, dei tre pubblicati, risale al 1988 mentre l’ultimo è datato 1994: vent’anni dopo Mauro Tollini (batteria) e Nicola Murari (basso) hanno ridato vita alla loro creatura pubblicando l’esordio su lunga distanza, costituito in buona parte da rivisitazioni del materiale più datato.
Dopo lo split album con gli Abysmal Grief, gli Epitaph approdano oggi a quello che, di fatto, è il loro primo full length di inediti, che resta comunque strettamente connesso a quanto fatto in passato: il doom proposto dalla band veneta è quanto mai devoto ai numi tutelari del genere (Candlemass in primis) e questo non è assolutamente un male, perché non sono i primi e neppure saranno gli ultimi a farlo, il problema è che personalmente, fatico a riscontrare quegli spunti capaci di spingermi oltre un sincero ma non entusiastico apprezzamento.
Il quartetto veronese, completato dal vocalist Emiliano Cioffi e dal chitarrista Lorenzo Loatelli, si rende autore anche stavolta di un’interpretazione del doom quanto mai ortodossa e competente, con tutti i tasselli al proprio posto, sotto forma di sapienti rimandi all’heavy tricolore dalle tinte orrorifiche, una produzione pulita ed un songwriting a tratti efficace pur nella sua linearità, sfruttando al meglio le doti del bravo chitarrista, di una base ritmica precisa e puntuale e aderendo con lodevole coerenza alle linee guida del genere nella sua versione più tradizionale.
Meno convincente è invece, per mio gusto personale, lo stile canoro di un Cioffi che, sebbene apprezzabile nel suo non voler scimmiottare i vari Marcolin o Lowe, alla lunga si rivela stucchevole, soprattutto in brani come Wicked Lady e Declaration Of Woe, meno brillanti e convincenti rispetto invece agli ottimi Gossamer Claws e Sizigia e, parzialmente, Waco The King. Claws resta comunque un album di buon valore ma sostanzialmente incapace di coinvolgermi del tutto dal punto di vista emotivo, considerando anche che, alla luce di quanto riferito in precedenza, dopo una partenza ottimale l’intensità della scaletta tende a scemare nel corso delle sue lunghe cinque tracce; detto questo ritengo che il lavoro possieda in gran parte le caratteristiche in grado di soddisfare ampiamente fasce di ascoltatori come gli estimatori del doom classico o dell’heavy metal dalle trame occulte, alle quali un disco di questa fattura è naturalmente indirizzato.
Tracklist:
1. Gossamer Claws
2. Waco The King
3. Sizigia
4. Wicked Lady
5. Declaration Of Woe
Line up:
Emiliano Cioffi – Vocals
Lorenzo Loatelli – Guitars
Nicola Murari – Bass
Mauro Tollini – Drums
Come l’uomo primitivo, i tre del Colorado seguono l’istinto e non fanno alcun calcolo di convenienza, e ciò fa loro onore, però l’adesione senza mediazioni a questo stile musicale passa per forza di cose attraverso un proposta più sintetica, pena l’inevitabile accantonamento da parte della maggioranza dei potenziali fruitori.
Tra tanti monicker improbabili o che, comunque, ben poco centrano con l’offerta musicale delle varie band, quelle dei Primitive Man incarna alla perfezione i turpi intenti di questi tre figuri provenienti da Denver.
La band ha esordito nel 2013 con un monolite intitolato Scorn, con il quale hanno subito esibito la loro intransigente interpretazione dello sludge, esasperandone al massimo l’impatto e rifuggendo ogni minima tentazione pseudomelodica, lasciando spazio ad una sequela di riff rallentati e distorti all’jnverosimile sovrastati da urla belluine.
Nel lasso di tempo intercorso fino all’uscita di questo nuovo macigno intitolato Caustica, in nostri hanno fatto uscire anche un ep ed una serie di split album; quest’ultimo formato, probabilmente, si addice in maniera particolare alla proposta dei Primitive Man, perché quasi un’ora e venti di misantropica incomunicabilità (tale è la durata della più recente fatica) mette a dura prova anche il più ben disposto degli ascoltatori.
Diciamo che un mezz’oretta di feroce tetragonia può essere anche gradita, stante il suo effetto straniante ed assieme catartico (nelle giornate no, ascoltare a volume insensato un brano come Disfigured è pur sempre meglio che uscire di casa e dare una testata al primo che si incontra per strada), mentre allungandosi a dismisura la distanza, la pressoché totale mancanza di variazioni sul tema, fatti salvi i brevi intermezzi rumoristici, rende davvero un impresa l’ascolto integrale di Caustic.
Come l’uomo primitivo, i tre del Colorado seguono l’istinto e non fanno alcun calcolo di convenienza, e ciò fa loro onore, però l’adesione senza mediazioni a questo stile musicale passa per forza di cose attraverso un proposta più sintetica, pena l’inevitabile accantonamento da parte della maggioranza dei potenziali fruitori.
Tracklist:
1. My Will
2. Victim
3. Caustic
4. Commerce
5. Tepid
6. Ash
7. Sterility
8. Sugar Hole
9. The Weight
10. Disfigured
11. Inevitable
12. Absolutes
Nonostante i contenuti siano piuttosto essenziali, con un brano per ciascun gruppo, questo split album fornisce comunque l’occasione per ascoltare materiale inedito di ottima fattura da parte di due tra le realtà più stimolanti attualmente in circolazione, tanto più che il tutto è scaricabile gratuitamente dal bandcamp dell’etichetta.
Uno split decisamente di pregio, questo uscito sotto l’egida della sempre ottima Drown Within Records, ad unire due delle migliori realtà nazionali come sono Sedna e Postvorta, band dedite a sonorità gravitanti in un’area fluttuante tra doom, black e post metal.
I Sedna, ad un anno circa dall’uscita del loro ultimo full length Eterno, si cimentano per la prima volta con un brano cantato in italiano, intitolato Dalla Cenere, Il Buio, e va detto che l’esperimento funziona davvero molto bene, anche alla luce di un’interpretazione vocale drammatica che ben si addice al sound nervoso della band cesenate, la quale in questo modo potrebbe trovare un’interessante sbocco per caricare ancor più di tensione la prossima prosposta musicale.
I ravennati Postvorta (entrambe le band provengono dalla Romagna, terra nella quale non prospera evidentemente solo il ballo liscio …) con Beseech The Queen non derogano invece dal loro ottimo sludge/post metal, ampiamente apprezzato nel piuttosto recente Carmentis, condividendo con i compagni di split, se non del tutto lo stile musicale, sicuramente l’impatto ruvido e capace di scuotere l’ascoltatore.
Nonostante i contenuti siano piuttosto essenziali, con un brano per ciascun gruppo, questo split album fornisce comunque l’occasione per ascoltare materiale inedito di ottima fattura da parte di due tra le realtà più stimolanti attualmente in circolazione, tanto più che il tutto è scaricabile gratuitamente dal bandcamp dell’etichetta.
Tracklist:
1.Sedna – Dalla Cenere, Il Buio
2.Postvorta – Beseech The Queen
Line-up: SEDNA
Elisa Motta
Mattia Zoffoli
Alex
Crisafulli
POSTVORTA
Andrea Fioravanti
Nicola Donà
Raffaele Marra
Dario Foschini
Mohammed Ashraf
Andrea Miserocchi
Nel complesso i Contra offrono una prova onesta nella quale le ruvidezze vocali, la produzione un po’ sporca ed un songwriting non troppo vario finiscono per non offrire momenti particolarmente esaltanti come neppure deprecabili.
Contra è il nome di questa band di Cleveland che ci propone il suo primo full length a base di un roccioso stoner doom.
Deny Everythingsi intitola come l’ep uscito l’anno scorso, i cui brani confluiscono ovviamente nel nuovo lavoro così come quelli contenuti in Son Of Beast, esordio datato 2015.
Ne deriva un album che, di fatto, è una summa di quanto composto finora dal trio dell’Ohio, con l’aggiunta di tre inediti; nel complesso i Contra offrono una prova onesta nella quale le ruvidezze vocali, la produzione un po’ sporca ed un songwriting non troppo vario finiscono per non offrire momenti particolarmente esaltanti come neppure deprecabili.
In fondo qui stanno le chiavi di lettura necessarie per godere di gran parte dello stoner odierno, ovvero l’essere naturalmente propensi all’ascolto di un suono grezzo, dai risvolti psichedelici e discretamente tetragono nel suo incedere.
Dalla loro i Contra possiedono quell’insana attitudine tipica delle band americane, che li rende simpaticamente brutti sporchi e cattivi, ma il loro essere spontaneamente sgraziati finisce talvolta per ritorcerglisi “contro” (gioco di parole inevitabile) anche per una tracklist nella quale, forse, solo Snake Goat e Dr.Goldfoot possiedono quel quid in più per farci andare poco al di là di un effimero quanto gradevole ricordo.
Tracklist:,
1. Human Buzzsaw
2. Snake Goat
3. Altered Beast
4. The Gorgon
5. Humanoid Therapy
6. Son of Beast
7. Bottom Feeder
8. 100 Hand Slap
9. Dr Goldfoot
10. Shrimp Cocktail
Line-up
Aaron Brittain – Drums
Adam Horwatt – Bass/Guitar
Chris Chiera – Guitar
Larry Brent – Vocals
I King Goat hanno davvero le stimmate del grande gruppo ed un suono che, pur rifacendosi a nomi noti, riesce ad essere molto accattivante ed originale.
Ristampa da parte dell’italiana Aural Music del primo disco sulla lunga distanza per questo gruppo di musica pesante di Brighton, Inghilterra.
Dopo due ep nel 2013 e nel 2014, il gruppo inglese decise di confrontarsi con la prova su lunga distanza. Conduit è un disco meraviglioso pieno di grandi idee e di proposte sonore davvero ottime. Il suono di base è un doom metal con molti imbastardiment,i come è tipico per le band inglesi di qualsiasi genere. La vibrazione di fondo è sicuramente doom, anche abbastanza classica, con una voce che in alcuni momenti si avvicina a quella dei Candlemass, mentre l’incedere musicale ha anche un che di post metal, soprattutto quando la canzone muta per diventare altro da sé, aprendo nuovi orizzonti. Il loro groove è in continuo movimento, uno spazio si riempe e poi si allarga ancora, con note suonate con grande consapevolezza e passione, riempiendo il cuore dell’ascoltatore di musica pesante. Come nei laghetti montani la superficie sembra placida, poi si increspa in un attimo e vieni tirato giù da vortici potentissimi, come in questo disco. I King Goat sono uno dei gruppi migliori in questo genere e fin da questo debutto hanno impressionato critica e pubblico, e dopo la firma con Aural Music e l’uscita di questa ristampa, sono al lavoro sul disco che uscirà nei primi mesi del 2018. I King Goat hanno davvero le stimmate del grande gruppo ed un suono che, pur rifacendosi a nomi noti, riesce ad essere molto accattivante ed originale. Il doom può essere interpretato in molte maniere, certamente possiede un’ortodossia ben definita, ma se si riescono a dominarne i codici diventa anche strumento di innovazione, come in questo caso. In questa ristampa ci sono inoltre due bonus track dal precedente ep, che fanno ben capire quale e soprattutto quanta evoluzione abbia compiuto il gruppo.
Tracklist
1.Flight of the Deviants
2.Feral King
3.Conduit
4.Revenants
5.Sanguine Pat
Line-up
Vocals: Trim
Lead Guitar: Petros
Rhythm Guitar: Joe
Bass: Reza
Drums: Jon
Ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare.
I Profundum sono una di quelle misteriose band che periodicamente sbucano da qualche oscuro anfratto esibendo in maniera magnifica sonorità disperatamente malsane e funeree.
Come spesso avviene in questi casi, tra l’altro, le uniche notizie certe sono la provenienza statunitense (San Antonio), il fatto che Come, Holy Deathsia il loro full length d’esordio che segue l’ep dello scorso anno What No Eye Has Seen, e che si tratta di un duo formato dai misteriosi LR e R, anche se diversi indizi mi fanno ragionevolmente ritenere che quest’ultimo sia, in effetti, il Ryan Wilson titolare del pregevole monicker The Howling Void.
Inoltre, le note promozionali ci fanno sapere che i Profundum traggono la loro ispirazione dai fondamentali primi lavori degli Emperor per poi sviluppare un’idea di musica oscura, ferale e nel contempo maestosa.
Indubbiamente, chi ha ben presente le sonorità di In The Nightside Eclipse può trovarsi d’accordo con tale affermazione, fermo restando che il sound dei californiani propende in maniera decisiva verso il funeral doom, lasciando che le sfuriate di matrice black siano solo una delle componenti del sound e non quella preponderante.
Fatte le debite premesse, si può tranquillamente dichiarare Come, Holy Death come una delle sorprese dell’anno quando si parla di sonorità in grado di evocare un senso di struggimento misto ad angoscia e ottundente dolore: mi spingo oltre, affermando che forse mai nessuno, almeno nell’ultimo decennio, è riuscito a realizzare con tale efficacia il connubio atmosferico tra il black metal ed il funeral.
L’album non è particolarmente lungo, con i suoi otto brani dalla durata media di cinque minuti ciascuno che vanno a creare, però, un flusso unico nel corso del quale soffocanti rallentamenti si legano in un abbraccio mortale alle repentine accelerazioni grazie alla solennità delle tastiere: la voce di LR è un growl che sovente si tramuta in uno screaming mai troppo esasperato, comunque restando sempre nei limiti di una certa intelligibilità. Come, Holy Death, proprio per tutte queste caratteristiche, non possiede picchi né punti deboli, perché non c’è un solo secondo sprecato indugiando in passaggi interlocutori: qui ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare. Obbligato a scegliere un brano emblematico, opto per Unmoved Mover, abbellito da un misurato tocco pianistico, ma ribadisco che anche le altre sette tracce non sono affatto da meno. Profundum è un altro nome da segnare con il circoletto rosso in egual misura, sia per per gli appassionati di black atmosferico sia per quelli di funeral doom.
Tracklist:
1. Sentient Shadows
2. Unmoved Mover
3. Antithesis
4. Tunnels to the Void
5. Storms of Uncreation
6. Into Silences Ever More Profound
7. I Have Cast A Fire Upon The World
8. Illuminating The Abyss
Ancora una buona prova da parte dei Monarch, gruppo culto di extreme doom europeo: convinti della loro arte ci regalano un’opera intensa, avvolgente nel suo drone-doom.
Nome di culto nella scena extreme doom europea, i francesi Monarch si ripresentano dopo Sabbracadaver del 2014, sempre per l’etichetta statunitense Profound Lore che continua, a ragione, a credere nella loro oscura arte.
La band, attiva ormai dal 2005, oggi con Never Forever ci propone un grandioso abisso di suoni drone stesi su un colossale e profondo doom e, come afferma la band, ci presenta “a new path to explore”. Cinque lunghi brani, ed il suono estenuante (non in accezione negativa) che viene prodotto si tinge di una vena melanconica e sinistra, dove le clean vocals, sussurrate ed eteree di Emilie Bresson, producono sinistre ambientazioni plumbee per nulla rassicuranti (Song to the void); il mood deve essere quello giusto per abbandonarsi e lasciarsi conquistare dalla profondità dei riff creati dalle due chitarre.
In questo disco risalta maggiormente , rispetto ai precedenti, l’importanza maggiore data alla struttura di brani che, nonostante il lungo minutaggio, mantengono forma e non perdono nulla in atmosfera, sempre spettrale e ossessiva. Il primo brano Of night, with knives è esemplificativo: lento, imponente, screziato dal lento salmodiare delle vocals, accompagnato da chorus intensi che si sfaldano su vocals sgraziate, si abbatte senza speranza sull’ascoltatore; l’atmosfera pesante mantiene una vena malinconica, non molto presente nei precedenti lavori, piuttosto intensa e inattesa. Gli altri tre brani presentano una band matura, conscia dei propri mezzi, che non teme di coverizzare in Diamant Noir il brano dei Kiss, Black Diamond, trasfigurandolo completamente e riducendolo in un qualcosa difficilmente riconducibile al brano originale. L’ultimo brano, Lilith, con i suoi venti minuti accentua l’iniziale componente drone creando un’atmosfera immobile e spettrale prima di far iniziare il viaggio verso luoghi con aromi di kosmische musik. In definitiva, ancora una buona prova da parte di musicisti capaci, con personalità e che amano ricercare il meglio dalla propria arte.
Tracklist
1. Of Night with Knives
2. Song of the Void
3. Cadaverine
4. Diamant Noir
5. Lilith
Doom Decimation costituisce un piccolo passo indietro a livello di ispirazione, ma non va dimenticato che ciò dipende più dalla bellezza degli album precedenti che non dall’effettivo valore di quello attuale, che resta ugualmente, comunque la si voglia mettere, una tra le migliori espressioni del classic doom uscite quest’anno.
Partiamo dal presupposto che c’è doom e doom; troviamo quello classico, che prende le mosse dai Black Sabbath per poi sublimarsi in band come Candlemass e St.Vitus, oppure la sua successiva derivazione più estrema e funebre che tre linfa da Thergothon e subito dopo Skepticism, per poi diramarsi in rivoli catacombali oppure dolorosamente melodici.
Personalmente, quando mi autodefinisco appassionato di doom faccio riferimento a questa seconda frangia, ma non posso ovviamente negare la mia devozione verso quelle storiche band che hanno ammantato di epica oscurità l’heavy metal ottantiano.
Tra i degni eredi dei maestri svedesi e americani sicuramente tra i più credibili apparsi nel nuovo secolo troviamo i cileni Procession, autori di due magnifici album come Destroyers Of The Faith e To Reap Heavens Apart: guidati da Felipe Plaza, chitarrista dotato di un timbro vocale evocativo e personale, i nostri, pur essendosi trasferiti da tempo in Svezia ci tengono a ribadire con forza quanto risiedano in Sudamerica le radici del loro doom, tanto che hanno deciso di registrare questo nuovo album, intitolato Doom Decimation, proprio a Santiago Del Cile.
Come sono solito ripetere, non è certo in questo genere che si devono ricercare spinte innovative, visto che il focus per l’ascoltatore è rappresentato dalla capacita dei musicisti di toccare le giuste corde emotive: la consolidata coppia Plaza/Botarro (assieme anche negli ottimi è più epici Capilla Ardiente) ha ampiamente dimostrato in passato d’essere in grado di raggiungere tale obiettivo, centrandolo anche in quest’occasione benché vada detto, in tutta onestà, che Doom Decimation appare leggermente più opaco rispetto ai due predecessori non fosse altro per la mancanza del brano capolavoro che segnava, invece, Destroyers Of The Faith (Chant Of The Nameless) e To Reap Heavens Apart (Far From Heart).
Grazie anche al fatto che l’interpretazione di Plaza è in grado di esaltare qualsiasi brano, il lavoro scorre ottimamente non scendendo mai sotto il livello medio al quale la band cilena ci ha piacevolmente abituato, con i suoi picchi rinvenibili in All Descending Suns, tipica traccia che cresce di pari passo con l’enfasi delle parti vocali, nel singolo Lonely Are The Ways Of Stranger e nella conclusiva One By One They Died, dalla struggente melodia chitarristica, non a caso i brani più doom nel senso classico del termine all’interno di una scaletta che vede diversi episodi maggiormente orientati ad un robusto heavy metal (When Doomsday Has Come, As They Reached The Womb).
Come detto, Doom Decimation costituisce un piccolo passo indietro a livello di ispirazione, ma non va dimenticato che ciò dipende più dalla bellezza degli album precedenti che non dall’effettivo valore di quello attuale, che resta ugualmente, comunque la si voglia mettere, una tra le migliori espressioni del classic doom uscite quest’anno.
Tracklist:
1. The Warning
2. When Doomsday Has Come
3. Lonely Are The Ways Of Stranger
4. Amidst The Bowels Of Earth
5. Democide
6. All Descending Suns
7. As They Reached The Womb
8. One By One They Died
Line-up:
Felipe Plaza – guitars, vocals
Jonas Pedersen – guitars
Claudio Botarro – bass
Uno Bruniusson – drums
Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodico/atmosferica spinta al suo massimo livello.
Quello dei Raventale non è certo un nome sconosciuto per gli osservatori più attenti della scena estrema dell’est europeo.
La one man band ucraina, il cui titolare è Astaroth Merc, con Planetarium arriva all’ottavo full length in una dozzina d’anni di attività contraddistinta da una qualità media elevatissima, offrendo una personale interpretazione del black metal che, a mio avviso, con questo ultimo album trova la sua sublimazione. Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodica spinta al suo massimo livello, come si può facilmente evincere dall’ascolto dell’iniziale Gemini – Behind Two Black Moons, traccia talmente ariosa che talvolta finisce per lambire il post black e persino il progressive, nel momento in cui si palesa uno struggente assolo di chitarra.
Del resto non si scopre oggi il fatto che Astaroth Merc sia un musicista di classe cristallina ed ogni strumento che passa per le sue mani è trattato con maestria, lasciando come di consueto ad un ospite (in questo caso l’ottimo Atahamas, suo compagno anche nei Balfor e nei Deferum Sacrum) il compito di interpretare le linee vocali.
Dopo la splendida prima traccia, il sound si fa ancor più solenne e maestoso con il capolavoro Bringer Of Celestial Anomalies, brano più aspro e ritmato ma trascinante come di rado accade ascoltare: un furioso blast beat viene per lo più sovrastato da pennellate tastieristiche che conferiscono al tutto una magica aura cosmica capace in questi casi di fare la differenza.
Dopo tanta bellezza è oggettivamente difficile fare meglio, e At The Halls Of The Pleiades offre un volto più arcigno, con il suo riffing profondo che non penalizza però una componente atmosferica la quale, anzi, si riprende ampio spazio nelle fase centrale del brano; la chiusura è invece affidata a New World Planetarium, altro episodio che supera i dieci minuti, complessivamente più compassato senza che venga meno il mood che ha contraddistinto l’album lungo la precedente mezz’ora.
Volendo fare un parallelismo magari audace, Planetarium potrebbe rappresentare l’ideale prosecuzione del discorso che gli Arcturus portarono avanti inizialmente con Constellation e poi con Aspera Hiems Simfonia, prima di abbandonare tale vena prog/atmosferica per virare su sonorità avanguardiste, visto che di quelle pietre miliari l’opera targata Raventale possiede lo stesso suggestivo respiro cosmico. A questo quadro va aggiunto che il black metal proposto da Astaroth Merc è anche contraddistinto da una componente doom, forse oggi più attitudinale che non espressa con particolari rallentamenti: ma non è un caso, però, il fatto che il musicista ucraino sia stato chiamato ad esibire le doti della sua creatura al recente Doom Over Kiev, festival che ha visto all’opera la massima espressione del doom death atmosferico europeo con Saturnus, Swallow the Sun, Clouds e Eye Of Solitude. Tutto ciò rende l’idea di quale considerazione godano i Raventale in patria e, alla luce di questo, non sarebbe male che gran parte degli estimatori del black/doom al di fuori di quei confini desse il giusto risalto ad un progetto guidato da un musicista che, come pochi altri, è riuscito a produrre con una tale continuità album di assoluto valore.
Tracklist:
1 Gemini – Behind Two Black Moons
2 Bringer Of Celestial Anomalies
3 At The Halls Of The Pleiades
4 New World Planetarium
Line-up:
Astaroth Merc – All Isntruments
Athamas – Vocals
Gli Woe Unto Me confermano comunque la loro bravura proponendosi come una delle band di riferimento del funeral doom est europeo.
Tre anni dopo l’ottimo esordio intitolato A Step into the Waters of Forgetfulness ritornano, con un nuovo album, i bielorussi Woe Unto Me, indiscussi portabandiera del verbo funeral doom del loro paese.
La band guidata dal talentuoso Artem Serdyuk, con questo Among The Lightened Skies The Voidness Flashed fa le cose in grande, rischiando a mio avviso anche qualcosina nell’offrire agli appassionati un doppio cd per oltre due ore complessiva di musica dalle coordinate ben distinte tra i due supporti magnetici: se, infatti, il primo regala un’interpretazione più ortodossa, anche se come vedremo non proprio in tutti i frangenti, il secondo è invece all’insegna di una vena acustica ed intimista dai risultati alterni.
Sinceramente, da vecchio adoratore del funeral, ritengo che solo i primi lunghi cinque brani rappresentino l’album vero e proprio, derubricando le sette canzoni contenute nella seconda parte ad una sorta di pur valido bonus cd , alla luce anche del suo oggettivo scostamento dalle linee guida del genere.
Partiamo quindi dall’opener Triptych: Shiver, Shelter, Shatter, uno dei piatti forti del lavoro, non fosse altro che per la presenza di diversi ospiti, alcuni illustri (Daniel Neagoe e Jon Aldarà ), altri meno (Patryk Zwoliński): il brano, bellissimo, cambia umore di volta in volta con l’avvicendarsi dei diversi vocalist, risultando prima cupo e drammatico, con il solito terrificante growl di Neagoe, per poi farsi più aspro in coincidenza con le harsh vocals di Zwoliński e raggiungendo infine il proprio picco emotivo quando la meravigliosa voce del faroese Aldarà spinge il brano su un piano irresistibilmente evocativo.
Un’altrettanto valida Of Life That Never Showed Its Face inaugura la parte del disco in cui l’alternanza tra il growl di Serdyuk e le clean vocals di Oleg Vorontsov diviene pressoché sistematica, aprendo peraltro sbocchi compositivi in passato inesplorati dagli Woe Unto Me, con una parte in odore di ambient con tanto di utilizzo dei fiati che prelude ad uno splendido finale. I Come To Naught si apre in maniera alquanto cupa per poi aprirsi improvvisamente in passaggi ariosi che ricordano non poco i Dark Suns del loro capolavoro Existence: anche qui il sax diviene un interessante elemento di discontinuità in un brano senz’altro originale se rapportato al genere offerto e, di conseguenza, decisamente intrigante. Breath Of A Grief, se si eccettua un bell’incremento emotivo nella sua parte finale, nonostante resti comunque un brano di buono spessore rappresenta il momento meno scintillante del primo cd, forse anche perché subito dopo arriva la vera perla dell’album, Drawn By Mourning, magnifico e drammatico esempio di come si suona il funeral doom nelle lande ex sovietiche, con il suo dolente incedere punteggiato dal lamento della chitarra ed uno sviluppo sempre improntato alla ricerca di sonorità toccanti ma non scontate.
Il secondo cd, come detto, sposta tutto su un piano molto più rarefatto che, alla fine, finisce per rendere un po’ troppo omogenei i contenuti: questo non impedisce alla band bielorussa di regalare brani splendidi come In A Stranglehold e Fall-Dyed Lament, che si vanno a collocare stilisticamente tra gli Anathema ed di Novembers Doom acustici, o come Leave Me To My Sorrows, che si rifà al pathos recitativo di Thomas Jensen negli album dei Saturnus ma, nel complesso, l’impatto e l’intensità non raggiungono quello del cd, per così dire, canonico.
Posto che il funeral è genere anticommerciale per definizione, la scelta degli Woe Unto Me è doppiamente coraggiosa, anche se questa separazione netta tra le due anime dell’album non giova all’economia dell’intero lavoro, nel senso che, pur mantenendo la versione con duplice supporto, mescolando il tutto ed alleggerendo di 2-3 brani il fatturato complessivo, Among The Lightened Skies The Voidness Flashed si sarebbe reso probabilmente più accessibile ad ascolti completi. Infatti, ritengo che molti potrebbero alla lunga accantonare la parte acustica per privilegiare l’eccellente vis compositiva esibita da Serdyuk nei primi cinque brani.
Il voto, per quel che vale, è la media matematica tra il 9 del primo cd ed il 7 del secondo ma, con la soluzione da me auspicata in precedenza, la valutazione avrebbe potuto raggiungere anche un mezzo punto in più.
Poco cambia, se non per le statistiche, visto che gli Woe Unto Me confermano comunque la loro bravura proponendosi come una delle band di riferimento del funeral doom est europeo.
Tracklist:
CD1:
1.Triptych: Shiver, Shelter, Shatter
2.Of Life That Never Showed Its Face
3.I Come To Naught
4.Breath Of A Grief
5.Drawn By Mourning
CD2:
1.In A Stranglehold
2.Leave Me To My Sorrows
3.Along Came The Imminence
4.Fall-Dyed Lament
5.A Year-Long Waiting
6.My Joy Lies Behind
7.The Snide Sun
Line up:
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Oleg Vorontsov – clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums
I Cardinals Folly producono di nuovo uno dei dischi dell’anno in ambito doom e heavy.
Dalla patria dei suoni estremi arriva questa gran band di doom classico, suonato un po’ più velocemente rispetto al canone.
I Cardinals Folly sono una sicurezza per gli amanti dei suoni più tenebrosi e lascivi, con riff che compiono cerchi perfetti, con il marchio di fabbrica del doom classico. Cambi di tempo, suoni granitici e momenti più lenti e tenebrosi, tutto il repertorio del doom classico specialmente quello anni ottanta ma anche molto di più. Sotto le ceneri dei Cardinals Folly cova molto di più, dato che è ben presente l’heavy metal specialmente nella sua variante NWOBHM, ma anche qualche momento tendente al black metal classico, il tutto fatto benissimo. Certamente la spina dorsale del disco è composta da un doom classico e monolitico, dei St.Vitus più veloci e penetranti, possessori di indubbio talento. Dischi come Deranged Pagan Sons danno sensazioni molto forti, e si fa ascoltare dall’inizio alla fine, perché le canzoni hanno molte cose dentro di loro. Questa coproduzione Nine Records e Argonauta Records è fino ad ora il loro punto più alto, ed è senza punti deboli, molto solido, ben suonato e ben prodotto. Le chitarre sono clamorose anche nei momenti più lenti e meditativi, dove esce il fortissimo legame con i Black Sabbath, ma è un punto di partenza perché poi i Cardinals Folly sviluppano musica da par loro, ed è un bellissimo sentire. Queste chitarre, con un suono molto doom classico e la voce forte, possente ma melodica che entra in questo modo sono davvero una gioia, e non solo per i palati fini del genere, ma anche per chi subisce il terribile fascino della musica tenebrosa, anche se non è facile spiegare l’amore per il doom, perché è una cosa da provare.
I Cardinals Folly producono di nuovo uno dei dischi dell’anno in ambito doom e heavy.
Tracklist
1.Worship Her Fire
2.Dionysian
3.Deranged Pagan Sons
4.The Island Where Time Stands Still
5.Three-Bladed Doom
6.Suicide Commando
7.I Belong In The Woods
8.Secret of the Runes
Line-up
Mikko Kääriäinen – bass, vocals
Juho Kilpelä – guitar
Joni Takkunen – drums
Vessel Of Light è qualcosa di profondamente americano, con quel suono potente, chiaro e dal groove forte che ti tiene incollato allo stereo, grazie anche al notevole talento del duo.
A volte sembra che alcune cose o situazioni vengano fuori dal nulla, ma se si analizza maggiormente il tutto si nota che le strade tracciate in precedenza sarebbero confluite in un cammino comune.
Questo è il caso dei Vessel Of Light, un duo composto da Dan Lorenzo (già negli Hades, Non–Ficition, e The Cursed), e Nathan Opposition, cantante degli Ancient VVisdom, con i quali condividono l’etichetta Argonauta Records.
Tutto cominciò quando Dan Lorenzo scrisse un annuncio sulla rivista del New Jersey Steppin’Out, mettendosi in contatto con Nathan Opposition. Dan considerava fino a quel momento terminata la sua carriera di chitarrista, mentre Nathan lo considerava uno dei migliori architetti di riffs di chitarra in giro per il mondo. Così quando Nathan chiese a Dan di scrivere delle canzoni lui non potè rifiutare, ed ecco il risultato. Questo disco omonimo è un concentrato di maestosi giri doom di chitarra, con un cantato magnifico di Nathan Opposition. Vessel Of Lightè qualcosa di profondamente americano, con quel suono potente, chiaro e dal groove forte che ti tiene incollato allo stereo, grazie anche al notevole talento del duo.
Le canzoni sono costruite con un andamento deciso e al contempo etereo, si viaggia con potenza, attingendo dalla tradizione americana di questo suono. Non ci sono pause o momenti di smarrimento, ma si ondeggia la testa per tutta la durata del disco, che è solido come una pietra che rotola e che sposta l’aria già prima di arrivare a destinazione. Vessel Of Light possiede un mojo doom blues che ne fa un’opera unica e lo fa ascoltare dall’inizio alla fine.
Strade fatte per incrociarsi e per diventare giganteschi vortici musicali.
Tracklist
01. “Where My Garden Grows”
02. “Dead Flesh And Bone”
03. “Meant To Be”
04. “Descend Into Death”
05. “Living Dead To The World”
06. “Vessel Of Light”