Gli Evil Spirit danno l’impressione di farsi guidare da un istinto a tratti selvaggio, che va a rivestire di una certa freschezza una proposta che affonda le proprie radici comunque nel passato.
Gli Evil Spirit sono una band che ha la propria base sul suolo tedesco, anche se all’interno del trio è preponderante la componente sudamericana con i suoi fondatori Marcelo Aguirre (voce e batteria) ed Ari Almeida chitarra), in seguito raggiunti dal bassista Saäth Nokr.
Non paia superflua questa precisazione, perché, come abbiamo già visto in passato, la scuola metallica sudamericana mostra una spiccata propensione verso un genere come il doom-death di matrice tradizionale, che è appunto quanto offerto dal trio. Cauldron Messiah è il solo full length pubblicato finora dalla band, in prima battuta nel 2014 ad opera della Horror Records, unicamente in vinile e cassetta: la Terror From Hell Records ne cura due anni dopo l’uscita nel più pratico formato in cd, compiendo cosa gradita perché trattasi di un’opera del tutto meritevole di una riscoperta.
Come detto, il doom degli Evil Spirit è quanto mai legato alla tradizione, sia quando il sound appare più canonico e pulito, sia quando viene lasciato galoppare in accelerazioni violente e sporcato da un’anima death che va a comporre un quadro complessivo sicuramente vintage, ma ricco di un suo fascino.
Volendo trovare un aggancio con qualche album del passato, direi che l’ascolto della title track, posta a suggello del buon lavoro, svela quale sia una delle fonti alle quali si abbeverano gli Evil Spirit: difficile, infatti, non rinvenire forti richiami al seminale Forest Of Equlibrium dei Cathedral, anche se il terzetto ha una spiccata tendenza a lasciarsi andare ad accelerazioni improvvise, quanto furiose e quasi convulse rispetto al monolitico incedere che fu di Dorrian e soci, ed è questo che conferisce a Cauldron Messiah una piacevole imprevedibilità.
Gli Evil Spirit danno l’impressione di farsi guidare da un istinto a tratti selvaggio, che va a rivestire di una certa freschezza una proposta che affonda le proprie radici comunque nel passato: bravi quindi i nostri nello spremere il massimo dalle loro potenzialità.
Del resto il doom è sempre necessario, pure quando è brutto sporco e cattivo e non offerto nella sua più avvolgente forma melodica ed evocativa.
Tracklist:
1. Intro (Him the Almighty Power)
2. Grey Ashes of the Reptile
3. Eve of the Beholder
4. Let the Dragon Be My Guide
5. Reino sangrento
6. Push Angie Back into the Swamp
7. Cauldron Messiah
La riedizione dell’album d’esordio può rivelarsi utile nel tornare a far parlare degli Even Vast, ma rischia d’essere fuorviante per chi intendesse seguirli nella loro nuova avventura.
La Sleaszy Rider è un’etichetta piuttosto attiva che, oltre a segnalarsi per un buon roster, è specializzata anche nella riedizione di album usciti diverso tempo fa; così, assieme all’utile e gradita rilucidatura di Sleep Of The Angels dei Rotting Christ, troviamo anche la riproposizione di Hear Me Out, disco d’esordio degli Even Vast.
Tale scelta, relativa ad una lavoro che non può essere certo paragonabile per valore a quello della band di Sakis, trova una sua motivazione con la recente firma della band italiana con l’etichetta ellenica, ma non ne fotografa la massima espressione artistica e dubito che possa anche rappresentare un’utile introduzione a quello che verrà, alla luce dei preannunciati cambiamenti stilistici e di line-up. Hear Me Out uscì originariamente nel 1999, andando a collocarsi all’interno del filone del gothic doom con voce femminile che, in quel decennio, visse i momenti di massimo splendore: lo stile della band aostana era molto più asciutto e privo di fronzoli atmosferici rispetto a modelli quali Theatre Of Tragedy o Within Temptation, ma quell’esordio si rivelava ancora acerbo, soprattutto nell’interpretazione vocale di una Antonietta Scilipoti che, nei dischi successivi, sarebbe decisamente progredita contribuendo fattivamente alla riuscita di un buon lavoro come Outsleeping (2003).
Dopo qualche anno di silenzio, gli Even Vast diedero infine alle stampe nel 2007 Teach Me How to Bleed, album che mostrava una svolta elettronica sulla falsariga di quanto fecero a inizio millennio i già citati Theatre Of Tragedy con Musique, per poi non dare più segnali di attività fino a quest’anno.
Tornando a Hear Me Out, non mancavano brani di buona fattura (su tutti Foolish Game) ma la sensazione, oggi, è quella di ascoltare una band che si trovava ancora in una fase embrionale nella quale alcuni ottimi spunti risultavano frammisti a diverse imperfezioni, e le bonus track inserite nella riedizione, trattandosi di tracce registrate dal vivo, non fanno altro che accentuare gli aspetti negativi.
Della line-up originale è rimasto oggi il solo Luca Martello, nel frattempo trasferitosi in Inghilterra dove ha ridato vita alla band che dovrebbe aver virato decisamente verso lo sludge doom, abbandonando le pulsioni gotiche del decennio scorso.
Anche per questo, la riedizione dell’album d’esordio può rivelarsi utile nel tornare a far parlare degli Even Vast, ma rischia d’essere fuorviante per chi intendesse seguirli nella loro nuova avventura.
Tracklist:
1. Never Hear Me
2. Once Again
3. The One You Wish
4. Foolish Game
5. Memories
6. Energy
7. Believe Me
8. RU
9. The One You Wish (live) * bonus track
10. Once Again (live) * bonus track
11. Over (live) * bonus track
Line-up:
Antonietta Scilipoti – vocals
Luca Martello – guitars
Diego Maniscalco – bass
Paolo Baltaro – drums, keyboards
Un buon ritorno che si spera sia propedeutico ad altre future uscite
Gli Hyponic sono una realtà proveniente da Hong Kong e dedita ad un funeral doom davvero stimolante.
Presi sotto l’ala protettiva della Weird Truth Productions, la label giapponese specializzata in doom e gestita, non a caso, da Makoto Fujishima, massimo esponente del genere nel paese del Sol Levante, gli Hyponic infatti si rifanno vivi con il loro terzo full length dopo oltre un decennio di silenzio discografico.
Il titolo dell’album, così come quelli dei brani (ad eccezione della cover dei Virus, Intro), sono tutti composti da ideogrammi per noi indecifrabili per cui identificherò le tracce con l’ordine di posizionamento nella tracklist.
Il funeral doom degli Hyponic è decisamente interessante, proprio in quanto di difficile collocazione stilistica, e denota, pertanto, una buona dose di personalità e di predisposizione ad una sperimentazione tutt’altro che velleitaria; infatti, nonostante la musica di provenienza asiatica, talvolta viva di una luce riflessa rispetto alle proprie fonti di ispirazione, siano esse di matrice europea od americana, si può dire che la proposta in questo caso ha una sua spiccata peculiarità, nel senso che le influenze vengono elaborate ed espresse in maniera non calligrafica, come avviene con le aperture drammatiche in stile primi Monolithe, e con passaggi di matrice ambient e rarefazioni acustiche che possono ricondurre a grandi linee agli Esoteric o anche agli stessi Funeral Moth di Fujishima.
In sostanza, quest’album degli Hyponic è di egregia fattura, anche se di non semplice ascolto: è fuor di dubbio che aiutano non poco, a livello di fruizione, le ottime aperture chitarristiche in versione solista che troviamo sia nella traccia d’apertura sia, in una più disturbante veste, nell’eccellente quarto brano; come già detto, però, più spesso è una componente ambient a prendere il sopravvento, rendendo l’album non meno interessante e, per quanto elaborato, tutt’altro che tedioso, offrendo la possibilità di godere di una band in grado di tenere alto il vessillo del doom estremo di matrice asiatica, grazie ad un buon ritorno che si spera sia propedeutico ad altre future uscite.
Chi vuole ascoltare del death doom nella sua forma più oscura e meno ammiccante deve seguire la strada percorsa dai Deprive
Eccoci alle prese con l’ennesimo “workaholic” del metal, uno della genia di personaggi come Déhà, per intenderci, capaci di tenere in piedi un numero di progetti in doppia cifra facendo ragionevolmente ritenere che alcuni mortali siano realmente dotati del dono dell’ubiquità.
La cosa rimarchevole è però che, il più delle volte, tale iperattività non va a discapito della qualità e, addirittura, per il citato musicista di origine belga la tendenza pare essere paradossalmente all’opposto.
Erun-Dagoth, al secolo lo spagnolo Javier Sixto, è un produttore e musicista coinvolto, tra passato e presente, in oltre una ventina di band e progetti tra i quali questo denominato Deprive, con il quale il nostro ci fa ripiombare senza misericordia in atmosfere piacevolmente novantiane.
Chi ha amato gli album pubblicati in quel decennio da Morbid Angel ed Incantation, tanto per citare i due nomi più pesanti che vengono in mente, troverà pane per i propri denti in questo Temple of the Lost Wisdom, lavoro che al detah dei primordi unisce mirabilmente quei mortiferi rallentamenti di matrice doom che fecero la fortune di molti in quel periodo.
La bontà dell’operato del musicista di Santander risiede principalmente nella sua capacità di rendere relativamente vari i diversi brani, rinunciando ad un approccio annichilente e optando, invece, per l’inserimento di parti in cui il sound si fa morbosamente melodico; se a tutto questo aggiungiamo una prestazione rimarchevole sotto tutti gli aspetti, in considerazione della natura rigorosamente solista del progetto, il giudizio finale per quest’opera non può che essere decisamente positivo.
I tre quarti d’ora di musica estrema di prima classe trovano il loro picco in una traccia magistrale come Gospel of the Black Sun, nella quale un appassionato di musica del destino come il sottoscritto non può fare a meno di godere di quello che è, a tutti gli effetti, un’esibizione emblematica del migliore death doom, con le furiose accelerazioni inframmezzate da bruschi rallentamenti nei quali la chitarra disegna armonie tutt’altro che banali, il tutto sovrastato da un growl magari un pizzico monocorde ma perfetto per il contesto.
Ecco, chi vuole ascoltare del death doom nella sua forma più oscura e meno ammiccante deve seguire la strada percorsa dai Deprive, perchè in Temple of the Lost Wisdom si trova lo stato dell’arte del sottogenere, rappresentato da un songwriting ispirato e da una produzione, finalmente, coerente con le sonorità proposte.
Tracklist:
1. Other Earth
2. A Mournful Prophecy
3. Vortex of Repulsion
4. Doomed Tears of Humanity
5. Hyperborean Serenades – The Elder Race Mystery
6. Gospel of the Black Sun
7. Temple of the Lost Wisdom
8. Fall of Atlantis
9. A Desperate Praise
10. Incarnation of the Macabre
Lentezza, pesantezza, ed un’incredibile linea melodica, sono fra le principali caratteristiche di questo gruppo, che produce un disco semplicemente clamoroso
I Dejected Mass fanno uno sludge molto pesante, calibrato con pesi massimi, tra una sessione di droga e musica degli Eyehategod e un acido preso al concerto degli Iron Monkey.
Ultimamente il termine sludge è abusato, nel senso che lo si usa un po’ a sproposito, assegnandolo a dischi che hanno poco o niente di sludge. Forse il motivo è che si prova a dare allo sludge caratteristiche che esso non ha. Lo sludge, a maggior ragione se mischiato con il doom, deve essere una musica disturbante, lenta, urticante come il napalm al mattino. Se cercate queste cose allora Dirgeè il disco che fa per voi, è una lenta cavalcata tra corpi sgozzati e miasmi, e andrete tanto più avanti quanto più vorrete tornare indietro. Lentezza, pesantezza, ed un’incredibile linea melodica, sono fra le principali caratteristiche di questo gruppo, che produce un disco semplicemente clamoroso, per estremità e chiarezza del disegno generale. Le chiavi delle porte in questo delirio ce le hanno questi. ragazzi tedeschi, che hanno fondato il gruppo ad Heidelberg nel 2012, e che attualmente hanno avuto defezioni nella formazione, ma si spera vivamente possano continuare, visto il livello di questo disco. Vi cadranno addosso tonnellate cubiche di chitarre lentamente lancinanti, di un basso che vi scava nello stomaco, e la batteria che pulsa come un cuore malato.
Un disco sia disturbante che affascinante, come se ne conviene alle grandi opere, che non devono dare solo piacere, ma anzi dare anche paura a chi piace, e qui di paura ce n’è in abbondanza. Lo stile generale è quello dell’ottimo underground pesante degli anni novanta, quando gruppi con groove pesantissimi sguazzavano liberi nelle nostre orecchie come gli Antichi di Lovecraft nel cielo dell’ultimo giorno, con un taglio difficilmente riproducibile in questi anni forse a causa di produzioni troppo pulite, ma i Dejected Mass ci riescono in pieno.
TRACKLIST
1. Bonds of Sadness
2. Crave
3. Branch of Freedom
4. Methanol Death
5. Desensitized
6. Worthless Life
LINE-UP
Jan Bletsch – Bass
Frank Kron – Drums
Christian Nann – Vocals, Guitars
Uno split album prezioso, in particolare per i nostalgici del vinile i quali avranno di che crogiolarsi con l’edizione limitata a 500 copie a cura della Horror Records.
Ennesimo split album che ci consente di riascoltare gli Abysmal Grief, questa volta assieme ai veronesi Epitaph.
Della band genovese ho già parlato ampiamente nel recente passato, e sicuramente non posso negare la mia adorazione confronti di questo gruppo ormai assurto ad uno status di culto che continua ad essere rafforzato ad ogni uscita, split, ep o full length che sia.
Il brano presentato per l’occasione, Dies Funeris, dal titolo ben più che programmatico, non fa eccezione con i suoi undici minuti di doom liturgico in cui l’odore mefitico della morte si mescola a quello dell’incenso; il sound degli Abysmal Grief riesce a mantenere le sue caratteristiche funeree anche quando è accompagnato da ritmiche incalzanti, dove il basso di Lord Alastair detta i tempi all’organo di Labes C. Necrothytus ed al suo caratteristico ringhio. Una traccia eccezionale, abbondantemente all’altezza degli episodi migliori presenti in Feretri e Strange Rites Of Evil.
Come sempre le band che condividono gli split album con i maestri incontrastati del doom orrorifico hanno, in primis, il non facile compito di reggere il confronto: gli Epitaph provano a superare l’ardua prova con un brano ancora più lungo rispetto a quello dei dirimpettai, una scelta coraggiosa che trova come sua unica controindicazione l’esibizione di un sound più schematico, in ossequio alla tradizione del genere.
La band veneta, che dopo un silenzio durato un ventennio è tornata sulla scena con la pubblicazione nel 2014 del suo primo full length, non sfigura in virtù dell’indubbia esperienza e della competenza nel maneggiare la materia, ma è evidente che rispetto agli Abysmal Grief la proposta manca di una sua peculiarità, in quanto viene fatto in maniera ottimale qualcosa che però è nelle corde di decine di gruppi. Farewell to Blind Men resta comunque un brano valido per potenzialità evocative, ben enfatizzate dall’interpretazione del vocalist Emiliano Cioffi, e va a mostrare un’altra faccia, pur sempre efficace, del doom metal.
Uno split album prezioso, in buona sostanza, in particolare per i nostalgici del vinile i quali avranno di che crogiolarsi con l’edizione limitata a 500 copie a cura di Terror from Hell, Horror Records e High Roller Records.
Tracklist:
Side A
Dies Funeris
Side B
Farewell to Blind Men
Line-up: Abysmal Grief
Lord Alastair – Bass
Lord of Fog – Drums
Regen Graves – Guitars, Songwriting
Labes C. Necrothytus – Organ, Vocals
I Tenebrae possiedono una dote essenziale, al di là di qualsiasi altra considerazione: sanno trasmettere emozioni uniche a chi è in grado di attivare i propri sensi per poterle riceverle.
Per chi aveva apprezzato un lavoro magnifico come Il Fuoco Segreto, la voglia di ascoltare un nuovo disco dei Tenebrae era mista ad un certo timore, alla luce della preannunciata sterzata a livello stilistico unita all’ennesimo rimpasto di una line-up che sembrava aver raggiunto una sua stabilità; inoltre, la necessità, da parte della band genovese, di ricercare una nuova etichetta in grado di supportarne adeguatamente gli sforzi creativi, finiva per disegnare un quadro ricco di criticità che avrebbero potuto mettere in crisi qualsiasi persona sprovvista della passione e della convinzione dei propri mezzi in possesso di Marco “May Arizzi”.
Intanto, il chitarrista e compositore principale dei Tenebrae, assieme all’unico superstite della formazione originale, il bassista Fabrizio Garofalo, ed al vocalist già presente su Il Fuoco Segreto, Paolo Ferrarese, hanno trovato due nuovi compagni d’avventura nel tastierista Fulvio Parisi e nel batterista Massimiliano Zerega. Rinsaldata così una line-up che si era sfaldata proprio durante la fase di stesura dei brani che sarebbero confluiti in My Next Dawn, il processo compositivo ha ripreso slancio ed ulteriore vigore e, mai come in questo caso, si può sostenere a buona ragione che le difficoltà alla lunga abbiano avuto un effetto fortificante, di fronte all’evidenza dei risultati ottenuti.
Già, perché My Next Dawn si pone come il punto più alto raggiunto dal gruppo ligure, cosa neppure troppo scontata se si pensa al valore assoluto che contraddistingueva la produzione precedente ed al parziale abbandono di uno stile peculiare che la marchiava in maniera indelebile.
Il passaggio dall’italiano all’inglese, in sede di stesura dei testi, è stato, in primis, un passo necessario per rendere più appetibile il disco anche al di fuori dei nostri confini, ma non è certo l’unico motivo: infatti, la metrica anglofona meglio si sposa con un sound che punta maggiormente verso l’oscurità del gothic doom e, qui, non si può non fare un plauso alla bravura di Antonella Bruzzone, capace di passare con disinvoltura dalle storie tragiche ed intrise di romanticismo descritte nella nostra lingua in Memorie Nascoste e Il Fuco Segreto, ad un racconto di matrice apocalittica in lingua straniera, ispirato al film The Road, ed affidato alla magnifica interpretazione di Paolo Ferrarese. My Next Dawn, però, nonostante tali premesse, non recide del tutto il cordone ombelicale con la produzione passata: la peculiare impronta progressive resta ben definita anche se non più in primo piano, assieme ad un afflato melodico che aleggia in ogni brano, persino nei passaggi apparentemente più aspri, andando a comporre un quadro complessivo cupo, malinconico e tutt’altro che semplice da etichettare (atmospheric doom, gothic, dark, sono questi i tag puramente indicativi che accompagneranno probabilmente le diverse recensioni del lavoro)
Dopo l’intro Dreamt Apocalypse, è Black Drape il reale biglietto da visita dei nuovi Tenebrae, con accelerazioni ai confini del black alternate a momenti evocativi guidati dalle tastiere di Parisi ed esaltati dalla versatilità di Ferrarese, capace come non mai di esprimersi in diversi registri vocali che, per la maggior parte dei cantanti, risulterebbero incompatibili: una teatrale voce stentorea si alterna ad un growl profondo e convincente e, soprattutto, a vocalizzi di stampo operistico che hanno il compito di enfatizzare il pathos che pervade lo scorrere delle note.
La bellezza di questo brano spazza via ogni dubbio e da qui in poi l’ascolto diviene null’altro che la scoperta di una serie di gemme disseminate all’interno del lavoro, a partire da Careless, assieme alla title track una delle tracce che i nostri avevano già presentato nelle loro ultime apparizioni dal vivo quale assaggio di ciò che sarebbe stato My Next Dawn: qui è uno struggente assolo di Marco Arizzi a porre il suggello ad un’altra canzone magnifica.
La chitarra acustica suonata dall’ospite Laura Marsano (protagonista qualche anno fa su Le Porte Del Domani, quello che probabilmente è stato l’atto finale della carriera de La Maschera di Cera) è un valore che si aggiunge lungo il corso dell’album e fa bella mostra di sé nell’intro di Grey, traccia che si dipana in un finale di toccante e drammatica bellezza, precedendo quello che si rivelerà uno dei picchi dell’album, la magnifica The Fallen Ones, nella quale viene esaltato il connubio tra le liriche e la musica, con Ferrarese a denunciare un abbrutimento della razza umana che non è più soltanto la precognizione di un futuro post-apocalittico.
Arrivati a metà del guado, non resta che verificare la capacità dei Tenebrae di mantenere anche nella parte discendente dell’album la stessa profondità di un sound che brilla di un’intensità quasi sorprendente. The Greatest Failure è la risposta, trattandosi dell’ennesima canzone che si imprime nella memoria, apparendo destinata ad albergarvi a lungo così come la successive Behind (che, dopo un inizio rarefatto, esplode letteralmente nella sua seconda parte) e Lilian (contraddistinta da un elegante lavoro tastieristico).
Se, più di una volta, le band che sparano le migliori cartucce in avvio dei loro album finiscono poi per scontare una certa impasse dovuta all’inserimento di riempitivi, i Tenebrae riservano il meglio proprio nel finale, con l’accoppiata composta dalla title track e da As The Waves, due brani di struggente bellezza che dimostrano ampiamente la dimensione artistica raggiunta dal quintetto genovese, capace come pochi altri di chiudere un lavoro in costante crescendo e lasciando in dote all’ascoltatore esclusivamente quelle emozioni trasmesse con stupefacente continuità per una cinquantina di minuti.
Se vogliamo, i Tenebrae sono approdati oggi su un terreno attiguo a quello battuto dagli Ecnephias, benché i sentieri percorsi siano stati decisamente differenti, esprimendo con My Next Dawn un lavoro all’altezza del masterpiece pubblicato lo scorso anno dalla band lucana.
Non credete, allora, che sia arrivato il momento di dare maggior credito a chi compone e suona musica per passione, dando sfogo ad un fuoco che difficilmente cesserà di ardere, piuttosto che supportare passivamente chi contrabbanda per arte il semplice tentativo di sbarcare il lunario?
Se siete ancora convinti che oggi non ci sia più nessuno in grado di regalare opere degne di occupare un posto di rilievo nelle vostre collezioni discografiche, provate prima ad ascoltare My Next Dawn; fatevi questo regalo, date un calcio definitivo alle preclusioni ed ai giudizi precostituiti: i Tenebrae non diventeranno mai, purtroppo, uno di quei nomi “cool” dei quali farsi vanto d’essere fan o sostenitori, ma ascoltare e vivere la vera musica è un processo interiore, lontano anni luce da un effimero post da condividere sui social, questo non va dimenticato mai …
Tracklist:
1. Dreamt Apocalypse
2. Black Drape
3. Careless
4. Grey
5. The Fallen Ones
6. The Greatest Failure
7. Behind
8. Lilian (changing shades)
9. My Next Dawn
10. As The Waves (always recede)
Line-up:
Marco Arizzi – Chitarre
Fabrizio Garofalo – Basso
Paolo Ferrarese – Voci
Fulvio Parisi -Tastiere
Massimiliano Zerega- Batteria
Laura Marsano – Chitarra acustica
Antonella Bruzzone – Testi
Sara Aneto – Grafica
L’ennesimo grande disco di una band che non finisce mai di regalare emozioni.
Gli Eye Of Solitude, rispetto alla maggior parte delle doom band, si distinguono per una produzione più cospicua che, quasi magicamente, non va affatto a discapito della qualità.
Infatti, a fronte di chi fa trascorrere diversi anni tra un uscita e l’altra, il gruppo guidato da Daniel Neagoe solletica con una certa frequenza il palato dei numerosi estimatori, guadagnati grazie alla pubblicazione di un capolavoro come Canto III (2013) ed ad altri due lavori magnifici come Sui Caedere (2012) ed Dear Insanity (2014).
Nel 2015 il nome del gruppo londinese è balzato agli onori della cronaca, prima grazie allo split con gli olandesi Faal, poi, anche per la valenza benefica dell’operazione, con la pubblicazione on-line del singolo Lugubrious Valedictory, volto alla raccolta di fondi da devolvere a favore dei familiari di coloro che persero la vita nella tragedia del Colectiv Club di Bucarest, risalente allo scorso ottobre.
Fatte le debite premesse, veniamo a parlare del nuovo album Cenotaph, la cui uscita è prevista per il 1 settembre e che, al momento, non vede alcuna etichetta assumersi l’onere (ma soprattutto l’onore) della sua pubblicazione.
Se, come detto, Canto III costituiva la quintessenza del sentire musicale degli Eye Of Solitude potendosi considerare, per certi versi, un qualcosa di irripetibile grazie alla sua perfetta espressione di un deathdoom melodico e parossistico per intensità, Dear Insanity si spostava maggiormente verso un funeral dagli ampi tratti ambient; Cenotaphriesce nella non facile impresa di assimilare il meglio da entrambi i lavori, restando sicuramente su posizioni più vicine all’ep precedente ma arricchendole con quei crescendo emotivi che sono il marchio di fabbrica di Neagoe e soci.
Rispetto all’opera di matrice dantesca, Cenotaphappare sicuramente meno immediato, evidenziando, come già notato in Dear Insanity, un’attitudine chitarristica più propensa ad accompagnare il sound piuttosto che ad ergersi quale protagonista, facendo sì che, alla fine, il vero “strumento” chiave del lavoro divenga proprio l’inimitabile growl di Daniel.
Proviamo per assurdo ad azzerare gli interventi del vocalist rumeno: ne resterebbe comunque un superlativo album strumentale al quale, però, verrebbe meno l’elemento cardine in grado rendere “fisico” il tormento e lo smarrimento evocato dalla musica.
Infatti, la commozione che oggi pochi come gli Eye Of Solitude sono capaci di indurre, nasce da un lavoro d’insieme, dall’afflato compositivo di una band che si muove all’unisono, preparando il terreno, tramite passaggi rarefatti ed atmosfere quasi cullanti, alla deflagrazione di un pathos che assume le sembianze di un crescendo vorticoso e dall’intensità insostenibile.
Questa è, a grandi linee, la descrizione di un brano come A Somber Guest, uno dei picchi assoluti della carriera di una band unica, oggi, per la propria particolare opera di sbriciolamento di ogni barriera psichica che l’inconscio provi ad erigere.
Il dolore, la paura dell’ignoto, l’ineluttabilità della morte: tutto ciò viene rovesciato sull’ascoltatore, prima sgomento ed indifeso di fronte ad una tale offensiva, poi gradualmente capace di compenetrarsi con la musica facendosi consapevolmente travolgere da una marea emotiva che, ritirandosi, lascia quale preziosa traccia del suo passaggio un catartico stupore.
La title track prima, e This Goodbye. The Goodbye, poi, sono esempi di quella rarefazione del suono che, se non raggiunge l’intensità esibita in altri passaggi dell’album, costituisce il magnifico preludio ad aperture melodiche che inducono senza remissione alle lacrime, come avviene in maniera esemplare e definitiva nella seconda parte dell’altro brano capolavoro Loss, a suggello dell’ennesima opera monumentale targata Eye Of Solitude. Cenotaphè tappa obbligata per chi vuole affrontare privo di preconcetti una forma d’arte che, invece di occultare le miserie dell’esistenza rivestendole grottescamente di una gioia artefatta , le esibisce senza pudori per poi trasformarle in un’esperienza liberatoria, facendo vibrare le corde più profonde dell’animo umano.
Tracklist:
1. Cenotaph
2. A Somber Guest
3. This Goodbye. The Goodbye
4. Loss
Line-up:
Daniel Neagoe – Vocals
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Steffan Gough – Guitars
I non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.
Da una costola dei Blood Ceremony nasce questo interessante progetto denominato Völur.
Lucas Gadke, bassista della nota occult doom band canadese, si avvale dell’aiuto del batterista James Payment e soprattutto della violinista e vocalist Laura Bates, la quale si dimostra elemento decisivo nel conferire peculiarità al lavoro.
L’uscita di Disir, in effetti, risale a poco più di due anni fa in formato cassetta: la sempre attenta Prophecy ripropone il tutto nelle più canoniche versioni in cd e vinile migliorandone nel contempo la reperibilità, specie sul più ricettivo suolo europeo.
I quattro lunghi brani qui contenuti prendono le mosse dal doom per spingersi verso ambiti e sfumature variegate: con il violino a sostituire di fatto la chitarra, il sound dei Völur assume caratteristiche non prive di un certo fascino, andando ad evocare di volta in volta sensazioni oscillanti dalla Mahavishnu Orchestra ai King Crimson con David Cross in formazione, fino a spingersi ai riflessi morriconiani della soffusa White Phantom. Disirnon è un album semplicissimo da assimilare, non tanto per una sua relativa orecchiabilità quanto per il suo andarsi a collocare in un ambito dai confini indefiniti e, quindi, non rivolto ad una specifica fascia di ascoltatori.
Immagino, però, che i non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano, non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.
Tracklist:
1. Es wächst aus seinem Grab
2. The Deep-Minded
3. White Phantom
4. Heiemo
Line-up:
Lucas Gadke – Electric bass, double bass & vocals
Laura C. Bates – Violin & vocals
James Payment – Drums
Temple Of Phobos non mancherà di affascinare gli amanti dei suoni oscuri e dalle tematiche occulte ed horror
Scivolando lentamente sul letto di acque scure ci avviciniamo al tempio di Phobos, dove ad aspettarci, sinistri e crudeli ci sono i Vanhelgd, dal 2007 sacerdoti malvagi di litanie metalliche estreme tra doom metal, black e old school death.
Tre full length alle spalle, una discografia che ha dato in pasto ai cultori del metallo più oscuro un disco ogni tre anni circa, partendo da Cult Of Lazarus fino a quest’ultimo lavoro, e con in mezzo Church of Death del 2011, Relics of Sulphur Salvation del 2014, ed un unico ep uscito nel 2010 dal titolo Praise the Serpent.
Accompagnato da una bellissima copertina raffigurante un “Caronte” che si avvicina al tempio, in classico stile doom, Temple Of Phobos non mancherà di affascinare gli amanti dei suoni oscuri e dalle tematiche occulte ed horror, grazie soprattutto ad un songwriting vario e a tratti entusiasmante per quel modo di coniugare i generi citati con grande maestria, creando così un’opera dai tratti nerissimi ma dalle sfumature cangianti.
La pesantezza del doom metal, dai riff che ricordano non poco i Paradise Lost dei primi bellissimi lavori (Gravens lovsång sembra uscita dalle sessions di Gothic), lasciano spazio a sferzate dai rimandi black e mid tempo ispirati dallo swedish death metal di primi anni novanta in un’escalation di emozioni intense, spesse come l’acqua nera come la pece del fiume che porta al sacro tempio di Phobos, mentre tra la boscaglia occhi di fuoco seguono il percorso di questo liquido letto di morte.
Enorme il lavoro delle due asce ispiratissime in tutte le loro cangianti sfumature e che come demoni, a turno, si impossessano di Mattias “Flesh” Frisk e Jimmy Johansson, coppia che non manca di imprimere il loro marchi anche dietro al microfono.
La sezione ritmica (Jonas Albrektsson al basso e Björn Andersson alle pelii) non può che assecondare il mood dell’album con cambi di tempo da una song all’altra, che mantengono un livello alto anche se la parte doom/death è quella che imprime un salto di qualità importante a tutto Temple Of Phobos.
Il death/black dell’opener Lamentation of the Mortals, la già citata e stupenda Gravens lovsång e la conclusiva Allt hopp är förbi sono i picchi qualitativi di un album bello, inquietante e che non può mancare nella discografia di chi ama questi generi e le opere dei primi anni novanta.
Inoltratevi nella foresta (l’inquietante barcaiolo vi sta già aspettando) e andate alla ricerca del tempio di Phobos, non ve ne pentirete.
TRACKLIST
1. Lamentation of the Mortals
2. Rebellion of the Iniquitous
3. Den klentrognes klagan
4. Temple of Phobos
5. Gravens lovsång
6. Rejoice in Apathy
7. Allt hopp är förbi
LINE-UP
Björn Andersson – Drums
Mattias “Flesh” Frisk – Guitars, Vocals
Jimmy Johansson – Guitars, Vocals
Jonas Albrektsson – Bass
Death metal di marca doom al servizio della narrazione di una strana storia tutta finlandese. L’opera dei Vainaja si basa tutta sulla vita e i libri di Wilheim Waenaa, una mistica figura del folklore finlandese.
Death metal di marca doom al servizio della narrazione di una strana storia tutta finlandese.
L’opera dei Vainaja si basa tutta sulla vita e i libri di Wilheim Waenaa, una mistica figura del folklore finlandese. Da quel poco che si sa di questo personaggio apprendiamo che era la figura principale dietro al culto rurale di Vainaja, un’entità che terrorizzava i contadini e non solo loro.
Questo culto nacque e prosperò principalmente nel diciottesimo secolo, e rappresenta un unicum, visto le sue peculiarità. Il credo che venerava Vainaja era incentrato sulla blasfemia, sui sacrifici umani e sulla guerra agli infedeli tra le altre cose. E fin qui nulla di strano. Verenvalaja è l’unico scritto conservato e tramandatoci di Waenaa, e parla di una resurrezione, anzi meglio di una morte e successiva reincarnazione in una creatura maligna. I capitoli del libro sono sei come le canzoni del disco. I Vainaja fanno death metal di matrice doom, con uno strano incedere, lento ma inesorabile, e totalmente originale.
Ci sono anche echi di post metal per rendere la miscela esplosiva. I testi in finlandese non aiutano la comprensione, ma state certi che i Vainaja si fanno capire benissimo con la musica. La Svart contribuisce come al solito a portare alla ribalta particolarità tutte finlandesi come questo disco e questa storia. Le atmosfere malate e strane dei Vainaja ci portano in un posto brutale ed estremo, e le cose si svolgono alla velocità del sangue.
Un disco nuovo per un gruppo che va ben oltre la musica.
I Cauchemar offrono qualcosa di irripetibile all’ascoltatore, con il loro grande fascino ed un perfetto suono occult heavy doom.
I Cauchemar raccontano le tradizioni e le cose antiche con il loro heavy rock occulto e tendente al doom. Il loro suono è molto sensuale ed affascinante con la voce di Annick Giroux che ci guida in meditazioni sulla vita e soprattutto sulla morte, all’interno di vecchie chiese sconsacrate e davanti a vecchie fiamme che non vogliono spegnersi.
Il loro suono è una preghiera agli anni settanta, ma non vi è ferma imitazione, ma una via personale. I testi tutti in francese danno maggiore bellezza all’insieme. Provenienti dal francofono e musicalmente fertile Quebec, i Cauchemar offrono qualcosa di irripetibile all’ascoltatore, con il loro grande fascino ed un perfetto suono occult heavy doom. Reduci da un ep e da un lp tutti su Nuclear War Now ! Productions, i Cauchemar sono un gruppo unico e con un grande seguito molto fedele. Oltre ai dogmi doom e rock, nei Cauchemar possiamo ascoltare anche forti rimandi alla tradizione più tendente all’occulto della musica pesante, come i Death SS, Paul Chain e i primi Black Sabbath. Ascoltando questo disco si ha davvero l’impressione di trovarsi in una cappella ardente, dove a bruciare tra le demoniache fiamme si trova anche la nostra anima, ormai irrimeadibilmente venduta al nero signore.
TRACKLIST
1.Nécromancie
2.Sepolta viva
3.Funérailles célestes
4.Main de gloire
5.Voyage au bout de la nuit
6.La vallée des rois
7.L’oiseau de feu
8.Étoile d’argent
LINE-UP
Annick Giroux – Vocals.
François Patry – Guitar.
Andres Arango – Bass.
Xavier Berthiaume – Drums.
I Lord Vicar si confermano come una di quelle band in grado di fungere da traino per il genere nel nuovo millennio e con Gates Of Flesh regalano un album imperdibile agli appassionati.
Un altro ottimo lavoro incentrato sulla musica del destino dal taglio classico che va a rimpolpare le truppe scese in campo negli ultimi mesi con lavori sopra le righe.
I Lord Vicar, con base in Finlandia sono una multinazionale dei suoni cadenzati e monolitici: fondati quasi dieci anni fa da Kimi Kärki (Peter Vicar) dei Reverend Bizarre, raggiunto sull’altare messianico da altri nomi importanti del genere come Chritus, ex vocalist tra gli altri di Count Raven e Saint Vitus, e dalla sezione ritmica composta dal solo Gareth Millsted al basso ed alle pelli. Gates Of Flesh, contando su musicisti che sanno come far suonare un disco del genere, non può che essere una tappa importante per gli amanti del doom metal, specialmente di chi ne ama il mood classico, ovvero atmosfere heavy rock riconducibili agli anni settanta, un’alternanza perfetta tra brani dal lento incedere ipnotico ad altri con una verve più accentuata e magiche ed oniriche atmosfere, con la sei corde dello storico chitarrista a sanguinare sulle ritmiche vulcaniche e laviche di una sezione ritmica pesante come un’incudine.
Messianico e stupendamente interpretativo, il singer ci conduce tra le spire di questa ottimo lavoro avvolgente ed appunto ipnotico, senza concedere nulla a facili sfumature stoner ma regalando ottimo doom classico.
L’album risulta così un’opera affascinante dove sono ben chiare le coordinate del gruppo che, con talento, segue i dettami del genere così da confermare le ottime sensazioni create dai due dischi precedenti e continuando imperterrito a seguire la religione doom.
Non mancano brani che alzano il livello globale di Gates Of Flesh anche se il lavoro è un monolite di suoni lenti e cadenzati da ascoltare facendosi rapire dalle atmosfere sabbatiche create dal combo, ma il mood settantiano e armonico dell’opener Birth Of Wine e, soprattutto, la marcia inesorabile e lentissima della conclusiva Leper, Leper non potranno che essere acclamate da chiunque si professi amante dei suoni ipnotici, liturgici e magici della musica del destino.
I Lord Vicar si confermano come una di quelle band in grado di fungere da traino per il genere nel nuovo millennio e con Gates Of Fleshregalano un album imperdibile agli appassionati.
TRACKLIST
1. Birth of Wine
2. The Green Man
3. A Shadow of Myself
4. Breaking the Circle
5. Accidents
6. A Woman Out of Snow
7. Leper, Leper
Il sound è quanto di più heavy/doom ci si possa immaginare, riprendendo con sagacia le sonorità care ai gruppi storici del genere come Black Sabbath, Pentagram e Saint Vitus, qualche accenno all’horror metal dei nostrani Death SS e colmandolo di atmosfere dark/gothic alla Sisters Of Mercy.
Nell’underground metallico le realtà che si dedicano ad una sorta di rivisitazione del doom metal settantiano, prendendo ispirazione dalla filmografia horror di quegli anni ed amalgamandolo con reminiscenze gothic dark non sono poche, ed imbattersi in piccoli gioiellini non è poi così difficile.
Tramite la Trollzone Records, veniamo investiti da questa apoteosi di atmosfere horror/trash, dove l’immaginario tipico delle pellicole anni ‘70/’80, fatto di procaci e seducenti vampirelle assetate di sangue e castelli invasi da pipistrelli e morti viventi, viene valorizzato da un sound che pesca dal doom quanto dal dark ottantiano.
La band si chiama Vampyromorpha, sono un duo composto da Nemes Black ( chitarra, basso e batteria) e Jim Grant, fuori in questo periodo con il bellissimo Bloodmoon Prophecy dei Naked Star, alle prese con il microfono e qui anche con l’hammond. Six Fiendish Tales of Doom and Horror…è composto da sei brani più la clamorosa cover di I’m So Afraid dei Fleetwood Mac, il sound è quanto di più heavy/doom potrete immaginarvi, riprendendo con sagacia le sonorità care ai gruppi storici del genere come Black Sabbath, Pentagram e Saint Vitus, qualche accenno all’horror metal dei nostrani Death SS e colmandolo di atmosfere dark/gothic alla Sisters Of Mercy.
Personalmente ho trovato tra i solchi delle varie songs note gotiche care ai Type O Negative e ai Lucyfire di Johan Edlund, proprio per quelle sfumature dark rock che imprimono al sound del duo una marcia in più.
Jim Grant, lontano dai vocalizzi apocalittici e rabbiosi usati nell’opera dei Naked Star, regala alla sua performance sfumature ottantiane dall’ottimo appeal, l’hammond a tratti crea arabeschi di musica gotica, come se ai tasti d’avorio si destreggiasse in tutta la sua malvagia gloria il dottor Phibes, scienziato pazzo interpretato dal grande Vincent Price, mentre gli strumenti elettrici costruiscono ritmiche doom metal potentissime.
Poco meno di quaranta minuti, ma assolutamente intensi: l’album non lascia trasparire indugi e si presenta come un monolite di heavy rock notevole, con il suo cuore che pulsa sulle note della splendida Satans Place, meravigliosa messa gotica dove, al calar delle tenebre, le schiave di Dracula si risvegliano e iniziano la caccia, nella lunga notte senza luna. Six Fiendish Tales of Doom and Horror… risulta così un ottimo lavoro, in perenne bilico tra i generi e le band a cui fa riferimento, ma a tratti davvero irresistibile, segnatevi questo nome Vampyromorpha, ed occhio agli sguardi seducenti della bellissima musa apparsa nella notte, potrebbero portarvi alla dannazione eterna.
TRACKLIST
01. Deliver Us From The Good
02. Häxanhammer
03. Metuschelach Life Cycle
04. Satan´s Palace
05. Bacchus
06. Peine Forte Et Dure
07. Iam So Afraid (Bonus)
LINE-UP
Jim Grant – Vox, Hammond
Nemes Black – Guitar, Bass, Drums
L’impressione è quella di trovarsi al cospetto di un lavoro di rara profondità, nel quale ambient, doom e post metal si incontrano, senza sovrapporsi, dando vita ad un flusso sonoro che non può essere liquidabile con quattro parole di circostanza.
Un lavoro notevole, per quanto di complessa assimilazione, questo primo full length degli svedesi Seedna.
Gli scandinavi sono autori di una interessante miscela di black e post metal intrisa di una costante vena drammatica che non si esplicita, però, tramite toccanti melodie, quanto per un impatto in grado di imprimere un dolore più sordo che acuto.
La stessa fotografia alla quale i nostri ricorrono in sede promozionale riporta ad un immaginario introspettivo che ben si confà a temi misteriosi ed annichilenti, come quelli riguardanti ciò che attende ognuno di noi dopo la morte.
Confesso che questa recensione è stata una di quelle che più difficoltà mi ha creato in sede di stesura, inducendomi più volte a rimandare l’arduo compito di descrivere Forlorn, a causa della sua non facile decrittazione.
Ciò che emerge con certezza, dopo un esame fin troppo approfondito, è l’impressione di trovarsi al cospetto di un lavoro di rara profondità, nel quale ambient, doom e post metal si incontrano, senza sovrapporsi, dando vita ad un flusso sonoro che non può essere liquidabile con quattro parole di circostanza.
Quest’opera prima dei Seedna ci obbliga a modificare il nostro rapporto con la musica, alla quale gran parte delle persone assegna una semplicistica funzione ludica: Forlorn ci induce piuttosto a pensare, a compenetrarci con sonorità che non fanno sconti a livello melodico se non di rado, lasciando che a guidare l’ascolto sia un sentore drammatico che, a differenza di quanto accade con il funeral doom, non trova sfogo in senso catartico ma lascia invece in eredità un senso di costernazione, stante l’impossibilità (o forse il rifiuto ?) di comprendere cosa ci aspetta in un futuro che mai è apparso così oscuro e minaccioso.
In questo continuum che è Forlorn, spicca la lunghissima Wander con i suoi magnifici 22 minuti di summa compositiva dei Seedna, anche se, personalmente, credo che Abyss sia la vera chiave di lettura dell’opera, con le sue sonorità che, specie nella seconda metà, appaiono un’ideale trasposizione in senso estremo dell’umore che pervadeva uno dei capolavori del male di vivere tradotto in musica, quale fu Pornography dei Cure.
Insomma, siamo al cospetto di un gran disco che lascia in eredità sensazioni diverse dopo ogni ascolto, per cui anche queste righe vanno prese con beneficio d’inventario: domani, pervaso da un diverso stato d’animo, potrei ritoccare o rettificare molte delle valutazioni e delle sensazioni appena espresse, e forse è proprio qui che sta il bello …
Il debutto dei Messa, Belfry, è uno dei più bei dischi di quest’anno. L’atmosfera che riescono a creare i Messa non è affatto facile sa spiegare, soltanto ascoltandoli potrete capire. Qualche elemento in più potrebbe fornirvelo questa nostra intervista a uno dei gruppi italiani più interessanti degli ultimi anni.
iye Come nasce il vostro suono così particolare ed ipnotico ?
Nasce da un’esigenza di sperimentazione di un linguaggio musicale diverso da tutto ciò che noi quattro eravamo e siamo tutt’ora abituati a fare: sia dal punto di vista tecnico, formale ed estetico, per noi è un approccio diverso.
Sara non ha mai cantato in vita sua ma sempre suonato in band hardcore/punk il basso, Alberto ha sempre suonato la chitarra in progetti prog,jazz , Rocco alla batteria sempre suonato black metal in molti progetti e io al basso sempre avuto un approccio piu dark’n’roll alla musica con parentesi garage.
iye Quali sono i vostri ascolti ?
I più svariati, da Coltrane ai Darkthrone, dai Bathory ai Current 93, per capirci, passando per tutti i generi lugubri lenti e fumanti.
L’approccio al progetto Messa cerca di non essere mono direzionale ma cerchiamo di esprimere ed evocare delle sensazioni, che poi siano dettate da un fuzz o da una campionatura o da una lirica poco importa.
iye Come portate sul palcoscenico il vostro disco ?
Cerchiamo di renderlo il piu low profile possibile, non siamo attrezzati con costumi o stronzate di nessun tipo.
Montiamo sul palco, bruciamo della resina di incenso pura, accendiamo poche candele e cerchiamo di darci dentro.
iye Se poteste scegliere a quale regista vi piacerebbe fare una colonna sonora ?
Sono tutti morti, quelli italiani poi … sepolti, ad ogni modo sarebbe interessante fare una cosa per Roy Andersson.
penso sia un genio. Come sa affrontare temi come morte, alienazione, sesso, ambiente in un modo così sottile non lo fa nessuno, sarebbe un sogno poter farlo
iye Progetti futuri ?
Stiamo cercando di progettare un mini tour di una 10 di giorni per il prossimo novembre e, nel mentre, stiamo già componendo materiale nuovo; un pezzo che è già finito a breve andremo a registrarlo in una chiesetta sconsacrata dove facciamo prove, per inciderlo poi in uno split da fare con i nostri amici tedeschi Breit.
Al netto di qualche imperfezione, Leaden mette in luce validi spunti uniti ad una buona vena compositiva e, trattandosi di una prima uscita, si può considerare senz’altro più che sufficiente.
Prima uscita discografica per i Nocturnal Streams, nati agli albori del decennio come one man band per volere di Drake Thrim, ed oggi divenuti invece un duo con l’entrata informazione di Dubnòs, chitarrista dei folk metallers Korrigans; questo breve Ep, intitolato Leaden, ci mostra i due musicisti laziali alle prese con un doom death dai tratti piuttosto canonici nel quale vengono messi in evidenza diversi buoni spunti ed altrettanti aspetti perfettibili.
La pecca maggiore è rappresentata dal suono delle tastiere, che appaiono troppo artificiali e scolastiche nei loro interventi, venendo meno peraltro in determinati passaggi che ne avrebbero richiesto la presenza quale opportuno sottofondo atmosferico. A tutto questo contribuisce anche una resa sonora che, ricordando quello di certi dischi gothic-doom dei primi anni novanta (se si riprende un album come Wisdom Floats dei Decoryah, tanto per fare un esempio, si capisce che cosa intendo), dona un certo fascino al tutto ma non sempre riesce a legare sufficientemente il lavoro dei singoli strumenti.
Detto ciò, Leaden mette in luce validi spunti uniti ad una buona vena compositiva e, trattandosi di una prima uscita, si guadagna senz’altro la sufficienza; chiaramente c’è da lavorare anche sull’originalità del sound proposto però i brani appaiono comunque gradevoli e, soprattutto, non sono affatto pretenziosi, riuscendo a trasmettere, sebbene a intermittenza, quell’emotività che il genere richiede.
Al netto dei poco convincenti suoni di tastiera, spicca l’opener strumentale Wolves’ Rain, mentre va rimarcata la buona esecuzione della cover di Eternal, tratta dal seminale Gothic dei Parasise Lost, nella quale i Nocturnal Streams mostrano di trovarsi a loro agio con sonorità tipicamente novantiane, benchè si tratti di un brano non del tutto rappresentativo dello stile proposto nel resto dell’ep, nel quale prevale invece una componente doom dalle sfumature black/death (in particolare nelle due tracce centrali, Shine of Life e Cult of Mortification).
Fatto il primo passo, i Nocturnal Streams vanno rivisti alla prossima occasione per verificarne un’auspicabile progressione, da ricercare più nella cura dei particolari che non negli aspetti prettamente compositivi.
Tracklist:
1. Wolves’ Rain
2. Shine of Life
3. Cult of Mortification
4. Eternal
Line-up:
Drake Thrim – Lead Vocals, Bass, Programming
Dubnòs – Electric and Acoustic Guitars, Additional Vocals
Una bellissima sorpresa questo album dei Suffer In Paradise, autori di un funeral doom dal notevole impatto emotivo.
Una bellissima sorpresa questo album dei Suffer In Paradise, autori di un funeral doom dal notevole impatto emotivo.
Il trio russo attinge soprattutto alle sonorità degli Ea per l’afflato melodico, di Skepticism/Profetus per il tocco tastieristico, ricordando a tratti anche gli Ordog di Remorse, e l’esito finale avvince ed affascina nonostante la palese derivatività del sound proposto.
Ma nel funeral, più che in altri generi, non è così importante fare le cose per primi, lo è molto di più farle per bene, ovvero esprimendo la propria sensibilità in modo da coinvolgere emotivamente l’appassionato (al quale, di fronte ad un disco che sa toccare le giuste corde , dell’originalità non può fregare di meno). This Dead Is World riprende due dei brani presenti sull’unico segnale di vita discografica fornito in precedenza, ovvero il demo auto intitolato risalente al 2010.
Tempi lunghi ma risultati efficaci, quindi, e qui ci sono tutte le carte in regola per tessere trame dolenti ed evocative nel corso di più di un’ora, durante la quale le tastiere creano il tappeto sonoro ideale per poggiarvi un ben delineato lavoro chitarristico.
Un brano meraviglioso come Somnambula depone insindacabilmente a favore del talento compositivo dei Suffer In Paradise, i quali compongono il disco che quelli come me vogliono ascoltare quando vanno alla ricerca di una consolatoria catarsi, tenendosi alla larga da sperimentazioni e tentazioni droniche, da assimilarsi invece con altro spirito, e lasciando spazio ad un sound lineare quanto efficace.
In attesa del ritorno sulla scena dei nomi di punta, questo lavoro è un ottima panacea e dovrebbe rivelarsi senz’altro gradito a chi apprezza le band citate in precedenza.
Tracklist:
1. This Dead Is World
2. Somnambula
3. Suffer in Paradise
4. Insect
5. Archetype
6. Cantus Cycneus
Doom metal classico, dalle trame occulte e demoniache, un sabba violento e blasfemo che si abbate sull’ascoltatore, una possessione totale che non passerà inosservata, almeno per chi di musica del destino si nutre.
Doom metal classico, dalle trame occulte e demoniache, un sabba violento e blasfemo che si abbate sull’ascoltatore, una possessione totale che non passerà inosservata, almeno per chi di musica del destino si nutre.
I Naked Star sono un duo composto da Tim Schmidt (Seamount) alle prese con tutti gli strumenti e Jim Grant vocalist dei Vampyromorpha, Bloodmoon Prophecyè il primo lavoro in formato ep (licenziato dalla Voice Of Azram in edizione limitata in vinile ed in supporto digital) di questa nuova creatura, nata direttamente da una costola di un caprone demoniaco con un sound che pesca a piene mani dal doom occulto delle cult band settantiane, reso potentissimo ed annichilente da massicce dosi di watt, uscite dagli altoparlanti impiantati all’inferno.
Tre brani, tre mid tempo senza soluzione di continuità e compromessi, solo un incedere cadenzato e distruttivo che porta alla dannazione eterna, danze blasfeme sotto una luna rossa di sangue marcio, spettatrice di delitti e messe alla gloria del signore degli inferi.
Occultismo, fantascienza, profezie di morte e possessioni di demoni crudeli, questo tratta Bloodmoon Prophecy, ed il sound che accompagna testi urlati rabbiosamente alla luna dal vocalist non può che essere un monolito di metallo nero e pesantissimo, un caos primordiale e soffocante che ha nei dieci minuti di deliro sabbatico della titletrack il suo apice, anche se Follow The Iron Cross e Bury Me A Demon non mancano di preparare l’ascoltatore al suo tragico e prevedibile destino.
Pensando ad un full length di pari livello, prepariamoci alla venuta di alieni luciferini ed al massacro che ne conseguirà, i Naked Star saranno sacerdoti, cantori e testimoni della prossima apocalisse.
TRACKLIST
1. Follow The Iron Cross
2. Bury Me A Demon
3. Bloodmoon Prophecy
LINE-UP
Tim Schmidt – All Instruments
Jim Grant – Vocals
Gli Into Coffin si rivelano buoni interpreti di sonorità aspre e rallentate che restituiscono sensazioni positive grazie ad un’esecuzione senza fronzoli ma sempre precisa.
Dopo un demo uscito lo scorso anno, i tedeschi Into Coffin esordiscono con questo full length a base di un death doom aderente all’ortodossia del genere, soprattutto per quello che ne riguarda gli aspetti più ruvido e meno melodici.
I ragazzi dell’Assia vanno ad inserirsi alla perfezione nel punto in cui la pesantezza del classic doom si interseca con la virulenza del death, prendendo come possibile riferimento una band come gli Winter, ma arricchendone ulteriormente il sound con più di una sfumatura di stampo black.
Gli Into Coffin nel complesso si comportano decisamente meglio di altre realtà simili trattate di recente, come i connazionali The Fog o i redivivi olandesi Spina Bifida, perché si rivelano buoniinterpreti di sonorità aspre e rallentate che restituiscono sensazioni positive grazie ad un’esecuzione senza fronzoli ma sempre precisa e valorizzata da una buona produzione.
Chiaramente, Into Pyramid of Doom è un lavoro che, al netto di qualche tentazione ambient, tende ad essere piuttosto uniforme nel suo cupo incedere, un aspetto questo che viene accentuato anche dall’attenzione posta dagli Into Coffin più all’impatto sonoro che non alla creazione di atmosfere accattivanti; ne deriva che il gradimento di un lavoro come questo dipende molto dal gusto personale, per cui chi è più propenso al doom-death melodico può anche trascurare questo disco mentre, al contrario, chi predilige sonorità più dirette e limacciose potrebbe trovare non poca soddisfazione.
Peraltro i nostri non si limitano a proporre partiture bradicardiche ma, sovente, si lanciano in efficaci accelerazioni che, se non si possono definire effettivamente elementi peculiari o sintomatici di una particolare varietà compositiva, riescono nell’intento di rompere, almeno in parte, il monolitico incedere dell’album.
Come brano da ascoltare per farsi un’idea più precisa della proposta consiglierei la conclusiva Black Ascension, traccia che in poco più di dieci minuti esibisce in maniera esauriente lo spettro sonoro entro il quale si muove la band tedesca. Into Pyramid of Doom non è un’opera che lascerà il segno negli anni a venire ma non è neppure trascurabile, alla luce della competenza e della convinzione esibita nel corso del lavoro dagli Into Coffin.
Tracklist:
1. The Entrance
2. Stargate Path
3. Into a Pyramid of Doom
4. The Deep Passage for the Infinity of the Cosmo
5. Black Ascension
Line-up:
G. – basso, voce
S. – chitarra, voce
J. – batteria