Almyrkvi – Umbra

L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale.

Il black metal proveniente dall’Islanda continua ad assumere sempre più importanza di pari passo alle varie sfaccettature che ogni band o progetto solista finisce per esibire.

Almyrkvi è uno degli ultimi frutti di una terra apparentemente arida ed ostile, ma terribilmente ricca dal punto di vista artistico: la band nasce da una costola dei già noti Sinamara, il cui chitarrista Garðar S. Jónsson si fa carico di tutto il comparto compositivo e strumentale, con l’eccezione dalla batteria affidata al già collaudato compagno d’avventura Bjarni Einarsson.
Anche la definizione black metal sta assumendo via via significati differenti a seconda dell’angolazione da cui lo si guardi e, forse, talvolta finisce per apparire addirittura riduttiva: in Umbra, infatti, si rinvengono pulsioni cosmiche e sperimentali che possono rimandare ai Blut Aus Nord ma anche ai più recenti Monolithe (che sicuramente black metal non suonano), il tutto però fatto in maniera così avvincente e personale da raccomandare chi legge a prendere queste citazioni solo come un’indicazione di massima del tipo di sonorità contenute nel lavoro.
L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale: qui aleggia costantemente un sentore di gelida minaccia che, quando pare acquietarsi, improvvisamente prorompe in esplosioni repentine, quasi il flusso sonoro corrispondesse a quelle meravigliose anomalie naturalistiche che sono i geyser così diffusi lungo l’irrequieto suolo vulcanico dell’isola.
Parlare delle singole tracce è un esercizio al quale mi sottraggo, ritenendo che Umbra sia un lavoro da ascoltare come se fosse un unico lunghissimo brano; mi limiterò a dire che l’opener Vaporous Flame è forse il momento più morbido e accessibile di un album che, a partire dalla successiva Forlorn Astral Ruins, si trasforma in una terrificante colata di nera lava, alla quale contribuisce il notevole growl di Jónsson, musicista sopraffino al quale il buon Einarsson non fa certo mancare un decisivo supporto ritmico.
Una delle più belle sorprese dell’anno, peccato solo l’aver ascoltato quest’album a classifiche già stilate, perché, per quel che può valere, avrebbe trovato posto davvero molto in alto.

Tracklist:
1. Vaporous Flame
2. Forlorn Astral Ruins
3. Severed Pillars of Life
4. Stellar Wind of the Dying Star
5. Cimmerian Flame
6. Fading Hearts of Umbral Nebulas

Line-up:
Garðar S. Jónsson – All compositions & instruments
Bjarni Einarsson – Drums

ALMYRKVI – Facebook

Ungoliantha – Through The Chaos, Through Time, Through The Death

Un ottimo esempio di black metal sinfonico che possiede la grande dote di non essere il prevedibile scopiazzamento dei Dimmu Borgir e di tutta la successiva genia, mantenendo invece ben salde le radici musicali della propria terra, in quanto le orchestrazioni conservano quell’aura solenne tipica della musica classica dell’est Europa.

E’ sempre più frequente la riedizione di album composti da band dell’estremo est europeo, con il lodevole tentativo di renderli appetibili anche al di fuori dell’area di utilizzo dell’alfabeto cirillico, rivestendoli quantomeno di titoli in inglese, pur mantenendone ovviamente l’impronta della madre lingua a livello lirico.

Questo avviene anche per gli ottimi Ungoliantha, ucraini dalla storia quanto meno singolare, visto che il qui presente Through The Chaos, Through Time, Through The Death, immesso sul mercato dalla Satanic Art Media nello scorso novembre, è il loro primo full length uscito nel 2015 con il più criptico (per noi) titolo Сквозь хаос, сквозь время, сквозь смерть; questo benché le prime apparizioni della band risalgano addirittura alla fine del scolo scorso, per poi ritornare fugacemente con un demo nel 2006 ed infine rompere il nuovo periodo di oblio discografico con il citato lavoro su lunga distanza,
Perché tutto ciò debba interessare chi legge è presto detto: siamo di fronte ad un ottimo esempio di black metal sinfonico che possiede la grande dote di non essere il prevedibile scopiazzamento dei Dimmu Borgir e di tutta la successiva genia, mantenendo invece ben salde le radici musicali della propria terra, in quanto le orchestrazioni conservano quell’aura solenne tipica della musica classica dell’est Europa, riuscendo a delineare il suono in maniera peculiare.
Il bello è che siamo di fronte ad un’opera persino perfettibile in più di un punto (la voce di Lord Sinned non è il massimo dell espressività, ricordando a tratti quella di Gunther Theys degli Ancient Rites, e forse qualcosa di più a livello di produzione si poteva fare ) eppure, nonostante questo l’impatto dirompente degli Ungoliantha non viene mai meno.
Due delle tracce provengono dallo scorso millennio ma la rielaborazione alla quale sono state sottoposte ne preserva la freschezza: Black Essence of Christ e Black Winds sono tra gli episodi migliori del lavoro e stringono tra le loro grinfie in scaletta la cover di Pressed Down By The Fallen Pivot Of Life dei Lucifugum (storico combo black metal ucraino), altra traccia nella quale il connubio tra il lavoro tastieristico e le ritmiche forsennate fornisce frutti prelibati.
La furiosa Armageddon (dotata di un apporto percussivo molto particolare, almeno per l’ambito black) chiude un lavoro davvero notevole per un’intensità che non viene sminuita dall’approccio un po’ naif della band ucraina; la nuova versione della Satanic Art prevede tre bonus track tutto sommato trascurabili, trattandosi delle versioni originali, decisamente inferiori in tutto e per tutto a quelle attuali, delle già citate Black Essence of Christ e Black Winds, e della cover di Lost Wisdom di Burzum.
Ma quello che interessa maggiormente è il potenziale manifestato da una band di fatto fino ad oggi sconosciuta nella vecchia Europa, il che fa pensare a quante e quali possano essercene di pari livello e pronte a essere portate alla luce nella sterminata area geografica corrispondente all’ex Unione Sovietica.

Tracklist:
1.Intro
2.Following The Black Kindness
3.To The Ultimate Gates
4.Black Essence of Christ
5.Pressed Down By The Fallen Pivot Of Life (Lucifugum cover)
6.Black Winds
7.Reckoning
8.Through The Death
9.Armageddon
10.Black Essence of Christ Demo
11.Black Winds Demo
12.Lost Wisdom (Burzum cover)

Line-up:
Vitaly Karavaev – Guitars
Igor Vershinin – Keyboards
Lord Sinned – Vocals, Bass

Elegiac – Black Clouds of War

Quando il troppo non stroppia. Nonostante le tante produzioni in poco tempo, Elegiac ha sempre più idee e qualità da vendere

Per chi non vi si fosse già imbattuto, Elegiac è una one-man band che ci scarica addosso i suoi decibel e il suo odio tutto black metal direttamente da San Diego, California.

A quanto pare ne aveva un bel po’ in serbo, perché in soli tre anni di attività, questa band ha già al suo attivo un’enorme quantità di lavori, tra cui ben otto split (tre solo nel 2017).
Black Clouds of War è un album che spazza via qualsiasi preconcetto sulla quantità che va a discapito della qualità, così come tutta la storia di questa band, che ha sempre sfornato contenuti di buonissimo livello.
Anche questo disco, quindi, è corposo ma soprattutto denso. Si ha sempre l’idea di una convivenza perfetta tra l’ondata di black aggressivo e senza presentazioni di cui ogni cultore del genere ha uno smisurato bisogno, e una componente melodica di altissima qualità che ci trascina dentro l’atmosfera creata da Elegiac. Ne è già un’ottima prova la title track Black Clouds of War, che apre il disco.
Altri brani rappresentativi sono certamente The Hanging Head of Death, dove lo stile più melodico e riflessivo non stona nemmeno per un secondo con l’odio e la dissacrazione di cui Elegiac fa la sua ragion d’essere, e Ashwind, intermezzo inaspettato nella parte finale del disco, quasi orientaleggiante, ma che non risulta forzato o fuori luogo per l’ascoltatore.
Ultima nota di merito spetta alla voce, capace di potenza, vero odio e distruzione ma anche di pura agonia, la quale potrebbe tranquillamente ricordare il DSBM, ma che in realtà qui ha ben poco in comune con esso.
È un album che, nel proprio modo di essere, ha già dei precedenti tra i molti lavori di Elegiac, soprattutto perché ci riporta alla mente un altro suo masterpiece, ovvero Spiritual Turmoil del 2016. Questo artista ha però la capacità di essere multiforme, e di lasciare sempre stupito anche l’ascoltatore più assiduo.

Tracklist
1. Black Clouds of War
2. Cosmic Holocaust
3. Beyond the Physical Realm
4. Transcendence (Interlude)
5. Heathen Supremacy
6. The Hanging Head of Death
7. Symbols of Power
8. Ashwind (Interlude)
9. Creatures of Night
10. Visions

Line-up
Zane Young: All instruments, Vocals

ELEGIAC – Facebook

Imperialist – Cipher

Cipher è un album con molta più lode che infamia, ma la sensazione è che questa band abbia nelle corde la possibilità di fare ancora molto meglio, benché la prima prova si lunga distanza si dimostri una base di partenza già abbastanza solida.

Gli Imperialist sono una band californiana a trazione integralmente ispanica.

Un aspetto, questo, che a mio avviso influisce sulla forma di black offerto dalla band, visto che il dna di una band seminale come i Terrorizer, formata in gran parte da musicisti centroamericani per origini o nazionalità, non può non aver influito sulla crescita musicale di questi ragazzi.
E, infatti, seppure di black metal si possa parlare a pieno titolo., il sound contenuto in Cipher non riporta immediatamente alle lande scandinave ma si contamina sovente con il death e con il thrash, trovando una sua strada, sicuramente già battuta da molti altri, ma tutto sommato neppure così scontata.
L’album, che è il full length d’esordio per gli Imperialist dopo l’ep del 2015 Quantum Annexation, conserva a livello concettuale l’immaginario fantascientifico degli esordi e si rivela senza dubbio un lavoro privo di sbavature e sufficientemente coinvolgente, anche se gli manca il colpo decisivo sotto forma di quei due o tre brani capaci di agganciare con decisione i potenziali ascoltatori.
Tutto scorre molto linearmente, senza annoiare ma neppure provocando sobbalzi, con qualche episodio sopra la media della tracklist (Umbra Tempest), ma nel complesso è una certa uniformità che nel bene e nel male caratterizza l’incedere di Cipher.
Il meglio gli Imperialist lo riservano con la traccia conclusiva Mercurian Dusk, dove si evidenzia appunto quell’intensità capace di catturare l’attenzione, grazie a linee melodiche più incisive ed il ricorso a buone variazioni ritmiche senza ricorrere a passaggi interlocutori,
Cipher è un album con molta più lode che infamia, ma la sensazione è che questa band abbia nelle corde la possibilità di fare ancora molto meglio, benché la prima prova si lunga distanza si dimostri una base di partenza già abbastanza solida.

Tracklist:
1. Continuum
2. The Singularity
3. Advent Anathema
4. Splendor Beneath an Ancient Permafrost
5. Umbra Tempest
6. Chronochasm
7. Binary Coalescenc
8. The Dark Below
9. Mercurian Dusk

Line-up:
Sergio Soto – Guitar and Vocals
Rod Quinones – Drums
Bryant Quinones – Guitar
Adrian Castaneda – Bass

IMPERIAL – Facebook

Anima Damnata – Nefarious Seed Grows to Bring Forth Supremacy of the Beast

Un assalto sonoro senza soluzione di continuità, penetrante ed oscuro, dannato e affascinante come è il male quando a domarlo e ritorcerlo contro di noi è Lucifero in persona tramite i suoi quattro adepti celato sotto il monicker Anima Damnata.

Con gli Anima Damnata, la Polonia estrema torna a far parlare di sé con l’ultimo lavoro di questo blasfemo quartetto al terzo full length, dieci anni dopo Atrocious Disfigurement of the Redeemer’s Corpse at the Graveyard of Humanity, ultimo parto malefico del gruppo.

Nefarious Seed Grows to Bring Forth Supremacy of the Beast continua a portare alla superficie le terrorizzanti e lascive blasfemie provenienti dall’antro più buio dell’inferno: non ci sono melodie, non c’è pietà ne umanità nello spartito di questo demoniaco quartetto e l’album, come e più delle le precedenti uscite, propone un sound che acquista forza direttamente dalla mente luciferina della band, autrice di un blackened death metal di chiara ispirazione est europea ma reso ancora più violento dal caos primordiale che viene evocato per soggiogare un’umanità alla deriva.
Un assalto sonoro senza soluzione di continuità, penetrante ed oscuro, dannato e affascinante come è il male quando a domarlo e ritorcerlo contro di noi è Lucifero in persona tramite i suoi quattro adepti celato sotto il monicker Anima Damnata.

Tracklist
01. The Promethean Blood
02. Praise the Fall of God
03. Uprising Lucifer
04. Through Abomination ‘Till Ecstasy
05. I Hail His Name
06. Your Life Is Cursed
07. Numinous Ascension into a Black Hole
08. His Light Shines Upon Me
09. Blend into Satan
10. Void of the Abyss

Line-up
Master of depraved dreaming and Emperor of the Black Abyss the Great Lord Hziulquoigmzhah Cxaxukluth – drums and electronics
Archangel of Evil Spells, Morbid Priest of Arcane Perfection vel Necrosodom – guitars and vocals
Apocalyptic Profanator of the Holy Laws, The Supreme Ruler of Abominations – guitars
The Mighty Initiatior of Barbarous Rituals, Herald of Heathen Firevel Killer – bass

ANIMA DAMNATA – Facebook

Sortilegia – Sulphurous Temple

L’approccio al black metal dei Sortilegia porta alle estreme conseguenze il concetto di ortodossia del genere, esibendolo nella sua versione e più nuda e cruda, senza orpelli e appesantimenti di sorta.

Per ascoltare questo secondo lavoro dei Sortilegia senza utilizzarlo come una sorta di metallico frisbee è necessario rispondere a due requisiti fondamentali: amare senza condizionamenti di sorta il black metal ed anteporre la purezza e la genuinità degli intenti di chi lo suona nelle sue forme più primitive a qualsiasi altra considerazione relativa alla pulizia del suono piuttosto che la mera tecnica strumentale.

E’ vero che per lo più questi due aspetti si sovrappongono ma non è cosi scontato, anzi, sempre più capita di apprezzare album che, senza tradire lo spirito del genere, sono prodotti e suonati con grande cura di ogni particolare.
L’approccio dei Sortilegia, duo canadese formato da marito e moglie (Haereticus e Koldovstvo), porta invece alle estreme conseguenze il concetto di ortodossia nel genere, esibendolo nella versione e più nuda e cruda, senza orpelli e appesantimenti di sorta.
Il primo percuote in maniera ossessiva il proprio strumento mentre la seconda macina un riffing incessante sul quale cala urla e gemiti che rendono ancora più oscuro ed inquietante lo scenario: il sound è scarno fino all’eccesso, ma fotografa come forse nessuno oggi appare in grado di fare lo spirito primevo di un genere che, giustamente, si è evoluto verso forme più accessibili e relativamente raffinate, ma che continua ad affondare le proprie radici diversi metro sotto il suolo, laddove il putridume regna ed è da lì che la pianta trae linfa per fornire i suoi osceni frutti.
Una forma espressiva, questa, che trova ragion d’essere solo nell’esposizione di un genere come il black metal che, nonostante i numerosi ed apprezzabili tentativi di ammorbidimento e contaminazione, non potrà comunque mai essere derubricato del tutto a qualcosa di omologabile e di inoffensivo, almeno finché ci saranno band come i Sortilegia ad alimentarne la fiamma.
Sulphurous Temple svelerà il proprio valore solo a chi si riconosce nel profilo delineato con il primo paragrafo, per tutti gli altri è meglio passare oltre.

Tracklist:
1. Night’s Mouth
2. Speculum Tenebrarum
3. Ecstasies of the Sabbath
4. The Veil
5. Hymn for the Egregor
6. Exalting in Acrid Flames

Line-up:
Haereticus – Drums
Koldovstvo – Vocals, Guitars

Mystifier – Profanus

Il lavoro va via che è un piacere, magari non lasciando ricordi indimenticabili, ma mostrando un efficace spaccato di quello che era la scena estrema brasiliana nell’ultimo decennio del secolo scorso.

La Vic Records, etichetta olandese specializzata in ristampe, continua la sua meritoria opera di “archeologia metallica”.

Ad essere riportato alla luce è in quest’occasione il quarto e ultimo full length dei brasiliani Mystifier, una delle band seminali della scena estrema della nazione che ha dato i natali ai Sepultura.
In particolare, la band guidata da Armando da Silva Conceição, in arte Beelzeebubth, è stata tra le prime in quel continente a far proprie le pulsioni black provenienti dal Nord Europa, anche se il tutto è sempre stato incanalato in una forma di thrash dai tratti molto oscuri e, ovviamente, al 100% intriso di tematiche occulte e sataniste.
Rispetti ai primi tre lavori, Profanus mostrava una maggiore propensione alla forma canzone, riducendo il minutaggio dei vari brani e risultando molto più diretto ed essenziale, privo quindi di quegli elementi distintivi in grado di rendere affascinante o grottesco (a seconda dei punti di vista) l’operato del gruppo brasiliano.
Il lavoro va via che è un piacere, magari non lasciando ricordi indimenticabili, ma mostrando un efficace spaccato di quello che era la scena estrema da quelle parti nell’ultimo decennio del secolo scorso: infatti, pur essendo datato 2001, Profanus sembra in tutto e per tutto un lavoro più datato (detto in senso buono), non tanto per la produzione, che anzi è decisamente apprezzabile se rapportata a lavori della stessa epoca, ma piuttosto per l’approccio naif alla materia da parte dei Mystifier.
La differenza tra i brani contenuti in Profanus e quelli dei primi anni novanta si può cogliere facilmente grazie alle tre bous track registrate live a Recife nel 2015 che mostrano, invece, una maggiore enfasi dal punto di vista vocale e lirico ed una struttura molto più diluita e sfaccettata.
Questo suggerisce anche, a chi se lo fosse chiesto, che i Mystifier sono tuttora attivi, nonostante non pubblichino un disco di inediti da oltre sedici anni; a quanto pare il buon Beelzeebubth, uno dei non pochi che nella loro carriera hanno speso più tempo ad inseguire musicisti per completare la band che a scrivere musica , sta lavorando all’uscita di un atteso nuovo full length e, francamente, sono molto curioso di vedere cosa sarà in grado di offrire questo benemerito veterano della scena metal sudamericana.

Tracklist:
1. Unspeakable Dementia (Utter Nonsense)
2. Dare to Face the Beast
3. Supreme Power of Suffering
4. Born from Mens’ Dreams
5. Superstitious Predictions of Misfortune
6. Je$$us Immolation
7. Beyond the Rivers of Hade
8. Thus Demystifier Spoke
9. Free Spirit Flight
10. Celebrate the Antichristian Millenium
11. Sowing the Evil in Our Hearts
12. Hangman’s Noose (Ending Mortal Existence)
13. Atheistic Prelude to Immortality
14. An Elizabethan Devil Worshipper’s Prayer Book (Live)
15. Alesteir Crowley (Live)
16. Osculum Obscenum (Live)

Line-up:
Beelzeebubth – Guitars, Bass, Lyrics
Brunno Rheys – Bass, Vocals (backing)
Asmoodeeus – Vocals
Leandros – Keyboards, Vocals (backing)
Louis Bear – Drums

MYSTIFIER – Facebook

Antiquus Scriptum – Antologia

Un pagan/epic black metal con potenziale qualità ma che di chiaro ha ben poco. Da parte degli amanti del genere, comunque, può meritare una possibilità.

Il pagan black metal di Antiquus Scriptum, one-man band portoghese con alle spalle una carriera ormai quasi ventennale, torna con il nuovo album Antologia che, dopo una breve intro soft con dei suoni della natura (nella stessa maniera si chiuderà), si catapulta nelle orecchie dell’ascoltatore con il massimo della violenza possibile, in chiave totalmente nichilista e senza alcuna traccia di benevolenza.

Ogni traccia di Antologia è intrisa, già dai titoli, di dissacrazione e malattia. Questa rimane una costante imprescindibile per tutta la durata del disco. Il musicista e compositore portoghese tira fuori un sound che ha anche tanto di epico e sinfonico, ma che comunque non cozza con la natura distorta dell’album.
Il risultato è, tutto sommato, una discreta miscela tra più stili, con qualche intermezzo come A shape of space & time che, in confronto al ritmo incessante dell’album, sembra quasi un pezzo pop.
Ad una valutazione complessiva, però, sono davvero molti i limiti del disco. Uno dei più importanti è senza dubbio la parte vocale, che qui naviga in maniera incerta tra frammenti death, voce pulita e raw. Proprio la voce, spesso ma non sempre, stona completamente con l’atmosfera musicale che si crea. È quasi come se fosse stata gettata in mezzo alla registrazione da un’altra fonte.
Anche sulla parte strumentale ci sono dei dubbi, infatti il ritmo eccessivamente forsennato dell’album sembra fine a sé stesso, confusionario e privo di criterio. Questo non aiuta certamente a capire cosa si sta ascoltando.
Insomma, c’è sicuramente del buono, ma c’è anche uno stile musicale ancora da comprendere.

Tracklist
1. Dance of the Sleepless Souls in a Dusk Called Night… (Intro)
2. In Pulverem Reverteris
3. Abi In Malam Pestem
4. Inner Depression (Syndromes of Fear)
5. I. N. R. I.: Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum
6. Thy Visionary
7. Den Nordiske Sjel Lever I Meg
8. Odi At Amo, Excrucior…
9. A Shape of Space & Time
10. In the Kingdom of Superstition
11. A Sea of Doubts
12. Dance of the Crying Souls in a Dusk Called Night… (Outro)

Line-up
Sacerdos Magus – Bass, Vocals, Guitars, Acoustics, Drums, Key Strokes

ANTIQUUS SCRIPTUM – Facebook

Häive – Iätön

E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante di dark/folk intriso di black metal.

Dopo uno iato temporale di dieci anni, dopo una meraviglia come Mieli Maassa, uscito nel 2007, riemerge Häive, la creatura con cui esplora il suo mondo musicale il musicista finnico Janne ‘Varjosielu’ Väätäinen, che suona ogni strumento ed è accompagnato in alcune session vocali da Noitavasara.

Fin dalla cover, veramente splendida e particolare, siamo introdotti in un mondo magico di suoni e oscurità, dove l’artista esplora temi come la natura, la disperazione e l’oblio attraverso un intenso suono folk immerso in note black metal evocative e ricche di atmosfera. Otto brani, quaranta minuti di musica fuori dal tempo che non ha bisogno di furia e di tempi veloci per sviluppare il viaggio dell’artista; qui ci sono cristalline melodie folk, che si appoggiano su mid tempo intensi, fluidi e carichi di energia. Chi ha conosciuto e apprezzato la precedente release rimarrà, ancora una volta, estasiato, come il sottoscritto, di fronte alla grande capacità compositiva dell’artista, capace di variare le atmosfere all’interno dei brani, come nel terzo brano Lapin Kula, dove uno scream deciso accompagna una tersa melodia pregna di oscurità per poi, dopo un solo con aromi heavy metal, sfrangiarsi in note dark folk e aprirsi in note di chitarra molto evocative e desolate.
Le vocals sono in finnico e aggiungono un fascino peculiare ed arcano all’intero lavoro, donando quell’unicità, quella sensazione di un lavoro fuori dal tempo; qui non ci sono segnali di suoni classicamente atmosferici o parti post black, ma solo il viaggio di un musicista unico, dotato di classe cristallina, alla ricerca di una personale via per esprimere la sua visione della natura: la copertina interna del cd è esplicativa, con il musicista che ammira l’invernale natura incontaminata della sua terra. E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante, perché non resterà assolutamente deluso e attenderà pazientemente altri dieci anni per riassaporare queste emozioni uniche.

Tracklist
1. Iätön (Ageless)
2. Turma (Ruin)
3. Lapin Kouta (Kouta from Lapland)
4. Kuku, kultainen käkeni (Sing My Golden Bird)
5. Tuulen sanat (The Spell of Wind)
6. Salojen saari (Esoteric Isle)
7. Tuonen lehto, öinen lehto (Grove of Tuoni, Grove of Evening)
8. Virsi tammikuinen (Song of January)

Line-up
Varjosielu – Vocals, Guitars, Bass, Drums, Mouth harp, Kantele

HÄIVE – Facebook

Sartegos / Balmog – Split 7″

Uno split che mette in luce due realtà interessanti, contigue per appartenenza geografica ma differenti per l’approccio al black metal.

Uno split album dallo spirito ben poco natalizio, questo edito dalla Caverna Abismal: l’etichetta portoghese attinge dai vicini confini spagnoli proponendo l’accoppiata galiziana formata da Sartegos e Balmog.

I primi sono una one man band guidata da Rou Sartegos, con all’attivo un ep ed un altro split, e la traccia presente sul lato A del 7”, Lume do Visitante – Morrer no Nas, mette in mostra il black death che ci si aspetta da queste uscite che provengono dagli strati più profondi dell’underground metal: un growl rantolante sovrasta ritmiche martellanti che si aprono però, sorprendentemente, allorché la chitarra solista prende campo, regalando intuizioni tutt’altro che banali e una certa imprevedibilità all’interno di un mood tanto naif quanto oscuro.
I Balmog sono invee un trio afferente in maniera più ortodossa al black metal, quindi risultando di maggiore impatto nell’immediato ma leggermente più prevedibile alla lunga rispetto a Sartegos; Venomous è comunque un bel brano dal pregevole sviluppo melodico, che conferma quanto di buono già fatto da una band dalla storia abbastanza lunga e disseminata di uscite, inclusi due full length nel 2012 e nel 2015.
In sostanza, questo split mette in luce due realtà interessanti, contigue per appartenenza geografica ma differenti per l’approccio al genere: due aspetti che, nonostante la sua brevità, rendono il lavoro appetibile agli estimatori di un black iberico che mostra da tempo un certo fermento.

Tracklist:
Side A
1. Sartegos – Lume do Visitante – Morrer no Nas
Side B
2. Balmog – Venomous

Line-up:
SARTEGOS
Rou Sartegos – Everything

BALMOG
Morg – Bass
Virus – Drums
Balc – Vocals, Guitars

BALMOG – Facebook

Mhönos – LXXXVII

Per poco più di quaranta minuti tutto il dolore ed il male che ci scrolliamo dalle spalle, considerandolo solo frutto di paure ancestrali, viene evocato dai Mhönos fino a mostracelo con il suo sinistro carico di ineluttabile morte e disfacimento.

Per i francesi Mhönos si ripropone l’eterno dilemma che attanaglia chi deve esprimere un parere su musica decisamente fuori dagli schemi, che è quello di capire se si tratta di vera genialità oppure di un’accozzaglia di suoni messi assieme senza un’apparente logica.

A mio modo di vedere, ogni forma di sperimentazione musicale deve anche mantenersi in un alveo entro il quale l’ascoltatore possa percepire un qualche disegno che consenta di assimilare opere, altrimenti, a forte rischio d’essere considerate un’esibizione di rumore fine a sé stesso.
LXXXVII oscilla pericolosamente su questo confine e immagino che la sua collocazione, dall’una o dall’altra parte, dipenda non solo dalla predisposizione dei diversi soggetti a simili ascolti ma, addirittura, dall’umore specifico di una stessa persona nel momento in cui il sound dei Mhönos viene si fa strada  senza alcuna misericordia.
Cercando d’essere asettici ed obiettivi il giusto, credo che questo sia un lavoro di notevole spessore, perché qui il male cessa d’esser un qualcosa che ci accompagna in maniera subliminale per proporsi in uno stato quasi solido, tramite una forma di black metal stravolta da un approccio rituale che porta il tutto su un piano ambient drone, con l’aggiunta di vocals quanto mai malevole a completare il quadro.
I Mhönos offrono un’opera che rischia seriamente di finire derubricata a sottobicchiere se acquistata in formato cd da qualcuno che non ha ben chiaro quali siano le finalità di questi misteriosi “frati” transalpini; viceversa, se si possiede un minimo di masochistica familiarità con certi suoni, è difficile restare indifferenti a questa esibizione di velenosa ed oscura follia musicale.
Per poco più di quaranta minuti tutto il dolore ed il male che ci scrolliamo dalle spalle, considerandolo solo frutto di paure ancestrali, viene evocato dai Mhönos fino a mostracelo con il suo sinistro carico di ineluttabile morte e disfacimento: il tutto senza fare neppure troppo rumore, ma affidandolo a sonorità minimali ed artifici vocali che da sgradevoli si fanno via via insinuanti fino a non poter essere più scacciati dalla memoria.
LXXXVII va sicuramente ascoltato, sia pure a proprio rischio e pericolo …

Tracklist:
1. I
2. II
3. III
4. IV

Line-up:
Frater Erwan: basso, cori
Frater Nikaos: percussioni
Frater Samuel: percussioni
Frater Nehluj: basso, coro
Frater Alexandre: basso, cori
Necropiss: voce

MHÖNOS – Facebook

Degial – Predator Reign

Un sound infernale creato per destabilizzare e rubare anime da portare all’oscuro signore in un’atmosfera di indicibile caos.

Se verrete risucchiati nel vorticoso maelstrom creato dai Degial, difficilmente riuscirete a tornare indietro restando imprigionati in un oscuro e personale inferno.

I Degial sono un quartetto svedese attivo da ormai più di dieci anni, hanno dato alle stampe un ep e due full length (Death’s Striking Wings uscito nel 2012 e Svage Mutiny licenziato un paio di anni fa), e tornano con il terzo album sotto Sepulchral Voice Records, questo massacro sonoro dal titolo Predator Reign, fatto di corse lungo i binari del black metal e cavalcate sul destriero death, in un’atmosfera apocalittica e rigorosamente old school.
Riff che creano vortici di male in musica, ritmiche devastanti, scream/growl da orco ferito e dunque (come un animale) ancora più rabbioso e crudele, vanno a comporre un sound infernale creato per destabilizzare e rubare anime da portare all’oscuro signore.
La title track, posta in apertura, e la successiva Thousand Spears Impale, vi danno il benvenuto nel regno della violenza e del caos primordiale, dove non ci sono rallentamenti o aperture a qualsivoglia melodia, solo terrore e rabbia, un massacro che continua imperterrito con Devil Spawn Hellstorm, cuore nero dell’album che pulsa al ritmo inumano di un sound bestiale e senza compromessi.
Clangor Of Subjugation mette la parola fine al massacro con sei minuti di black death epico ed oscuro che trascina a forza verso il fondo dell’inesorabile gorgo.

Tracklist
1.Predator Reign
2.Thousand Spears Impale
3.The Savage Covenant
4.Crown Of Fire
5.Devil Spawn
6.Hellstorm
7.Heretical Repugnance
8.Annihilation Banner
9.Triumphant Extinction
10.Clangor Of Subjugation

Line-up
H. Death – Vocals/Guitar
R. Meresin – Guitar
E. Forcas – Drums
P.J. Vorum – Bass

DEGIAL – Facebook

Begerith – A.D.A.M.

Chi ama il death metal più intenso e veloce qui troverà davvero un bel disco.

In fondo al 2017 arriva questo gran disco di death metal dei Begerith.

Questi ultimi sono dei russi di Vladivostok che si sono trasferiti in Polonia, ed effettivamente il loro suono è molto influenzato dalla scuola polacca del death metal, fatta conoscere nel mondo da gruppi come Behemoth, Vader e Hate, per citare quelli maggiormente conosciuti.
I Begerith sono al loro secondo lavoro sulla lunga distanza, e con A.D.A.M. Mettono in mostra tutte le loro qualità. Il suono, come detto sopra, è un death metal molto polacco, e ci sono anche forti influenze black metal, quello delle origini. Trovano anche molto spazio dei virtuosismi chitarristici mai fini a loro stessi, che potenziano la struttura dei brani. I Begerith mettono al centro di tutto la musica e ciò che veicolano con essa, infatti non si sanno i nomi dei componenti del gruppo, che sono indicati come Begerith e numerati da 1 a 4. Non si perde nemmeno tempo con i titoli delle canzoni, come potete notare. Il disco funziona davvero molto bene, è molto potente e bilanciato, ha un’ottima produzione e riesce a tenere sempre alta la tensione. Pur venendo da un ambiente musicale ben preciso i Begerith sono unici e il loro death è molto personale e devastante. Il disco è incentrato sulla figura di Adamo, scagliato da Dio sulla Terra, mostrando tutta la sua tracotanza. I testi sono molto interessanti, come spesso succede nel death metal, e non sono solo un contorno. I Begerith sono un gruppo affermato nella scena death metal, ed impressioneranno ancora di più grazie a questa prova, che è davvero buona.
Chi ama il death metal più intenso e veloce qui troverà davvero un bel disco.

Tracklist
1.Nome Fatas Hiss Mortus
2.A.D.A.M. I
3.A.D.A.M. II
4.A.D.A.M. III
5.A.D.A.M. IV
6.A.D.A.M. V
7.A.D.A.M. VI
8.A.D.A.M. VII
9.A.D.A.M. VIII
10.A.D.A.M. IX
11.A.D.A.M. X

Line-up
Begerith I – vocals, guitars
Begerith II – guitars
Begerith III – bass
Begerith IV – drums

BEGERITH – Facebook

Blaze Of Perdition – Conscious Darkness

Il quarto full length dei Blaze Of Perdition è un qualcosa che va oltre il concetto puramente estetico di black metal: qui si percepisce in maniera quasi tattile il turbinio di sensazioni che stanno alla base di un lavoro compositivo e lirico stupefacente, per qualità e profondità.

La storia dei Blaze Of Perdition è stata indubbiamente segnata dal tragico incidente stradale che vide coinvolta la band sulle strade austriache nel 2013, causando la morte del bassista Ikaroz e gravi conseguenze al vocalist Sonneillon ed al batterista Vizun.

Dopo simili eventi la vita non può essere più la stessa, nel bene e nel male: diciamo che, musicalmente parlando, il gruppo polacco pare aver acquisito una maggiore consapevolezza e, se questo era già stato palesato nel precedente album, ancor più tale aspetto emerge in questo contesto.
La scelta stessa di proporre un album strutturato su quattro lunghi brani la dice lunga: i Blaze Of Perdition hanno sentito evidentemente la necessità di prendersi maggiore tempo e spazio per sviluppare la propria idea di black metal; questo consente ad un brano magistrale come Ashes Remain di oscillare senza rischi tra le sfuriate in blast beat e passaggi più rarefatti ed oscuri che ricordano, in alcuni momenti, addirittura i Fields of the Nephilim, grazie anche alla profonda timbrica recitativa di Sonneillon.
Se questo episodio è a suo modo emblematico dello spessore odierno della band di Lublino, tutto il resto del lavoro si mantiene su livelli eccelsi per merito di una approccio che è senz’altro conforme ai dettami di base della consolidata scena estrema polacca e che, quale valore aggiunto, vede una naturale propensione melodica pur se racchiusa all’interno di un’atmosfera per lo più plumbea.
L’opener A Glimpse of God apre come meglio non potrebbe le ostilità, facendo intuire fin dalla prima nota di quale spessore sia il livello artistico di questa band, che non spreca un solo secondo in passaggi interlocutori o in altri artifici riempitivi: diciamo solo che Weight of the Shadow è forse il brano che presenta la maggiori dissonanze, le quali restano del tutto funzionali al mantenimento della tensione al suo massimo livello, cosa che viene puntualmente confermata dalla magnifica e conclusiva Detachment Brings Serenity, il cui finale sigla un approccio musicale privo di vincoli ma, nel contempo, anche di divagazioni fine a a sé stesse
Il quarto full length dei  Blaze Of Perdition è un qualcosa che va oltre il concetto puramente estetico di black metal: qui si percepisce in maniera quasi tattile il turbinio di sensazioni che stanno alla base di un lavoro compositivo e lirico stupefacente, per qualità e profondità.
Volendolo incasellare comunque alla voce black metal, Conscious Darkness è con ogni probabilità uno dei candidati al titolo di album dell’anno in questo settore, anche se le trame oscure ed incalzanti che ne pervadono i brani sono del tutto indicate per l’ascolto anche da parte degli appassionati di doom o dark metal.

Tracklist:
1. A Glimpse of God
2. Ashes Remain
3. Weight of the Shadow
4. Detachment Brings Serenity

Line-up
XCIII – Guitars
Sonneillon – Vocals
Vizun – Drums

BLAZE OF PERDITION – Facebook

Devlsy – Private Suite

Ascoltando Private Suite si capisce che è un disco di caratura superiore, che unisce vari linguaggi musicali in una miscela di qualità superiore.

Nella continua ed inarrestabile avanzata e crescita del black metal arriva questa seconda opera dei lituani Devlsy , fautori di un post black metal molto interessante.

In realtà si può parlare di opera black metal tout court, anche se l’impostazione è sicuramente diversa rispetto a quella classica. Le chitarre molto ribassate ed un ritmica pulsante ci portano in giro per mondi distorti, dove menti lontane nello spazio hanno rinchiuso le nostre anime, e non è prevista la salvezza. I Devlsy sono un gruppo dalla grande fantasia sonora, ed infatti i signori dell’ATMF, etichetta triestina con un catalogo di gran valore, non hanno perso l’occasione per pubblicare questo disco. Lo scopo di Private Suite è di creare un labirinto sonoro che ci metta in contatto con dimensioni che sono oltre la nostra comprensione, perché dischi come questo non sono mera musica, ma rituali per andare da qualche altra parte. Ancora una volta il black metal è un contenitore incredibile, sorgente che fa scaturire molteplici codici diversissimi fra loro, in grado di far ragionare le menti che lo vogliano. Il distorto universo sonoro dei Devlsy è un qualcosa che va esplorato, sono moltissimi gli angoli molto notevoli, e su tutto aleggia un disegno superiore. Ascoltando Private Suite si capisce che è un disco di caratura superiore, che unisce vari linguaggi musicali in una miscela di alta qualità. Questi lituani fanno piangere e sognare, abbeverandoci alla fonte del nostro eterno dolore, là dove si può solo lenire con la fuga, senza mai curare. Il disegno sonoro dei Devlsy è di gran valore e traccia una traiettoria che crescerà ancora, e già questo è un disco assai notevole. Nella traccia sonora Bring MyWord canta anche un certo Dave Ed dei Neurosis, che non necessitano certo di presentazione.

Tracklist
1.Corridors
2.Hatching Tomb
3.Bring My Word
4.Patient #6
5.Porta Formica
6.Horizon Attached

DEVLSY – Facebook

Minas Morgul – Kult

Un prepotente nuovo ritorno di questa duttile ma sopraffina band tedesca. Nuovi canoni,forse, ma sicuramente vecchia maestria: il loro valore è nuovamente assicurato.

Aspettavamo i Minas Morgul, a 5 anni dall’ultimo album di discreto successo Ära.

L’indomita band tedesca, direttamente dal lato oscuro dell’immaginario di Tolkien, non può far altro che riportarci alla mente uno scenario energico, esplosivo, condito di disprezzo continuo che ha il suo apice nell’album Eisengott, del 2009, forse il loro lavoro più riuscito nonché di grande fortuna presso i fans.
In questo nuovo album, dal titolo Kult, trascorre davvero poco tempo prima di renderci conto di cosa è cambiato nei progetti sonori dei tedeschi. E allora schiacciamo il tasto play ed apriamo la porta alla prima traccia Einleitung , che funge anche da intro per il disco, nella quale sembra di camminare in un corridoio buio che si fa poco a poco meno rassicurante fino a diventare pressante.
Sensazione che sembra essere alleggerita in certi frangenti, come nell’intro di Ein teil von mir , ma l’universo fantasy dei Minas Morgul, pur puntando meno sull’aggressività devastante, stavolta ha più aderenza con la realtà. Questo album trasuda sentimenti di dissacrazione pura al 100%, che spesso sfocia nell’amarezza. Ne scaturisce un sound che raggiunge i suoi scopi senza danneggiare o ammorbidire (anzi, forse rafforzandola) l’immagine che sempre ha contraddistinto questa band.
La frenesia rimane, e così la batteria a tratti sempre infernale, ma l’atmosfera è più sottile e richiede più sensibilità anche al metallaro più apatico e pesante. Il tratto malinconico è aggiunto ad arte dai Minas Morgul, che anche stavolta ci hanno deliziato.

Tracklist
1. Einleitung
2. Kult
3. Ein Tell von mir
4. Abschied
5. Leere
6. Bevor ich gehe
7. Nur eine Kugel
8. Scherben
9. Was bleibt
10. XX

Line-up
13R13: singing
Saule: guitar
Herr Ewald: guitar
Bobby B.: Bass
Berserk: drums
Jen: Keyboards

MINAS MORGUL – Facebook

Cold Cell – Those

Un’opera intensa, gelida carica di odio verso il genere umano dove…the lowliness of man is inviolable.

Band svizzera di Basilea, relativamente conosciuta, i Cold Cell giungono in quattro anni di attività al loro terzo full length e suonano, con sempre maggiore convinzione, un black metal molto dark, atmosferico e moderno.

Sono cinque musicisti che, pur non avendo una grande storia, tranne il batterista attivo nei Schammasch, splendida entità con un suo personale suono, hanno le idee chiare e ci propongono un’opera intensa, ben composta e ben suonata dispiegando un sound gelido, carico di malsane atmosfere e sferzato da taglienti chitarre molto ispirate. Il suono dei Cold Cell evolve in atmosfere plumbee, grigie, rimembranti desolati paesaggi metropolitani derivanti, secondo me, anche da alcuni oscuri aromi darkwave. Le vocals in scream sono molte, decise, cariche di odio e accompagnano perfettamente il suono di piccole perle come la lunga Tainted Thoughts dove toni incompromissori rappresentano la base per una violenta cavalcata piena di furore e ferocia; i brevi momenti in cui le chitarre si calmano sono carichi di tensione e lasciano l’ascoltatore atterrito di fronte a tanta cattiveria. La faccia moderna del black si nutre di concetti, come la perdita della coscienza, la morte della spiritualità, la disumana ferocia dell’ uomo e colpisce in modo profondo con un sound freddo che lacera e taglia con lame gelide ciò che rimane dell’animo umano; un brano disturbante come Sleep of Reason lascia una cupa disperazione e un mondo senza speranza alcuna di redenzione. L’angosciante Drought in the Heart annichilisce con una tangibile disperazione e ci fa apprezzare lo sforzo compositivo di questi musicisti provenienti da una stato che tanto ha dato e dà ancora alla musica estrema.

Tracklist
1. Growing Girth
2. Entity I
3. Seize the Whole
4. Tainted Thoughts
5. Sleep of Reason
6. Entity II
7. Drought in the Heart
8. Heritage

Line-up
In Bass, Vocals (backing), Keyboards
aW Drums
Ath Guitars
S Vocals
W4 Guitars

COLD CELL – Facebook

In Twilight’s Embrace – Vanitas

Gli In Twilight’s Embrace hanno lasciato in parte la strada che li portava verso la Scandinavia per rimanere nel loro paese (la Polonia) e scovare sentieri ancora più estremi ed oscuri, una piccola svolta per il gruppo che non deluderà i loro ascoltatori.

The Grim Muse, licenziato un paio d’anni fa, mi aveva piacevolmente impressionato, dandomi la possibilità di conoscere gli In Twilight’s Embrace, gruppo polacco dal sound a metà strada tra il death metal scandinavo e il black metal suonato dalle loro parti.

Il quintetto di Poznań torna con un nuovo lavoro, questo oscuro esempio di death/black metal dalle melodie che accentuano la parte melanconica dell’anima del gruppo, intitolato Vanitas.
Un altro centro dopo l’ottimo album precedente, a mio parere più pesante e oscuro rispetto al death metal melodico dalle sfuriate black di The Grim Muse, in poche parole più estremo ed incentrato sul black death metal alla Behemoth.
Vanitas non mancherà di soddisfare chi già aveva apprezzato il lavoro precedente: la componente black si è fatta più presente, lasciando nell’ombra quella più melodica e mettendo l’ascoltatore al cospetto di un’opera dove l’oscurità è accentuata in maniera più decisa, mentre le melodie incorniciano brani pressanti come As Future Evaporates o Flesh Falls No Ghost Lift.
In conclusione, gli In Twilight’s Embrace hanno lasciato in parte la strada che li portava verso la Scandinavia per rimanere nel loro paese (la Polonia) e scovare sentieri ancora più estremi ed oscuri, una piccola svolta per il gruppo che non deluderà i loro ascoltatori.

Tracklist
1.The Hell of Mediocrity
2.Fan the Flame
3.As Future Evaporates
4.Trembling
5.Flesh Falls, No Ghost Lifts
6.Futility
7.The Rift
8.The Great Leveller

Line-up
Leszek Szlenk – Guitars (lead)
Cyprian Łakomy – Vocals
Marcin Rybicki – Bass
Dawid Bytnar – Drums

URL Facebook
IN TWILIGHT’S EMBRACE – Facebook

Deinonychus – Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide

Il black doom dalle forti venature depressive dei Deinonychus torna ad inquietarci, sempre sotto l’egida della My Kingdom Music.

Dopo dieci anni di silenzio ritornano i Deinonychus , band che è di fatto il progetto solista del musicista olandese Marco Kehren, giunto con Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide all’ottavo full length in un quarto di secolo di attività.

Il black doom dalle forti venature depressive torna ad inquietarci, sempre sotto l’egida della My Kingdom: nell’occasione Kehren chiama a coadiuvarlo il batterista Steve Wolz (con il quale ha in comune la passata militanza nei Bethlehem) e Markus Stock che, oltre a contribuire con le proprie tastiere, ha curato anche la la registrazione dell’album.
Con la tavola apparecchiata per l’ottenimento di un risultato importante, Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide non delude le attese: le vocals disperate su stagliano su una forma di black ragionata, spesso caratterizzata da momenti più rarefatti ed evocativi nei quali lo screamjng di Kehren diviene quasi un recitato dai toni laceranti (Dead Horse).
La differenza tra l’essere impattante emotivamente e lo scadere nel grottesco sta tutta nella credibilità del nome Deinonychus e, conseguentemente, dei musicisti che hanno lavorato alla realizzazione dell’album; Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide non cala mai in intensità, piaccia o meno l’enfasi con la quale il malessere esistenziale viene veicolato, e francamente non resta nulla di diverso da chiedere a questo ritorno se non quello di rammentarci con forza quanto sia caduca la nostra vita e fragile la nostra psiche.
In copertina, la figura stilizzata in un’oscurità quasi totale cammina sui binari in attesa, forse, di un’inevitabile fine, ma può anche rappresentare una strada obbligata della quale non si conosce né la meta né il tempo necessario per raggiungerla.
Quest’ultimo lavoro segna il ritorno di un musicista ispirato e, se qualcuno dicesse nutrisse dei dubbi, ascolti con attenzione e predisposizione questi tre quarti d’ora di musica, sui quali si staglia il drammatico doom black di For This I Silence You, traccia che spinge ai massimi livelli il senso di alienazione dalla realtà e picco di una tracklist, comunque, complessivamente inattaccabile sotto ogni aspetto.

Tracklist:
1. Life Taker
2. For This I Silence You
3. The Weak Have Taken The Earth
4. Buried Under The Frangipanis
5. Dead Horse
6. Dusk
7. There Is No Eden
8. Silhouette

Line-up:
Marco Kehren – guitars, bass and vocals

Steve Wolz – drums
Markus Stock – keyboards

DEINONYCHUS – Facebook