Sathanas – Necrohymns

I Sathanas sparano mezz’ora di musica che attenta pesantemente all’integrità della nostra cervicale, e pazienza se non c’è alcun profumo di novità: tutto sommato ci sono molti che a tali fragranze, spesso effimere, preferiscono l’alone di sudore lasciato da chi si lancia con un’integrità ed una competenza fuori discussione nella riproposizione di questo sound.

Una band chiamata Sathanas potrebbe risultare fin da subito invisa a qualche metallaro dall’indole intellettualoide e che ritiene tutti i riferimenti al maligno un giochino trito e ritrito, incapace di spaventare ancora qualcuno.

Nel caso del trio della Pennsylvania diciamo che l’utilizzo di tale monicker appare quanto mai legittimo, visto che parliamo di musicisti che si sbattono all’interno della scena estrema della East Coast da circa trent’anni, peraltro agendo in una cerchia stilistica e temporale vicina a quella degli Acheron di Vincent Crowley (dai quali proviene il batterista James Strauss ), per cui, almeno da questo punto di vista, le chiacchiere stanno a zero.
Per quanto riguarda l’aspetto musicale, Necrohymns rappresenta il decimo feroce rituale su lunga distanza per la band fondata nel 1988 dal chitarrista e vocalist Paul Tucker, affiancato qualche anno dopo dal bassista Bill Davidson e nel 2005 dal già citato Strauss; viste le premesse, a questi figuri si richiede essenzialmente di suonare un black/death/thrash diretto, sporco, blasfemo e carico di groove, e tutto ciò puntualmente avviene ma con una freschezza ancora sorprendente, alla luce della lunga carriera dei nostri.
I Sathanas sparano mezz’ora di musica che attenta pesantemente all’integrità della nostra cervicale, e pazienza se non c’è alcun profumo di novità: tutto sommato ci sono molti che a tali fragranze, spesso effimere, preferiscono l’alone di sudore lasciato da chi si lancia con un’integrità ed una competenza fuori discussione nella riproposizione di un sound che conosciamo a memoria ma che, quando viene offerto con tale convinzione, non risulta mai né superfluo nè tantomeno sgradito.
Fin dalle prime note di At the Left Hand of Satan i Sathanas buttano senza tregua il pallone nella metà campo avversaria, e da lì in poi sarà un piacevole rincorrersi, tra calci, sputi, gomitate e colpi di testa; come detto, chi ricerca novità si tenga alla larga da Necrohymns (e soprattutto non ne parli impropriamente, il nostro amico cornuto è molto permaloso), per tutti gli altri, invece, un ascolto regolare e mirato dell’ultimo album targato Sathanas potrebbe avere effetti molto positivi sull’umore, vale la pena provarci.

Tracklist:
1. At the Left Hand of Satan
2. Of Wrath and Hellfire
3. Throne of Satan
4. Harbinger of Death
5. Raise the Flag of Hell
6. Upon the Wings of Desecration
7. Sacramentum
8. Witchcult

Line-up:
Paul Tucker – Guitar, Vocals
Bill Davidson – Bass
James Strauss – Drums

SATHANAS – Facebook

Immortal – Northern Chaos Gods

Nono album per gli Immortal: il loro capolavoro, senza Abbath, ma con un Demonaz in grandissima forma e secondo posto nelle vendite in Germania!

A distanza di ben 9 anni da All Shall Fall esce l’ultimo lavoro dei leggendari norvegesi Immortal, vera icona del black metal mondiale.

Di anni ne sono passati da quel lontano 1991 quando, con l’uscita del loro primo demo omonimo, si iniziò a delineare l’oscuro sentiero del nuovo genere musicale, l’estrema espressione sonora di un manipolo di adepti, a quel tempo ridotto a pochi pazzi scandinavi che, attingendo da band cult quali Venom, Celtic Frost, Hellhammer e Bathory, vollero dare un nuovo senso alla musica estrema; stiamo parlando degli inizi degli anni ‘90, ovvero quando i “metallari più estremi” erano già stati sconvolti dai nuovi orientamenti musicali – alcuni vissero quel momento come vera e propria violenza personale – di album quali Human (Death), Chaos A.D. (Sepultura), Shades of God (Paradise Lost), e pertanto di band-icona del death metal, ossia la massima espressione di estremizzazione dell’heavy metal di allora.
Forse per questa ragione (e per diverse altre) il black ebbe una certa facilità, nel radicarsi tra coloro i quali, volendo sfidare ulteriormente i propri timpani, e oramai convinti del fatto che l’heavy metal dovesse essere solo l’inizio della missione che un qualche Dio della musica gli aveva assegnato per spingersi sempre oltre, portarono il secondo senso, alla sfida finale, quella terminale.
Ed ecco allora che ci venne in aiuto il black metal, estremo non solo nella musica, ma anche nelle liriche, nel look (il favoloso face-painting), e in tutto quello che esso rappresentava: Darkthrone, Mayhem, Satyricon, Dimmu Borgir, Emperor, Enslaved ed Immortal, appunto.
Pensando proprio agli attori di questa recensione, non posso che inchinarmi, di fronte al nuovo lavoro. Da Diabolical Fullmoon Mysticism del 1992 ne è passata di acqua (nera ed inquinata) sotto i ponti. Addirittura, tra i vari cambi di line-up, quasi ovvie per band così longeve, ci siamo ”persi” per strada l’emblematico co-fondatore della band, Mr. Olve Eikemo, alias Abbath Doom Occulta, oggi sostituito in toto dal bravissimo altro membro storico e co-fondatore della band Demonaz (compositore, voce, chitarra e testi) e coadiuvato dal bestiale drumming di Horgh, che dal 1997 fa da spola tra gli Hypocrisy e, appunto, gli Immortal. Al basso (ospite) un certo Peter Tagtgren, frontman degli Hypocrisy e qui anche in veste di curatore della registrazione.
Northern Chaos Gods – posso affermarlo con sicurezza – è il vero capolavoro degli Immortal! Violento, gelido, oscuro, ma altresì, vichingo, epico, ancestrale. L’album inizia con la title-track, che ci travolge con i suoi 4 minuti e mezzo circa di pura essenza Immortal; velocità della luce e ritmi sempre e solo serratissimi, non ci permettono un secondo di respiro, facendoci trattenere il fiato sino alla fine. Possiamo respirare, un poco, grazie al blast beat della successiva Into The Battle Ride, dall’efficace groove estremo per la gioia degli headbangers più scatenati. Benvenuti nel mito con Gates To Blashyrkh, leggendario regno di ghiaccio governato dal Dio-Re The Mighty Ravendark: favoloso pezzo, il migliore dell’album, il più complesso e magistralmente suonato dai nostri. Mid-tempo, arpeggi e tremolo, rendono questa track un imponente, monumentale, epico inno ai miti nordici e vichinghi. “The Northern Dark – Where Winterkings Rule – Far From The Light – Gates To Blashyrkh Rise”, sussurra a metà canzone Demonaz, accompagnato unicamente da un desolato arpeggio, prima di ripartire con potenza e vigore.
Vero european blast per Grim And Dark, un pezzo carico di energia, dove l’alternarsi di grancassa/piatti e rullante ci precipita ad un loro show, sognando di essere in prima fila, sotto il palco, a sbattere la testa.
We are Called To Ice”, canta nella successiva Demonaz, con i suoi ciclici ritmi che, come cadenzati da un metronomo, ci ossessionano con la loro incessante pesantezza e ripetitività; vi giuro, inizierete a muovere la testa su e giù, inconsciamente, sino all’ultima nota.
When Mountains Rise – insieme all’ultima traccia Mighty Ravendark – sono, in assoluto, le più bathoryane dell’album. Qui i riff di Demonaz, e l’ipnotico incedere del drumming di Horgh creano suoni malinconicamente viking, che lentamente ci avvolgono e quasi ci assopiscono. Ma ci pensa Blacker Of Worlds a farci uscire improvvisamente dal torpore: una vera bomba sonora, il brano più corto dell’album, ma anche il più veloce e il più acido, quasi raw.
L’album termina con i quasi 10 minuti di Mighty Ravendark, altra magnifica espressione bathoryana delle ghiacciate Terre del Nord. La struttura e il corpo, ovviamente, ricordano Gates To Blashyrkh (medesima origine ispiratrice). Nelle liriche, le parole come frozen, cold winds, frost e shadows, ne sono l’epifora; no sun, storm e snow ne sono l’anafora. Racchiudono il corpo gelido, di un rapsodico e leggendario pezzo che, abbracciato all’inizio e alla fine da un solenne arpeggio, rimarrà nella storia del black metal, e ne sarà, quasi sicuramente, l’imprinting per le future produzioni del genere.

Tracklist
1.Northern Chaos Gods
2.Into Battle Ride
3.Gates to Blashyrkh
4.Grim and Dark
5.Called to Ice
6.Where Mountains Rise
7.Blacker of Worlds
8.Mighty Ravendark

Line-up
Demonaz – Vocals, Guitars, Songwriting, Lyrics
Horgh – Drums

IMMORTAL – Facebook

Nocturnal Breed – The Whiskey Tapes Germany

The Whiskey Tapes Germany è una compilation con inediti e cover dei black/thrashers Nocturnal Breed, dedicata ovviamemte solo ai fans più accaniti del gruppo.

I norvegesi Nocturnal Breed sono uno dei gruppi più famosi della scena black/thrash europea, essendo attivi dalla metà degli anni novanta con una serie di album che glorificano il black metal old school.

Ovviamente per black metal vecchia scuola si intende quello dei pionieri nati negli anni ottanta e divenuti famosi per opere estreme che al thrash metal univano un’attitudine luciferina e cattiveria come se piovesse.
Venom, Slayer e primissimi Bathory sono stati i nomi più importanti di questo genere che, negli ann,i ha unito al thrash e al black metal un’attitudine rock’n’roll, facendone un sottogenere seguitissimo nel sottobosco estremo.
I Nocturnal Breed si sono sempre imposti per la loro neanche troppo velata natura black, d’altronde il paese di origine parla chiaro e così anche i loro cinque full length (più un buon numero di lavori minori).
The Whiskey Tapes Germany è una compilation di brani rimasterizzati e di molti inediti per i fans tedeschi, con la chicca Evil Dead,  tributo a Chuck Schuldiner licenziato nel 2011, e la bellissima e devastante versione di Under The Blade dei Twisted Sister.
Le curiosità finiscono qui perché il resto è formato dabrani che non aggiungono nulla a quanto già edito dal gruppo, poco curato nei suoni e quindi da portare all’attenzione dei soli fans del genere ed in particolare della band scandinava.
Questa raccolta non è malvagia, ma come detto non va oltre il piacere di chi i Nocturnal Breed già li conosce e li apprezza, mentre gli altri a mio avviso troveranno pochi spunti interessanti.

Tracklist
1. Intro – Splinter-Day (Video Intro – Fields of Rot)
2. Metal Church (Prev. Unreleased)
3. I’m Alive (Org Keyboard Version) Prev. Unreleased 1997
4. Miss Misery (Prev. Unreleased)
5. Evil Dead (R.I.P. Evil Chuck Edit 2011)
6. Under The Blade (Alternate Mix)
7. Ballcusher (Raw Mix)
8. Metal Thrashing Mad (Experimental Mix)
9. Dead Dominions (The Hour of Death Is At Hand – Short Edit)
10. Killernecro (Ubernecro Version)
11. Barbed Wire Death (Demo 1998) (Prev. Unreleased)
12. No Retreat… No Surrender (Speed Metal Legions Version)
13. Rape The Angels (Reh. Sept.1997)
14. Maggot Master (Experimental Studio Demo)
15. The Artillery Command (Alt Mix)
16. Alcoholic Rites (Experimental Studio Raw Mix)

Line-up
S. A. Destroyer – Bass, Vocals
Axeman I. Maztor – Guitars
Tex Terror – Drums, Vocals
V. Fineideath – Guitars

NOCTURNAL BREED – Facebook

WIEGEDOOD – De Doden Hebben Het Goed III

De Doden Hebben Het Goed III rappresenta una prova di forza spaventosa, ma mai quanto lo può essere l’idea che il percorso dei Wiegedood si possa esaurire qui: ci sono ancora troppe storie che hanno bisogno della loro musica per essere adeguatamente raccontate.

Tre anni dopo il primo atto arriva infine il terzo album facente parte della trilogia De Doden Hebben Het Goed, sviluppata magnificamente da parte dei belgi Wiegedood.

Tale risultato non è frutto del caso, del resto questi musicisti sono coinvolti nella ben nota Church Of Ra (la cui punta di diamante sono gli AmenRa, dei quali fa parte il vocalist e chitarrista dei Wiegedood, Levy Seynaeve), per cui, pur trovandoci al cospetto di un disco di puro black metal, l’interpretazione del genere che viene offerta è sublime e ben al di sopra della media.
Come sovente avviene, è dagli eventi luttuosi che scaturiscono le opere più coinvolgenti dal punto di vista emotivo, e a tale regola non sfugge neppure questo progetto nato per omaggiare la memoria di un amico del batterista Wim Coppers (la cui band madre sono gli Oathbreaker, così come per l’altro chitarrista Gilles Demolder).
De Doden Hebben Het Goed III è la sintesi mirabile di quelle forze contrastanti che animano di norma il black metal, ovvero la componente atmosferica e quella propriamente definibile raw: grazie a ciò i quattro brani dell’album sono furiosamente intensi, meravigliosamente catartici.
Proprio perché in quest’espressione musicale è rimasto ben poco da inventare, la differenza può essere fatta solo dall’impatto, emotivo o destabilizzante che sia: il black dei Wiegedood affonda radici ben salde nel freddo suolo norvegese ma viene restituito con l’urgenza tipica alla quale ci hanno abituati le band appartenenti alla cerchia del collettivo belga.
E’ naturale, quindi, lasciarsi avvolgere da brani come Doodskalm, con il suo splendo break centrale di matrice “post”, ed un finale di dolente bellezza, o la title track, monumentale esempio di come la potenza evocativa della musica apparterrà sempre al novero delle (poche) cose che rendono sopportabile il nostro viaggio terreno.
De Doden Hebben Het Goed III rappresenta una prova di forza spaventosa, ma mai quanto lo può essere l’idea che il percorso dei Wiegedood si possa esaurire qui: ci sono ancora troppe storie che hanno bisogno della loro musica per essere adeguatamente raccontate.

Tracklist:
1. Prowl
2. Doodskalm
3. De Doden Hebben Het Goed III
4. Parool

Line-up:
Gilles Demolder – Guitars
Wim Coppers – Drums
Levy Seynaeve – Guitars & Vocals

WIEGEDOOD – Facebook

Skogen – Skuggorna Kallar

Realtà consolidata nel panorama black metal nord europeo, gli Skogen dimostrano, come sempre, la loro identità e la loro personalità; suggestive emozioni in un black metal dagli antichi sapori nordici.

Realtà consolidata nel panorama black metal nord europeo, gli Skogen approdano al loro quinto full length, a quattro anni di distanza dal meraviglioso I Doden.

Svedesi, di Vaxjo, fin dal nome che vuol dire “forest” hanno improntato il loro suono su un black intriso di temi naturalistici tesi a omaggiare la bellezza, la forza selvaggia e l’oscurità del paesaggio nordico che li circonda. Attivi dal 2009, non hanno mai perso la loro ispirazione e hanno creato fino ad oggi cinque full length, tutti immersi in un suono black selvaggio e melodico, debitore della scuola svedese, ricco di elementi folk e suggestive atmosfere evocative che aprono la mente verso spazi glaciali e sconfinati; non hanno prodotto split, EP o partecipato a collaborazioni, solo album interi che consiglio di recuperare per apprezzare l’identità e la personalità della band. Anche quest’ultimo sforzo creativo ricrea atmosfere superbe fino dall’opener Det nordiska morkret, che dimostra un senso melodico superiore, con clean vocals alternate a un lacerante growl mentre il suono si apre in una melodia tastieristica antica e sognante…
L’omaggio alla loro terra natia pervade ogni nota dell’opera, specie quando si lanciano in brani tesi e vibranti, sempre accompagnati da un gusto melodico che profuma di ancestrale come in Nar solen bleknar bort, dove gli ingredienti sono miscelati ad arte per farci volare con la mente verso spazi innevati e selvaggi; l’alternanza tra clean, scream e growl è ben equilibrata e la presenza di parti corali aggiunge potenza e capacità suggestiva all’insieme. Non ci sono filler, otto brani ispirati e ottimamente suonati, parti folk che si intrecciano alla meraviglia nel tessuto black, sorprendendo e lasciando grandi sensazioni (Nebula); i ritmi mai estremamente sostenuti sono perfetti per creare suggestioni come nella splendida Frostland, perfetta fin dal titolo, intarsio di folk e black calibrato al millimetro. Il ritmo rallentato e gli arpeggi di The sun’s blood aggiungono ulteriore vigore e gli ultimi due lunghi brani, Beneath the trees e The funeral sublimano tutte le grandi emozioni che questa band sa infondere nel nostro cuore; è con questi suoni e con queste opere che il black metal mostra una volta di più le proprie radici e la propria forza.

Tracklist
1. Det nordiska mörkret
2. När solen bleknar bort
3. Nebula
4. Omen
5. Frostland
6. The Sun’s Blood
7. Beneath the Trees
8. The Funeral

Line-up
Joakim Svensson – Bass, Vocals
Mathias Nilsson – Guitars, Vocals
L. Larsson – Drums, Vocals
Jonathan Jansson – Guitars, Vocals

SKOGEN – Facebook

Dark Doom – Dust

L’inglese Alex Wills, dopo aver proposto in tempi piuttosto ravvicinati due ep ed un singolo, decide di compiere il passo su lunga distanza e lo fa dimostrando di possedere idee a sufficienza per reggere tale prova.

Mai farsi trarre in inganno da un monicker: se si pensa che, ascoltando questo full length d’esordio dei Dark Doom, ci si imbatterà nelle sonorità plumbee e rallentate della musica del destino si prenderà un solenne cantonata, visto che Dust è, invece, un buonissimo lavoro basato su un black death decisamente melodico e scorrevole.

Artefice di questo progetto solista è l’inglese Alex Wills, il quale, dopo aver proposto in tempi piuttosto ravvicinati due ep ed un singolo, decide di compiere il passo su lunga distanza e lo fa dimostrando di possedere idee a sufficienza per reggere tale prova.
Ovviamente la proposta del musicista di Derby non può essere annoverata tra le più originali, in quanto il sound attinge sia dalla sponda nordica (Catamenia) che mediterranea (Nightfall) del genere ma, sicuramente, più a livello di ispirazione di massima che non nella trasposizione sullo spartito, in quanto il nostro non disdegna interessanti digressioni di matrice heavy allorché propone gustosi assoli chitarristici.
E, in effetti, ciò che rende Dust un disco meritevole d’attenzione è una certa varietà ritmica che consente così di godere di brani strutturati in maniera piuttosto accattivante come l’opener Roaming Creature, oppure molto più spinti ed orientati ad un sound aspro e accelerato (Husk).
Nella parte centrale del lavoro, poi, troviamo due tracce che superano i dieci minuti di durata: un qualcosa di anomalo e, per certi versi rischioso in un genere come questo, con esiti che lasciano qualche dubbio nella meno incisiva Cosmic Dust ma che, invece, stupiscono con la splendida After The End, nella quale confluiscono passaggi più rallentati e malinconici e incalzanti crescendo melodici.
L’elegante chiusura strumentale affidata a There Could Be Hope testimonia le ottime doti compositive ed esecutive di Wills e, grazie anche ad una produzione che non lascia spazio a perplessità (come troppo spesso avviene purtroppo quando ci si imbatte in un lavoro concepito ed inciso da un solo soggetto), Dust si rivela un album davvero piacevole, ricco di ottimi spunti e meritevole d’attenzione.

Tracklist:
1. Roaming Creature
2. Meaningless
3. Husk
4. Cosmic Dust
5. After the End
6. The Struggle
7. Traveller
8. There Could be Hope

Line up:
Alex Wills- All instruments, Vocals

DARK DOOM . Facebook

Funeral Mist – Hekatomb

L’album della svolta per i Funeral Mist: il side project di Arioch/Mortuus dei Marduk ci convince. Ad oggi, uno dei migliori album black metal del 2018.

Gli esordi degli svedesi Funeral Mist, sicuramente affetti anche da produzioni non all’altezza, non mi hanno mai completamente convinto; una band i cui primi vagiti risalgono al lontano 1995, ma che vede uscire il primo full-length solo nel 2003 (Salvation, in precedenza era già uscito un ep, Devilry).

Onestamente non sono mai impazzito per questo gruppo svedese. Devilry e Salvation erano molto caos sonoro e poca musica; si potrebbe definire un raw all’ennesima potenza. Violenza e velocità, quasi sempre fini a se stesse, un sound talvolta difficilmente accostabile al genere Black Metal , ove il raw ne rappresenta unicamente un singolo aspetto, e forte delle miriadi di possibili varianti (classic, funeral, doom, depressive, symphonic, ambient, drone, atmospheric su tutte), che non impone necessariamente a una band di suonare per il solo gusto di raggiungere velocità warp; violenze sonore più accostabili al grindcore e cacofonie musicali che confondono l’ascoltatore e lo mandano in confusione troppo spesso, più tipiche di uno stile noise (ma sarà poi un genere musicale, mah?). I primi Napalm Death o il deathcore di molte band americane di fine anni ‘90 (pensiamo agli Atrocity US), sembrano qui far da padrone, più che oneste (e meglio centrate) storiche influenze tipiche del genere: dai primi Bathory ai Darkthrone, dai Mayhem ai Marduk …appunto, e prima ancora Venom ed Hellhammer . Furiosi attacchi sonori, poche pause, quasi nessun mid-tempo, ed un cantato – quello di Arioch, meglio conosciuto come Mortuus, frontman dei Triumphator e soprattutto singer dei Marduk dal 2004, all’anagrafe Hans Daniel Rostén – sovrastato spesso dalla base ritmica che copre il disperato tentativo di una voce che vuole emergere, senza quasi mai successo, come un operaio che cerca di farsi sentire dai propri colleghi, mentre un martello pneumatico in un cantiere assorda tutto e tutti . Queste sono – a mio avviso – le sensazioni che abbiamo, ascoltando i primi due lavori dei nostri. A dire il vero non butterei via completamente questi due album; per chi ama il raw portato all’estremo, un drummng – quello di Necromorbus – senza respiro, sparato alla velocità della luce, chitarra e basso che pare facciano a gara per decidere chi è più veloce, incartandosi qualche volta tra loro, generando effetti spesso cacofonici, e un cantato sempre in bilico tra lo scream e il growl, deve possedere anche questi primi lavori. Non fosse altro per comprendere meglio quale sia stata la successiva evoluzione (e aggiungo, per fortuna) del gruppo svedese, o farei meglio a dire della one-man band di Arioch, visto che dal successivo album, (Maranatha) sino ad arrivare all’oggetto della nostra recensione, i vecchi membri (Necromorbus e Nacash) sono scomparsi, sebbene fonti non ufficiali parlino di una collaborazione con il batterista dei Deathspell Omega.
Effettivamente già da Maranatha (2009) si percepiva l’intento di Mr. Rostén di voler cambiare qualcosa, di voltar pagina, di sperimentare. Intendiamoci, non a discapito della velocità – baluardo imprescindibile del frontman dei Marduk…appunto – bensì anche a favore di un suono più complesso, più misurato, più ragionato, per una miglior amalgama di velocità e pause, di violenza sonora e profondi cadenzati respiri. Arioch ha lavorato anche sulla propria voce, qui spesso in bilico tra uno scream e un crust (forse troppo spesso crust), intervallato dall’ossimoro, clean-sporco.
Inaspettato il cambiamento, inatteso il cambio di marcia. Inverosimile, seppur credibile e soprattutto agognato, il nuovo Hekatomb, ovvero il sinestetico oscuro sapore di diabolica maligna novità sonora; nefande furiose velocità permeate di annichilenti pause, rese ancor più sulfuree da un synth in sottofondo, trasportato da un desolato alito di vento, che pare uscito direttamente da Silent HIll (come in Cockatrice) e che quasi in un estremo mortale abbraccio, si lega alla successiva Metamorphosis, cadenzata da lenti ritmi funerei, suggellati dai dolorosi lamenti di Arioch, e da rabbrividenti cori gregoriani.
Non manca il tremolo tipico del guitar sound in pieno stile Black che, costruito su riff che tolgono letteralmente il fiato, fornisce munizioni al drumming, in una sparatoria sonora dove, come un potente e micidiale RPG, miete vittime tra gli ascoltatori. Stiamo parlando di tracks come Within the Without (non With or Without You), che nei brevissimi e rarissimi momenti di quiete, ci diletta con sottofondi di campane a morto, che flirtano con il cantato di Arioch, in un’armoniosa ma macabra storia d’amore; o come in Hosanna, vero fiume sonoro in piena, che esonda travolgendoci, come un flash flood tanto inaspettato, da coglierci all’improvviso, in una giornata tranquilla, annegando ogni nostro credo musicale, vero o falso che sia.
Che dire poi di Pallor Mortis, lamentoso mefitico momento teatrale “his et nunc”, che ci avvolge e ci obbliga a vivere – ora o mai più – un dissennato percorso musicale, che potrà solo ed unicamente portarci all’estremo fatale passo; laceranti e strazianti urla (forse) infantili, in un equilibrio da cerimoniale sabbatico, fanno da contraltare al disperato scream di Arioch, che più che in qualsiasi altra canzone dell’album, qui ci inebria e ci ubriaca di vino rancido, sino a farci perdere i sensi. Canzone terminale (anche nel letterale senso della parola) ma anche demoniaca avanguardia di quello che saranno (speriamo) le prossime future produzioni.

Tracklist
1.In Nomine Domini
2.Naught but Death
3.Shedding Skin
4.Cockatrice
5.Metamorphosis
6.Within the Without
7.Hosanna
8.Pallor Mortis

Line-up
Arioch – Bass, Vocals, Guitars

FUNERAL MIST – Facebook

In Tenebriz – Winternight Poetry

Wolfir offre un’interpretazione del death doom melodica e convincente, denotando una certa abilità nell’alternare ampie aperture atmosferiche a passaggi di natura ambient e a riff robusti e decisi.

Non è una novità imbattersi in one man band eufemisticamente definibili prolifiche, specialmente quando ad essere esplorato è lo sterminato territorio russo.

Gli In Tenebriz appartengono a questo novero e se, come sempre, in simili casi ci si chiede se tali caratteristiche non vadano a detrimento della qualità delle uscite, è anche vero che il più delle volte questi workaholic del metal sorprendono per l’ottimo livello medio espresso.
Con questo Winternight Poetry, Wolfir (al decimo full length in poco più di un decennio di attività, oltre ad un nugolo di ep e split album) offre un’interpretazione del death doom melodica e convincente, seppure a tratti un po’ minimale a livello di soluzioni tastieristiche.
Il tutto non penalizza più di tanto la resa finale, dato che il musicista moscovita è abile nell’alternare ampie aperture atmosferiche a passaggi di natura ambient e a riff robusti e decisi.
Winternight Poetry si esaurisce in poco meno di quaranta minuti lasciando buone sensazioni e qualche rimpianto relativo al fatto che, se il buon Wolfir si avvalesse di qualche aiuto ai vari strumenti, il risultato sarebbe potuto essere ancora più soddisfacente, come testimoniano ampiamente tracce come III e IV, le più emblematiche di doti compositive nient’affatto trascurabili.

Tracklist:
1. Winternight Poetry I
2. Winternight Poetry II
3. Winternight Poetry III
4. Winternight Poetry IV
5. Winternight Poetry V
6. Winternight Poetry VI
7. Winternight Poetry VII

Line up:
Wolfir – Guitars, Bass, Vocals, Synth

IN TENEBRIZ – Facebook

2018

Progenie Terrestre Pura – starCross

I Progenie Terrestre Pura sono un gruppo che, usando il black death metal con venature industrial ed elettroniche, porta verso l’infinito il suo messaggio di angoscia e di incessante esplorazione sia dello spazio profondo che di noi stessi.

Torna uno dei progetti più originali e congrui della scena musicale italiana e non solo con un nuovo ep.

I Progenie Terrestre Pura sono il suono dello spazio e di una razza umana futuristica, o forse è un suono che arriva da una terra come la nostra persa in un multiverso differente dal nostro. Il loro black death cosmico è un qualcosa che colpisce nel profondo, e questo ep starCross è un avanzamento ulteriore della poetica musicale. L’ep si compone di cinque pezzi basati su una storia elaborata da Davide Colladon, deus ex machina dei Progenie Terrestre Pura. Tutto nasce dal fatto che la navicella A.S. Mori segue un segnale lanciato dalla spazio profondo, e l’ep è il racconto di questa esperienza alla maniera di questo fantastico gruppo. Nella loro poetica è centrale il rapporto tra l’uomo e lo spazio, rapporto filtrato dalla tecnologia, che però non riesce ad eliminare l’angoscia dell’uomo lanciato nello spazio profondo, anzi la acuisce. Non c’è gioia od onore nell’andare nello spazio tenebroso, ma solo un’incessante lotta contro i nostri limiti fisici e spirituali, con un’intelligenza che capisce benissimo cosa sta succedendo ma è sopraffatta dalla potenza e dalla pesantezza di ciò che coglie. I Progenie Terrestre Pura sono un gruppo che, usando il black death metal con venature industrial ed elettroniche, porta verso l’infinito il suo messaggio di angoscia e di incessante esplorazione sia dello spazio profondo che di noi stessi. Il trio italiano fa una proposta musicale fuori dalle categorie e dagli schemi, con una poetica ed una potenza musicale che non ha nessun altro. starCross è il primo lavoro in inglese, scelta operata per portare al massimo numero possibile di persone il loro messaggio. Il cantato in italiano, a mio avviso, dava un valore aggiunto, ma è comunque un qualcosa che arriva da una dimensione parallela, non è musica umana ma molto di più. Continua il viaggio nello spazio profondo, e l’arrivo non si chiama salvezza.

Tracklist
1.Chant of Rosha
2.Toward a Distant Moon
3.Twisted Silhouette
4.The Greatest Loss
5.Invocat

Line-up
Davide Colladon – Guitars, Composition
Emanuele Prandoni – Vocals, Lyrics
Fabrizio Sanna – Bass, Production

PROGENIE TERRESTRE PURA – Facebook

Panchrysia – Dogma

La bontà dell’operato della band fiamminga risiede nel suo mantenere ben in evidenza le radici del genere per poi lasciare che il sound si arricchisca di elementi diversi, facendo sì che al tutto venga impresso un marchio sufficientemente personale.

Dogma è il quinto full length per i belgi Panchrysia, i quali sono in circolazione dall’inizio del secolo in veste di autori di un black metal di buona fattura e dalle frequenti aperture melodiche, senza disdegnare neppure un valido lavoro chitarristico di matrice solista.

In effetti, il genere viene interpretato in maniera piuttosto trasversale, tra pulsioni death, doom e heavy e qualche spinta avanguardista: il risultato che ne scaturisce e però notevole in quanto il tutto avviene in maniera piuttosto fluida e sempre con un occhio attento all’aspetto atmosferico.
La bontà dell’operato della band fiamminga risiede, appunto, nel suo mantenere ben in evidenza le radici del genere per poi lasciare che il sound si arricchisca di elementi diversi, facendo sì che al tutto venga impresso un marchio sufficientemente personale.
All’interno di una scaletta davvero convincente, spicca comunque l’ottimo black doom di Kairos, uno dei brani che maggiormente rende giustizia alle buone doti dei Panchrysia, assieme alla più lunga ed articolata Rats, traccia di chiusura di un album molto valido da parte di una band meritevole, sicuramente, di una maggiore considerazione, detto in senso lato.

Tracklist:
1. Each Against All
2. Salvation
3. Gilgamesh
4. Kairos
5. War with Heaven
6. Never to See the Light Again
7. 28 Steps
8. Rats

Line up:
Dol – Drums
Zahrim – Guitars, Vocals
Web – Guitars
Joris – Bass

PANCHRYSIA – Facebook

Moanhand – Fawn

L’inizio dell’avventura nel mondo della musica estrema underground è iniziato e per i Moanhand le premesse per fare bene ci sono tutte.

Esordio per questa one man band russa chiamata Moanhand, creatura doom/sludge, black, hardcore metal del giovane musicista e compositore Roman Filatov.

Fawn è un ep di quattro brani che si nutrono di questa manciata di generi estremi creando un particolare sound, un’altalena infernale che oscilla tra lo sludge /doom dell’opener Mark The Plaguehand, con una buona ed evocativa voce pulita, e le sferzate black metal della potentissima Jeweled Claws, brano che continua la ricerca di Filatov della chiave che unisce sludge e black metal.
Con Raptured i toni si fanno ancora più estremi: una devastante sferzata black metal, che ricorda gli act scandinavi, mentre lo strumentale conclusivo Tower Of Dirt solca strade progressive e post hardcore.
Il coraggio non manca di sicuro al musicista russo, Fawn convince anche per la buona produzione che permette di ascoltare perfettamente le varie ispirazioni che Filatov ha assemblato nel sound creato.
L’inizio dell’avventura nel mondo della musica estrema underground è iniziato e le premesse per fare bene ci sono tutte: sicuramente ascoltare un solo brano del lavoro non permette d’avere un quadro preciso del credo musicale dei Moanhand, quindi il consiglio è di ascoltare Fawn in tutta la sua interezza.

Tracklist
1. Mark The Plaguehand
2. Jeweled Claws
3. Raptured
4. Tower Of Dirt (instrumental)

Line-up
Roman Filatov – vocals, guitars, bass

Konstantin Sigua – additional guitars
Nikolay Kirutin – drums on “Tower Of Dirt”

MOANHAND – Facebook

Arthedain – Infernal Cadence of the Desolate

Si potrà discutere sulla relativa assenza di spunti innovativi, ma quando il compito viene eseguito con questa padronanza del genere è davvero difficile trovare qualcosa da eccepire.

Gli Arthedain sono un interessante progetto musicale dedito ad un black death melodico e di ottimo fattura, giunto al primo full length dopo una coppia di ep pubblicata nel 2014.

Artefice del tutto è il musicista statunitense Charles Wolford che, in Infernal Cadence of the Desolate, accoglie quale nuovo membro della band il chitarrista Nicolas Colvin, mentre la batteria è affidata al session Ilya “Ilyas” Tabachnik.
L’album denota fin da subito l’intento di offrire un sound intenso e piuttosto diretto, e si fa apprezzare per una buonissima resa sonora e la presenza di brani sovente ricchi di un notevole groove.
Where Nonexistence Is All, Consuming the Aurora, Infernal Cadence e Arcane Ascension sono esempi calzanti di quanto appena descritto ma, nel complesso, è tutto il lavoro che regala tre quarti d’ora di minuti di musica incisiva ed incalzante.
Poi, magari, si potrà discutere sulla relativa assenza di spunti innovativi ma quando il compito viene eseguito con questa padronanza del genere è davvero difficile trovare qualcosa da eccepire. Per cui non resta che consigliare agli appassionati del genere l’ascolto di questo primo lavoro degli Arthedain, profondo anche a livello lirico visto che Wolford affronta un tema come quello del disturbo post traumatico da stress che affligge chi è stato coinvolto in scenari di guerra, senza farsi mancare neppure riferimenti all’esistenzialismo di Schopenauer.

Tracklist:
1. A Testament to Failure
2. Where Nonexistence Is All
3. Depths of Isolation
4. Consuming the Aurora
5. Infernal Cadence
6. Arcane Ascension
7. A Garden Lies Barren
8. None Shall Remain
9. As One

Line up:
Charles Wolford – Vocals, Guitars, Lyrics, Composition
Nick Colvin – Guitars, Composition

Ilya “Ilyas” Tabachnik – Drums

ARTHEDAIN – Facebook

Al Ard – Al Ard

Un album di tale fattura deve’essere lavorato con pazienza e soprattutto compreso; personalmente, ritengo questo tipo di trasfigurazione del black metal la maniera ideale per far veleggiare nel nuovo millennio un genere sempre attuale ma pure accusato di obsolescenza dai suoi detrattori.

Questo primo lavoro è per gli Al Ard, band formatasi originariamente in Sicilia ma ora attiva nel nord Italia, la finalizzazione di un percorso che si protrae da qualche anno.

Il loro sound, che può essere approssimativamente definito industrial black metal, ingloba diversi elementi che vengono poi miscelati e riversati con sapiente ferocia, senza tralasciare di conferire al tutto un’aura drammatica, campionando per esempio, in Nero, parti tratte da Stendalì, pluripremiato corto datato 1960, con la voce della grande Lilla Brignone che recita un’orazione funebre scritta da Pasolini.
Questo immaginario in bianco e nero sembra confliggere con la modernità spinta che il trio offre ma, in realtà, ne è l’ideale complemento: tra Aborym, richiami alle sonorità in quota alla Cold Meat Industry che fu, incursioni etniche e ritmiche da drum’n’bass, gli Al Ard offrono una prova altamente disturbante, magari anche volutamente sporca a livello di produzione in certi frangenti.
A scopo esemplificativo prendiamo Who Want to Live Forgotten, traccia di rara violenza ma anche ricca di notevoli spunti deviati, e la sperimentazione delle due parti di Strange Old Practice, che si sviluppano tra rumorismo ed elettronica trasfigurata da una forte base sperimentale.
Certamente non siamo nel capo degli ascolti da prendersi alla leggera, perché un album di tale fattura deve’essere lavorato con pazienza e soprattutto compreso; personalmente, ritengo questo tipo di trasfigurazione del black metal la maniera ideale per far veleggiare nel nuovo millennio un genere sempre attuale ma pure accusato di obsolescenza dai suoi detrattori: gli Al Ard rispondono con i fatti, trasportando nel migliore dei modi l’ascolto su un piano che va ben oltre le prevedibili espressioni di blasfemia o le più rassicuranti pulsioni pagan/atmosferiche.
La musica deve anche scuotere, disturbare, talvolta anche respingere l’ascoltatore: del resto questo è il fragore della vita reale, qualcosa che resta sempre nel nostro campo uditivo anche se cerchiamo di sfuggirgli.

Tracklist:
1.Nero
2. For a Hint of Divinity
3. Pillar . Past . Present
4. Who Want to Live Forgotten
5. Strange Old Practice I
6. Red Bourbon
7. Strange Old Practice II
8.Scrutinizing A Glimpse of Chaos

Line up:
COD.511 – Vocals, Bass, Drum Machine
Symor Von Dankurt – Synth, Programming, Sampling
|x|on – Guitar, programming, sampling

AL ARD – Facebook

DECAYED – Of Fire and Evil

Dodicesimo album dei capostipiti del Black Metal Lusitano. Un album maturo, completo, da avere assolutamente.

Sinceramente, quando nel 1992 ricevetti per posta il demo Thus Revealed dei portoghesi Decayed, autodefinitisi band black metal, nutrivo forti dubbi, non fosse altro per la loro provenienza.

Il 26 febbraio del lontano 1992 uscì, quello che per molti (e per il sottoscritto) fu il vero, primo, unico Manifesto del Black Metal, ossia A Blaze In The Northern Sky di Fenriz & Co. Il glaciale inizio, da dove tutto cominciò. Il Nero, Freddo ed Oscuro lato del Metal. La trasposizione del tutto musicale, fino ad allora conosciuto. Lo stravolgimento dei canoni fondamentali della musica. Suono estremo, per me, per pochi e per nessun altro. Misogina declinazione musicale, ove tutto era permesso, perché l’IO musicale era tutto…gli altri, il nulla. Vivo solitario, in terre dimenticate, di inverni precoci, di freddo glaciale, di oscuro male che incarna l’essenza della mia esistenza, della mia Terra, nordica, desolata, ove l’inverno stesso dura dodici mesi, ove il sole non brilla mai, né alto nel cielo, né nei nostri cuori. Immaginate ora lo stupore (ma soprattutto la reticenza) nell’affrontare un prodotto proveniente dal Portogallo, più precisamente da Parede/Cascais, vicino a Lisbona! Nel nostro (e nel mio, del tempo) immaginario, terra di sole, di calde estati e di miti inverni…Invece, dovetti ricredermi: al primo approccio, ricevetti una sferzata lungo la schiena. Rabbrividii all’ascolto di brani come Last Sleep e Awakened By Hate, minuti di intenso ipotermico libido musicale: era l’aprile del 1992, ma il demo era uscito già a gennaio, ossia un mese prima dell’uscita del Capolavoro! Da quel giorno, i Decayed – sempre fedelissimi al loro stile – ne hanno fatta di strada. Longevi come pochi altri (nati nel 1990 come Decay), oggi, questi “non più ragazzini” ci propongono Of Fire And Evil (ovviamente non d’amore e altre storie…). Partiamo subito con Firestorm (dopo un Intro da brividi – Winds from Hell), vera tempesta di fuoco; violento attacco sonoro senza compromessi, in stile Marduk, senza respiro. The Schyte Of Death incalza, con i suoi riff alternati a mid-tempo sempre ben amalgamati, in un botta e risposta che coinvolgerebbe anche l’headbanger più pigro a sbattere la testa, sino a quasi svenire. La successiva A Blood Moon è in pieno stile black nordico; ritmato da chitarre “zanzarose” e riffs monotoni e ripetitivi: l’essenza del black che, come spesso accade nell’album, i nostri non disdegnano di arricchire con – seppur brevi – assoli di lead. Spesso i pezzi vengono introdotti da un parlato brevissimo, che pare introduca sempre l’ascoltatore alla prossima avventura musicale, quasi una presentazione live al prossimo pezzo in divenire, ma che in realtà accrescono l’ansia per il nuovo ascolto. Dopo un altro ottimo assaggio di tradizionale black con Across The Sea e una pausa con i funerei arpeggi di Prelude To The Carnage, arriva (appunto) Blaphemous Carnage. Un pezzo che – soprattutto nel chorus –sembra uscito da Seven Churches; thrash black di cupo, satanico rovente inferno sonoro. Tsunami di note con l’immediata God Is Dead! titolo che non lascia dubbi, testo che illumina sugli intenti della band, note che uccidono  nostri padiglioni auricolari. La successiva track (The Skull Of Akator) ci trasporta direttamente ad El Dorado, o meglio conosciuta come Akator , ossia the lost city of gold, il vero capolavoro black metal di tutto l’album (e la mia preferita), tinta di epico mistero Inca. La successiva Alvorecer De Almas Perdidas (uscita anche come singolo e video ufficiale) è un pezzo travolgente, un misto di rabbia e furia, dove lo scream di Vulturius, da il meglio di sé, urlando sopra ad un susseguirsi di cambi tempo e ad un inseguirsi di chitarra-basso-batteria, tra tempi black, crust ed accelerazioni quasi alle soglie del grind. L’album termina con la title track, non una vera e propria canzone, ma una marcia funebre che, dopo un’oscura ma sensuale voce di donna che ripete Of Fire And Evil, quasi a convincerci che il Lato Sinistro del Sentiero sia quello giusto da percorrere, veniamo precipitati direttamente nei meandri dell’Inferno con Lui (il Diavolo) che ci ipnotizza, ci ottenebra la mente, in un sottofondo di funereo, terrificante terrore.
Vero, non siamo nel Finnmark norvegese ma, vi assicuro, anche questo viaggio in Portogallo raffredderà anche i cuori e gli animi più caldi.

Tracklist
1.Winds from Hell… Intro
2.FireStorm
3.The Scythe of Death
4.A Blood Moon
5.Across the Sea
6.Prelude to the Carnage
7.Blasphemous Carnage
8.God Is Dead!
9.The Skull of Akator
10.Alvorecer De Almas Perdidas
11.Of Fire and Evil

Line-up
José Afonso – Guitars, Vocals
Vulturius – Vocals, Bass
Gabriele Giuseppe Rachello – Drums

DECAYED – Facebook

Akhenaten – Golden Serpent God

Rispetto a tre anni fa la proposta della band del Colorado sembra anche meglio focalizzata ed efficace: gli intarsi etnici appaiono curati nei minimi particolari ed ogni brano possiede una propria peculiarità che in alcuni casi si esplicita in maniera fragorosa.

Nuovo lavoro pure gli Akhenaten dei fratelli Houseman, band impostasi negli ultimi anni come credibile interprete del metal estremo immerso nell’immaginario egizio.

Come già detto in occasione della precedente uscita titolo, l’abilità del duo statunitense risiede nel saper amalgamare al meglio il sound di matrice black/death con la strumentazione tradizionale.
E se, in effetti, il primo nome che viene in mente quando si parla di certe sonorità sono i Nile, va anche detto che il sound degli degli Akhenaten è molto meno brutale ma, allo stesso tempo, anche meno dicotomico nel suo alternare le due anime che lo vanno a comporre.
Rispetto a tre anni fa la proposta della band del Colorado sembra anche meglio focalizzata ed efficace: gli intarsi etnici appaiono curati nei minimi particolari ed ogni brano possiede una propria peculiarità che in alcuni casi si esplicita in maniera fragorosa, come in episodi magnifici quali Dragon of the Primordial Sea, Erishkigal: Kingdom of Death e la title track Golden Serpent God, picchi qualitativi nei tre quarti d’ora di di black death etnici che a mio avviso teme pochi rivali, rivelandosi anche superiore a quello di band operanti in ambiti analoghi ma di ben più riconosciuta fama.

Tracklist:
1. Amulets of Smoke and Fire
2. Dragon of the Primordial Sea
3. Throne of Shamash
4. Through the Stargate
5. Erishkigal: Kingdom of Death
6. Pazuzu: Harbinger of Darkness
7. Akashic Field: Enter Arcana Catacombs
8. God of Creation
9. Sweat of the Sun
10. Apophis: The Serpent of Rebirth
11. Golden Serpent God

Line up:
Jerred Houseman – All instruments
Wyatt Houseman – Vocals

AKHENATEN – Facebook

MORTUARY DRAPE – NECROMANTIC DOOM RETURNS

Un salto nel passato. Un salto nel buio. La compilation contenente i primi due demo. Una perla da collezionismo.

Una band che non necessita di alcuna presentazione. Per chi, da anni, è appassionato di death/black/thrash, troverà sicuramente nella sua collezione un album di questo storico quintetto piemontese (ai tempi delle prime produzioni, quartetto).

Chi è più fortunato (e anziano) forse potrà vantare di possedere i loro primi lavori (su nastro), come Necromancy e Doom Returns (rispettivamente 1987 e 1989), i primi due storici demo-tape di una band che ha segnato ed influenzato i percorsi successivi di decine di gruppi, che hanno voluto perseguire la scia del death metal più oscuro, occulto, legato soprattutto a magia nera, esoterismo e negromanzia (si potrebbe parlare di “The dark side of the death” in questo caso…). Se non vi fosse riuscito di accaparrarvi questi due demo, alla fine degli anni ’80, ci ha pensato l’italiana Iron Tyrant (già responsabile di alcune importanti ristampe dei nostri, tra cui – su vinile e picture – il primo mitico ep Into the drape) che ci regala questa compilation, contenente appunto i primi due lavori più alcune tracce live, tra cui l’eponima Mortuary Drape e la funerea Inquisition. Si parte (dopo Intro d’obbligo che dà il nome al primo demo) con la cavalcata di Primordial, fulgido esempio di come il black/thrash/death & roll dei Venom da anni stesse mietendo vittime, nessuno escluso, nemmeno i nostri. Brividi lungo la schiena per Into the Catacomba, trito di funerei mid-tempo e riff magicamente neri, con poche accelerazioni, come nella successiva Presences che dopo un breve inizio di basso, passa in un crescendo da ritmi pesanti, ben cadenzati, a velocità tipiche del thrash ottantiano. Necromancer e Soul in Sorrow, con il loro black/thrash d’annata, ci mostrano come in quegli anni solo chi aveva coraggio prendeva strade in netta contraddizione con l’incalzare successo della spensieratezza tipica del thrash di quel periodo (si legga Caught in a Mosh del quintetto targato USA, o “parla inglese o muori” dei ragazzacci di NY), mai banalmente alla ricerca del successo facile, ottenebrando i riff, ovattando con carta carbone (quindi rigorosamente nera) ogni singola nota, lanciando messaggi di cupo, misterioso, arcaico, funereo, puro terrore. “Falling in a gloom Trance – drawing the sleep of dead” (da Medium Morte qui presente dal vivo, e che chiude questa compilation) non ci lascia dubbi, solo oscure certezze. Infine, non aspettatevi la produzione di The Astonishing dei Dream Teather. Contestualizziamo le demo-tape, siamo a fine anni ’80: qui sventola la bandiera dell’underground, finemente realizzata con drappi da camera mortuaria.

Tracklist
1.Necromancy (Intro)
2.Primordial
3.Into the Catacomba
4.Presences
5.Vengeance from Beyond
6.Obsessed by Necromancy
7.Evil Death
8.Undead Revenge
9.Necromancer
10.Pentagram
11.Obscure World
12.Soul in Sorrow
13.Intro
14.Mortuary Drape
15.Zombie
16.Inquisition
17.Medium Mortem

Line-up
Wildness Perversion – Vocals
D.C. – Lead Guitar
S.R. – Lead Guitar
S.C. – Bass Guitar
M-B. – Drums

MORTUARY DRAPE – Facebook

Obsolete Theory – Mudness

Mudness è un lavoro pressoché perfetto nel quale, all’interno di una base black metal, confluiscono death e doom amalgamati da un senso della melodia non comune, capace di rendere ognuno dei cinque lunghi brani altrettanti episodi in grado di nobilitare, da soli, un intero album.

Il full length d’esordio per questa band milanese rappresenta una delle tipiche folgorazioni alle quali si viene periodicamente sottoposti, e che è uno dei motivi (se non IL motivo) per il quale si spende buona parte del proprio tempo nell’ascoltare musica inedita proposta da realtà note a pochi.

Mudness è un lavoro pressoché perfetto nel quale, all’interno di una base black metal, confluiscono death e doom amalgamati da un senso della melodia non comune, capace di rendere ognuno dei cinque lunghi brani (dieci minuti medi di durata) altrettanti episodi in grado di nobilitare, da soli, un intero album.
Il bello è che, oltretutto, gli Obsolete Theory ci offrono un album in costante crescendo, visto che la partenza affidata a Salmodia III e Six Horses Of Death è all’insegna di un black relativamente più canonico, pur se proposto nella sua forma maggiormente atmosferica e ricca di punteggiature di varia natura, fino ad arrivare, attraverso la ruvida Dawn Chant (in qualche modo debitrice dei Forgotten Tomb), alla splendida Sirius’ Blood, maiuscola prova di black doom melodico che è nelle corde solo di chi possiede un talento compositivo superiore alla media, e alla conclusiva The God With The Crying Mask, che si snoda invece tra sfumature post black.
Mudness dimostra come sia ancor possibile muoversi all’interno del genere risultando freschi ed imprevedibili senza per forza spingersi su lidi avanguardistici: la bravura degli Obsolete Theory risiede sostanzialmente nell’essere riusciti a regalare cinquanta minuti di musica intensa, vibrante e in grado di restare impressa anche dopo molti ascolti.
Uno dei migliori album italiani dell’anno, al di là delle suddivisioni in generi o sottogeneri.

Tracklist:
1. Salmodia III
2. Six Horses Of Death
3. Dawn Chant
4. Sirius’ Blood
5. The God With The Crying Mask

Line up:
Ow Raygon: Guitars
Mordaul: Guitars
Tote Arthroeat: Percussions and Glockenspiel
Bolthorn: Bass
Savanth: Drums
Daevil Wolfblood: Vocals

OBSOLETE THEORY – Facebook

Hegemone – We Disappear

Un’opera di sicuro interesse per le sue atmosfere post metal intinte in un plumbeo black, in un’oscura darkwave e in un post-punk d’annata.

Un plumbeo riff di chitarra ci introduce nel mondo degli Hegemone, quartetto polacco di Poznan, attivo dal 2014 con l’autoprodotto Luminosity e ora con la Debemur Morti ad editare il loro secondo sforzo creativo.

Territori desolati, grigi senza alcuna possibilità di luce inondano i sei brani del disco. Lavoro serio che non si rivela al primo ascolto e presenta, come coordinate, un suono postmetal molto black con influssi hardcore e linee di synth che devono molto a certa darkwave e post punk di annata.Il lento iniziale andamento di Raising Barrows, attraversato da un atmosferico synth, si anima con un gigantesco riff di matrice sludge che si adagia su ritmiche black e lo scream disperato del bassista Jakub Witkowski ci conduce in territori aspri e post black piuttosto personali. La faccia moderna del black metal che si trasfigura in paesaggi non più figli della grande natura del Nord ma in suoni grigi, plumbei, metropolitani, figli di un disagio interiore che sfocia in desolazione, angoscia e oppressione come in Π, cavalcata che cresce di intensità su uno scream oscuro fino a raggiungere vette disperate e avvilite. Il senso di disagio è intenso, come suggerisce la frase “what will remains of me after I decay”, e suggestioni dei Cult of Luna si diffondono nelle atmosfere visionarie di Хан Тәңірі prima del lungo finale di Тәңірі (più di quindici minuti),  dall’intenso attacco black condotto da uno scream ardente mentre il synth oscura l’atmosfera prima di sfrangiarsi in note di piano fredde che cambiano il mood del brano portandolo in zone post metal crude e allucinate dagli influssi industrial. Purtroppo questo lavoro meritevole si perderà nelle tante produzioni che invadono il mercato, ma l’opera è di valore e sarebbe giusto non lasciarla nel limbo dove tanti lavori rimangono inascoltati .

Tracklist
1. Mara
2. Fracture
3. Raising Barrows
4. Π
5. Хан Тәңірі
6. Тәңірі

Line-up
Jakub Witkowski – bass, vocals
Tomasz Towpik – drums
Kacper Jachimowicz – guitars
Tomasz Stanuch – keyboards, electronics

HEGEMONE – Facebook

Karseron – Nail Your God Down

Il sound rispecchia il death metal dei primi anni novanta, quello che si muoveva lento tra doom ed un tocco gotico alla Crematory, ma senza il tappeto tastieristico in uso dal gruppo tedesco.

I Karseron sono un quartetto portoghese attivo dalla prima metà degli anni novanta, ma che non ha ancora dato alle stampe un album ufficiale.

La loro discografia infatti è fatta di una manciata di demo e di una compilation, almeno fino al 2005, anno in cui la band ha uno stop di ben dodici anni prima che questo demo torni a far parlare di sè, almeno in ambito underground.
Questo ulteriore demo, che risulta una sorta di ripartenza, vede la band con la formazione a quattro composta da: Gualter (voce, chitarra e batteria), Lois (voce), Nuno (basso) e Pika (chitarra).
Nail God Down è composto da cinque brani più intro ed outro, tre inediti e altri due, For War We Ride e Evil Forces, che provengono rispettivamente dai demo Krux Krucis (2005) e Frozen Tears (1999).
Il sound rispecchia il death metal dei primi anni novanta, quello che si muoveva lento tra doom ed un tocco gotico alla Crematory, ma senza il tappeto tastieristico in uso dal gruppo tedesco, con accelerate black accompagnate da uno scream che si manifesta come quello  di un’anima dannata, un growl profondo che accentua la componente estrema del sound e tratti in cui la musica appare violenta e brutale.
Rispetto ad altri act portoghesi, come per esempio gli Heavewood, i Karseron risultano più estremi in At The Gardens of Moria e nella devastante Evil Forces, la coppia di brani che alza non poco la qualità di questo lavoro.
Hanno perso molto tempo, ma se Nail Your God Down è un nuovo inizio, allora il momento dell’agognato full length potrebbe arrivare presto, teneteli d’occhio.

Tracklist
1.Praised Be
2.Dethroned Altars
3.At The Gardens Of Moria
4.I Bleed (For You, Never Again)
5.For War We Ride
6.Evil Forces
7.Damien Dethroned

Line-up
Gualter – Vocals, Guitars, Drums
Lois – Vocals
Nuno – bass
Pika – Guitars

KARSERON – Facebook

Grave Upheaval – Untitled

Un album per pochi, un’opera nera che più che un ascolto diventa esperienza totale, un rituale di morte e profanazione della durata di quasi un’ora in cui tutto quello che avete vissuto e creduto lascia spazio alla paura.

Il duo australiano chiamato Grave Upheaval è da un po’ che circola nella scena estrema di stampo death/doom, anche se un preciso genere per descrivere la musica del misterioso duo proveniente dal Queensland è impresa quasi impossibile.

Attivi da una decina d’anni, i Grave Upheaval hanno dato alle stampe un primo lavoro sulla lunga distanza nel 2013, senza titolo e con una tracklist numerata al posto dei titoli.
Seguendo il primo capitolo, il nuovo album risulta una discesa negli inferi davvero inquietante, i due membri provenienti da Portal, Temple Nightside ed Impetuous Ritual, creano una soffocante atmosfera di morte, descritta dalla marcia lavica di un doom/death al limite, urla e growl provenienti da un abisso di sofferenza e a tratti sferzati da accelerazioni di stampo black.
Occultismo, morte, buio millenario, la paura primordiale si fa spazio in noi, mentre la nostra anima scende sempre più in basso, lascia per sempre la luce e grida la sua disperazione ed il buio perenne inesorabilmente la avvolge.
Untitled è un’opera nera che più che diventa esperienza totale, un rituale di morte e profanazione della durata di quasi un’ora in cui tutto quello che avete vissuto e creduto, lascia spazio alla paura.
E’ molto difficile giudicare un’ opera del genere, potrebbe piacervi e rimanerne affascinati, come rigettarla dopo pochi minuti: un album per pochi, anzi, pochissimi.

Tracklist
1.II-I
2.II-II
3.II-III
4.II-IV
5.II-V
6.II-VI
7.II-VII
8.II-VIII

Line-up
– Guitars, Bass, Vocals
– Drums

GRAVE UPHEAVAL – Facebook