Paradise Lost – Medusa

I Paradise Lost c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, sicuramente invecchiati e forse un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.

Passano gli anni, cambiano le stagioni ed il clima della terra, mentre la persona che si riflette nello specchio non è più un giovane irrequieto ma un uomo che un tempo sarebbe stato definito di mezz’età.

I Paradise Lost però restano: c’erano all’inizio degli anni ‘90 e ci sono ancora oggi, anch’essi invecchiati e un po’ appesantiti, ma sempre capaci di dire la loro senza apparire né obsoleti né ripetitivi.
Certo. anche loro hanno dovuto superare lunghi momenti di appannamento, il primo subito dopo la svolta di One Second, subendo la fascinazione “depechemodiana” fin quasi a snaturarsi del tutto, e poi quando, resisi conto di non potersi spingere oltre in quella direzione, hanno fatto marcia indietro pubblicando una manciata di album non brutti ma nemmeno indimenticabili.
Per fortuna, dopo le avvisaglie costituite dai discreti In Requiem e Faith Divides Us – Death Unites Us, nel corrente decennio i maestri di Halifax hanno riportato la barra del timone sulla giusta rotta, e a questo non è stato del tutto estraneo l’impegno di Gregor Mackintosh con i suoi Vallenfyre che, facendogli esplorare nuovamente il lato più estremo del death/doom, ha inevitabilmente riversato parte di questo rinnovato spirito nelle nuove uscite dei Paradise Lost, confluito in altre due buoni dischi come Tragic Idol e The Plague Within.
Medusa (quindicesimo full length della band) spinge ulteriormente verso un sound più indurito ed incupito, con il doom che si riappropria della sua importanza nell’economia del songwrtiting, e a tale proposito l’iniziale Fearless Sky dimostra tale tendenza in maniera manifesta spazzando via ogni ammiccamento gothic rock che, del resto, ritroveremo nel corso dell’album nella sola Blood And Chaos, orecchiabile quanto si vuole anche nella sua veste di singolo, ma lontanissima per grinta e pesantezza dai brani più carezzevoli ed inoffensivi epoca Host/Believe In Nothing.
Si sussegue così una serie di tracce rocciose, plumbee ma sempre caratterizzate dal tocco chitarristico di Mackintosh, spingendoci ad affermare che, fino alla title track, l’album è uno dei maggiormente ispirati tra quelli usciti nel nuovo millennio: Gods Of Ancient, con i suoi rallentamenti soffocanti, è il degno seguito di Fearless Sky, mentre From The Gallows è una cavalcata che riporta stilisticamente ai fasti di Icon.
The Longest Winter è il primo dei due singoli usciti e, non a caso, Nick Holmes utilizza per la prima volta la voce pulita nel corso dell’album, ma ciò non rende meno efficace un brano che si dimostra l’ideale trait d’union tra gli estremi stilistici della produzione targata Paradise Lost, mentre in Medusa riprendono a prevalere ritmiche dolenti, con il cantante ad alternare le due gamme vocali e Mackintosh che continua a dominare la scena con il suo innato gusto melodico.
Si era detto che quest’ultimo brano segnava una sorta di spartiacque qualitativo del lavoro e, in effetti, la virulenta No Passage For The Dead, la gradevole Blood And Chaos e la robusta Until The Grave, per quanto valide, si rivelano meno brillanti rispetto al resto della tracklist.
Come tutti i nuovi lavori editi dalle band storiche, l’album ha già ampiamente diviso sia i fans che gli addetti ai lavori: dal mio punto di vista è vero che Medusa non riporta i Paradise Lost ai fasti del passato e non è escluso che i primi due brani possano risultare persino ostici per chi si era abituato negli anni all’ascolto di un sound più edulcorato, ma il fatto stesso che un gruppo così “pesante” ed influente sia ancora in grado di regalare buona musica è segno tangibile di un’ispirazione ancora non del tutto evaporata, al contrario di quanto accade a gran parte delle band aventi lo stesso stato di servizio.

Tracklist:
1. Fearless Sky
2. Gods Of Ancient
3. From The Gallows
4. The Longest Winter
5. Medusa
6. No Passage For The Dead
7. Blood and Chaos
8. Until The Grave

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Waltteri Väyrynen – Drums

PARADISE LOST – Facebook

Trinity Site – After The Sun

La caratteristica più importante dell’album è il suo mantenersi sempre graffiante, estremo e thrashy nei brani veloci, potente e melodico nei mid tempo, con il synth che in apertura di qualche brano conferma la cura nei dettagli per dare ad After The Sun più appeal possibile.

Con i tedeschi Trinity Site ci tuffiamo ancora una volta nelle oscure trame del death metal melodico di matrice scandinava.

In effetti, all’ascolto di After The Sun, primo album che segue l’ep Ex Inferis uscito ormai cinque anni fa, si torna negli anni novanta e alle opere delle storiche band nord europee.
Poco male, il genere è questo ed il quintetto segue le regole con disciplina, sfornando un lavoro di tutto rispetto.
After The Sun é composto da dieci brani dalle ritmiche thrashy che fanno da tappeto a buoni intrecci chitarristici, una cura per le melodie ed il rincorrersi tra il growl e lo scream, mentre i Dark Tranquillity e gli In Flames si guardano come in uno specchio magico che li riproduce come vent’anni fa.
Ronny Rocket, nome da glamster ma voce da orco, si danna l’anima sulle trame create dai suoi compagni con la coppia d’asce formata da Simon Lummel e Jochen Rau e la sezione ritmica dal sicuro massacro composta da Sascha Born al basso e Marc Schuhmann alle pelli.
La caratteristica più importante dell’album è il suo mantenersi sempre graffiante, estremo e thrashy nei brani veloci, potente e melodico nei mid tempo, con il synth che in apertura di qualche brano conferma la cura nei dettagli per dare ad After The Sun più appeal possibile.
E il quintetto non sbaglia l’approccio al genere, scontato quanto si vuole ma perfettamente calato nella scuola scandinava: After The Sun vive di buone canzoni (March Of The Condemned ed Our Wealth su tutte), guadagnandosi un plauso e l’invito agli amanti del death melodico a non perdersi la buona musica di cui è composto.

TRACKLIST
1.After the Sun
2.March of the Condemned
3.Omnicide
4.Beyond the Rim
5.Lost Colony
6.Humanize Me
7.Still Waters
8.Our Wealth
9.Something Is Living Under My Skin
10.Revenants

LINE-UP
Ronny Rocket – Vocals
Jochen Rau -Guitar
Simon Lummel -Guitar
Sascha Born -Bass
Andreas Rau – Drums

TRINITY SITE – Facebook

Sator – Ordeal

I Sator fanno musica per terrorizzare chi sta loro davanti, con un cantato gridato su un tappeto sonoro sempre più potente ad ogni giro di chitarra e basso, con una batteria incalzante, dannati come una nave di pirati zombie.

Atteso ritorno di uno dei migliori gruppi italiani di sludge doom, fautori di un gran rumore, i genovesi Sator.

Dopo il debutto omonimo su Taxi Driver Records, i Sator passano su Argonauta Records per il loro secondo disco.
L’esordio era stato ottimo, con uno sludge doom molto potente con un forte substrato hardcore, ma con questa seconda prova il trio compie un’ulteriore evoluzione positiva, andando ad aggiungere maggiore spessore alla sua musica. Le composizioni hanno sempre grande potenza e viene inserita più psichedelia pesante per un effetto ancora più magniloquente. I Sator fanno musica per terrorizzare chi sta loro davanti, con un cantato gridato su un tappeto sonoro sempre più potente ad ogni giro di chitarra e basso, con una batteria incalzante, dannati come una nave di pirati zombie. L’approccio è simile a quello dei primi Electric Wizard, anche se hanno una maggiore varietà di soluzioni, e rimane quell’incalzare l’ascoltatore promettendo e mantenendo grandi cose dal vivo. I Sator sono un vortice dal quale non è possibile non venire attratti, sono affascinanti come sanno esserlo le cose malvagie. Ordeal è un gran salto di qualità per un gruppo che fa della potenza e della pesantezza le proprie armi vincenti, basterebbe ascoltare la canzone che da il titolo all’album dove c’è tutto il loro repertorio: riff potentissimi, basso a mille e batteria tentacolare, con stop and go e tanta distruzione. I Sator sono anche giustamente critici verso questa società che, come ben rappresentato in copertina, porta a divorarci l’un l’altro, senza ritegno né pietà per nessuno. In Ordeal aleggia anche lo spettro degli Eyehategod, un gruppo che dove c’è putridume è sempre presente, anche se qui ci sono molte cose in più. Ordeal è un monolite che sarà amato da chi segue la musica pesante.

Tracklist
1.Heartache
2.Ordeal
3.Soulride
4.Sky Burial
5.Funeral Pyres

Line-up
Drugo-Drum
Mauro-Guitar
Valy-Bass/vox

SATOR – Facebook

Esoctrilihum – Mystical Echo From A Funeral Dimension

Il black targato Esoctrilihum è per lo più ripiegato su sé stesso, privo com’è di aperture melodiche o atmosferiche, salvo poi concedersi pause improvvise per lasciare spazio a momenti acustici o ambient.

Prima uscita per questo ennesimo progetto solista denominato Esoctrilihum, il cui promotore è il musicista francese Asthâghul.

L’appartenenza al roster della I,Voidhanger, di norma, dovrebbe garantire sonorità introspettive ed oscure, il tutto abbinato ad una notevole qualità media e ad una vena sperimentale che rende l’ascolto impegnativo quanto gratificante.
Mystical Echo From A Funeral Dimension tiene quasi del tutto fede a queste coordinate, salvo la capacità penetrativa del sound che, questa volta, fatica non poco a superare i primi ostacoli frapposti tra sé e l’ascoltatore.
Il black targato Esoctrilihum è per lo più ripiegato su sé stesso, privo com’è di aperture melodiche o atmosferiche, salvo poi concedersi pause improvvise per lasciare spazio a momenti acustici o ambient: il problema che affligge un po’ tutto il lavoro è l’apparente scollamento tra le varie parti, al quale deve essere aggiunto l’aspetto non secondario di una durata (un’ora circa) che rende l’assimilazione del lavoro ancora più problematica.
Asthâghul ha sicuramente le idee molto chiare dal punto di vista lirico-concettuale, e la sua visione a dir poco fosca dell’esistenza (propria e altrui) ben si sposa con le sonorità offerte, al netto ovviamente di quella farraginosità che appesantisce un po’ tutti i brani: è apprezzabile, infatti, il tentativo di unire l’estrosità del black transalpino con la gelida solennità di quello tedesco e lo spirito primitivo di quello scandinavo, ma nel mettere molta carne al fuoco inevitabilmente non tutta finisce per essere cotta alla perfezione.
Certo che, ascoltando una traccia oggettivamente impressionante come Infernus Spiritas, con un incedere ossessivo che meglio si amalgama ai rallentamenti e alle oasi acustiche, non è difficile capire come mai l’etichetta italiana si sia accaparrata i servizi degli Esoctrilihum, intuendone probabilmente quel notevole potenziale che, a mio avviso, se fosse stato maggiormente focalizzato avrebbe potuto rendere irrinunciabile un lavoro come Mystical Echo From A Funeral Dimension, capace invece di conquistare solo ad intermittenza

Tracklist:
1. Ancient Ceremony From Astral Land
2. Following The Mystical Light Of The Shadow Forest
3. Prayer Of The Lamented Souls
4. Infernus Spiritas
5. Shtalosoth
6. BltQb (Black Collapse)
7. Mighty Darkness

Line-up:
Asthâghul – all instruments and vocals

ESOCTRILIHUM – Facebook

Kliodna – The Dark Side…

Il quintetto di Minsk affronta con ottima determinazione il genere, cercando di bilanciare orchestrazioni e parti metalliche e confezionando un prodotto assolutamente in grado di soddisfare i palati degli ancora molti amanti del power metal sinfonico.

Attivi dal 2012, i bielorussi Kliodna sono una nuova band che va a rimpolpare le truppe del power metal sinfonico tra il folto rooster della Wormholedeath.

Il quintetto di Minsk affronta con ottima determinazione un genere che sembra all’apparenza aver detto tutto e sicuramente non visto più di buon grado dalle riviste di settore, cercando di bilanciare orchestrazioni e parti metalliche e confezionando un prodotto assolutamente in grado di soddisfare i palati degli ancora molti amanti del power metal sinfonico.
Come tutte le realtà provenienti dall’est europeo, anche i Kliodna si fanno apprezzare per un approccio elegante, innato in gente cresciuta in paesi che danno da sempre molta importanza alla musica nell’educazione quotidiana.
Con una cantante perfetta per il ruolo di sirena metallica (Helena Wild, alla quale è poi subentrata Natalia Senko) e dotata di un’ottima voce operistica, la band tiene schiacciato il piede sull’acceleratore, almeno per i primi tre brani, preceduti dalla solita intro di rito e che sfoggiano solida potenza power, orchestrazioni non troppo pompose e un buon songwriting .
Al quarto brano in scaletta di questo ottimo The Dark Side…, il gruppo fa centro con Night Symphony, semi ballad metallica molto suggestiva seguita dalla ripartenza power orchestrale di Blood In The Sea.
Col passare dei minuti la prova della Wild al microfono diventa assolutamente da sottolineare (le sue muse ispiratrici sono sulla scia della solita Turunen), mentre la potenza power lascia spazio a solos di estrazione neoclassica.
Dead Princess Dreams è orchestrata a meraviglia e dona un intervento chitarristico da applausi, mentre l’album si avvia verso la fine, in tempo per godere della ballad Frozen Soul, a ribadisce l’influenza dei Nightwish sulla musica dei Kliodna.
Un buon lavoro dunque, da non farsi scappare se siete amanti del metal sinfonico e se, quando volete ascoltare qualcosa del genere, la scelta cade sempre sui primi lavori dei maestri finlandesi.

Tracklist
1.Intro
2.Kliodna
3.Road to Anywhere
4.I’ll Do the Haunting
5.Night Symphony
6.Blood in the Sea
7.Dead Princess Dreams
8.Northern Wolf
9.Frozen Soul
10.Set Me Fre

Line-up
Helena Wild- Vocals
Alexandr Korobov – Guitar
Anton Michailovskiy – Guitar
Vasily Silura – Bass Guitar
Ilya Konopelko – Drums

KLIODNA – Facebook

Apotheon – Mechanically Consumed

Per gli amanti del metal estremo dai rimandi progressivi e tecnicamente ineccepibili una band da seguire, aspettando un lavoro sulla lunga distanza, ciliegina su di una torta ormai pronta per essere divorata.

Non sono ancora arrivati al traguardo del full length i deathsters statunitensi Apotheon, ma vista l’ottima qualità del sound proposto questo rimane solo un dettaglio.

Nato nel 2014 infatti, il gruppo ha licenziato solo tre ep di cui Mechanically Consumed è l’ultimo in ordine cronologico ed anche il più riuscito.
Gli Apotheon suonano death metal tecnico e progressivo in maniera impeccabile, la loro musica sconvolge nelle parti estreme, mentre le atmosfere teatrali sono marcette che, se possibile, aumentano la tensione, mentre progressive e sfumature classiche si danno il cambio sullo spartito, raffinando non di poco la parte brutale, rovescio di una medaglia o parte oscura di una realtà molto interessante.
Sono una ventina di minuti su e giù per le montagne russe del metal estremo: intricatissime e devastanti parti estreme fanno da motore alla proposta progressiva del gruppo di Denver e, se lo strumentale Premonition scalda gli animi preparando l’esplosione, a detonazione avvenuta le note fuoriescono devastati da Tyken’s Rift come acque dalla rottura di una diga.
La title track e, soprattutto, The Flesh Machine sono perle di metal estremo progressivo, con i quattro musicisti a dispensare tecnica sopraffina in un contesto di inumana, ma chirurgica violenza.
Nell’ep troverete le anche le spettacolari versioni strumentali dei brani proposti, nei quali il gruppo dimostra ancora di più la sua bravura.
Per gli amanti del metal estremo dai rimandi progressivi e tecnicamente ineccepibili una band da seguire, aspettando un lavoro sulla lunga distanza, ciliegina su di una torta ormai pronta per essere divorata.

TRACKLIST
1. Premonition
2. Tyken’s Rift
3. Mechanically Consumed
4. The Flesh Machine
5. Tyken’s Rift (Instrumental Version)
6. Mechanically Consumed (Instrumental Version)
7. The Flesh Machine (Instrumental Version)

LINE-UP
Andrew Morris – Drums
Fernando del Valle III – Guitar
Ibrahim Jimenez – Bass
Reece Deeter – Vocals

APOTHEON – Facebook

Nyss – Princesse Terre (Three Studies of Silence and Death)

Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.

Black metal esoterico, atmosferico e maledettamente affascinante.

I Nyss sono un duo francese che dopo aver pubblicato quattro ep arriva al debutto per Avantgarde Music, ed è un gran disco di black metal moderno e sperimentale. I pezzi sono tre, la presentazione è molto semplice, la musica viene messa in primo piano ed occupa lo spazio più importante del progetto, tanto che si hanno pochissime informazioni sul gruppo, come nella tradizione dei gruppi francesi di black metal. Ascoltando il loro debutto intitolato Princesse Terre (Three Studies Of Silence And Death) si apre un mondo popolato di dolore e di verità negate, un affondare nella nostra maledizione, il tutto reso con un black di taglio atmosferico molto debitore alle origini ed all’ortodossia del genere. Il risultato è un disco eccezionale, moderno e sperimentale ma soprattutto sovraccarico di emozioni, in un continuo rollio di tempi ed atmosfere. I tre pezzi sono altrettante piccole nere sinfonie legate fra loro dal filo comune della sofferenza, mediate da una composizione al di sopra della media, con un piglio che solo i grandi gruppi black hanno, soprattutto nei crescendo con chitarre e tastiere molto presenti nel disco. Le tre lunghe suite hanno migliaia di sorprese in serbo, come un vecchio castello abbandonato infestato dagli spiriti, ma quel vecchio castello è la nostra anima. I Nyss confermano e superano quanto di buono avevano fatto nelle precedenti uscite, ed appartengono di diritto a quell’aristocrazia black metal atmosferica che sta contando ottime uscite, come potete bene vedere nel catalogo della stessa Avantgarde Music. Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.

Tracklist
I
II
III

Line-up
Þórir Nyss ~ Instruments of the art
L.C. Bullock ~ Invocations

NYSS – Facebook

Narbeleth – Indomitvs

In Indomitvs non troviamo alcuna tentazione avanguardistica, sinfonica o atmosferica: Narbeleth è sinonimo di puro e fedele black scandinavo, sebbene la sua progressiva crescita stia avvenendo da una zona del pianeta ben lontana dalle gelide e maestose foreste del Nord Europa.

Narbeleth è il progetto musicale del musicista cubano Dakkar, il cui operato è già stato trattato in occasione dei due lavori precedenti, A Hatred Manifesto e Through Blackness and Remote Places.

Indomitvs è il quarto full length pubblicato a partire dal 2013 e rappresenta il consolidamento di una posizione di tutto rispetto assunta dal musicista dell’Avana, rappresentando peraltro un qualcosa che nulla ha a che vedere con la normale curiosità destata dalla provenienza caraibica, oggettivamente anomala quando il genere trattato è il black metal.
Dakkar non fa nulla per trasformare la materia, ma la prende nella sua versione primitiva riversandola sullo spartito con convinzione e competenza: è così, infatti che il black riacquista le sue sembianze originarie grazie ad un incedere ruvido, diretto, ma non privo di un senso melodico in grado di fare la differenza rispetto ad una sterile riproposizione del genere.
Come d’abitudine, il nostro chiude i propri lavori con una cover che omaggia importanti nomi (non sempre tra i più famosi) del passato e così, dopo Darkthone, Urgehal e Judas Iscariot, in Indomitvs è la volta degli Arckanum, il cui atteso ritorno peraltro uscirà sempre per Folter Records a fine settembre: un segni di profondo rispetto da parte di Dakkar per le radici del genere, ma anche un sintomo di apertura verso un’interpretazione fedele e di ampio respiro, trattandosi a ben vedere di quattro realtà piuttosto differenti tra loro.
Per il resto, i sette brani offerti si equivalgono, senza toccare vette irraggiungibili ma neppure scendendo mai al di sotto di un buon livello, in virtù di un approccio sincero riscontrabile in maniera esemplare nelle ottime When the Sun Has Died, Via Profane Crafts e soprattutto The First to Rise, nella quale l’evocazione di antiche divinità è accompagnata anche da un pregevole lavoro di chitarra solista.
In Indomitvs non troviamo alcuna tentazione avanguardistica, sinfonica o atmosferica: Narbeleth è sinonimo di puro e fedele black scandinavo, sebbene la sua progressiva crescita stia avvenendo da una zona del pianeta ben lontana dalle gelide e maestose foreste del Nord Europa.

Tracklist:
1. The Distortion of Life
2. When the Sun has Died
3. The Lower Point of the Star
4. Herald of the Dawn
5. The First to Rise
6. Via Profane Crafts
7. Sinister Laberynths of Human Soul
8. Daudmellin (Arckanum cover)

Line-up:
Dakkar – All vocals, Guitars, Bass

NARBELETH – Facebook

Atrexial – Souverain

Sembra che, dopo tanti anni trascorsi negli abissi dell’underground estremo, Naga S.Maelstrom e compagni abbiano trovato la via giusta per arrivare almeno alla superficie, con l’aiuto di una label che di sonorità death/black se ne intende.

Metal estremo nero come la pece, inglobato in un armageddon di suoni death/black in arrivo da Barcellona.

Una reunion di demoni sotto il monicker Atrexial, provenienti da alcune realtà della scena underground catalana, chiamati a raccolta da Naga S. Maelstrom, chitarrista degli Human Carnage, death metal band inattiva da un bel po’ di anni, raggiunto da Louen (chitarra e voce) e Labelua (batteria).
Il trio, diventato nel frattempo un quartetto con l’arrivo di Belegurth, licenzia il suo esordio sotto Gods Ov War, questo minaccioso Souverain che nulla toglie e nulla aggiunge al mondo oscuro del metal estremo, ma si colloca tra quelle opere di nicchia che gli estimatori del genere potrebbero trovare malignamente gradevole.
Death/black alla Behemoth, con molti tratti distintivi che ci portano pure in Svezia, specialmente quando la band lascia i mid tempi e le ritmiche death, per abbandonarsi al black metal duro e puro e prodotto discretamente, quanto basta per rendere il maelstrom musicale godibile, Souverain risulta un buon lavoro di genere, attraversato da venti maligni che portano burrasche estreme, alternando death/black a sferzate black metal, mentre attimi di atmosferici ricami acustici sfumano in ripartenze e assalti sonori dal buon impatto.
Qualche brano più ordinario lascia il palcoscenico a buone cavalcate estreme come Under The Scourge Of Lamashtu o Illuminator, dando in pasto ai fans del genere un album certamente dotato della giusta attitudine.
Sembra che, dopo tanti anni trascorsi negli abissi dell’underground estremo, Naga S.Maelstrom e compagni abbiano trovato la via giusta per arrivare almeno alla superficie, con l’aiuto di una label che di sonorità death/black se ne intende.

Tracklist
1.Enthronement (Intro)
2.The Hideous Veil of Innocence
3.Under the Scourge of Lamashtu
4.Unmerciful Imperial Majesty
5.Illuminatur
6.The Ominous Silence
7.Ascension
8.Shadows of the Nephilim Throne
9.Trinity
10.Souverain
11.Eternal (Outro)

Line-up
Naga S. Maelstrom – Bass, Guitars, Synths
Labelua – Drums
Louen – Guitars, Vocals (lead)

ATREXIAL – Facebook

Cydemind – Erosion

I Cydemind hanno preso il meglio della musica progressiva e l’hanno fatta confluire perfettamente nel loro bellissimo lavoro: i nomi che hanno ispirato il gruppo compariranno tra le note mentre la vostra mente sarà in viaggio nel mondo di Erosion.

I canadesi Cydemind  sono l’ennesima conferma di come, spulciando nell’underground, si trovino ancora realtà interessanti e capaci di proporre musica progressiva nello stile e nella concezione, non importa se più vicina al rock o al metal.
Di per sé la musica strumentale porta inevitabilmente ad un impatto del genere, se poi invece della voce facciamo parlare un violino su un tappeto di progressive metal, contaminato da jazz e musica classica, allora c’è da sedersi comodi e partire per questo sognante viaggio musicale in compagnia del quintetto di Montrèal, attivo da una manciata d’anni e con all’attivo un ep licenziato tre anni fa dal titolo Through Mists and Ages.
Erosion è quindi il primo full lenghtth del gruppo canadese formato da cinque giovani maestri dello strumento, un lungo e bellissimo viaggio nella musica progressiva, un’ora abbondante nel corso della quale si viene tenuti stretti in un caldo abbraccio musicale dove metal, rock, e musica classica si uniscono per regalare emozioni in un susseguirsi di sorprese.
Il violino di Olivier Allard tesse tele di note mentre gli altri componenti del gruppo(Alexandre Dagenais alla batteria, Camille Delage ai tasti d’avorio, Nico Damoulianos al basso e Kevin Paquet alla chitarra) disegnano arabeschi di musica universale composta da una band in stato di grazia.
Non ricordo un album strumentale dal songwriting eccitante come Erosion, dove non ci si annoia neanche per un secondo, pur se messi alla prova da lunghe suite come Derecho (13.37) o la title track, che sfiora addirittura la mezzora.
I Cydemind hanno preso il meglio della musica progressiva e l’hanno fatta confluire perfettamente nel loro bellissimo lavoro: i nomi che hanno ispirato il gruppo compariranno tra le note mentre la vostra mente sarà in viaggio nel mondo di Erosion.

Tracklist
1.What Remains
2.Tree of Tales
3.Derecho
4.Red Tides
5.Stream Capture
6.Erosion

Line-up
Olivier Allard – Violins
Alexandre Dagenais – Drums
Camille Delage – Keyboards/Piano
Nico Damoulianos – Bass
Kevin Paquet – Guitars

CYDEMIND – Facebook

Nibiru – Qaal Babalon

Come sempre i Nibiru ci offrono un’esperienza sonora difficilmente descrivibile a parole, ma bisogna dire che in questa occasione sono andati davvero oltre, regalando una prova di valore assoluto e pressoché unica.

La nostra vita può essere definita in molto modi, e può essere vissuta in maniere molto diverse fra loro.

Innanzitutto bisognerebbe capire cosa sia il concetto stesso di vita, che forse viene dato troppo per scontato, perché sicuri ed esigenti sul suo svolgimento tentiamo di negare l’abisso che si crea fra la nostra vita e la nostra anima, ovvero ciò che realmente siamo. Vivendo questa netta frattura i disastri sono dietro l’angolo, e le scelte che ci rimangono non sono molte. Lanciati a folle velocità in una vita che non è ciò che vorremmo, tentiamo nella maggior parte dei casi di rimanere in carreggiata, sacrificando il nostro inconscio e molto altro per avere un rinforzo di fiducia e riconoscimento dagli altri, per provare a far vedere che siamo capaci a fare qualcosa, o che siamo degni della vita, già essa stessa una menzogna. E pensiamo di esserci salvati, ma invece stiamo affondando, sempre più giù, e come in una palude più ci agitiamo più la presa diventa letale. La dannazione è dentro di noi, e questo disco dei Nibiru è un cantico della disperazione, quattro pezzi di tessuto lacerato dalla dannazione, un grido lacerante di un’anima persa, come dicono loro stessi. Il disco rappresenta cambiamenti sostanziali nella poetica dei torinesi, dato che Qaal Babalon è definito dal gruppo il seguito del loro primo disco Caosgon, uscito nel 2013 e recentemente ristampato con bonus da Argonauta Records. Caosgon era una nebbia venefica che si espandeva dalle casse degli stereo di anime incaute e dannate, composto da una psichedelia distorta e rituale, marcia e portatrice di morte. Qaal Babalon è la sublimazione di quel concetto, un avanzamento di qualità sonora e di composizione notevole per un gruppo che ad ogni ascolto e ad ogni concerto assume una forma diversa. Rimasti in tre dopo l’uscita di Steve Siatris dal gruppo, i Nibiru sono dunque concettualmente tornati alle origini, aggiungendo però molto a ciò che era stato Caosgon. Le quattro tracce sono altrettanti rituali, quattro offerte ai veri dei, dilatate e con cicli e ricicli, che attaccano l’ascoltatore alla fonte sonora. Ascoltando Qaal Babalon si può sentire un taglio netto da ciò che era stato Padmalotus, un disco davvero molto diverso da quest’ultimo, che aveva fatto intravedere un cambiamento stilistico poi rigettato con l’uscita di Siatris dal gruppo. Qaal Babalon è molto più di un disco musicale, è un riconoscimento ed un’esplorazione dei nostri abissi, una fuga da falsi valori e false maschere, per ricercare ciò che siamo veramente. L’impianto sonoro è maestoso e magnifico, i suoni sono prodotti molto bene, e la lacerazione dei Nibiru viene declinata, novità assoluta, oltre che in enochiano anche in italiano, e questo è davvero un valore aggiunto, poiché rende moltissimo in Qaal Babalon. I Nibiru hanno sempre avuto un percorso molto particolare e assolutamente di personale e qui raggiungono il loro apice, dando l’impressione sia soltanto l’inizio di qualcosa di terribilmente dannato e affascinante, dato che questo disco è davvero un salto di qualità notevole in una carriera ampiamente al di sopra della media. Come sempre i Nibiru ci offrono un’esperienza sonora difficilmente descrivibile a parole, ma bisogna dire che in questa occasione sono andati davvero oltre, regalando una prova di valore assoluto e pressoché unica.

Tracklist
1. Oroch
2. Faraon
3. Bahal Gah
4. Oxex

Line-up
Ardath – Guitars, Percussions and Vocals
Ri – Bass, Drones and Synthesizers
L.C. Chertan – Drums

NIBIRU – Facebook

Prayers of Sanity – Face of the Unknown

I Prayers Of Sanity ci investono con una tempesta di thrash metal statunitense veloce, melodico ed arrabbiato quel tanto che basta per far nascere un tornado, tra ispirazioni che vanno da un inchino agli Exodus fino ad una vera adorazione per i Testament ripuliti dalle scorie death metal.

In Portogallo non si vive di solo Cristiano Ronaldo o, metallicamente parlando, di Moonspell: oltre ad una scena black metal underground che sta facendo parlare di sé per un ritorno all’attitudine e l’impatto dei primi anni novanta, ci sono realtà valide e da non perdere in tutti i generi.

Oltre all’alternative rock e metal, generi di cui ho parlato un po’ di tempo fa, il metal classico é ben presente nel dna dei metallers lusitani, con il thrash si palesa con il terzo album del terzetto Prayers Of Sanity.
La band, nata nel 2007, torna dopo cinque anni licenziando questa bomba sonora dal titolo Face of the Unknown, con una formazione a tre dopo la dipartita di due quinti della formazione con Tião alle prese con chitarra e voce, Carlos al basso e Artur alle pelli.
Il gruppo proveniente da Lagos non le manda certo a dire e ci investe con una tempesta di thrash metal statunitense veloce, melodico ed arrabbiato quel tanto che basta per far nascere un tornado, tra ispirazioni che vanno da un inchino agli Exodus fino ad una vera adorazione per i Testament ripuliti dalle scorie death metal.
Ne esce mezzora di fiammeggiante metallo, thrash nella più pura concezione del termine, almeno se si guarda alla scuola americana, con una serie di brani che, dalla title track che fa da opener passano per il massacro perpetuato da Unturned e Someday.
Leggendo qua e là mi è capitato di imbattermi in una diatriba dei soliti possessori della verità sulle preferenze tra thrash americano ed europeo: bene, i due fratellini metallici sono figli di un unico padre e, quando vengono suonati con l’impatto e la passione di cui è ricco questo lavoro, diventano imprescindibili nella storia del metal mondiale, lo confermano i Prayers Of Sanity.

TRACKLIST
1. Face of the Unknown
2. Dead Alive
3. Past, Present, None
4. Unturned
5. In Between
6. March Forward
7. Someday
8. Betrayer
9. Nothing

LINE-UP
Artur – Drums
Carlos -Bass
Tião – Vocals, Guitars

PRAYESR OF SANITY – Facebook

Mindkult – Lucifer’s Dream

Tra stoner doom, shoegaze, tanta psichedelia ed un pizzico di blues stonato, il sogno di Lucifero potrebbe trasformarsi in incubo se non si è pronti a rinunciare in partenza a suoni puliti, voci stentoree o aggressive, percussioni lanciate a folli velocità e virtuosismi assortiti.

Lucifer’s Dream è essenzialmente l’opposto di quanto ci si attende di ascoltare da un album metal in quest’epoca.

Suoni puliti, voci stentoree o aggressive, percussioni lanciate a folli velocità e virtuosismi assortiti: ecco, di tutto questo nel primo full length marchiato Mindkult non se ne troverà la minima traccia.
Il progetto solista del musicista della Virginia che si fa chiamare Fowst è una sorta di bolla spazio temporale, che è un po’ come camminare in una città del futuro sovrastati dai grattacieli e, svoltando l’angolo, ritrovarsi di fronte ad una collina sovrastata da un castello medioevale e dal suo borgo: in Lucifer’s Dream viene offerto uno stoner psichedelico che pare trascinarsi come un pigro serpente, mentre una voce piacevolmente stonata come quella di un J Mascis appena appena rinvigorito ci racconta le sue orrorifiche visioni.
Un sound sporco, ma dannatamente autentico, ed un approccio che più naif di così non si potrebbe ci riconduce nelle sue parti più psichedeliche a certi antieroi ottantiani come Nick Saloman (The Bevis Frond) tenendo sempre conto, però, che i Mindkult sono un progetto stoner doom, e quindi parliamo di un qualcosa che all’epoca non era ancora stato codificato.
Tutto ciò serve per dare un’idea di massima, perché, nonostante dalle mie descrizioni possa sembrare che in quest’album non ci sia nulla che vada, in realtà è esattamente il contrario: proprio il suo incedere sghembo, quasi indolente, avulso da ogni idea di perfezione formale, avvolge e stordisce costringendo l’ascoltatore ad una specie di sortilegio per il quale si ritrova ad amare un disco che, istintivamente, avrebbe usato magari a mo’ di frisbee.
Tra stoner doom, shoegaze, tanta psichedelia ed un pizzico di blues stonato, il sogno di Lucifero potrebbe trasformarsi in incubo per chi ricerca nella musica tutte le caratteristiche che ho elencato nelle righe iniziali. Al contrario, brani come Drink My Blood, Infernals e la title track si insinueranno nella testa continuando a riecheggiare a lungo pericolosamente.
Nelle note di accompagnamento all’album vengono citati nomi come Black Sabbath, The Cure, Hooded Menace, Altar Of Betergeuze, Windhand, Uncle Acid e Ghost: chi conosce tutte queste band, dopo aver ascoltato Lucifer’s Dream può divertirsi a fare il giochino del vero o falso, resta il fatto che il buon Fowst ha trovato una via stilistica ed espressiva che, al di là degli inevitabili rimandi, appare a suo modo decisamente personale.

Tracklist:
1. Drink My Blood
2. Nightmares
3. Behold the Wraith
4. Infernals
5. Howling Witch
6. Lucifer’s Dream

Line up:
Fowst – Everything

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Hallatar – No Stars Upon The Bridge

No Stars Upon The Bridge è un disco emozionante e coinvolgente, caldo e allo stesso tempo ghiacciato, dove si riafferma una delle più importanti caratteristiche dell’uomo, ovvero la capacità creativa di rielaborare il lutto, poiché il genere umano continua ad andare avanti, il fiume scorre inarrestabile e bisogna trovare il modo per ricordare chi è caduto, e questa è una maniera fantastica.

La musica è un mezzo perfetto per esprimere un dolore, anche per superarlo e riuscire ad andare avanti grazie alla creazione di qualcosa di bello.

Questo è stato ciò che ha mosso Juha Ravio nella scrittura di questo disco, che viene concepito in seguito alla morte della sua amata compagna Aleah Starbridge nel 2016. Juha è il chitarrista dei Swallow The Sun e dei Trees Of Eternity, dei quali gli Hallatar sono un’emanazione diretta. Juha ha vissuto questa tremenda perdita con disperazione, ed ad un certo punto per reagire si è convinto di dover creare qualcosa di nuovo, partendo dai poemi e dai testi della sua amata defunta. Tanto era il bisogno e l’urgenza che la musica del disco è stata concepita in una settimana, al che Juha ha chiamato due musicisti a lui molto cari, oltreché suoi amici: Tomi Joutsen e Gas Lipstick, il primo cantante degli Amorphis, i quali avevano collaborato con Aleah, e il secondo ex batterista degli Him. Il risultato è un gran disco di doom con intasi gotici, un affresco che parla di morte ed assenza, dove ogni nota scuote una cellula sconvolta dal dolore e dalla perdita. L’incedere è lento e maestoso, l’epicità è tangibile, la nobiltà del dolore messo in musica arriva qui a toccare vette altissime, anche grazie alle parole lasciateci da Aleah Starbridge. Ci sono momenti in cui la musica si alza di tono e sembra che sia un mostro che viene ad attaccarci, ma è solo un grido di dolore che viene dal nostro interno. Il valore musicale e poetico di questo disco è notevolissimo, anche se lo stile essenzialmente non si discosta molto dal discorso stilistico dei lavori di Ravio, che si conferma straordinario compositore, coadiuvato da due ottimi compagni di avventura. No Stars Upon The Bridge è un disco emozionante e coinvolgente, caldo e allo stesso tempo ghiacciato, dove si riafferma una delle più importanti caratteristiche dell’uomo, ovvero la capacità creativa di rielaborare il lutto, poiché il genere umano continua ad andare avanti, il fiume scorre inarrestabile e bisogna trovare il modo per ricordare chi è caduto, e questa è una maniera fantastica.

Tracklist
1. Mirrors
2. Raven’s Song
3. Melt
4. My Mistake (feat. Heike Langhans)
5. Pieces
6. Severed Eyes
7. The Maze
8. Spiral Gate
9. Dreams Burn Down (feat. Aleah Starbridge)

Line-up
Tomi Joutsen – vocals
Gas Lipstick – drums
Juha Raivio – guitar, bass, keys

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The Haunted – Strength In Numbers

Thrash metal, melodic death ed un approccio hardcore fanno di questa ennesima decina di bombe metalliche un altro massiccio muro estremo a firma The Haunted

I The Haunted furono alla nascita uno dei primi gruppi della seconda ondata del death metal melodico che presto presero le distanze dalle soluzioni dei padri fondatori, per portare il Gothenburg sound verso territori thrash metal.

L’esordio omonimo del 1998 e Made Me Do It (forse l’album più riuscito e famoso della band svedese) furono due bombe thrash/hardcore scagliate sul mercato ancora in brodo di giuggiole per le melodie classiche di In Flames e Dark Tranquillity, ma già abbondantemente presi per il colletto dai primi devastanti Soilwork.
Quello che per tutti era di fatto un super gruppo, vedeva sotto il monicker The Haunted una manciata di musicisti impegnati in passato con la crema del melodic death come At The Gates o In Flames, ma non solo, portando così nuova linfa ed impatto ad una scena che cominciava a rivolgere lo sguardo aldilà dell’ Atlantico.
Nel 2017 possiamo sicuramente affermare che i The Haunted sono diventati una presenza ed una garanzia nel panorama metallico dai rimandi estremi, sempre orientati al thrash metal, sempre maestri nell’amalgamare furia e melodie vincenti, mantenendo un mood devastante nel sound ormai lontano ricordo per alcuni dei loro colleghi.
Certo, non sono mancati gli album meno incisivi nel corso della carriera, ma, con il ritorno di Marco Aro dietro al microfono e Adrian Erlandsson alla batteria, dallo scorso Exit Wounds il sound del gruppo è tornato a fare danni con l’efficacia di un tempo.
Strenght In Numbers è dunque un buon lavoro, con brani dall’impatto per i quali The Haunted sono famosi, rabbiose ripartenze, potenti mid temppo dove si scagliano solos dal buon potenziale melodico, mantenendo un approccio diretto classico della seconda ondata melodic death scandinava.
Thrash metal, melodic death ed un approccio hardcore fanno di questa ennesima decina di bombe metalliche un altro massiccio muro estremo a firma The Haunted: niente di più, niente di meno, quindi se amate il gruppo svedese le varie Brute Force, Preachers Of Death e Means To An End non vi deluderanno, circondate da tracce pesanti come incudini e dalla forte impronta live.
La bravura dei musicisti non si discute, il songwriting è buono, la produzione è esplosiva e l’album viaggia senza intoppi fino alla sua conclusione, direi che la band ed i suoi fans possono essere ampiamente soddisfatti.

Tracklist
1.Fill the Darkness with Black
2.Brute Force
3.Spark
4.Preachers of Death
5.Strength in Numbers
6.Tighten the Noose
7.This Is the End 8.The Fall
9.Means to an End
10.Monuments

Line-up
Jonas Björler – Bass
Adrian Erlandsson – Drums
Patrik Jensen – Guitars (rhythm)
Marco Aro – Vocals
Ola Englund – Guitars

THE HAUNTED – Facebook

Korpiklaani – Live at Masters Of Rock

In alto i calici e onore ai Korpiklaani …

Dopo un storia iniziata nei primi anni del secolo (ancora prima se consideriamo il periodo contrassegnato dal monicker Shaman) e nove full length che li hanno portati ad ottenere una successo di notevoli proporzioni, i Korpiklaani si autocelebrano con questo mastodontico Cd/Dvd che li immortala al Masters Of Rock di Vizovice, in Repubblica Ceca, durante due concerti tenutisi, rispettivamente, nel 2014 e nel 2016.

Gli alfieri del folk metal nordico più alcoolico sono per loro natura una band nata per le esibizioni dal vivo, nelle quali di sicuro il divertimento è garantito, a patto di avere una certa propensione per queste sonorità che, se non sono nelle proprie corde, alla lunga possono anche risultare stucchevoli.
Fatta questa doverosa premessa, è evidente che un’opera del genere può risultare appetibile particolarmente per chi è preso da un’irrefrenabile desiderio di danzare ai ritmi della humppa proposta da Jarvela e soci, anche perché, in caso contrario, l’ascolto (o la visione, nel caso del DVD/BluRay) di 38 brani piuttosto uniformi dal punto di vista ritmico, 7 dei quali peraltro eseguiti in entrambi i concerti, potrebbe risultare difficilmente digeribile senza un’assunzione alle giuste dosi.
Già, perché il problema, non di tutto il folk metal ma sicuramente di quello più caciarone (detto in senso benevolo), del quale i Korpiklaani sono fieramente tra i capiscuola, è quello di provocare nell’ascoltatore medio un’esaltazione che dura giusto per i primi due ascolti, prima di stabilizzarsi in un moderato apprezzamento, esattamente ciò che accadde quando mi imbattei per la prima volta nei nostri, in coincidenza con l’uscita del notevole Tervaskanto.
A proposito, se la scaletta è tutto sommato ben distribuita tra tutti i nove album, proprio Tervaskanto è stranamente il meno rappresentato (solo con la bellissima Viima), mentre se non altro si è ampiamente attinto ai lavori più datati ed efficaci che racchiudono, tra gli altri, brani anthemici come Journey Man o Happy Little Boozer.
Ma non so neppure se sia il caso di scendere nei dettagli e fare le pulci all’operato, presente e passato, dei Korpiklaani: Live at Masters Of Rock equivale, in fondo, al fissaggio su supporto audio visivo di una festa campestre nella quale un’ottima band si diverte ed il pubblico assiepato sotto il palco fa altrettanto (oltre a bere molto…): che piaccia o meno il genere, qui viene ampiamente raggiunto un obiettivo comune che non è mai scontato. Onore ai Korpiklaani quindi, e in alto i calici.

Tracklist:
CD1 (2016)
01. Intro (Tanhuvaara)
02. A Man With A Plan
03. Journey Man
04. Pilli on pajusta tehty
05. Erämaan ärjyt
06. Lempo
07. Sahti
08. Ruumiinmultaa
09. Vaarinpolkka
10. Viima
11. Metsämies
12. Kultanainen
13. Kipumylly
14. Ämmänhauta
15. Rauta
16. Kylästä keväinen kehto
17. Wooden Pints
18. Vodka
19. Beer Beer

CD2 (2014)
01. Intro (Tanhuvaara)
02. Tuonelan tuvilla
03. Ruumiinmultaa
04. Metsämies
05. Kantaiso
06. Juodaan viinaa
07. Petoeläimen kuola
08. Sumussa hämärän aamun
09. Vaarinpolkka
10. Kultanainen
11. Uniaika
12. Louhen yhdeksäs poika
13. Uni
14. Vodka
15. Ievan polkka
16. Rauta
17. Wooden Pints
18. Pellonpekko
19. Happy Little Boozer

Blu-ray/DVD
2016:
01. Intro (Tanhuvaara)
02. A Man With A Plan
03. Journey Man
04. Pilli on pajusta tehty
05. Erämaan ärjyt
06. Lempo
07. Sahti
08. Ruumiinmultaa
09. Vaarinpolkka
10. Viima
11. Metsämies
12. Kultanainen
13. Kipumylly
14. Ämmänhauta
15. Rauta
16. Kylästä keväinen kehto
17. Wooden Pints
18. Vodka
19. Beer Beer
2014:
01. Intro (Tanhuvaara)
02. Tuonelan tuvilla
03. Ruumiinmultaa
04. Metsämies
05. Kantaiso
06. Juodaan viinaa
07. Petoeläimen kuola
08. Sumussa hämärän aamun
09. Vaarinpolkka
10. Kultanainen
11. Uniaika
12. Louhen yhdeksäs poika
13. Uni
14. Vodka
15. Ievan polkka
16. Rauta
17. Wooden Pints
18. Pellonpekko
19. Happy Little Boozer

Line-up:
Jonne Järvelä – vocals, guitar, hurdy-gurdy & percussion
Tuomas Rounakari – fiddle
Sami Perttula – accordion
Jarkko Aaltonen – bass
Cane Savijärvi – guitars
Matson Johansson – drums

KORPIKLAANI – Facebook

Eluveitie – Evocation II-Pantheon

Continua con immutato vigore la grande ricerca storica e stilistica che gli svizzeri hanno sempre compiuto per i loro dischi. Evocation II : Pantheon è in pratica un viaggio nel cuore degli dei celtici e non solo, uno scoprire l’anima nascosta dell’Europa occidentale.

Tornano i maggiori interpreti svizzeri del folk metal, con l’atteso seguito di Evocation I : The Arcane Dominion, riprendendo il discorso interrotto nel 2009, anche se poi continuato con altri dischi.

La creatura di Chrigel Glanzmann ha ben quattro nuovi membri e non sono state poche le difficoltà da Origins del 2014, ma ora il gruppo è tornato più forte che mai. Ascoltando questo disco non si può fare a meno di essere rapiti dalla bellezza della loro musica, accompagnata dal dolcissimo canto della nuova cantante Fabienne Erni, davvero una scelta azzeccata. Continua con immutato vigore la grande ricerca storica e stilistica che gli Eluveitie hanno sempre compiuto per i loro dischi: Evocation II : Pantheon è in pratica un viaggio nel cuore degli dei celtici e non solo, uno scoprire l’anima nascosta dell’Europa occidentale. Ci sono credenze e riti molto antichi che hanno accompagnato i nostri avi, che erano comuni ad un insieme di popoli, accompagnati da una grande ricerca esoterica spazzata via dal cristianesimo, che essendo un culto monoteistico molto aggressivo mal tollerava le divergenze, ed infatti gran parte delle chiese sono state edificate su luoghi di precedenti templi pagani. Grazie a persone come gli Eluveitie si è però riusciti a tramandare la vera tradizione delle nostre terre, il pantheon delle divinità legate alla natura, come Cerunnos, il dio cervo proveniente da un’eredità spirituale ben più antica dei celti, da un trapassato remoto che abbiamo dimenticato. La musica è quanto di meglio possa offrire il vero folk metal, sempre volto a ricreare suoni e musiche antiche con una grande ricerca filologica. La lingua utilizzata dagli svizzeri è il gallico, con testi scritti grazie a consultazioni con insigni linguisti. Ciò che colpisce maggiormente è come questa musica riesca a colpire al cuore menti considerate moderne, perché qui si parla ad una parte della nostra anima che è sopita dentro di noi, ma che è ben viva e presente. Non so se si possa parlare di migliore prova in generale per il gruppo elvetico, poiché la sua qualità è sempre stata alta, ma questa è una prova molto convincente e magica, che va ben oltre la musica. Ascoltando ad occhi chiusi pezzi come Artio la mente vola lontana, a prati ancora vergini, risate di donne e uomini, sudore di vita dura, boschi brulicanti di vita e portali tra una dimensione e l’altra, e quando entra il flauto la magia aumenta. Una grande prova per uno dei migliori gruppi di musica folk.

Tracklist
1.Dvressu
2.Epona
3.Svcellos II (Sequel)
4.Nantosvelta
5.Tovtatis
6.Lvgvs
7.Grannos
8.Cernvnnos
9.Catvrix
10.Artio
11.Aventia
12.Ogmios
13.Esvs
14.Antvmnos
15.Tarvos II (Sequel)
16.Belenos
17. Taranis
18.Nemeton

Line-up
Alain Ackermann – Drums
Chrigel Glanzmann – Vocals, Mandola & Mandolin, Tin & Low Whistles, Bagpipes, Bodhràn
Michalina Malisz -Session Hurdygurdy
Jonas Wolf – Guitars
Rafael Salzmann – Guitars
Matteo Sisti – Tin & Low Whistles, Bagpipe, Mandola
Kay Brem – Bass
Nicole Anspenger- Fiddle
Fabienne Erni – Vocals, Harp, Mandola

ELUVEITIE – Facebook

Darkenhöld – Memoria Sylvarum

Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Quarto album per un’altra ottima band black metal francese, i nizzardi Darkenhöld.

Memoria Sylvarum arriva tre anni dopo il già ottimo Castellum, rispetto al quale la band attenua la componente folk per spingere maggiormente su una vena più oscura e raggiungendo, se possibile, un equilibrio ancora maggiore tra tutte le componenti che entrano a far parte del sound.
I testi, ormai del tutto interpretati in lingua madre, abbandonano la loro ispirazione medievale per spostarsi verso una più canonica ma sempre efficace componente naturalistica, nella fattispecie costituita dalle foreste del sud della Francia: in questo senso appare rafforzato il legame con il black di stampo scandinavo, anche se allo stesso tempo il tratto stilistico dei Darkenhöld conserva una certa personalità.
Il pregio maggiore dei trio è quello di offrire una versione del genere di buona fruibilità e limpidezza, con un approccio melodico ed atmosferico anteposto a qualsiasi altro tipo di orpello, senza così appesantire l’assimilazione di un album della giusta durata, dove ogni elemento è perfettamente incastonato nell’insieme, siano essi arpeggi chitarristici di matrice folk oppure assoli di scuola hreavy.
Brani magnifici come Ruines Scellées en la Vieille Forêt, Errances e la conclusiva Présence des Orbes sono il viatico migliore per immergersi con i Darkenhöld in un’epoca passata, accompagnati da sonorità che, pur nelle loro sembianze estreme, conservano un’aura antica che ben si sposa con l’immaginario lirico.
Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Tracklist:
1. Sombre Val
2. La Chevauchée des Esprits de Jadis
3. Ruines Scellées en la Vieille Forêt
4. A l’Orée de l’Escalier Sylvestre
5. La Grotte de la Chèvre d’Or
6. Sous la Voûte de Chênes
7. Clameur des Falaises
8. Errances (Lueur des Sources Oubliées)
9. Présence des Orbes

Line-up:
Aboth – Drums, Percussion, Keyboards
Aldébaran – Guitars, Keyboards, Bass
Cervantes – Vocals

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Beastcraft – The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship

I Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.

Il black metal primigenio vive in questa che sarà l’ultima uscita marchiata Beastcraft, creatura demoniaca e blasfema nata nel 2003 per volere di Sorath e Alastor, quest’ultimo scomparso nel 2012.

Sorath ha dato alle stampe questo notevole esempio di black metal maligno ed efferato, composto da brani scritti quando ancora Alastor non era sceso negli inferi, magari come tributo o più semplicemente per fare in modo che queste nove perle nere non andassero perse.
The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship ci conduce nel mondo sonoro del duo norvegese, una delle band più sottovalutate del panorama estremo di stampo black: lo si evince  ascoltando queste gemme oscure e blasfeme, brani diretti e pregni di insani blast beat e splendidi e decadenti muri di black cadenzato e declamatorio, cavalcate atmosfericamente infernali rese perfettamente malvage da una produzione che si rifà alle prime messe nere anni novanta (Demonic Perversion e Deathcraft And Necromancy)
Un pezzo di storia del black metal norvegese, magari commercialmente parlando in ritardo di qualche anno (nel 2003 la fase true aveva ceduto il passo alle velleità sinfoniche ed atmosferiche): i Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.
L’album è completato da un DVD contenente rare esibizioni live e in studio, rivelandosi un gioiellino per gli amanti del gruppo e del true norwegian black metal.

Tracklist
1. Aapenbaring
2. Demonic Perversion
3. Deathcraft And Necromancy
4. The Fall Of The Impotent God
5. Her Highness Of Hell
6. Reborn Beyond The Grave
7. Waging War On The Heavens
8. The Devil’s Triumph
9. The Beast Descends

Line-up
Alastor – Guitar, bass
Sorath – Vocals, drums

https://www.facebook.com/BeastcraftOfficial

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
78

Astarium – Drum-Ghoul

La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.

Ho avuto occasione nelle scorse settimane di parlare della one man band siberiana Astarium, prima con l’ep Epoch Of Tyrants e poi con lo split assieme a Burnt e Scolopendra Cingulata.

Vista l’iperproduttivita di SiN, l’uomo che sta dietro a tutto questo, per evitare di esser nuovamente sorpassato dall’attualità mi precipito a scrivere due righe anche su quello che, per ora, sembra essere l’ultimo parto dell’instancabile musicista di Novosibirsk, il full length Drum-Ghoul.
Se nelle precedenti occasioni avevo apprezzato la genuinità dell’operato da parte del nostro, ritenendo nel contempo un po’ troppo scolastico il risultato dal punto di vista prettamente musicale, devo dire che quelli che nella precedente occasione mi apparivano come insanabili difetti, questa volta acquisiscono una loro funzione essenziale.
La chiave di volta è il suono delle tastiere, che in un ambito dichiaratamente orrorifico come quello di Drum-Ghoul, con il loro timbro minimale, a tratti vicino a quello delle mitiche tastierine Bontempi (i miei connazionali meno giovani capiranno di cosa sto parlando), si rivelano più funzionali alla creazione di un’atmosfera profondamente malata e nel contempo surreale.
La lunghissima opener Hill Of Scape-Gallows (oltre un quarto d’ora di durata) funge da prova del nove per l’ascoltatore: chi riesce ad arrivare senza fatica alla sua fine, da qual momento in poi potrà godersi un lavoro strambo quanto si vuole, ma decisamente affascinante; la voce continua ad essere uno screaming piuttosto piatto alternato ad un growl effettato ma, tutto sommato, contribuisce a creare quell’alone straniante che ha comunque nel suono della tastiere il suo principale artefice.
Dread Asylum è piuttosto gobliniana nel suo snodarsi melodico, e in fondo pensare a quest’album come un’ipotetica soundtrack di un film horror è un’ipotesi tutt’altro che peregrina, mentre Hospitality Of Demon si snoda in maniera più canonica mantenendo comunque le caratteristiche sonore delle altre tracce, con Pernicious Elixir a chiudere le macabre danze con il suo reiterato giro di tastiera, preludio di un finale che si stempera con uno pseudo-violino.
La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.
SiN è portatore di una concezione della musica lontana diversi anni luce lontana da qualsiasi parvenza di commercialità, e solo anche per questo si merita un certo credito, al di là di tutte le altre considerazioni.

Tracklist:
01. Hill Of Scape-Gallows
02. Dread Asylum
03. Hospitality Of Demon
04. Pernicious Elixir
Line up:
SiN – All instruments, Vocals

ASTARIUM – Facebook