In Human Form – Opening of the Eye by the Death of the I

Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista.

Gli americani In Human Form appartengono a quella categoria di band che, indubbiamente, non hanno tra le loro priorità quella di suonare musica accattivante allo scopo di ricevere consensi immediati.

Il progressive black offerto dal gruppo del Massachusetts è quanto di più ostico e dissonante sia possibile immaginare e non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che sia finito nell’orbita di un’etichetta come la I,Voidhanger.
Patrick Dupras, con il suo screaming aspro, strepita le proprie liriche su un’impalcatura musicale nella quale solo apparentemente ogni strumento sembra andare per proprio conto ma, in realtà, appare evidente che cosi non è, anche se in più di un passaggio sembra di cogliere le stimmate di un’improvvisazione che tale resta a livello di fruibilità, per quanto evoluta.
La stessa struttura dell’album, con tre tracce della durata media attorno al quarto d’ora, inframmezzate da altrettanti brevi iintermezzi strumentali, conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, la volontà di lasciar fluire senza alcun limite un’ispirazione obliqua che, oggettivamente, se respinge al mittente ogni tentativo di approccio benevolo all’opera, pare aprirsi leggermente non dico ad una forma canzone, che resta un idea lontana anni luce dall’immaginario degli In Human Form, almeno a passaggi che vengono resi meno criptici da lampi melodici.
Sia Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis che Through an Obstructionist’s Eye, infatti, sono ampie dimostrazioni di quanto i nostri abbiano la capacità di rendere meno ostica la loro proposta in ogni frangente, ma facendolo perfidamente in maniera ben più che sporadica: nel primo troviamo passaggi meditati assieme a sfuriate di stampo black più canoniche, ma è chiaro che, comunque, il sound resta inquieto e cangiante anche se in questo frangente sembra aprirsi più di un varco nelle spesse recinzioni sonore erette dalla band, mentre nel secondo, posto in chiusura dell’album, trova posto persino un bell’assolo di chitarra, strumento che nell’arco del lavoro viene offerto con un’impronta per lo più jazzistica.
Per quanto mi riguarda, nel lavoro ho riscontrato in eguale misura passaggi davvero eccellenti assieme altri eccessivamente cervellotici e, contrariamente a quanto affermo solitamente, qui la voce appare sovente un elemento di disturbo piuttosto che un completamento del lavoro strumentale.
Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista, caratteristiche che certo non fanno difetto a Opening of the Eye by the Death of the I.

Tracklist:
1. Le Délire des Négations
2. All is Occulted by Swathes of Ego
3. Apollyon Synopsis
4. Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis
5. Ghosts Alike
6. Through an Obstructionist’s Eye

Line up:
Nicholas Clark – Guitars, bass guitar, alto saxophone, keyes, backup vocals
Rich Dixon – Drums, percussion, guitars
Patrick Dupras – Vocals, lyrics

IN HUMAN FORM – Facebook

Hitwood – Detriti

Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.

A distanza di un mese circa , torniamo a parlarvi di una nuova uscita targata Hitwood, la creatura musicale creata dalla mente del polistrumentista Antonio Boccellari.

Archiviato il primo full length When Youngness … Fly Away … uscito lo scorso anno ed il precedente ep di cui ci siamo occupati (As A Season Bloom), Hitwood torna a descrivere in musica i suoi sogni che prima di Detriti erano lasciati alla sola musica.
Questa volta l’influenza melodic death di estrazione scandinava è ancora più marcata rispetto ai suoi predecessori, soprattutto per l’ausilio delle voci che sono le protagoniste della musica creata per l’occasione dal bravissimo musicista lombardo.
Dietro al microfono troviamo dunque due ottimi singer. Carlos Timaure al growl ed Eveline Schmidiger, protagonista con growl e clean vocals.
Inutile negare che, con l’inserimento delle voci la musica di Hitwood lascia il mondo della musica strumentale, bellissima ma molto limitata nelle preferenze degli ascoltatori, per raggiungere sicuramente un’audience più ampia.
Rimane un death metal melodico sui generis quello di Boccellari, sempre molto intimista ed atmosferico, ma indubbiamente più completo ed estremo ora che il growl fa il bello e cattivo tempo sulla maggioranza dei brani.
A parte l’intro As Far As I Can Remember e lo strumentale More Winters To Face…, vicino al precedente lavoro come atmosfere e sound, i brani di Detriti risultano sempre molto melodici ma anche più diretti, come la splendida My Path To Nowhere, canzone che ci riporta in pieni anni novanta ed ai lavori di In Flames (padrini del sound Hitwood), Dark Tranquillity ed ai paladini del suono melodico nel metal estremo.
Years Of Sadness conferma l’ottima scelta di Boccellari, dall’alto di un brano robusto valorizzato da un tappeto di cori, che enfatizza la componente sognante del concept degli Hitwood, mentre Chromatic lascia campo al lato più estremo del sound e Venus Of My Dreams ci porta alla fine di questo ottimo lavoro, lasciandoci con le trame epico melodiche classiche dei gruppi provenienti dal profondo nord.
Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.

Tracklist
1.As Far As I Can Remember
2.My Path To Nowhere
3.Years Of Sadness
4.More Winters To Face…
5.Chromatic
6.Venus Of My Dreams

Line-up
Antonio Boccellari – guitars, bass, drums

Guest :
Carlos Timaure – growl vocals
Eveline Schmidiger – growl/clean vocals

HITWOOD – Facebook

Execration – Return to the Void

Un riuscito blend tra innovazione e tradizione in ambito Death da parte di una band con capacità non comuni.

Quarto full length per quest’ottimo quartetto norvegese attivo dal 2007 con il demo “Language of the dead”: ora, dopo aver portato a compimento pieno il loro stile, gli Execration escono per la prima volta con la Metal Blade.

Il suono, attraverso una lenta evoluzione in tre album usciti con cadenza triennale, è pienamente death nella forma ma con strutture particolarmente elaborate, lavorate su un suono di chitarra che inserisce dissonanze e crea atmosfere molto particolari; niente di ostico e sperimentale, ma un’opera di qualità dove il mix tra tradizione e innovazione crea brani dall’andamento sempre stimolante ed imprevedibile.
Il songwriting è di alto livello, i brani sono trascinanti ergendo un muro sonoro che ha la capacità di variare grazie all’incessante incrociarsi delle due chitarre; fino dall’opener Eternal Recurrence l’energia non manca, il growl intenso e intellegibile da quel “quid” in più che cerca di differenziare con coraggio il suono di questi artisti, le strutture elaborate sono ben studiate (Hammers of Vulcan) e i due chitarristi si lanciano in digressioni che mantengono sempre alto il livello di attenzione, senza annoiare mai, lambendo territori trash senza mai creare tecnicismi fini a sé stessi. Non ci sono filler e anche i due brevi intermezzi (Blood Moon Eclipse e Through the Oculus) sono piacevoli e fanno tirare il fiato prima dei successivi massacri; le atmosfere sinistre e dissonanti di Cephalic Transmissions danno un ulteriore tocco di imprevedibilità e personalità ai norvegesi.
La splendida title track suggella un disco pienamente riuscito e come al solito sta a noi, con ripetuti ascolti, dargli la giusta attenzione sperando di poter ascoltare live nelle nostre terre gli Execration.

Tracklist
1. Eternal Recurrence
2. Hammers of Vulcan 3. Nekrocosm
4. Cephalic Transmissions
5. Blood Moon Eclipse
6. Unicursal Horrorscope
7. Through the Oculus
8. Return to the Void
9. Det uransakelige dyp

Line-up
Cato Syversrud Drums
Jørgen Maristuen Guitars, Vocals
Chris Johansen Guitars, Vocals
Jonas Helgemo Bass

EXECRATION – Facebook

The Lurking Fear – Out Of The Voiceless Grave

Out Of The Voiceless Grave è un gradito ritorno, che si spera possa diventare una nuova partenza, per i musicisti riuniti sotto il monicker The Lurking Fear.

Un’icona del metal estremo scandinavo come Tomas Lindberg, che torna sul mercato insieme ad altri musicisti storici della scena, cosa ci può presentare se non l’ennesima devastante realtà dedita a quelle sonorità che ne hanno decretato la fama?

Ed infatti il buon Tompa, insieme a Adrian Erlandsson, Fredrik Wallenberg, Andreas Axelsson e Jonas Stalhammar, licenzia questo devastante album di death metal crudo ed essenziale sotto il monicker The Lurking Fear, titolo di uno dei più noti racconti di H.P. Lovercraft.
Chi si aspettava un lavoro melodico e più orientato su sonorità gotiche rimarrà deluso perché Out Of The Voiceless Grave non è altro che assalto sonoro di scuola classicamente nordica, turbolento e aggressivo, dove la bravura e l’esperienza dei protagonisti è messa al servizio di un lotto di brani a tratti esaltanti.
La storia del genere passa inequivocabilmente dalle cavalcate estreme di cui l’album è composto, sfuriate death/thrash dove tutto funziona come un orologio, zeppe di ritmiche inossidabili, solos perfetti e chorus che staccano la materia cerebrale dal cranio, mentre il tempo passa per tutti ma non per Lindberg, ancora all’altezza di procurare violenti spasmi ai propri fans.
Vortex Spawn, The Starving Gods Of Old e Winged Death equivalgono ad un vento cimiteriale, un olezzo fetido di morte che aleggia tra la carta ormai putrida sulla quale i The Lurking Fear hanno fermato con l’inchiostro le note di questo lavoro, ispirato dal passato dei musicisti coinvolti, con un passato in band come At The Gates, The Crown, Marduk, Edge Of Sanity, God Macabre e compagnia di zombie.
Prodotto perfettamente e licenziato dalla Century Media, Out Of The Voiceless Grave è un gradito ritorno, che si spera possa diventare una nuova partenza per i The Lurking Fear.

Tracklist
01. Out Of The Voiceless Grave
02. Vortex Spawn
03. The Starving Gods Of Old
04. The Infernal Dread
05. With Death Engraved In Their Bones
06. Upon Black Winds
07. Teeth Of The Dark Plains
08. The Cold Jaws Of Death
09. Tongued With Foul Flames
10. Winged Death
11. Tentacles Of Blackened Horror
12. Beneath Menacing Sands

Line-up
Tomas Lindberg – vocals
Jonas Stålhammar – guitar
Fredrik Wallenberg – guitar
Andreas Axelson – bass
Adrian Erlandsson – drums

THE LURKING FEAR – Facebook

Ingurgitating Oblivion – Vision Wallows in Symphonies of Light

Terzo lavoro su lunga distanza per questa band tedesca che innesta su una solida base di brutal death estremamente tecnico dissonanze sperimentali che spingono il sound su territori vicini al free jazz.

Terzo lavoro su lunga distanza per questa band tedesca che innesta su una solida base di brutal death estremamente tecnico dissonanze sperimentali che spingono il sound su territori vicini al free jazz.

Indubbiamente, da questo quadro iniziale non ci si può che attendere un album complesso, dall’ascolto tutt’altro che semplice anche per chi ha familiarità con band tipo Gorguts o Suffocation, e il buon Florian Engelke, fondatore del gruppo agli albori del secolo, non fa nulla per agevolare il tutto, strutturando Vision Wallows in Symphonies of Light su quattro brani per un totale di circa cinquanta minuti, con il secondo delirante A Mote Constitutes What to Me Is Not All, and Eternally All, Is Nothing che da solo supera addirittura i venti.
Ovviamente parliamo di musica offerta a chi ha orecchie ed apertura mentale per intendere, ma questo non significa affatto che bisogna puntare il dito versi chi non dovesse trovarsi in sintonia con l’operato degli Ingurgitating Oblivion: non e affatto banale assorbire le trame contorte e sature dei berlinesi quando sfogano le proprie pulsioni estreme, così come non lo è quando divengono trame liquide condotte da xilofoni o fughe pianistiche riconducibili al jazz più sperimentale.
Tale aspetto inevitabilmente costituisce un carattere di preponderante peculiarità, finendo per spostare l’asticella della difficoltà di fruizione molto più in alto, aprendo però un fronte interessante per chi, magari, ha sempre ritenuto il death una forma musicale appannaggio di bruti privi di tecnica e talento.
Detto della prima traccia, che non deroga più di tanto dalla ferocia espositiva del metal estremo, e della già citata monumentale seconda, che si pone come ideale spartiacque tra chi continuerà ad ascoltare con interesse il lavoro e chi invece deporrà anzitempo le armi, appare senz’altro più indicato a scopo esemplificativo l’ascolto della title track proprio perché, in alcuni frangenti, le due anime vanno ancor più ad intrecciarsi dando vita ad un ibrido a tratti irresistibile.
Ottima anche A Devourer of Flitting Shades Who Dwells in Rays of Light, dallo sviluppo pressoché invertito rispetto alle altre tracce, dato che le eleganti evoluzioni strumentali occupano la parte iniziale del brano fin quasi al suo epilogo, prima di riconsegnarsi alla furia del death che va a porre, in maniera coerentemente brutale, la pietra tombale sull’opera.
Vision Wallows in Symphonies of Light è un lavoro di grande spessore tecnico e compositivo che non può e non deve finire nel calderone dei dischi in cui la sperimentazione assume una stucchevole preponderanza, e immagino che, oltre agli estimatori delle band già citate nelle prime righe, anche chi ha i Nile tra i propri gruppi di riferimento possa trovare la giusta soddisfazione nell’ascolto.

Tracklist:
1. Amid the Offal, Abide with Me
2. A Mote Constitutes What to Me Is Not All, and Eternally All, Is Nothing
3. Vision Wallows in Symphonies of Light
4. A Devourer of Flitting Shades Who Dwells in Rays of Light

Line up:
Florian Engelke – Guitars, Vocals
Adrian Bojarowski – Bass, Vocals, Synths
Paul Wielan – Drums

INGURGITATING OBLIVION – Facebook

Widowmaker – Widowmaker

La cifra stilistica del disco è quella del migliore deathcore in circolazione, e al momento pochi hanno la compattezza e la potenza di questi ragazzi, che devono essere ascoltatori attenti ed onnivori perché dietro questo suono c’è moltissimo lavoro ed altrettanta cultura metallica.

Nella scena deathcore o metalcore qualsivoglia, è molto difficile riuscire a farsi notare per qualcosa che sia più del mero compitino, e i Widowmaker si fanno notare molto.

I ragazzi provengono dall’Alabama, sono molto giovani, e questa loro freschezza fa la differenza insieme ad una potenza di fuoco fuori dal comune. I Widowmaker confezionano un disco di debutto con un suono saturato al massimo, molto claustrofobico in molti passaggi, che ricorda quelle sensazioni che si ebbero ai tempi degli inizi del deathcore, quando c’erano in giro ottime band, delle quali il loro suono è certamente debitore, ma con un contributo originale è assai elevato. Ascoltando il disco ci si trova immersi nel fuoco e nelle fiamme, poiché qui tutto brucia, e la melodia si palesa andandosi a congiungere carnalmente con un suono durissimo. La produzione mette in risalto i punti forti, senza seppellire il loro suono dietro una cortina fumogena di tecnologia. I Widowmaker sfociano tranquillamente anche nel death metal tout court e anche in momenti grindcore notevoli; la cifra stilistica del disco è quella del migliore deathcore in circolazione, e al momento pochi hanno la compattezza e la potenza di questi ragazzi, che devono essere ascoltatori attenti ed onnivori perché dietro questo suono c’è moltissimo lavoro ed altrettanta cultura metallica. Inoltre questo non è un disco che vuole per forza piacere al pubblico deathcore, ma anzi è un’apertura a tutti quelli che amano un suono potente e cattivo: ascoltate senza pregiudizi, Widowmaker (che uscirà per Sharptone Records, una sussidiaria della Nuclear Blast che sta reclutando un ottimo vivaio di musica cattiva) merita molto e vi lascerà alquanto soddisfatti.

Tracklist
1. The Nihilist
2. Paragon
3. Spineless
4. Regression
5. Dissonance
6. Quarantine
7. The Illusionist

Line-up
Matt Childers : Vocals
Tyler Stansell : Guitar
Hagan Dickerson : Guitar
Sean Landman : Bass
Kurtis Stoneking : Drums

WIDOWMAKER – Facebook

Necrophobic – Pesta

Dieci minuti di pura malvagità che valgono come e più di tanti full length, preparando il ritorno in pompa magna di questa seminale creatura malefica.

Una delle band storiche del death metal scandinavo torna dopo quattro anni dall’ultimo devastante lavoro Womb Of Lilithu.

Loro sono i Necrophobic, fondamentale band svedese attiva dal 1989, con sette full length ed una serie di lavori minori incentrati su un death metal pregno di attitudine black.
Una storia lunga, tormentata da continui cambi nella line up, tenuta insieme da Joakim Sterner, batterista ed unico superstite della formazione originale, con i primi album licenziati dalla storica Black Mark, label fondata da Quorthon che divenne un punto di riferimento per il genere nei primi anni novanta (Edge Of Sanity, Lake Of Tears, Cemetery), che hanno consegnato il gruppo di Stoccolma alla storia del genere.
I Necrophobic ritornano dunque con questo ep di sole due tracce, licenziato dalla Century Media in digitale e in formato 7″, composto dalla title track e da una nuova versione del brano Slow Asphyxiation, tratto dal demo omonimo datato 1990: un anticipazione di quello che dovrebbe essere il nuovo full length previsto per il prossimo anno, ma intanto godiamoci Pesta, brano ispirato e maligno, oscuro e come da tradizione dalla forte connotazione black, su una struttura che dal death metal scandinavo prende forza.
Sei minuti di perfezione assoluta, un muro di death metal melodico e maligno, mentre la storica traccia rifatta per l’occasione trova in questa veste una nuova vita, pur rimanendo fedele all’originale.
Dieci minuti di pura malvagità che valgono come e più di tanti full length, preparando il ritorno in pompa magna di questa seminale creatura malefica.

Tracklist
1.Pesta
2.Slow Asphyxiation

Line-up
Joakim Sterner – Drums
Anders Stokirk – Vocals
Sebastian Ramstedt – Guitars
Johan Bergeback – Guitars
Alex Friberg – Bass

NECROPHOBIC – Facebook

Bloodphemy – Bloodline

Una quarantina di minuti immersi nel death metal, ignorante quanto si vuole, scolastico in certi frangenti, ma che ha nella sua anima maligna un’onestà intrinseca che valorizza questo assalto sonoro senza compromessi.

Sulle pagine di In Your Eyes erano apparsi lo scorso anno, quando vi parlammo dell’ep Blood Will Teel, licenziato dalla Sleaszy Rider, che di fatto fu un ritorno per il gruppo olandese dopo quattordici anni dallo storico demo.

La firma per la label greca ha portato continuità e costanza in casa Bloodphemy, così siamo a presentarvi il nuovo e primo full length intitolato Bloodline.
Il gruppo è formato da musicisti navigati della scena estrema underground, militanti tra le file di Devious, Altar, Bleeding Gods, Pleurisy e Beyond Belief,  impegnati nel portare lo storico monicker in cima alle preferenze dei deathsters attenti a cosa si muove nel sottosuolo metallico.
Bloodline, come il predecessore, è un pezzo di granito brutal death metal, old school e dalle influenze che guardano alla storica scena europea (God Dethroned, Gorefest) .
Si viaggia veloci e senza compromessi sui binari tracciati dai gruppi di riferimento: Arnold Oudemiddendorp , brutale orco proveniente dalla terra dei tulipani, ed i suoi compari ci prendono per il collo, sballottandoci con nove esplosioni di adrenalinico e potentissimo death metal, ordinario nel suo sviluppo ma tremendamente efficace nel far crollare dighe a suon di esplosioni estreme.
Una quarantina di minuti immersi nel death metal, ignorante quanto si vuole, scolastico in certi frangenti ma che ha nella sua anima maligna un’onestà intrinseca che valorizza questo assalto sonoro senza compromessi.
Un piacere non esserci sbagliati un anno fa, un dovere farvi conoscere questo nuovo lavoro, lasciate che la bestia che è in voi esca prepotentemente e sfoghi la sua ira grazie alle devastanti Void, Madness ed Annihilation.

TRACKLIST
1. Void
2. Blood Will Tell
3. Sides
4. Infanity
5. Madness
6. Soulmate
7. Obsessed
8. Annihilation
9. Contravene

LINE-UP
Arnold Oudemiddendorp – Vocals
Edwin Nederkoorn – Drums
Rutger van Noordenburg – Guitars
Wicliff Wolda – Bass
Winfred Koster – Guitars

BLOODPHEMY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=fHLC3aay3F4

Father Befouled – Desolate Gods

Un riffing profondo come un pozzo collegato con l’inferno, una catacomba sonora dove il death metal old school sguazza tra i cadaveri e le accelerazioni, così come i rallentamenti infrangono ogni resistenza umana.

Tempo di grandi album in campo death metal!

Che arrivino dal Nordeuropa o dall’America, i nuovi lavori di una serie di gruppi più o meno famosi ed importanti stanno letteralmente conquistando la scena underground estrema.
E’ arrivato il momento anche per i Father Befouled di tornare sul mercato con un nuovo album, il quarto di una prolifica discografia iniziata nel 2008 e che non manca di una marea di lavori minori tra split ed ep.
Il quartetto di deathsters americani torna al lavoro sulla lunga distanza che mancava da cinque anni e Desolate Gods riapre la ferita alla gola dell’umanità, sanguinando in zampilli di spesso liquido che da rosso diventa nero sotto i colpi inferti da questa mezzora di assalto, oscuro, abissale ed estremo.
Un riffing profondo come un pozzo collegato con l’inferno, una catacomba sonora dove il death metal old school sguazza tra i cadaveri e le accelerazioni, così come i rallentamenti infrangono ogni resistenza umana, una conferma per il gruppo statunitense, ormai da considerare come veterano di una scena che non vive dei soliti nomi ma si rigenera ciclicamente con nuove e maligne realtà.
Desolate Gods è bello che descritto, oscuro, violento e senza compromessi come vogliono i fans del death metal tradizionale, diretto come una mitragliata sparata su un gruppo di zombie, spettacolare nelle parti doom/death in odore di decomposizone come la terra di un cimitero abbandonato (Ungodly Rest) e devastante, distruttivo e brutale (Offering Revulsion).
Per chi ama il death metal di matrice statunitense (Incantation, Morbid Angel, Immolation) un album da non perdere.

TRACKLIST
1. Exsurge Domine (Intro)
2. Offering Revulsion
3. Mortal Awakening
4. Exalted Offal
5. Ungodly Rest
6. Divine Parallels
7. Vestigial Remains of… (Instrumental)
8. Desolate Gods

LINE-UP
Justin Stubbs – Vocals/Guitar
Derrik Goulding – Guitar
Wayne Sarantopoulos – Drums
Rhys Spencer – Bass

FATHER BEFOULED – Facebook

Lo-Ruhamah – Anointing

E’ un sound estremo, atmosfericamente angosciante, quello che compone Anointing e i suoi nove capitoli, un black metal che non rinuncia alla debordante potenza del death, ma la modella a suo piacimento.

Nata negli Stati Uniti nel lontano 2002, ma oggi di base in Estonia, torna tramite la I,Voidhanger la band death/black dei Lo-Ruhamah, a dieci anni esatti dal debutto The Glory Of God.

Poche notizie per questa realtà che, come tradizione della label, risulta fuori dai canoni dei generi da cui prende ispirazione, per poi viaggiare per conto proprio, tra post rock, un’anima disperatamente progressiva, ed un’ aura mistica ed occulta che rende la proposta misteriosamente matura.
E’ un sound estremo, angosciante, quello che compone Anointing e i suoi nove capitoli, un black metal che non rinuncia alla debordante potenza del death, ma la modella a suo piacimento, tra ritmiche fantasiose e mai statiche, urla di lacerante disperazione e terrificanti interventi in screaming, come se il protagonista avesse una diatriba con un demone, maligno ed ingordo di anime.
Ecco allora che bordate di metallo estremo di stampo death annichiliscono atmosfere post rock per tornare al black metal primigenio, mentre l’opener Mouth, le parti intimiste e dark progressive della seguente Sibilant Chorus, il lento incedere doom/black di Vision And Delirium, il caos ragionato di The Corridor, portano l’ascoltatore in uno stato quasi ipnotico, mentre Aeon conclude questa mezzora abbondante di suoni ed emozioni estreme.
I Lo-Ruhamah hanno dato voce alle anime oscure che si celano in un mondo dove non si conoscono le paranoie insite nell’uomo moderno, troppo impegnato a rincorrere un benessere effimero, accorgendosi troppo tardi di come il filo tra dolore, sofferenza e dannazione sia sottile.

Tracklist
1. Mouth
2. Sibilant Chorus
3. Rending
4. Charisma
5. Vision And Delirium
6. The Corridor
7. Lidless Eye
8. Coronation
9. Aeon

Line-up
Harry Pearson – Drums
Matthew Mustain – Guitars
J. Griffin – Bass, Vocals

LO-RUHAMAH – Facebook

The Shadeless Emperor – Ashbled Shores

Non manca davvero niente ad un’opera del genere, completa sotto tutti gli aspetti, oscura ed animata da un approccio versatile che valorizza brani come la title track, un susseguirsi di cambi repentini tra death metal ed aperture acustiche in una tempesta di suoni estremi.

Attivi dal 2010, arrivano al debutto i greci The Shadeless Emperor, dopo un demo licenziato nel 2013, ed una carriera che fino ad oggi ha stentato per vari motivi a decollare.

Sotto l’ala della Wormholedeath che ne cura la distribuzione, Ashbled Shores andrà sicuramente a rimpinguare la discografia dei melodic death metallers dal palato fino e i muscoli d’acciaio.
In effetti la proposta della band ellenica, pur con le dovute ispirazioni ed influenze, appare da subito personale, un buon mix tra death metal melodico scandinavo, bellissime parti acustiche dalle reminiscenze epic/folk e qualche spunto leggermente più moderno e progressivo, insomma un’ottima proposta per chi dal metal estremo gradisce un sound vario, adulto, ma pressante ed aggressivo.
Prendendo spunto dall’immaginario fantasy, così come dalla letteratura classica, i The Shadeless Emperor vestono il loro sound di nera stoffa epica e la elaborano secondo i canoni dell’ala melodica del death metal, non rinunciando a devastare padiglioni auricolari con fughe ritmiche ed intricate parti chitarristiche, che passano da soluzioni heavy a più intricate parti progressive, mentre strumenti acustici e fiati ricamano partiture folk come nella parte centrale della superba Shades Over The Empire.
Non manca davvero niente ad un’opera del genere, completa sotto tutti gli aspetti, oscura ed animata da un approccio versatile che valorizza brani come la title track, un susseguirsi di cambi repentini tra death metal ed aperture acustiche in una tempesta di suoni estremi.
I Dark Tranquillity fanno da padrini alle parti metalliche, poi lasciate in mano al progressivo aumento delle atmosfere folk, mentre note di piano provenienti dalla folta boscaglia ci introducono ad Helios The Dark con il suo riff scolpito sulla roccia dai primi Amorphis, seguita dal singolo Too Far Gone, estrema e diretta, mentre An Ember Gale conclude alla grande l’album, trattandosi di un brano che racchiude l’anima più estrema e progressiva dei The Shadeless Emperor.
Album perfetto per tornare a godere delle trame oscure ma pregne di melodie del melodic death metal, non fatevelo sfuggire.

Tracklist
1.Oaths
2.Ashbled Shores
3.Sullen Guard
4.Homeland
5.Shades Over The Empire
6.Duskfall
7.Some Rotten Words
8.Helios The Dark
9.Olethros
10.Too Far Gone
11.An Ember Gale

Line-up
Ethan Tziokas – Vocals, Recorder
Christos Mitros – Guitars, Backing Vocals
Tasos Bebes – Guitars, Backing Vocals
Fil Salapatas – Bass, Backing Vocals
Thanasis Posonidis – Drums

THE SHADELESS EMPEROR -. Facebook

Cemetery Winds – Unholy Ascensions

Con l’esordio dei Cemetery Winds si torna a respirare l’aria profondamente maligna del death metal old school, ispirato da un’attitudine black metal e valorizzato da bellissime melodie.

Con l’esordio dei Cemetery Winds si torna a respirare l’aria profondamente maligna del death metal old school, ispirato da un’attitudine black metal e valorizzato da bellissime melodie.

Atmosfere abissali, ritmiche potenti e melodie death/gothic si fondono in un sound che richiama a gran voce i primi fondamentali passi degli Amorphis (The Karelian Isthmus/Tales From The Thousand Lakes) ed Edge Of Sanity (Unorthodox) accompagnato dallo spirito malvagio dei Dissection di The Somberlain.
Mica male, direte voi, e infatti Unholy Ascensions è un gran bel lavoro, creato da questa sorta di one man band con a capo J. Lukka (Batteria e chitarra) aiutato da Kari Kankaanpää (Soluthus/Sepulchral Curse) e Marko Ala-Kleme (Nashorn) al microfono, e Juho Manninen (Curimus) al basso.
Prodotto molto bene ed illustrato ancora meglio dall’artista Juanjo Castellano, l’album si sviluppa su otto brani di death metal old school, tradizionalmente scandinavo, ottimamente ricamato da melodie chitarristiche, a tratti reso ancora più sinistro da tappeti di lugubri tastiere e carico di attitudine ed impatto melodic black metal.
Ne esce un’opera affascinante, d’altri tempi sicuramente, ma superlativa se si rimane nel campo atmosferico, il punto di forza di brani sepolcrali come Into The Breathless Slumber, Burials After Midnight o la title track.
Non un brano sotto una media molto alta, non una melodia o una sfuriata di black metal cattivissimo che non sia da portare in offerta sull’altare del genere, mentre il cimitero si popola di anime dannate, i vermi finiscono il lauto pasto e noi premiamo ancora il tasto play, finché che nella nostra stanza non comparirà ai nostri piedi una bocca spalancata e scarnificata, pronta a fare scempio del nostro corpo.
J.Lukka ha fatto davvero un gran lavoro, derivativo quanto si vuole, ma se siete amanti delle band menzionate, Unholy Ascensions è uno dei migliori album di quest’anno, con la benedizione (o maledizione, fate voi) di Jon Nodtveidt ed un plauso da chi la scena l’ha vissuta in tempo reale.

TRACKLIST
1.Dormant Darkness
2.Realm of the Open Tombs
3.Into the Breathless Slumber
4.When Death Descends
5.Burials After Midnight
6.The Storm of Impious Wrath
7.Unholy Ascensions / Outro

LINE-UP
J. Lukka – Drums, Guitar, additional instruments

Session members:
M. Ala-Kleme – Vocals
K. Kankaanpää – Vocals
J. Manninen – Bass

CEMETERY WINDS – Facebook

Wraith Rite – Awaken

La strada per ritagliarsi un po’ di spazio, anche a livello underground, è ancora  molto lunga e dagli esiti incerti, ma la voglia di provarci di sicuro non fa difetto ai Wraith Rite.

Demo d’esordio per gli spagnoli Wraith Rite, giovane band spagnola che riversa su questi cinque brani una carica incontenibile di entusiasmo ed esuberanza metallica.

D’accordo, da qui a riscrivere la storia dei generi estremi che i nostri cercano di fondere con foga e convinzione ce ne corre, anche perché il demo, in quanto tale, suona esattamente come ce lo si aspetta, ovvero sporco, molto diretto e pieno di approssimazioni quanto di irresistibile vitalità.
In fondo, quando si parla di musica, dipende sempre da quale punto di vista la si vuole approcciare: se dovessimo basarci su tecnica, produzione e sobrietà nell’espressione musicale e visiva, i Wraith Rite non avrebbero speranze; per fortuna c’è sempre un qualcosa di istintivo ed irrazionale che spinge uno naturalmente propenso alla lacrima ascoltando il proprio genere d’elezione (il doom) a prendere in simpatia questo manipolo di giovani madrileni, dei quali potrei (a anche vorrei, tutto sommato) essere il padre, perché intuisco in loro, oltre a una grande passione, delle potenzialità che per ora sono ancora sommerse da un suono ovattato e da scelte stilistiche opinabili.
Partiamo dalla voce della vocalist Dirge Inferno, che alterna uno screaming insufficiente ad un growl in stile brutal senz’altro più accettabile come resa ma che, comunque, c’entra poco con il thrash/black/death esibito con sufficiente proprietà e qualche buona idea nel corso delle prime quattro tracce, con nota di merito per la trascinante Eternal Hunt, mentre fa eccezione lo pseudo doom della conclusiva Hurt Yourself.
Qualche buono spunto chitarristico e sprazzi di di virulento killing instict fanno ritenere tutt’altro che superflua questa uscita, a patto che nelle prossime occasioni i Wraith Rite trovino un giusto compromesso nell’uso della voce e spingano in maniera più decisa sul versante death/black’n’roll che mi pare essere più naturalmente nelle loro corde.
La strada per ritagliarsi un po’ di spazio, anche a livello underground, è ancora  molto lunga e dagli esiti incerti, ma la voglia di provarci di sicuro non manca alla band e, per quanto mi riguarda, questo è sicuramente un dato sufficiente per incoraggiare questi giovani affinché realizzino le proprie aspirazioni.

Tracklist:
1.Eternal Hunt
2.Werewolf’s Moon
3.Beheaded Rider
4.Crown of Bones
5.Hurt Yourself

Line-up:
Vocals: Dirge Inferno
Guitars: Yandros and Soulbutcher
Bass: Schizo
Drums: Morgul

WRAITH RITE – Facebook

Arallu – Six

Gli israeliani Arallu proseguono la loro opera di distruzione a base di un black/death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.

Etichetta : Transcending Obscurity Records
Anno : 2017
Titolo (autore + titolo) :

Quando arrivano proposte di matrice estrema dal Medio Oriente si tende spesso a pensare a band di nuovo conio, visto che, a parte Orphaned Land e Melechesh non è che siano poi molte altre le realtà capaci di guadagnarsi nel recente passato una certa notorietà.

Molte volte, però, il fatto di appartenere ad una scena lontana da quelle canoniche finisce per trarre in inganno come avviene per gli Arallu,  la cui genesi musicale risale addirittura alla fine del secolo scorso.
Six, come è facile intuire, rappresenta appunto il sesto full length del gruppo guidato dal bassista/cantante Butchered (con un passato da live session nei già citati Melechesh), che prosegue così la propria opera di distruzione a base di un black death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.
Degli Arallu si apprezzano senz’altro la padronanza della materia ed un approccio abbastanza ruvido e diretto, anche se ogni tanto, quest’ultimo aspetto rende il lavoro un po’ caotico.
In ogni caso diversi brani si rivelano piacevoli mazzate intrise di umori mediorientali che, anche se non sorprendono più come un tempo, si rivelano pur sempre un valore aggiunto in opere di questo tipo, andando a spezzare opportunamente un incedere che, altrimenti, risulterebbe piuttosto monolitico.
Avviene così che episodi come Adonay e Victims of Despair rendano al meglio il potenziale di una band di sicuro spessore,  nei confronti della quale, per chi apprezza la commistione tra metal estremo e musica etnica orientale, potrebbe rivelarsi quanto mai opportuno rivisitare anche la ricca produzione del passato.

Tracklist:
1. Desert Moonlight Spells
2. Only One Truth
3. Adonay
4. Possessed by the Sleep
5. Subordinate of the Devil
6. The Universe Secrets (Six)
7. Victims of Despair
8. Oiled Machine of Hate
9. Philosophers view
10. Soulless Soldier

Line up:
Butchered (Genie King) – Vocals, Bass
Gal Pixel – Guitar and Backing Vocals
Omri Yagen – Guitar and Backing Vocals
Assaf Kasimov – Drums
Eylon Bart – Saz, Darbuka and Backing Vocals

ARALLU – Facebook

Dusius – Memory Of A Man

Un disco potente sia nella musica che nell’immaginario che suscita, dando l’impressione che il viking folk metal sia il genere preferito dei Dusius, che con queste doti avrebbero fatto bene comunque in qualsiasi ambito.

I Dusius approdano al loro primo disco sulla lunga distanza dopo il demo Slainte del 2013.

I Dusius fanno un folk metal molto veloce e tirato, prepotentemente in zona viking, ben composto e prodotto finemente. Memory Of A Man è un album con un’elaborata storia al suo interno, narrando le avventure di un uomo in epoca antica, che fa molti errori e viene maledetto dagli dei, ma non vi anticipiamo altro perché è molto interessante scoprire l’intera storia. Tutto ciò viene narrato attraverso il potente viking metal dei Dusius, con una doppia voce che funziona molto bene e riesce a dare tonalità diverse a momenti che necessitano di narrazioni diverse. Quello che colpisce è la compattezza del gruppo, la forza collettiva che riesce a scatenare, e anche la brillantezza del suono che, pur essendo cupo, riesce ad elevarsi e ad elevare l’ascoltatore. Notevole anche la visione d’insieme del disco e della missione che si pone il gruppo: i parmigiani hanno un notevole tasso di epicità nella loro musica, e riescono a coniugare molto bene durezza ed aulicità, intessendo una storia classica ma molto attuale, sulla dannazione dell’uomo e sul libero arbitrio, che a volte può essere pesantemente influenzato da potenti fattori esterni. Il lavoro entra di diritto nelle miglior opere del folk viking italiano, e merita diversi ascolti per riuscirne a cogliere tutti gli aspetti e le diverse sfaccettature. Un disco potente sia nella musica che nell’immaginario che suscita, dando l’impressione che il viking folk metal sia il genere preferito dei Dusius, che con queste doti avrebbero fatto bene comunque in qualsiasi ambito.

Tracklist
1. Funeral March
2. Siante
3. Desecrate
4. The Rage of the Gods
5. Worried
6. One More Pain
7. Dear Elle
8. Dead-End Cave
9. Hope
10. The Betrayal
11. Coldsong
12. Funeral March II
13. Hierogamy (Hidden Track)

Line-up
Manuel Greco – Vocals
Rocco Tridici – Guitar
Manuele Quintiero – Guitar
Erik Pasini – Bass
Alessandro Vecchio – Keyboards
Davide Migliari – Flute / Bagpipes
Fabien Squarza – Drums

DUSIUS – Facebook

Urn – The Burning

The Burning è un disco che riassume i motivi per cui siamo metallari, poiché la velocità, la cattiveria e l’adrenalina che possiede sono in gran parte i motivi per cui ascoltiamo la musica del caprone.

I finlandesi Urn pubblicano il loro quarto album ed è subito massacro, ossa che volano, sangue ovunque e tutto ciò è bellissimo.

Il loro stile musicale è pressoché unico, ma se si devono dare delle coordinate, allora siamo nei pressi black e death, comunque morte e distruzione. Nati nel 1994, gli Urn sono uno dei gruppi da scoprire, perché i loro dischi sono molto belli, ma non se ne parla granché, anche se la risposta per The Burning è già buona, nonostante sia uscito da pochi giorni. Il suono è il frutto della libera rielaborazione di cose già sentite nel metal, ma il loro speed black death è veramente qualcosa di unico. Nel loro maelstorm si posso ascoltare echi dei connazionali Impaled Nazarene, soprattutto per le parti più veloci e furiose, anche per quel retrogusto punk hardcore che accomuna le due realtà finniche. The Burning è un disco che riassume i motivi per cui siamo metallari, poiché la velocità, la cattiveria e l’adrenalina che ha questo disco sono in gran parte i motivi per cui ascoltiamo la musica del caprone. Gli Urn vanno a mille, ma sanno anche fare stop and go, con quella cadenza vocale che ricorda il metal anni ottanta e novanta. La produzione è accurata ma non troppo, perché un’alta fedeltà troppo elevata pregiudicherebbe il tutto. L’ascolto di The Burning diventa compulsivo, come una dipendenza da crack, e anche in questa era di fruizione molto veloce di ogni prodotto fonografico si può sentire e risentire un disco con avidità. Consiglio l’ascolto del disco abbinato al fumetto Lobo della Dc Comics, massacri galattici e metal ovunque.

Tracklist
01 INTRO – RESURRECTION
02 CELESTIAL LIGHT
03 HAIL THE KING
04 MORBID BLACK SORROW
05 SONS OF THE NORTHERN STAR
06 NOCTURNAL DEMONS
07 WOLVES OF RADIATION
08 ALL WILL END IN FIRE
09 FALLING PARADISE
10 THE BURNING

Line-up:
Sulphur Bass, Vocals
Axeleratörr- Lead Guitar
Tooloud- Guitar
Revenant- Drums

URN – Facebook

Fractal Generator – Apotheosynthesis

Questo disco è un’esperienza sonora estrema, nella quale la velocità e la potenza sono notevoli, ma la vera bravura dei canadesi è quella di riuscire a mantenere intatta la melodia nonostante tutto voli intorno a loro, perché le linee melodiche del disco sono in evidenza e davvero particolari.

I Fractal Generator fanno metal davvero estremo, sono super tecnici e non penso siano nemmeno umani.

Prendete i Meshuggah, fondeteli con i Behemoth più veloci, e poi mille deviazioni e fughe. Il suono dei canadesi è volutamente inumano, perché il titolo in greco del disco illustra bene ciò che sono, dato che Apotheosynthesis è il punto rappresentante l’evoluzione dell’umanità attraverso l’integrazione tecnologica, a partire dal quale la stessa non può più considerarsi umana. I Fractal Generator hanno abbondantemente superato questo punto di non ritorno. Questo disco è un’esperienza sonora estrema, nella quale la velocità e la potenza sono notevoli, ma la vera bravura dei canadesi è quella di riuscire a mantenere intatta la melodia nonostante tutto voli intorno a loro, perché le linee melodiche del disco sono in evidenza e davvero particolari. I Fractal Generator compongono le loro canzoni in maniera progressiva, non si torna indietro per fare un ritornello, anche se alcune fasi canore vengono riproposte in diversi momenti. Se ci si concentra un po’, si comprende subito che questo suono non è assolutamente solo caos, ma che, come la vera teoria del caos, ha un ordine insito in sé stesso. Un altro aspetto notevole del disco è che anche se è sonicamente estremo non stufa od obbliga a posare le cuffie, e questo grazie all’alta qualità del tutto. Apotheosynthesis è un album estremamente affascinante, che nasconde innumerevoli tesori e motivi per ascoltarlo e per guardare nei suoi frattali. E il nome del gruppo è molto esplicativo così come il titolo, poiché la loro musica fa nascere figure aliene nel nostro cervello. Grande ristampa del disco precedentemente uscito nel 2015, e recuperato dalla Everlasting Spew Records, alla quale dobbiamo un doveroso ringrazmento. A un centimetro dalla fredda Terra aspettando la dolorosa fine. Dimenticavo : sono in tre, e il disco è anche in download libero sul loro bandcamp.

Tracklist
1.Cycle
2.Face Of The Apocalypse
3.Abandon Earth
4.Into The Unknown
5.Paragon
6.Human
7.The Singularity
8.Synthetic Symbiosis
9.Reflections

Line-up
040118180514
102119200914
040114090512

FRACTAL GENERATOR – Facebook

Tchornobog – Tchornobog

La musica che Soroka riversa in questo lavoro rappresenta il suo personale calice, un contenitore al cui interno trovano spazio tutte lo forme di metal estremo avvinghiate tra loro in un mortale abbraccio e rese in maniera convulsa, dissonante, ossessiva e, in definitiva, terribilmente inquietante.

Assolutamente in linea con la non convenzionalità di tutte le uscite targate I, Voidhanger, Tchornobog è il passo d’esordio dell’omonimo progetto solista di Markov Soroka, relativamente già noto per il suo operato con altri due monicker di sua esclusiva competenza, Aureole e Slow (quest’ultimo ovviamente da non confondersi con l’omonima creatura di Déhà).

Tchornobog è una traslitterazione di Chernobog, misconosciuta divinità slava, la cui unica testimonianza va ricercata nelle Chronica Slavorum, scritte nel XII secolo dal religioso tedesco Helmold: al riguardo pare che le popolazioni “devote” a tale culto fossero solite mettersi in cerchio e passarsi una sorta di calice, all’interno del quale venivano scagliate le maledizioni che sarebbe state appunto convogliate ed indirizzate nella giusta direzione da questo misterioso “dio nero”.
La musica che Soroka riversa in questo lavoro rappresenta il suo personale calice, un contenitore al cui interno trovano spazio tutte lo forme di metal estremo avvinghiate tra loro in un mortale abbraccio e rese in maniera convulsa, dissonante, ossessiva e, in definitiva, terribilmente inquietante.
In quattro brani che superano abbondantemente l’ora di durata come fatturato complessivo il giovane musicista di origine ucraine, ma di stanza negli Stati Uniti, esibisce senza troppe mediazioni una forma di doom che poggia su basi funeral, sferzata da brusche accelerazioni di stampo black death, e quasi del tutto priva di qualsiasi parvenza melodica, stante l’ossessivo incedere della strumentazione, in gran parte ad opera di Soroka che, saggiamente, si fa aiutare da diversi ospiti tra i quali spiccano l’ottimo Magnús Skúlason alla batteria ed il guru del doom più oscuro e temibile Greg Chandeler, alla voce in The Vomiting Tchornobog e Non-existence’s Warmth. Proprio quest’ultima traccia pare offrire un minimo di tregua all’incessante evocazione del dolore e del male che gli strumenti e le voci minacciose paiono lanciare senza soluzione di continuità, e ciò è appunto il cardine del lavoro: un’inesorabile opera di erosione psichica che, mai come in questo caso, vive in simbiosi con uno stile musicale difficilmente definibile.
Tchornobog è un’opera di intensità spasmodica, che annichilisce e percuote, attraendo fatalmente quando con la mente si cerca invece, razionalmente, di sottrarsi al suo letale abbraccio: un ascolto complesso e che chiaramente non riscuoterà favori in maniera univoca, ma non c’è dubbio che il bravo Markov abbia messo sul piatto un lavoro che non potrà lasciare indifferenti.

Tracklist:
1.I: The Vomiting Tchornobog (Slithering Gods of Cognitive Dissonance)
2.II: Hallucinatory Black Breath of Possession (Mountain-Eye Amalgamation) 12:32
3.III: Non-existence’s Warmth (Infinite Natality Psychosis)
4.IIII: Here, At The Disposition of Time (Inverting A Solar Giant)

Line-up:
Markov Soroka – all instruments, concepts and vocals
Magnús Skúlason – percussion & acoustic drums

With:
Greg Chandler – additional vocals on I & III
Sofia Hedman – saxophone on III
Hannar Gretarson – trumpet and cello
Lillian Liu – grand piano on III
Elizabeth Barreca & Markov Soroka – the Vomiting Choir

TCHORNOBOG – Facebook

Neverending Winter – Хиус

Le canzoni sono composte molto bene, ogni traccia fa storia a sé e si sentono chiaramente le stimmate dell’ottimo gruppo folk metal, ma definire tali i Neverending Winter è alquanto riduttivo, poiché sono molto di più.

L’inverno ultimamente va di moda grazie alla serie tv Trono di Spade e anche alla maledetta voglia del suo ritorno indotto da questo caldo.

Dalla Siberia, e più precisamente da Tomsk, arriva questo ottimo gruppo di folk metal e molto altro. Dopo l’esordio con titolo omonimo del 2013. il gruppo quasi ogni due anni sforna un nuovo disco, e sono tutti molto buoni e disponibili in download libero sul loro bandcamp, come il presente disco. I Neverending Winter fanno folk metal declinato in molte e diverse accezioni, ma soprattutto hanno una grandissima energia, attraverso la quale riescono a rendere benissimo alcune atmosfere. Il cantato in russo si addice benissimo a questa musica forte come gli alberi della Siberia, cattiva come gli animali che la popolano, e misteriosa come gli spiriti che la popolano. Tutto scorre molto bene, tra aperture melodiche di gran valore, anche con strumenti tradizionali, e sfuriate black, anche se il substrato delle loro composizioni è death metal. Le canzoni sono composte molto bene, ogni traccia fa storia a sé e si sentono chiaramente le stimmate dell’ottimo gruppo folk metal, ma definire tali i Neverending Winter è alquanto riduttivo, poiché sono molto di più.
Ascoltando Хиус si entra nell’enciclopedica conoscenza del metal che hanno questi siberiani, che trovano sempre la soluzione più adeguata al momento e al pathos dello stesso. Dischi come questo decretano la grande forza del movimento folk metal russo, che stra sfornando prodotti sorprendenti. Basti pensare che questo gruppo è senza contratto, si auto produce e si auto promuove, e raggiunge questi risultati. Certamente sono molto bravi, e spero si facciano conoscere il più possibile, perché questo disco è un legame con un qualcosa di ancestrale che tutti possediamo, ed è una qualità che stiamo perdendo. L’inverno senza fine è anche dentro di noi oltre che all’esterno, e bisogna essere molto forti per affrontarlo, e questa musica può dare molto in tal senso.

Tracklist
1.Intro
2.By snowridges (По застругам)
3.Neverending winter (Бесконечная зима)
4.Heeus (Хиус)
5.Sib Ir

NEVERENDING WINTER – Facebook

Mindcrushers – Born In Doom

Born In Doom risulta un album diretto, potente e devastante, dalle reminiscenze old school ma perfettamente inserito nel contesto estremo odierno, anche per la sua soffocante atmosfera in cui si aggirano spiriti metallici provenienti da più di un genere.

Tra le montagne e le valli del Veneto si aggira questa creatura oscura, dal 2010 conosciuta come Mindcrushers, con un demo all’attivo uscito ormai sei anni fa.

Dopo vari assestamenti nella line up, la band (ora un quartetto) si presenta al popolo metallico con questo ottimo lavoro dal titolo Born In Doom, composto da una raccolta di brani pesanti come macigni, tra thrash metal ottantiano, death metal, ed atmosfere pregne di oscura malignità dark.
Ne esce un album diretto, potente e devastante, dalle reminiscenze old school , ma perfettamente inserito nel contesto estremo odierno, anche per la sua soffocante atmosfera in cui si aggirano spiriti metallici in arrivo da più di un genere.
I Mindcrushers con sagacia alternano parti veloci e thrash ad altre dove le ritmiche si trasformano in potentissimi mid tempo e i solos riportano l’ascoltatore a godere dell’heavy metal oscuro degli anni ottanta.
L’ottima partenza con Death Is A Straight Procession, Slaves Of The White One e Boredom (da cui è stato tratto un video) mette subito le cose in chiaro, la band veneta non fa prigionieri, ci investe con il suo thrash death oscuro, valorizzato da spunti di metallo classico, formando un pezzo di granito mastodontico, un monumento di metal maligno che oscura il sole e forma un bombardamento di tuoni e fulmini senza soluzione di continuità, mentre Crystal Night Of Knives e la coppia conclusiva formata dalle notevoli Rise The Fallen e Dark Endless, sono altre tracce che alzano il livello di questo ottimo lavoro.
L’opera scivola come un mamba nerissimo e pericolosissimo, tra mid tempo e sfuriate death metal, come se i Morbid Angel, gli Asphyx e i Kreator sotto la guida dei Metal Church più oscuri, dessero vita ad una jam, un rito infernale dove non si perde tempo, si sacrifica e si uccide, senza pietà.
Una band che finalmente (visto i risultati) arriva all’esordio con una personalità ed un approccio da gruppo navigato: si può quasi toccare, tra i solchi dell’album, una forte convinzione dei propri mezzi, oltre a tutte le carte in regola per regalare agli amanti di queste sonorità ottima musica anche in un prossimo futuro.

Tracklist
1.Intro
2.Death Is a Straight Procession
3.Boredom
4.Slave of the White One
5.Tragedy of Happiness
6.Ogre
7.Inverted Buddah
8.Crystal Night of Knives (Kristallnacht)
9.Stone in a Glass
10.Rise of the Fallen
11.Dark Endless (Heart)

Line-up
Obscure – voice, bass
Francesco Brunello – rythmic, lead guitar
Diego Bordin – drums
Mauro Ferracin . guitar

MINDCRUSHERS – Facebook