Psychophobia – The Fall

Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo.

Certo che gli In Flames di band ne hanno influenzate molte: più passa il tempo e più il gruppo di Anders Friden si rivela un importante modello, sia per i gruppi orientati al death melodico, sia per quelli che si ispirano alla band svedese dopo la svolta dall’impronta americana che avvenne da “Reroute to Remain” in poi.

Gli Psychophobia fanno man bassa del sound di album storici come “Whoracle” e “The Jester Race” e lo arricchiscono di ritmiche power: il risultato è una buona amalgama, che stordisce ed a tratti esalta; derivativo certo, ma i tre brani proposti in questo ep sono manna per gli amanti del genere, che vogliono tornare alle origini del death melodico senza perdersi in soluzioni core e godendo degli elementi classici del genere, con solos melodici e voce cattiva oltre alle suddette ritmiche.
La band, non è proprio di primo pelo, e la sua discografia si avvale di un demo del 2003, di un mini cd e di un full length risalente a tre anni, il tutto in oltre un decennio di carriera nel mondo metallico underground.
L’esperienza si sente tutta e pur senza apparire troppo personale, il gruppo il proprio mestiere lo sa fare bene, confezionando tre brani feroci, scorrevoli e melodici, pur picchiando da par loro.
The Fall, se concepito per sondare il terreno per un futuro album, la sua missione la porta a casa con dignità: Servants Of Deception, la title track e The Code piacciono, colme di riferimenti al genere ed ottime soluzioni ritmiche, solos che strappano qualche convinto applauso e growl che impazza, finalmente anche nei ritornelli, aggressivo e sul pezzo.
Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo, sono quello che avrete da quest’opera, datele un ascolto e mettetevi in attesa del prossimo lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist:
1.Servants of Deception
2.The Fall
3.The Code

Line-up:
Pater – guitar
Maryjan – guitar
Maly – drums
Stygmat – vocal
Kom – bass

PSYCHOPHOBIA – Facebook

Dead Hand – Storm Of Demiurge

I Dead Hand, con la loro prima prova su lunga distanza , riescono a catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Gli statunitensi Dead Hand sono di formazione piuttosto recente, visto che la loro genesi risale al 2013, e Storm Of Demiurge è il primo full-length che include anche i due brani (Ground to Ash e The Last King) presenti nell’Ep uscito l’anno scorso.

Se il buongiorno si vede dal mattino, il futuro della band georgiana si prospetta fangosamente entusiasmante, visto che lo sludge messo in mostra in questi tre quarti d’ora abbondanti di musica appare fina da subito di primissima qualità.
Se Resign to Complacency si presenta come una sorta di intro per poi sfociare in un riff ripetuto ad oltranza, con la già citata Ground to Ash si entra nel vivo del lavoro grazie alle sue atmosfere cupe che, a tratti, vengono stemperate da umori post metal funzionali ad incrinare l’incedere di un sound per sua natura piuttosto monolitico.
In effetti, nonostante le premesse iniziali, una certa componente melodico-acustica prende sovente piede, regalando quell’alternanza di sensazioni in grado di rendere più peculiare la proposta della band.
La voci sono in linea con la tradizione sludge-post metal, e ben si sposano con la atmosfere minacciose che trovano una prima loro sublimazione in Trailed by Wolves, traccia lunghissima che si rivela emblematica delle capacità e delle caratteristiche dei Dead Hand, i quali non dimenticano mai di imprimere tratti riconoscibili ai loro brani.
L’album vive di una tensione emotiva continua, accentuata dall’andamento comune a tutti brani, con un inizio quasi soffuso e dai tratti acustici al quale segue un crescendo, più o meno netto, con quale il trio aumenta progressivamente il tiro fino al raggiungimento del climax (cosa che avviene ugualmente, ma in maniera meno accentuata, nella title track).
La chiusura affidata all’altro brano già edito, The Last King, conferma appieno la vena compositiva dei Dead Hand, capaci fin dalla loro prima prova su lunga distanza , di catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Tracklist:
1. Resign to Complacency
2. Ground to Ash
3. Trailed by Wolves
4. Storm of Demiurge
5. 1/13/12
6. The Last King

Line-up:
Matt – Guitar, Vocals
Clifton – Guitar, Vocals
Stephen – Bass
Shannon – Keyboards, Vocals
J.R. – Drums

DEAD HAND – Facebook

Kalamata – Same

Il trio teutonico Kalamata esordisce con un album space rock psichedelico che spacca.
Geniale sia l’artwork, che ricorda i deliri onirici dei Tool, sia i titoli delle canzoni, che letti insieme passano un messaggio forte e chiaro all’ascoltatore: You Have To Die Soon Mother Fucker. Non perdiamo tempo quindi, mettiamoci subito in cammino, la colonna sonora è garantita.
Come nel miglior viaggio che presenta un paesaggio mutevole, batteria, basso e chitarra sapientemente alternati si inseguono in riff potenti e ipnotici, a tratti più pungenti, in altri più nervosi.
Il giro di chitarra iniziale di You si lega in modo subliminale alle sinapsi; quando la canzone esplode ormai è radicata dentro il cervello. Have sconfina del post rock con suoni più veloci e vibranti. Die è calda e avvolgente, mistica: grazie anche ad un ascolto diretto con le cuffie non è solo un viaggio fisico, ma spirituale, ascetico, magari aiutato da sostanze psicotrope. E c’è qualcosa dei Tool anche per come la chitarra stride verso la fine della canzone.
Strutture math un po’ troppo ripetitive rendono Soon una canzone noiosa, al punto che dopo alcuni ascolti del disco si tende, arrivati a questo punto, a premere il tasto skip.
Mother riprende il vigore dell’inizio dell’album, Fucker è un rimando agli Sleep di Jerusalem, lenta, incessante, inesorabile, subliminale.
Same è album di esordio davvero piacevole, caratterizzato da suoni puliti e precisi, che soddisferà senza fatica gli amanti del genere, affamati di aggiungere un altro gruppo alla loro playlist.

Tracklist :
1. You
2. Have
3. To
4. Die
5. Soon
6. Mother
7. Fucker

Line-up :
Peter Jaun: chitarra
Olly Opitz: batteria
Maik Blumke: basso

pagina facebook
www.facebook.com/kalamataband

Black Capricorn / Bretus – 7″ Split

Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.

Semplicemente due tra le migliori band di musica pesante in Italia uniscono le loro forze e ci presentano una coppia di inediti davvero ottimi.

Sul lato A di questo sette pollici, stampato in trecento copie dalla The Arcane Tapes, ci sono i Bretus, macchine calabresi di sonorità doom classiche, con grandi composizioni che arieggiano la disperazione e il cantato davvero fuori dal comune dei Candlemass, ma oggi sono meglio di questi ultimi. La canzone si ispira ad un racconto dalle stesso titolo molto importante nella produzione lovecraftiana, ed è un ulteriore invito a leggere il Maestro.
Sul lato B le bestie di Satana sarde Black Capricorn, che si sono rivelati nel 2014 con “The Cult of Balck Friars” come uno dei migliori gruppi nel genere doom versante occulto. Le loro abrasioni sonore sono fuori dal comune e questo inedito li conferma come un gruppo che può suonare quello che vuole. The Hound of Harbinger God  è un pezzo di quasi nove minuti ipnotico ed iniziatore, basta seguirlo ed andarci dietro, non cercando la luce in questa bellissima oscurità.
Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.
Una chicca.

Tracklist:
Lato A Bretus – The Haunter Of The Dark
Lato B Black Capricorn – The Hound of Harbinger God

Line-up:
Bretus
Zagarus – vocals
Ghenes – bass
Faunus – guitars
Striges – drums

Black Capricorn
Fabrizio “kjxu” Monni – guitars, vocals, 2nd guitar solo
Daniele Manca – guitars, 1st guitar solo
Virginia Piras – bass
Rachela Piras: drums

BRETUS – Facebook

BLACK CAPRICORN – Facebook

Lectern – Fratricidal Concelebration

Per gli amanti del death metal americano questo album è un oggetto da mettere vicino, con orgoglio, alle opere dei nomi storici del genere.

Un dinamitardo album di death metal tecnico, feroce e old school, direttamente dagli states dei primi anni novanta.

No , questo assalto sonoro dal titolo Fratricidal Concelebration fa molta meno strada per arrivare a noi, sia in margini di tempo che di chilometri percorsi: infatti la band protagonista di cotanto massacro è romana e l’album datato 2015.
I Lectern provengono quindi dalla capitale, una vita nell’underground metallico ed ora finalmente giunge il momento di dare alle stampe l’agognato debutto che risulta un autentico e devastante tributo al death metal americano, prodotto benissimo e suonato ancora meglio.
Mezz’ora basta e avanza al combo per mettere tutti d’accordo, qui si fa death con palle che sono mastodontiche sfere d’acciaio, risultando un brutale assalto sonoro, un’aggressione senza pietà resa superba da una tecnica invidiabile.
Velocità, pesantezza, virtuosismi ritmici formidabili ed un growl belluino, fanno di Fractricidal Concelebration un tributo al re dei generi estremi, qui assolutamente nobilitato da un songwriting in stato di grazia ed un’attitudine da top band del genere.
Prodotto da Giuseppe Orlando nei The Other Sound Studios, l’album letteralmente spacca, la band non concede un attimo di tregua, il loro death che, a tratti, si avvicina al brutal, è un perfetto esempio di come si può essere estremi e tecnici senza finire nel caos senza costrutto.
Fratricidal Concelebration è composto da canzoni che si dimostrano una più feroce dell’altra, una più brutale e devastante dell’altra, una più bella dell’altra.
Sedici anni sono passati dalla nascita dei Lectern, una vita se si pensa a come il mondo della musica, anche estrema, sforna gruppi e dischi come panini dal fornaio sotto casa, eppure mai attesa fu meglio premiata, così che la band romana si guadagna un posto d’onore tra le top band del panorama estremo, non solo nazionale.
Per gli amanti del death metal americano questo album è un oggetto da mettere vicino, con orgoglio, alle opere dei nomi storici del genere.

Tracklist:
1. Fratricidal Concelebration
2. Labial of Inveigher
3. Genuflect for Baptismal Transubstantiation
4. Falsifier Bribed in Desanctification
5. Pulpit of Tormentation
6. Lordless
7. Deign of Ceremonier
8. Golgothanean
9. Libidinal Tabernacles

Line-up:
Fabio Bava – vocals, bass
Enrico Romano – guitars
Marco Valentine – drums
Pietro Sabato – guitars

LECTERN – Facebook

Fallen – Fallen

Riedizione dell’unico album pubblicato dai Fallen con l’aggiunta di due tracce inedite.

È tempo di riedizioni per le creature musicali di Anders Eek, uno dei protagonisti principali della scena doom norvegese.

I Fallen erano una band parallela dei più noti Funeral (dei quali parleremo appunto nei prossimi giorni trattando la ristampa del loro secondo album) e, nel corso della loro breve esistenza artistica, hanno lasciato una sola testimonianza su lunga distanza, A Tragedy’s Bitter End, un lavoro uscito nel 2004 che ottenne buoni riscontri a livello di critica.
Purtroppo, la prematura morte del chitarrista Christian Loos decretò l’interruzione dell’attività per i Fallen, con Eek che passò a dedicarsi a tempo pieno al suo principale progetto.
La Solitude offre oggi questa riedizione, che viene definita impropriamente una compilation, visto che si tratta di fatto della riproposizione dell’unico album con l’aggiunta di due brani registrati prima della scomparsa di Loos.
Musicalmente, A Tragedy’s Bitter End contiene una forma di funeral piuttosto scarna ma indubbiamente coinvolgente anche se non sempre del tutto a fuoco; la possibilità di parlare di questo vecchio album mi fornisce lo spunto per chiarire un personalissimo punto di vista sulla materia trattata: per quanto mi riguarda, l’unica forma vocale possibile per un disco funeral è il growl, punto, e “tutto il resto è noia” (nel vero senso della parola), come qualcuno cantava molti anni fa …
Il tono profondo e forzato di Kjetil Ottersen è piuttosto simile a quello utilizzato da Kostas Panagiotu nei Pantheist, il che tende sicuramente a fornire al sound un’aura più decadente (oltre all’indubbio vantaggio di poter cogliere il contenuto lirico senza l’ausilio di un testo scritto), ma con lo sgradevole effetto collaterale di dover ascoltare una sorta di Andrew Eldritch afflitto da adenoidi.
Per contro, l’attitudine e la competenza nel trattare il genere da parte di Eek e compagni è al di sopra di ogni sospetto, e si percepisce chiaramente quanto il tragico e ineluttabile sentore di morte che aleggia costantemente lungo ogni singola nota dell’album non sia frutto di un’esibizione manieristica.
Un brano splendido come Now that I Die, con i suoi diciassette minuti ed oltre di dolore che si fa musica, è emblematico della bontà intrinseca di un lavoro che è giustamente rimasto ben impresso nella memoria degli appassionati più incalliti.
Le due composizioni che vanno ad integrare la scaletta di A Tragedy’s Bitter End sono Drink Deep My Wounds, che si muove sulla falsariga dei brani precedenti pur rivelandosi in certi frangenti più arioso, e la cover di Persephone dei Dead Can Dance, piuttosto stravolta rispetto all’originale ma non per questo meno efficace (anche grazie al ricorso ad un timbro vocale meglio tarato da parte di Ottersen).
I motivi per far propria questa uscita quindi non mancano, inclusa la possibilità di avere per le mani un album che, all’epoca, venne stampato in un numero limitato di copie e che, oggi, viene oltretutto riproposto con una nuova e più soddisfacente veste grafica.

Tracklist:
1. Gravdans
2. Weary and Wretched
3. To the Fallen
4. Morphia
5. Now that I Die
6. The Funeral
7. Drink Deep My Wounds
8. Persephone – A Gathering of Flowers (Dead Can Dance cover)

Line-up:
Anders Eek – Drums
Christian Loos – Guitars
Kjetil Ottersen – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Black Inside – A Possession Story

Passato, presente e futuro dell’heavy metal passano da album come questo bellissimo “A Possession Story” dei nostrani Black Inside.

Questo bellissimo album mi da lo spunto per fare una considerazione sull’attuale stato di salute dell’heavy metal nel nostro paese: chiaro che, se prendiamo come punto di riferimento e paragone gli anni d’oro (decennio ottantiano), a livello di popolarità non c’è confronto, quelli erano tempi in cui il metal era normalmente in classifica e le band storiche, aiutate da ogni tipo di media, potevano contare addirittura su articoli apparsi su quotidiani e settimanali non proprio di settore (qualcuno si ricorda i Maiden su Sorrisi e Canzoni TV … ?).

I tempi sono cambiati, le tv sono sempre meno libere e chi avrebbe la possibilità di dare una mano al metal, continua a far girare un certo tipo di rock più impegnato politicamente, lasciando al genere, a mio parere il più anarchico di tutti, le briciole.
Peccato, anche perché mai come in questo periodo il metal gode di ottima salute, rigenerato da etichette che non mollano, alla faccia della crisi, ed immettono sul mercato gioielli di musica dura che, aldilà delle influenze più o meno riscontrabili, riescono nella non facile impresa di piacere, travolgere, emozionare.
A distanza di pochissimo tempo dal bellissimo album dei Negacy, ecco che un’altra band mi conquista con un lavoro che poggia le sue fondamenta sul metal classico ma che, invece di risultare il classico lavoro old school, si rivela vario, fresco e moderno pur richiamando il sound dei nostri eroi.
Questa volta si scende al sud, nella bellissima Napoli per incontrare i Black Inside e parlarvi del loro ultimo lavoro dal titolo A Possession Story.
Il gruppo campano nasce nel 2009 e nel 2011 esordisce con l’ep “Servants of the Servants”, seguito dal primo full length “The Weigher of Souls” del 2013, che li ha portati a dividere il palco con Blaze (“che ci faccio io nei Maiden”) Bailey e i Phantom X.
Due anni sono passati, (un lasso di tempo che sta diventando una costante per la band) ed eccoli tornare alla grande con questo bellissimo lavoro di metallo classico, per inciso hard & heavy incendiario, dal songwriting clamoroso ma soprattutto, come detto prima, vario.
Infatti A Possession Story è un susseguirsi di bellissime canzoni, tra l’heavy metal epico e progressivo di certi capolavori della vergine di ferro (The Siege OF Jerusalem), richiami al metal statunitense dei grandiosi Iced Earth (Man Is A Wolf to Men), affreschi di hard rock sabbathiano (Jeffrey), stoner metal grondante lava (I’m Not Like You), travolgente hard & heavy (la conclusiva Pharmassacre) e ballads drammatiche da applausi (la title track), che formano insieme alle altre canzoni un tuffo nel miglior esempio di quello che è oggi l’heavy metal: un genere che guarda al passato con più di un piede nel presente e nel futuro della musica , ed è proprio grazie a dischi come questo che risulta immortale.
Non bastasse ci si aggiungono le prove dei musicisti che, guidati dalla personalità debordante del singer Luigi Martino, sciorinano una prestazione eccezionale in ogni passaggio dell’album, aiutati da una produzione perfetta per il genere, non troppo cristallina per risultare patinata, ma assolutamente sanguigna.
Chi mi conosce per ciò che scrivo si IYE, sa che il mio amore per l’heavy metal è incondizionato causa le troppe primavere, ormai, passate in compagnia della musica dura per eccellenza, ma vi assicuro che album come A Possession Story fanno tornare il sorriso a questo inguaribile vecchietto …

Tracklist:
01. Man is a Wolf to Men
02. The Siege of Jerusalem
03. Black Inside
04. I’m Not like You
05. King of the Moon
06. Too Dark to See
07. A Possession Story
08. Forsaking Song
09. Jeffrey
10. Pharmassacre

Line-up:
Luigi Martino – Lead Vocals
Brian Russo – Guitars
Eduardo Iannaccone – Guitars
Vincenzo La Tegola – Bass Guitar
Enzo Arato – Drums

BLACK INSIDE – Facebook

AA.VV. – A Treasure To Find, un Omaggio ai Novembre

Un’operazione del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle rispettive riproposizioni.

Prima di cominciare a parlare di questo album devo fare doverosamente outing: i Novembre non mi hanno mai fatto impazzire. Intendiamoci, non ho alcuna intenzione di sminuire (e del resto chi sono io per pensare di farlo ?) il valore oggettivo di una band che ha influenzato centinaia di musicisti, non solo nel nostro paese: il fatto è che il sound della creatura dei fratelli Orlando non è mai riuscito del tutto a far breccia in un cuore come il mio, che pure è propenso per natura ad emozionarsi ascoltando brani intrisi di malinconia come sono in effetti quelli dei Novembre. Come cantava qualcuno molti anni fa, evidentemente, è solo “una questione di feeling”.

Questa premessa, che ai più forse parrà superflua, è doverosa in quanto l’apprezzamento che andrò a descrivere nei confronti di questa ottima iniziativa della Mag-Music, non è quello del fan accecato dalla passione, bensì deriva esclusivamente dalla bontà delle rielaborazioni dei brani dei Novembre contenuti nel tributo.
Nove sono le tracce proposte con il contributo di dieci realtà musicali (in quanto Cold Blue Steel viene brillantemente rielaborata dall’accoppiata Vostok / Australasia), diverse per background e stile ma ugualmente ispirate nei rispettivi percorsi musicali dalla seminale band capitolina .
Nella scelta dei brani la parte del leone la fa il penultimo album “Materia” con quattro tracce (in effetti cinque se consideriamo che L’Alba di Morrigan propone mirabilmente in un sol colpo Aquamarine / Geppetto) lasciando il resto ai vari “Classica” (2), “Wish I Could Dream It Again…”, “Arte Novecento” e “Novembrine Waltz” (uno ciascuno), e tralasciando misteriosamente del tutto l’ultima testimonianza su lunga distanza “The Blue”.
Nel complesso l’operazione si rivela, comunque, del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle relative riproposizioni, con note di merito per l’operato di Lenore S. Fingers, dove possiamo apprezzare ancora una volta la splendida voce di Lenore, Shores Of Null, la band più metal del lotto che, non a caso, si appropria da par suo di The Dream Of The Old Boats ,uno dei brani più datati dei Novembre, e, come detto L’Alba di Morrigan con la poetica accoppiata tratta da “Materia”.
Di sicuro gradite a chi ha familiarità con la musica proposta, per assurdo questo tipo di iniziative possono rivelarsi utili soprattutto incuriosendo chi magari conosce solo di fama le band oggetto dei tributi, tanto più in questo caso specifico alla luce del recente annuncio (al punto che viene da chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina …) dell’imminente ritorno dei Novembre, guidati dai soli Carmelo Orlando e Massimiliano Pagliuso, a ben otto anni di distanza da “The Blue”.
Da applaudire quindi per la brillante intuizione i promotori del tributo, Marco Gargiulo della Mag-Music e Stefano Morelli di Rumore, a maggior ragione per la decisione di offrirne i contenuti in download gratuito.

Tracklist:
1. Valentine – Lenore S. Fingers (Novembrine Waltz)
2. The Dream Of The Old Boats – Shores Of Null (Wish I Could Dream It Again)
3. A Memory – Demetra Sine Die (Arte Novecento)
4. Aquamarine/Geppetto – L’Alba Di Morrigan (Materia)
5. Cold Blue Steel – Vostok & Australasia (Clasica)
6. Nostalgiaplatz – Arctic Plateau (Classica)
7. Memoria Stoica/Vetro – Shape (Materia)
8. Nothijngrad – Electric Sarajevo (Materia)
9. Jules – Lauren Vieira (Materia)

MAG MUSIC – Facebook

Reanimator – Horns Up

I canadesi Reanimator tornano con un nuovo massacro thrash metal: per gli amanti del genere un album da ascoltare senza riserve.

Un toro borchiato di tutto punto, armato di corna che sputano lingue di fuoco vi travolgerà e non ci sarà scampo …

Cattiveria pura, un caterpillar inferocito che, a colpi di thrash metal, vi inchioderà al muro, devastandovi sotto mazzate di una forza animalesca irrefrenabile: questo è Horns Up, nuovo lavoro dei canadesi Reanimator, metallo che mostra i muscoli e senza pietà, spacca ossa e orecchie sospinto dall’impatto distruttivo della band del Quebec, con già una decina d’anni di attività alle spalle.
Thrash’n’roll si definiscono loro, semplicemente old school thrash metal direi io: lo speed a rendere il tutto più veloce e travolgente e qualche accenno hardcore nei cori sono le qualità maggiori di questo massacro senza soluzione di continuità, suonato come il genere insegna in virtù della buona tecnica e dell’esperienza fatta dal gruppo in questi anni, accompagnando sul palco nomi storici del metal estremo come Exodus, Aggressor, Brutal Truth, Macabre e Cryptopsy, tanto per nominare i più noti e sottolineare la varietà di stili con cui i Reanimator si sono confrontati senza timore in sede live.
Chitarre che tranciano in due come seghe elettriche (Ludovic Bastien e Joel Racine ), sezione ritmica che picchia come il bestione in copertina (Francis Labelle alle pelli e Fred Bizier al basso), ed un cantante indemoniato e rabbioso (Patrick Martin) sono gli ingredienti di questo macello sonoro che inizia alla grande con Electric Circle Pit e non smette di picchiare, continuando anzi a colpire duramente con Tempted by Deviance, Thieves of Society e via di diritti e ganci, senza sosta ne pietà.
Con ritmiche che mozzano il fiato, un’aggressività che conquista e cori azzeccati, i Reanimator si dimostrano una perfetta macchina da guerra che in sede live immagino ancor più devastanti; questo ottimo lavoro ha proprio tutto per essere portato sui palchi, facendo vittime, travolte dalla carica di brani come Still Sick e Mock a Mockingbird, traccia conclusiva del lavoro dove viene a galla la furia rock’n’roll del combo di Montréal.
Per gli amanti del genere un album da ascoltare senza riserve.

Tracklist:
1.Electric Circle Pit
2.Rush For The Mosh
3.Tempted By Deviance
4.Thieves Of Society
5.The Abominautor
6.The Mosh Master
7.Still Sick
8.Off With Their Heads
9.Mock A Mockingbird

Line-up:
Patrick Martin – Vocals
Ludovic Bastien – Guitar
Francis Labelle – Drums
Fred Bizier – Bass
Joel Racine – Guitar

REANIMATOR – Facebook

Phlegmatic Table – Waiting For The Wolf

I bielorussi Phlegmatic Table sono autori di un moderno thrash colmo di digressioni industrial e groove: se questo è un assaggio di un prossimo full length ne vedremo e sentiremo delle belle,

Non è poi così facile convincere, ma soprattutto sorprendere, in poco più di dieci minuti, a meno che non si abbiano a disposizione talento e tecnica: i Phlegmatic Table, band proveniente dalla Bielorussia, all’esordio tramite Total Metal Records, ci sono riusciti.

Il trio, all’esordio con questo Ep intitolato Waiting For The Wolf, uscito solo in versione digitale, immette nella propia musica una valanga di idee, assemblando generi e influenze in pochi minuti e conquistando l’ascoltatore, piacevolmente frastornato dalle sorprese che la band riserva ad ogni passaggio.
C’è davvero un po’ di tutto nel sound della band: thrash metal, industrial, alternative e tanto groove, il che produce un monolite di musica estrema, concettualmente progressiva ed ottimamente suonata.
Immaginate il thrash evoluto di Coroner e Mekong Delta, a cui si aggiungano l’industrial metal dei Prong e le ritmiche marziali e groove dell’alternative di moda nel nuovo millennio, ed avrete più o meno un’idea della musica proposta dai Phlegmatic Table.
Senza dimenticare i Voivod di “Angel Rat”, la band spara liriche sarcastiche su questo ottimo tappeto di metal moderno, maturo, tenendo comunque a bada il songwriting che non dimentica mai la forma canzone, specialmente in occasione della notevole title track e dell’opener Chocolate Ice Cream.
Lasciarsi trasportare da parti jazzate che, qua e là, nobilitano ancor di più il suono è un attimo, finché il ritmo colmo di groove della notevole Dirty Shoes entra prepotentemente nelle nostre teste per cicatrizzarsi e non uscirne più.
Davvero notevoli, se questo è un assaggio di un prossimo full length ne vedremo e sentiremo delle belle.

Tracklist:
1. Chocolate Ice Cream
2. Waiting for the Wolf
3. Dirty Shoes
4. Fridge
5. Another Morning

Line-up:
Artour Sotsenko – guitars, vocals;
Vladimir Slizhuk – bass;
Paul Chaplin – drums.

Sorrowful – In The Rainfall

Un disco rivolto soprattutto a chi apprezza maggiormente le partiture dolenti del doom quando sono sommerse da gragnuole di colpi inferti dalla furia del death.

Esordio all’insegna di un death doom molto tradizionale per questa band di stanza a Göteborg, della quale attraverso i canali ufficiali non è che si sappia molto dei musicisti coinvolti.

Bisogna, quindi, attingere alla sempre utile Encyclopaedia Metallum per scoprire che i Sorrowful sono un duo messicano trasferitosi da tempo in Scandinavia composto da I.Ishtar e Jorge Vergara, con il primo, soprattutto, già molto attivo nella scena nordeuropea (facendosi valere in particolare con gli ottimi Dødsfall).
Si diceva di un lavoro devoto ai suoni tradizionali in voga negli anni ’90, quando My Dying Bride ed Anathema, soprattutto, tracciarono le linee guida di un genere che nel corso degli anni, come sempre accade, avrebbe assunto diverse ulteriori ramificazioni.
Il sound dei Sorrowful è sicuramente efficace in quanto completamente spogliato di qualsiasi orpello gotico e decadente, e questo alla fine costituisce un pregio, per l’indubbia coerenza ad uno stile che oggi non si può certo definite alla moda, ma anche un difetto in quanto, basando il tutto su un impatto piuttosto brutale, In The Rainfall mantiene una linearità apprezzabile ma che non sfocia mai in momenti davvero memorabili.
Il disco è comunque valido, ma mi sentirei di consigliarlo più agli estimatori del death caliginoso e rallentato (in stile Asphyx, direi) che non a chi, all’inizio degli anni ’90, si è beato di pietre miliari quali “As The Flower Withers” e “Serenades”.
Un buon growl, sorretto da riff pesantissimi e da qualche raro ma riuscito passaggio in chiave solista, sono il trademark di questi tre quarti d’ora di buona musica estrema, che ripropone in maniera appropriata quanto onesta quei suoni che ogni tanto è bene che vengano rispolverati.
I nostri dimostrano, pur se con parsimonia, di avere nelle corde anche quelle aperture melodiche capaci di rendere memorizzabili tracce altrimenti monolitiche nel loro incedere: a tale proposito si rivela emblematica l’ottima The Machine Of Desolation e in parte anche la successiva The Flight of Mind, mentre Gray People si staglia sul resto della tracklist con i suoi ritmi mortiferi che riportano, volendo restare in un ambito attuale, ai Vallenfyre di Greg Mackintosh.
Da rimarcare anche l’opener The Last Journey e Oceans of Darkness, brani nei quali i Sorrowful riescono a trovare un buonissimo equlibrio tra le diverse componenti del loro sound.
In definitiva, un disco interessante, soprattutto per chi apprezza maggiormente le partiture dolenti del doom quando sono sommerse da gragnuole di colpi inferti dalla furia del death.

Tracklist:
1. The Last Journey
2. Nothingness
3. Gray People
4. Oceans of Darkness
5. Utopian Existence
6. Frozen Sun
7. The Machine of Desolation
8. The Flight of Mind
9. Eager of Death

Line-up:
I. Ishtar – Guitars, Drums
Jorge Vergara – Vocals, Bass

SORROWFUL – Facebook

The Long Escape – The Warning Signal

Il futuro del progmetal passa da lavori che miscelano tradizione e modernità come “The Warning Signal”

Brutta bestia il prog metal: da una parte la bravura tecnica dei musicisti che nel genere è un dato di fatto, dall’altra un forte senso di già sentito aleggia sulle produzioni del genere, fredde se la tecnica prende il sopravvento sul songwriting, emozionali ma derivative se le band puntano sul classico seguendo il teatro di sogno in un caso o il new prog britannico nell’altro.

Allora esce allo scoperto la voglia di chi, pur conservando un approccio prog alle composizioni, le valorizza con varie influenze, dal rock alternativo al metal moderno, accorciando il minutaggio delle composizioni, raddoppiandone l’appeal e rendendo la propria musica fruibile ad un pubblico che non sia solo formato da intenditori.
La versione metal del prog anni settanta, purtroppo, consta di fans molto conservatori, ancorati ai gruppi storici settantiani o ai metallari che, dal power più tecnico hanno volto lo sguardo alle sonorità care alle super band degli anni novanta (Dream Theather e Symphony X su tutte).
I francesi The Long Escape, giustamente, fanno spallucce e con il loro secondo lavoro, accentuano ancor di più il loro sound che di metal prog si nutre, cercando però di variegarlo con ottime atmosfere che dei generi moderni sono prerogativa.
Ecco che nasce il sound di The Warning Signal, prog metal moderno, colmo di ritmiche grasse che a tratti schiacciano l’occhiolino al core, brani dal forte sapore alternative e tanta bravura strumentale, che esce allo scoperto quando il gruppo si ricorda di divagare con scale intricate ma non troppo, melodiche, ruffiane, graffianti e aggressive il giusto per piacere agli appassionati dai gusti moderni.
Ne esce un gran bel disco, piacevole in tutte le sue sfumature e suonato benissimo, da musicisti sul pezzo e alquanto vario; certo, dimenticatevi cervellotiche fughe chitarristiche accompagnate da tastiere suonate alla velocità della luce: qui si viaggia su ritmi cadenzati e pesanti, le accelerazioni, quando la band schiaccia sul pedale, sono devastanti monoliti dal groove micidiale, intervallati da soluzioni alternative, come se gli Alter Bridge decidessero di suonare prog metal.
Seas Of Wasted Men, Awakened Ones, Carnival Of Deadly Sins e Slave sono gli episodi migliori di un album riuscito e che entra di diritto nelle opere di genere che lasciano qualcosa in più rispetto a mere prove di tecnica strumentale fini a sé stesse.
Da appassionato di prog in tutte le sue forme, credo fortemente che il futuro per il genere passi da questi lavori che miscelano tradizione e modernità.

Track List:
1.The Noise
2.Seas Of Wasted Men
3.Awakened Ones
4.Million Screens
5.Digital Misery
6.Carnival Of Deadly Sins
7.Crashdown
8.The Search
9.Homo Weirdiculus
10.Slave
11.World Going Down
12.The Last Crying Man

Line-up:
Kimo – Vocals/Guitars
Marius – Guitars
Nicolas – Bass
Tom – Drums

THE LONG ESCAPE – Facebook

Ataraxie – Slow Transcending Agony

Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

A dieci anni esatti dalla sua pubblicazione, Slow Transcending Agony, album d’esordio dei francesi Ataraxie, viene nuovamente immesso sul mercato in una veste rinnovata e con l’aggiunta di una bonus track come The Tree of Life and Death, cover dei seminali Disembowelment.

La band normanna è senza ombra di dubbio uno dei nomi di punta della scena funeral death doom europea, benché la sua produzione non sia ricchissima a livello di full length pubblicati, ma qui a fare la differenza è la qualità immensa di ognuna delle tre uscite (oltre al disco in oggetto, “Anhedonie” del 2008 e “L’être et la Nausée” del 2013).
Proprio parlando di quest’ultimo lavoro, circa due anni fa, mi spinsi ad affermare che gli Ataraxie avevano finalmente raggiunto il gotha della scena, e tale sensazione viene ampiamente suffragata da quest’esame retrospettivo che ci consente di vericare l’evoluzione della band e, nel contempo, di constatare quanto il sound fosse evoluto e di un livello abbondantemente al sopra della media già allora.
Dopo la lunga introduzione affidata al mortifero strumentale Astep Into The Gloom, Funeral Hymn scaraventa l’ascoltatore negli abissi più reconditi, lo immerge in una cupa disperazione rivelandosi una vera e propria marcia funebre che accompagna l’interminabile percorso lastricato di un dolore senza fine.
L’Ataraxie, se possibile, aumenta ancor di più il pathos drammatico del lavoro; se il brano precedente risentiva ancora, parzialmente, dell’inevitabile influsso della “sposa morente”, il pezzo autointitolato è invece un magnifico e monolitico esempio di funeral doom che non ammette dubbi né repliche: lo si ama, e basta.
La title track si snoderebbe nel buio più totale se non intervenisse qualche accenno acustico ad illuminare di luce fioca uno scenario non dissimile a quelli consoni ai Mournful Congregation (che nello stesso anno, è bene ricordarlo, diedero alla luce quel capolavoro intitolato “The Monad Of Creation”).
Another Day Of Despondency lascia sfogare una controllata furia death prima che i rallentamenti mozzafiato vadano a lambire, nelle rare aperture melodiche, gli umori seminali della scuola albionica dei primi anni novanta.
The Tree of Life and Death, infine, è l’omaggio doverso agli australiani Disembowelment, band di culto che con un solo album, pubblicato nel 1993, è stata comunque capace di lasciare il segno nella scena death doom; da rimarcare che il brano in questione è stato registrato dagli Ataraxie con la nuova formazione che vede la presenza di ben tre chitarristi.
Senza nulla togliere ai suoi compagni , Jonathan Thery domina Slow Transcending Agony grazie alla sua capacità di unire un growl dalla timbrica inumana, eguagliato oggi dal solo Daniel Neagoe, a sfuriate in uno screaming di matrice quasi depressive, senza che il potenziale evocativo dei brani venga minimamente scalfito.
Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

Tracklist:
1. Astep Into The Gloom
2. Funeral Hymn
3. L’Ataraxie
4. Slow Transcending Agony
5. Another Day Of Despondency
6. The Tree of Life and Death

Line-up:
Jonathan – Vocals, Bass
Fred – Guitars
Sylvain – Guitars
Pierre – Drums

ATARAXIE – Facebook

Old Graves – This Ruin Beneath Snowfall

“This Ruin Beneath Snowfall” è una delle cose migliori ascoltate quest’anno in ambito black atmosferico.

Breve Ep d’esordio per Old Graves, ennesimo progetto solista dedito al black metal atmosferico.

Colby Hink è canadese e, tutto sommato, nella sua musica confluiscono in maniera sensibile le emozioni ed il senso di sgomento che gli splendidi scenari paesaggistici offerti del suo paese riescono ad indurre, in chiunque sia conscio della propria sostanza infinitesimale rispetto alla maestosità della natura.
Se il sound porta con sé una brezza tenue ma gelida, d’altra parte possiede anche un respiro più ampio che conduce la mente in spazi sterminati in cui l’uomo è (non sempre gradito) ospite.
Il lavoro è molto breve ma fa intuire l’innata predisposizione di Colby nel produrre atmosfere malinconicamente evocative, pur nella loro semplice struttura. In particolare brilla, baciata da una linea melodica davvero splendida, Hang My Remains from the Crescent Moon, ma Dawn Treader e la title track non sono in fondo da meno, andando a costituire un quadro dall’impatto emotivo non sempre riscontrabile in simili occasioni.
Lo screaming è nella norma ma ha il pregio di non risultare fastidioso, anche se in fase di produzione è stato come da copione del genere seppellito dagli altri strumenti, specialmente quando tutti si muovono all’unisono nell’edificare un muro sonoro avvolgente.
Il musicista nordamericano dimostra buon gusto e talento anche nelle parti acustiche e più riflessive, nelle quali la componente ambient viene sempre e comunque asservita ad un costruzione melodica logica e lineare, che include la presenza di assoli chitarristici di buon pregio.

This Ruin Beneath Snowfall è una delle cose migliori ascoltate quest’anno in ambito black atmosferico: di solito con gli Ep tendo a non sbilanciarmi con le valutazioni ma, in questo caso, mi sento di scommettere senza alcuna remora su una qualità compositiva che non può essere né casuale né transitoria.

Tracklist:
1. Kestrel
2. Dawn Treader
3. Hang My Remains from the Crescent Moon
4. This Ruin Beneath Snowfall

Line-up:
Colby Hink – All instruments

OLD GRAVES – Facebook</>

Feral – Where Dead Dreams Dwell

Per chi ama il death metal old school questo è un album da avere assolutamente.

Nel nordeuropa sembra tornata, alla grande, la voglia di suonare death metal come si faceva nei primi anni novanta: sono infatti molte le band che si rifanno ai suoni old school, senza scendere a facili compromessi e tornando a far sferragliare gli strumenti come il genere insegna.

Vero infatti che, aldilà di nostalgici sguardi al passato, il metal estremo ha avuto in quel periodo, un picco qualitativo assoluto con death e black che si giocavano la supremazia sulle preferenze dei fans, con capolavori rimasti saldamente nella memoria di chi quel periodo l’ha musicalmente vissuto.
Non a caso, quando si parla di death metal classico o old school (come va di moda chiamarlo), le band storiche della scena scandinava (insieme a quelle americane) escono dalle note delle nuove opere e dagli articoli di chi prova a descrivere album che, oggi più di qualche tempo fa, si rifanno ad una scena morta per il music biz, ma tremendamente viva nell’underground.
I Feral sono l’ennesima band svedese che torna a far male rifacendosi al death metal classico, ed il suo nuovo lavoro, Where Dead Dreams Dwell, si rivela un altro ottimo esempio di metal estremo che, pur rifacendosi alle band storiche del genere, suona fresco e devastante.
Nato nel 2007, il gruppo di Skellefteå ha dato alle stampe una manciata di demo per esordire sulla lunga distanza quattro anni fa con “Dragged to the Altar”.
Where Dead Dreams Dwell, dunque, è il secondo lavoro, uscito per Cyclone Empire in questa primavera, un nuovo capitolo mixato e masterizzato da Petter Nilsson, ex chitarrista della band, con tanto di copertina disegnata da Costin Chioreanu, già al lavoro con At The Gates, Arch Enemy, Primordial e Mayhem, tra gli altri.
Niente di nuovo, quindi, solo incendiario, travolgente e massacrante metal estremo, suonato bene, composto da brani di ottima qualità, brulicante di solos, di ritmiche velocissime, rallentamenti e ripartenze fulminee e un impatto da vecchia scuola che non lascia scampo.
I Feral, rodati da innumerevoli live, ne esce alla grande, compatta e sfavillante, creando un’onda d’urto di inumana potenza: le canzoni deflagrano in tutta la loro violenza, senza nessun riempitivo e l’album scivola via così fluido e potente tra brani riusciti come Creatures Among the Coffins, Inhumation Ceremony, The Crawler e Mass Resurrection, in cui compare come ospite il growl di Jonas Lindblood dei grandiosi Puteraeon, autori con “The Crawling Chaos”, di uno dei dischi più belli dello scorso anno nel genere.
Where Dead Dreams Dwell è un altro album da non sottovalutare per gli amanti del death metal classico, tornato finalmente ai livelli che gli competono in fatto di qualità, anche grazie a band come i Feral.

Tracklist:
1. Swallowed by Darkness
2. Creatures Among the Coffins
3. As the Feast Begins
4. Suffering Torment
5. Carving The Blood Eagle
6. Inhumation Ceremony
7. The Crawler
8. Overwhelmed
9. Mass Resurrection
10. Succumb to Terror

Line-up:
Viktor Eriksson – Bass
David Nilsson – Vocals
Markus Lindahl – Guitars
Roger Markström – Drums

FERAL – Facebook

Amputory – Ode To The Gore

Album da spararsi come una dose di pura adrenalina, “Ode To The Gore” non farà sicuramente conquistare nuovi fan al genere, ma gli amanti di queste sonorità troveranno di che gioire.

Dalle estreme lande del nordeuropa, un altro combo dedito al death metal old school attraversa il mare e porta con sé, attraversando il vecchio continente, uno tsunami di barbarie in musica: cinque guerrieri che, portando alta la bandiera del genere,e ci investono con la forza distruttrice che solo questo tipo di musica sa regalare.

Loro sono i finlandesi Amputory, autori in precedenza di due demo (“Promo 2010” e “Unclean Promo 2012”) che li hanno portati all’attenzione di Dave Rotten, micidiale singer dei thrashers spagnoli Avulsed e patron della Xtreem Music, una delle maggiori etichette, qualitativamente parlando, del metal estremo underground.
Old school, si diceva ed allora non aspettatevi nulla che non sia puro ed incontaminato death metal scandinavo, feroce, brutale e massiccio: mezz’ora circa di sangue a frotte che esce dagli strumenti, seviziati da quest’orda di fiere feroci, in una messa nera dedicata al signore della morte in un’orgia di suoni estremi direttamente dai primi anni ’90.
La band, compatta, aggredisce dalla prima all’ultima nota, come consuetudine parti veloci si scambiano la scena con altre cadenzate e potentissime, dove il fiore all’occhiello è la prestazione dietro al microfono di quella creatura infernale che di nome fa Jarno Kokkonen, vocalist per talento, orco per natura, dotato di un growl bestiale.
Il resto della band asseconda questa creatura con buona tecnica e tanto feeling, i brani escono pesanti come incudini, travolgenti nelle ritmiche e ottimi nei solos, che sono impietose frustate nella schiena.
Album da spararsi come una dose di pura adrenalina, Ode To The Gore non farà sicuramente conquistare nuovi fan al genere, troppo devoto com’è ai crismi del death tradizionale (più svedese che finlandese, direi), ma gli amanti di queste sonorità troveranno di che trastullarsi tra ossa e falci in questa oscura opera estrema.
Le band storiche a cui la band si ispira sono essenzialmente Dismember e primi Entombed, per cui, se questi nomi sono nelle vostre corde, fate vostro questo inno al male godendovi ancora una volta una mezz’ora di musica estrema con gli attributi al posto giusto.

Tracklist:
1. Enslaved in the Basement
2. Ode to Gore
3. Cleansing the Blade
4. Aghori
5. Unclean
6. Bludgeoned
7. Unaccountable
8. Illuision of Sanity

Line-up:
Pekka Sauvolainen – Bass
Jaakko Kölhi – Drums
Saku Manninen – Guitars
Antti Saikanmäki – Guitars
Jarno Kokkonen – Vocals

AMPUTORY – Facebook

Pale From Sunlight – Love Was Never An Option

L’elemento di interesse per i Pale From Sunlight risiede nella maggiore rarefazione delle atmosfere, che non sono mai banali e che, alla fine, riescono ad indurre quel senso di ineluttabile ed interminabile sconforto che il DSBM intende riversare sull’ascoltatore.

Depressive black dagli Stati Uniti con il duo Pale From Sunlight, all’esordio con questo primo lavoro su lunga distanza dopo l’Ep omonimo uscito solo lo scorso febbraio.

L’interpretazione del genere vede Krullnaag e Vemetrith alle prese con i consueti suoni venati di dolore ottundente che dividono la scena con l’altrettanto canonica voce straziante.
L’elemento di interesse per i Pale From Sunlight risiede, dunque, nella maggiore rarefazione delle atmosfere, che non sono mai banali e che, alla fine, riescono ad indurre quel senso di ineluttabile ed interminabile sconforto che il DSBM intende riversare sull’ascoltatore.
Peccato solo che la produzione non riesca a valorizzare appieno il buon lavoro compositivo, ma chi ama tali sonorità ormai ha già fatto abbondantemente l’orecchio a questo aspetto
I cinque brani di Love Was Never An Option appaiono comunque tutti piuttosto efficaci anche se, per gusto personale, ho molto apprezzato la conclusiva Last Sunset, in pratica un esibizione di funeral depressive capace di convogliare in un sol colpo tutto il disagio esistenziale che, ciascuno a modo proprio, entrambi i generi intendono convogliare.
Buona prova comunque per una band che si piazza con buona disinvoltura sulla scia della migliore scuola americana che vede Xasthur e Dhampyr quali portabandiera.

Tracklist:
1. River Oaks
2. ‘Til Death Does His Part
3. Anxious Revelations
4. Out of Reach
5. Love Was Never an Option
6. Last Sunset

Line-up:
Krullnaag – All instruments
Vemetrith – Vocals

PALE FROM SUNLIGHT – Facebook

Shape Of Despair – Monotony Fields

Il sound dei Shape Of Despair non respinge ma avvolge, non trasporta un sentore di morte cavalcando sonorità ostiche e dissonanti, bensì accompagna misericordiosamente gli ultimi ansiti vitali rendendo sopportabile ma non meno drammatico l’imminente distacco.

All’inizio del secolo i finlandesi Shape Of Despair si imposero come una delle realtà più fulgide della scena funeral doom, grazie ad un trittico di album (“Shades Of …”, “Angels Of Distress” ed “Illusion’s Play”) di eccellente livello medio.

In particolare il secondo viene ricordato come uno dei capolavori assoluti del genere e, in una mia ipotetica graduatoria, occupa saldamente una delle prime cinque posizioni all time.
Dopo “Illusion’s Play”, la band creata da Jarno Salomaa e Tomi Ullgrén si prese una lunga pausa, interrotta solo dall’ep “Written In Scars” del 2011 e dallo split album con i portoghesi Before The Rain l’anno dopo.
La partecipazione di Salomaa al meraviglioso progetto Clouds di Daniel Neagoe faceva in effetti sperare in una prossima ripresa dell’attività degli Shape Of Despair, e così è stato: ottenuto un nuovo deal con la Season Of Mist e rimpiazzato alla voce lo storico vocalist Pasi Koskinen con l’ottimo Henri Koivula dei Throes Of Dawn, eccoci quindi a parlare di questo Monotony Fields, album che si prospetta come una sorta di evento per chi ama il funeral.
Chiedere di raggiungere i livelli di “Angel Of Distress” sarebbe stato forse troppo, eppure i nostri vi si avvicinano non poco, superando ampiamente per valore il buono ma non eccezionale “Illusion’s Play”.
L’interpretazione del genere dei finnici possiede un mood atmosferico che rende peculiari tutti i brani: il particolare tocco chitarristico di Salomaa e le sue linee tastieristiche fanno precipitare l’ascoltatore in un vortice di malinconia che il contributo vocale della sempre brava Natalie Koskinen rende più sopportabile, senza riuscire a cancellare la disperazione ed il senso di ineluttabile tragedia che aleggia sull’esistenza di ognuno.
Il sound dei Shape Of Despair non respinge ma avvolge, non trasporta un sentore di morte cavalcando sonorità ostiche e dissonanti o sfruttando essenzialmente un growl impietoso e riff granitici, bensì accompagna misericordiosamente gli ultimi ansiti vitali rendendo sopportabile ma non meno drammatico l’imminente distacco.
Un’ora e un quarto di languida e mortale poesia, con brani che crescono dopo ogni ascolto, rendono Monotony Fields un virus che si insinua sottopelle: la title track, Withdrawn e In Longing sono le gemme più fulgide di un lavoro privo di punti deboli, se non quello prettamente commerciale, contenendo sei tracce di funeral doom, un genere che anche nelle sue espressioni più elevate rimane pur sempre rivolto ad un numero limitato di anime sensibili.
La riedizione di Written Of Scars chiude questo meraviglioso monumento al dolore: non temetelo e non ritraetevi, il suo effetto catartico potrebbe sorprendervi al di là di ogni aspettativa.

Tracklist:
1. Reaching the Innermost
2. Monotony Fields
3. Descending Inner Night
4. The Distant Dream of Life
5. Withdrawn
6. In Longing
7. The Blank Journey
8. Written in My Scars

Line-up:
Tomi Ullgrén – Guitars
Henri Koivula – Vocals
Sami Uusitalo – Bass
Samu Ruotsalainen – Drums
Natalie Koskinen – Vocals (female)
Jarno Salomaa – Guitars, Keyboards

SHAPE OF DESPAIR – Facebook

Madness Of Sorrow – III: The Beast

Sterzando leggermente il tiro su sonorità più metalliche, ma non snaturando assolutamente il proprio credo musicale, il gruppo ha regalato ai fan il degno successore dell’ottimo primo album.

La bestia che si annida tra le note create dai nostrani Madness Of Sorrow, non si è mai estinta e torna con tutto il suo terribile bagaglio di nefandezze, nascosta nell’ombra dei palazzi apostolici, contaminando, possedendo, liberando ogni tipo di istinto e il male, quello vero che rovina vite, distrugge speranze, annienta personalità e umanità.

III: The Beast è il terzo capitolo creato dalla band di Muriel Saracino, factotum dei Madness Of Sorrow, che con il precedente “Take The Children Away From The Priest”, aveva impressionato gli addetti ai lavori con un album di genere che pescava tanto dal metal dei Death SS quanto dal dark ottantiano, risultando uno dei più riusciti lavori del 2013.
Il nuovo album non tradisce le aspettative, il sound della band ormai è ben canalizzato sulle coordinate date dal leader, lasciando a pochi dettagli le differenze con il suo bellissimo predecessore.
Un gran bel lavoro quello fatto da Saracino, questa volta aiutato dal nuovo chitarrista e bassista Shark, anche in fase di scrittura: l’album riparte da dove “Take The Children Away From The Priest” ci aveva lasciati, quindi molto più metallico specialmente in avvio con i primi due brani, Welcome to Your Suicide e Three Meters Underground, che partono a razzo.
Si torna ad atmosfere oscure con il capolavoro Seed of Evil, uno stupendo affresco colorato con pastelli dark ed horror metal perfettamente bilanciati creando un arcobaleno di tonalità nere e drammatiche, interpretate da Muriel con rabbiosa personalità.
Sia chiaro, la teatralità delle classiche band di genere qui è sostituita da un’atmosfera di drammatica pesantezza, denuncia e sofferenza: l’alchimia tra metal moderno (continuo a trovare nella musica del gruppo più di un riferimento al reverendo Manson, oltre ai maestri Death SS) ed il dark rock continua ad imperversare nel sound di una band matura, poco incline a note ruffiane ma solidamente ancorata al proprio percorso musicale, che con il nuovo album si conferma in tutto il suo cupo incedere.
The Army of Sinners durissima e moderna richiama i Nefilim di Zoon, mentre The Black Lady risulta l’esempio lampante del buon mix tra Manson ed i Death SS, prima che la devastante Vatican’s Ruins ci consegni il brano più estremo del lavoro, almeno per quanto riguarda le ritmiche e la buona dose di velocità.
Non mancano due graditi ospiti sul nuovo album: Simon Garth, già presente sul precedente lavoro e qui alle prese con la chitarra acustica in Crucifixed, e Bolthorn, bassista degli epic metallers Avoral sulla devastante Three Meters Underground.
Evilangel superba e malefica song metallica fino al midollo, in compagnia della superba Drowned, chiude III: The Beast e conferma i Madness Of Sorrow come una delle realtà più fulgide del panorama horror metal nazionale.
Sterzando leggermente il tiro su sonorità più metalliche, ma non snaturando assolutamente il proprio credo musicale, il gruppo ha regalato ai fan il degno successore dell’ottimo primo full length, sta a voi ora immergervi nelle atmosfere di questo ennesimo bellissimo lavoro da non perdere per alcun motivo.

Tracklist:
1. Welcome to Your Suicide
2. Three Meters Underground
3. Seed of Evil
4. The Army of Sinners
5. The Black Lady
6. Vatican’s Ruins
7. No Redemption
8. Crucifixed
9. Evilangel
10. Drowned

Line-up:
Muriel – Vocals, rithm/lead guitar
Shark – Rithm/lead guitar
Derrick – Live drums

MADNESS OF SORROW – Facebook