Black Map – In Droves

Quindici brani, cinquanta minuti catturati da melodie e arrangiamenti fatti per imprigionare l’ascoltatore nel mondo patinato, delicato, a tratti aggressivo del rock del nuovo millennio.

Alternative rock che a tratti sconfina nel metal, un album che sembra una raccolta di hit radiofonici, magari leggermente ruffiani ma indubbiamente splendenti di un appeal da botto commerciale: In Droves è un vulcano musicale pronto ad eruttare note alternative o il solito lavoro che non andrà più in la di buone recensioni ed un paio di singoli in rete?

Comunque vada, il nuovo disco del trio di San Francisco conosciuto come Black Map, risulta un concentrato di rock che chiunque abbia vissuto (anche superficialmente) gli ultimi trent’anni di musica del diavolo non può non apprezzare.
Rock che trovate sulle radio di tutto il mondo, gustosamente melodico anche se non mancano grintose parte metalliche che avvicinano l’ alternative rock al new metal, contornandolo di graziosi ricami post grunge.
Aggiungete la voce di Ben Flanagan, che segue la corrente e porta la band vicino ai mostri sacri U2, ed avrete un’idea di che tiro commerciale (almeno sulla carta ) può avere In Droves, album sapientemente rivestito di comodi abiti, ultima moda del nuovo millennio.
Con una dose di post rock che fa capolino e mette l’ ombrellino sul cocktail preparato dal gruppo, questa raccolta di brani non manca di affascinare e fin da subito si viene catturati dalle melodie malinconiche, arrabbiate ed intense, di brani scritti per fare immediatamente breccia nei cuori degli alternative rockers.
Quindici brani, cinquanta minuti catturati da melodie e arrangiamenti fatti per imprigionare l’ascoltatore nel mondo patinato, delicato, a tratti aggressivo del rock del nuovo millennio.

TRACKLIST
1.Transit I
2.Run Rabbit Run
3.Foxglove
4.Ruin
5.Heavy Waves
6.Dead Ringer
7.Octavia
8.Transit II
9.No Color
10.Indoor Kid
11.White Fence
12.Just My Luck
13.Cash for the Fears
14.Transit III
15.Coma Phase

LINE-UP
Mark Engles – Guitar
Chris Robyn – Drums
Ben Flanagan – Vox/Bass

BLACK MAP – Facebook

Muro – El Cuarto Jinete

Il trono in Spagna è ancora di quei ragazzi che un giorno a Vallecas portarono musica veloce e che non si sono ancora fermati.

Nuovo disco dalla genesi tormentata per i pionieri spagnoli dell’heavy e speed metal.

I Muro nacquero nel 1981 nel quartiere di Vallecas, patria del Rayo Vallecano e dell’heavy metal, infatti i nostri con l’epico Acero Y Sangre, live album del 1986, fecero sentire uno dei primi prodotti di marca ispanica in campo heavy e speed. Il loro suono da quel tempo non è mutato di una virgola, anzi si è notevolmente potenziato, e i Muro su disco e dal vivo sono una macchina da guerra, di quelle che non fanno prigionieri. Negli anni i duemila si erano sciolti, ma per fortuna nel 2009 vi era stata la riunione della formazione originaria, e da lì le cose sono andate avanti. Nel 2013, con El Cuarto Jinete ultimato, lo storico cantante Silver ha scelto di dividere il suo destino da quello del gruppo, e gli spagnoli hanno preso con loro la validissima cantante Rosa, anche se nel disco la voce è ancora quella di Silver. A parte tutte le vicissitudini rimane la musica e El Cuarto Jinete è un disco molto bello di heavy metal e speeed metal, fatto con estrema passione, con una produzione che riesce a mettere in risalto la classe dei Muro, che anche grazie al loro cantato in spagnolo sono davvero unici. El Cuarto Jinete è una perfetta sintesi di ciò che dovrebbe essere un disco di heavv metal con una fortissima impronta speed, velocità, concretezza ed epicità, ma senza troppa retorica. Dalla prima all’ultima canzone non si vive un momento di calma o di abbassamento dell’elettricità, e i Muro fanno capire che non sono per nulla intenzionati a sparire, ma sono ben presenti anche più di prima, tant’è che sono anche andati in tour in America.
Il trono in Spagna è ancora di quei ragazzi che un giorno a Vallecas portarono musica veloce e che non si sono ancora fermati.

TRACKLIST
1. Apocalipsis 6,2
2. El Cuarto Jinete
3. Otra Batalla
4. Maldito Bastardo
5. Sobrevivir
6. En el Ojo del Huracán
7. La Voz
8. Hermanos de Sangre
9. Honorable
10. Muero por ti
11. Fratricidio
12. Kill the King (Rainbow cover)

LINE-UP
Lapi – Drums
Largo – Guitars
Julito – Bass
Silver – Vocals

MURO – Facebook

Mors Principium Est – Embers Of A Dying World

Magniloquente, aggressivo, malinconico, duro come una spada forgiata e poi lasciata raffreddare tra i ghiacci, affascinante ed atmosferico, questo lavoro mette in guardia tutti sulle frecce che ancora ha nel proprio arco il death melodico.

In Finlandia si continua a creare grande musica estrema, meravigliosamente melodica, oscura e misteriosa, perfettamente in grado di soddisfare gli amanti traditi dalle band che in Svezia questo suono l’hanno inventato.

Torna sul mercato un terzo della triade melodic death che tanti ascoltatori ha fatto innamorare in questi anni, forse la più sfortunata visto i continui cambi in line up, ma sicuramente degna di rappresentare al meglio il fronte melodico estremo scandinavo in questo momento, i Mors Principium Est, insieme ad Insomnium ed Omnium Gatherum alfieri del genere nella terra dei mille laghi.
Nata a cavallo tra il secolo scorso ed il nuovo millennio, la band arriva tramite AFM al sesto full length di una carriera segnata come scritto dai continui cambi di line up, che ne hanno minato l’eccellenza in qualche occasiuone ma che, con Embers Of A Dying World torna a risplendere all’insegna di un melodic death metal scandinavo orchestrato a meraviglia.
Magniloquente, aggressivo, malinconico, duro come una spada forgiata e poi lasciata raffreddare tra i ghiacci, affascinante ed atmosferico, questo lavoro mette in guardia tutti sulle frecce che ancora ha nel proprio arco il genere, e conferma il talento compositivo di questi musicisti cresciuti tra il silenzio delle pianure innevate.
Pura magia estrema, un’epicità che non è quella ignorante dei gruppi alla Manowar, ma si nasconde tra le sfumature di una musica che non ha età, tra tappeti di note orchestrate e metallo fiero, estremo e melodico.
Embers Of A Dying World risulta così uno scrigno di musica estrema sublime, in cui le emozioni sono un abisso dove l’ascoltatore viene spinto per cinquanta minuti, ed in caduta libera sopraffatto da solos che entrano nell’anima, armonie tastieristiche che sfiorando la pelle alzano brividi e fanno lacrimare sangue nero mentre, a tratti, rabbia, frustrazione e metallica ribellione si scrollano di dosso emozioni malinconiche per tornare a far male con ripartenze death metal di matrice svedese.
Death Is The Beginning e The Ghost sono i capolavori ed il cuore dell’opera, bellissime tracce che raccolgono ed accentuano tutte le emozioni che vengono regalate tramite un songwriting ispirato, tra voci femminili, stupende ma mai invadenti, orchestrazioni e la regale furia del death metal.
Embers Of A Dying World è un album intenso e bellissimo, arte scandinava come nella migliore tradizione, impossibile farne a meno.

TRACKLIST
1.Genesis
2.Reclaim the Sun
3.Masquerade
4.Into the dark
5.The Drowning
6.Death Is the Beginning
7.The Ghost
8.In Torment
9.Agnus Dei
10.The Colours Of The Cosmos
11.Apprentice Of Death

LINE-UP
Ville Viljanen – Vocals
Andy Gillion – Guitars
Teemu Heinola – Bass
Mikko Sipola – Drums

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Radio Free Universe – Casa Del Diablo

Casa Del Diablo è consigliato senza riserve ai rockers dai gusti vintage, genere che di questi tempi regala bellissimi lavori come caramelle e dolcetti il giorno di Halloween!

Cosa si suona nella casa del diavolo se non hard rock blues?

Magari come fanno i canadesi Radio Free Universe, che al rock vintage dai rimandi settantiani aggiungono dosi letali di grunge ed alternative così da creare una proposta dall’appeal altissimo e per tutti i gusti.
Ottimo debutto quindi per la band proveniente dal lago Ontario, che dalle frequenze della propria radio riempie l’atmosfera di rock sanguigno con un lotto di canzoni davvero belle e per giunta varie, passando da riff scolpiti sulla roccia scalata da Jimmy Page su The Song Remains The Same, al selvaggio hard rock cantato da Chris Cornell nei primi album dei Soundgarden, senza farci mancare poi atmosfere psichedeliche tipiche degli anni dove comandava la cultura flower power, con sfumature orientaleggianti dal retrogusto acido (Butterfly).
Mixato e masterizzato da Glen Robinson (Voivod) e distribuito dalla Jet Pack, l’album ci accoglie nella casa del diavolo che, passato l’uscio si presenta come un giardino fiorito, un labirinto di musica rock dove ad ogni angolo troviamo le icone della nostra musica preferita intente a riprodurre leggendarie armonie, riprese da una serie di album immortali (Led Zeppelin II, Louder Than Love, Deep Purple In Rock, Southern Harmony And Musical Companion), mentre un buffet di funghi allucinogeni ed insalate di erbe magiche ci aspetta per saziarci e farci perdere tra le stanze e gli anfratti della diabolica casa/giardino.
Ed infatti Magnolia Girl è un blues distorto che ipnotizza, prima che l’atmosfera sixties di The Rest Of Us ci abbandoni tra le sinuose forme di una sacerdotessa hippy, con noi ancora storditi dal riffone di 18 Wheels creato da Page ma suonato da Iommi.
Dirty Little Things è un blues sabbathiano, mentre ci sembra che le armonie acustiche e vocali prese da Led Zeppelin III di Armageddon Road chiudano definitivamente ogni speranza di uscire dall’infernale casa, ma è un attimo ritrovare la strada con le ariose hard rock songs che avvicinano l’album alla conclusione (Rhythm And Bones e Happy)
Esordio più che positivo per la band canadese, Casa Del Diablo è consigliato senza riserve ai rockers dai gusti vintage, genere che di questi tempi regala bellissimi lavori come caramelle e dolcetti il giorno di Halloween!

TRACKLIST
1. American Gun
2. Disclosure
3. 18 Wheels
4. Butterfly
5. DMT
6. Six
7. Magnolia Girl
8. The Rest of Us
9. Dirty Little Things
10. Rhythm and Bones
11. Happy
12. Armageddon Road

LINE-UP
George Panagopoulos – Vocalist, lyricist
Ryan DavieBackup – Vocalist, guitarist
Ashton Norman – Drums
Adam Neumann – Backing vocals, bass

RADIO FREE UNIVERSE – Facebook

Ever Circling Wolves – Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom

Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.

Gli Ever Circling Wolves arrivano da Helsinki e, quindi, la loro provenienza costituisce una sorta di marchio di qualità quando si parla di death doom dalle inclinazioni melodiche.

Nonostante ciò, le presumibili forti influenze di Swallow The Sum e co. non si fanno sentire più di tanto, perché i nostri prediligono un approccio piuttosto particolare, affidandosi per lo più ad un riffing secco e ritmato e rinunciando sostanzialmente all’apporto delle tastiere. Anche per questo il lavoro, cosi come il sound della band, appare saltellante e talvolta dispersivo ad un primo ascolto: non a caso il meglio lo si percepisce proprio negli episodi più convenzionali, quelli in cui il sound rallenta lasciandosi guidare dalle melodie chitarristiche.
Emblematica in tal senso è la traccia finale These Are Ashes, These Are Roots, perfetta esibizione di death doom dolente e malinconico, ma tutto questo non deve far pensare che il resto del lavoro sia trascurabile: semplicemente Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.
L’operazione riesce piuttosto bene, visto che il death doom del gruppo di Helsinki, screziato da intriganti sfumature sludge (Haunted) e post metal (Challenger Deep), convince non poco a lungo andare, anche se poi sono comunque gli episodi più “classici” a risaltare per il loro carico melodico ed emotivo (assieme alla già citata These Are Ashes, These Are Roots, va segnalata anche In The Trench).
Molto interessante anche una canzone come Lenore,dallo sviluppo particolare visto che, dopo una metà fatta di un riffing abbastanza compatto si apre in una parte corale in stile Novembers Doom, per poi defluire in un bel crescendo di chiatarra, elettrica prima ed acustica infine.
L’album ha avuto una gestazione lunga, dato che parte dei brani trova la sua genesi all’inizio del decennio, subito dopo l’uscita del full length d’esordio The Silence From Your Room, e questo fa pensare che i diversi rivoli stilistici rinvenibili nel lavoro siano dovuti all’inevitabile trascorrere del tempo, oltre che all’evolversi come musicisti da parte di Otto Forsberg ed Henri Harell.
In definitiva, Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom è un buonissimo disco (oltre che un bel titolo), che necessità però di qualche ascolto in più rispetto al dovuto per coglierne l’essenza e, magari, imparare davvero come smettere di preoccuparsi, accettando il lato oscuro dell’esistenza …

Tracklist:
1. Sunrise Has Gone
2. Coeur
3. Haunted
4. In The Trench
5. Challenger Deep
6. Deeper
7. Lenore
8. Ibn Qirtaiba
9. These Are Ashes, These Are Roots

Line up:
Otto Forsberg – Guitar
Henri Harell – Guitar, Vocals
Niko Karjalainen – Drums
Sami Nevala – Bass

EVER CIRCLING WOLVES – Facebook

Within The Ruins – Halfway Human

Halfway Human si piazza nelle migliori uscite di questo inizio anno per quanto riguarda il deathcore e, in tempi di dischi tutti uguali, non possiamo che fare i complimenti ai quattro musicisti americani.

E’ superfluo continuare a scrivere che il metal estremo moderno dai rimandi core ha tirato la corda: si sa che, quando un genere crea interesse nei fans, la scena stessa viene invasa da centinaia di gruppi che provano a cavalcare l’onda; molte falliscono miseramente ma altre, pur non arrivando al successo, si creano un loro seguito continuando a sfornare album meritevoli d’attenzione.

Un esempio ne sono gli statunitensi Within The Ruins, quartetto proveniente dal Massachusetts, che l’anno scorso ha festeggiato i dieci anni di attività e con questo nuovo lavoro a rimpinguare una già folta discografia.
Siamo al quinto album infatti, lanciato sul mercato tre anni di distanza dal precedente Phenomena, non male di questi tempi se aggiungiamo i due ep usciti ad inizio carriera, con la band non ancora stanca di devastare i padiglioni auricolari dei giovani metallers dai gusti moderni con la loro proposta violentissima, oscura ma dal gusto particolare nel saper far convivere ritmiche sincopate e stop and go tipici del genere, grazie ad un lavoro chitarristico raffinato e progressivo (sempre in un contesto estremo) e con quei piccoli dettagli nel songwriting che fanno la differenza sulla massa.
Non fraintendetemi, Halfway Human non è un lavoro che spicca in originalità anzi, il suo percorso stilistico è un approdo del gruppo al massimo che il genere può dare in termini qualitativi, ma è indubbia l’abilità dei nostri nel saper incastrare i tasselli del loro puzzle musicale al posto giusto, rendendo l’album scorrevole e violentemente piacevole all’ascolto.
D’altronde, viene difficile pensare che un gruppo di origine americana possa toppare in quello che ha insegnato in tutto il mondo, suonare death metal contaminandolo con l’hardcore e l’industrial.
Detto di un uso delle due voci molto ben congegnato e di un lavoro chitarristico sopra la media, lasciate che il gruppo vi investa con il suo carro armato che, senza tregua, lancia bordate come l’opener Shape-Shifter, Bittersweet, Absolution e la melodic death oriented Ataxia No.4, brano strumentale da applausi.
Halfway Human si piazza nelle migliori uscite di questo inizio anno per quanto riguarda il deathcore e, in tempi di dischi tutti uguali, non possiamo che fare i complimenti ai quattro musicisti americani.

TRACKLIST
1.Shape Shifter
2.Death of the Rock Star
3.Beautiful Agony
4.Incomplete Harmony
5.Bittersweet
6.Objetive Reality
7.Absolution
8.Ivory Tower
9.Sky Splitter
10.Ataxia IV
11.Treadstone

LINE-UP
Tim Goergen – Vocals
Joe Cocchi – Guitar
Paolo Galang – Bass
Kevin “Drummer” McGuill – Drums

WITHIN THE RUINS – Facebook

Förgjord – Uhripuu

Uhripuu è un gran disco, senza compromessi e con ottime melodie, ed è un’opera da non lasciarsi assolutamente scappare.

Terzo album per i Förgjord , leggendario gruppo finnico attivo da metà degli anni novanta.

Formati in concomitanza con l’epoca aurea del black, i Förgjord sono un gruppo che ha prodotto poco ma tutto di estrema qualità. Il loro suono è un black classico molto devoto alla tradizione finnica del genere, quindi assai fedele al passato ma molto efficace. La loro caratteristica principale è quella di saper creare un pathos notevole, riuscendo a scolpire nella mente dell’ascoltatore melodie ben precise, sotterrate sotto tonnellate di riffs e distorsioni. La voce è un growl senza tregua, con la chitarra perfettamente distorta in stile black e la batteria costantemente all’assalto. In generale il suono non è molto dissimile da quello di molte altre band, ma è profondamente diverso il risultato, essendo davvero notevole l’empatia che riescono a scatenare. Black metal in giro ce n’è molto ma difficilmente riesce a raggiungere queste vette, coinvolgendo totalmente e direttamente, portandoci in un nero vortice di ossa e neve. La scuola finlandese, ed in particolare le uscite della Werewolf Records, qui in collaborazione con la Hells Headbangers, è di grande interesse, e ultimamente sta continuando a tenere elevata la qualità delle sue uscite, confermando la Finlandia come una delle terre promesse, o maledette, del metal, e del black in particolare. Uhripuu è un gran disco, senza compromessi e con ottime melodie, ed è un’opera da non lasciarsi assolutamente scappare.

TRACKLIST
1.Johdanto
2.Uhripuu
3.Kuolleiden Yö
4.Täyttymys
5.Vahvempi Kuin Koskaan
6.Nälkämaan Laulu
7.Kiviseen Syleilyyn
8.Tie, Totuus Ja Kuolema
9.Ovat Korpit Pois Lentäneet

LINE-UP
Valgrinder – Guitars, Bass
Prokrustes Thanatos – Vocals, Drums
BLK – Drums

FÖRGJORD – Facebook

Angel Martyr – Black Book: Chapter One

Chapter One è consigliato ai defenders dai gusti tradizionali, che troveranno di che crogiolarsi tra le cavalcate fiere ed epiche create dal trio toscano.

Debutto sulla lunga distanza per gli speed/power metallers Angel Martyr, trio toscano che porta, tramite Iron Shield, una ventata di metallo classico, old school, fiero ed epico il giusto per inorgoglire i defenders di lunga data.

Il gruppo nasce dalle ceneri dei Wraith’sing, band attiva già dal 2006 dopo quattro anni di attività, purtroppo sempre condizionato dai numerosi cambi di line up: il trio dal nuovo monicker trova stabilità nel corso degli anni con il sempre presente Tiziano “Hammerhead” Sbaragli (ex Etrusgrave), chitarra e voce, il bassista Dario “Destroyer Rostix” Rosteni ed il batterista Francesco Taddei.
Black Book: Chapter One, segue di due anni l’ep Black Tales – Prelude e continua a raccontare di battaglie epiche e storie fantasy, mentre l’heavy metal ottantiano si potenzia di energia power e velocità speed, a tratti sostenuta anche se non mancano mid tempo e cavalcate di matrice maideniana.
Trame acustiche spezzano l’assalto sonoro ed il clima da battaglia delle canzoni, che portano con se tutta la fierezza del metal classico.
Il sound prodotto dal gruppo, che nell’album raggiunge l’apice nelle notevoli Eric The Conqueror e On The Divine Battlefield (che ricorda con il suo flavour scozzese le atmosfere di Tunes Of War, capolavoro dei Grave Digger), è di fatto un esempio di new wave of british heavy metal, dove non poca importanza hanno gli insegnamenti del maestro Steve Harris riletti in versione speed/power, quindi si sprecano tra lo spartito veloci cavalcate, ritmiche sparate, mid tempo di orgoglioso metallo pesante e tutta la serie di ingredienti per fare di un album heavy metal un manifesto di epica fierezza.
Iron Maiden, power metal di scuola tedesca, accenni all’epic metal classico e tanta attitudine e passione: se vi considerate veri defenders, Black Book: Chapter One è l’opera metallica che fa per voi.

TRACKLIST
1. Obsequies
2. They. … Among Us
3. Victims
4. Eric The Conqueror
5. Midnight Traveller
6. Turn On The Fire
7. Pirate Song
8. On The Divine Battlefield
9. Angel Martyr

LINE-UP
Francesco Taddei – drums
Dario Rosteni – bass
Tiziano Sbaragli – vocals, guitars

ANGEL MARTYR – Facebook

Vatican – March Of The Kings

March Of The Kings si rivela uno dei migliori motivi per amare ancora l’heavy metal di stampo classico.

La missione della Pure Steel Records nel riproporre gruppi nati negli anni ottanta e poi persi nei meandri dell’underground continua con il trio dei Vatican.

Come molte realtà portate all’attenzione dei fans del metal old school dalla label tedesca, il gruppo di Cleveland iniziò la sua attività proprio a metà degli anni d’oro per il metal classico, sia in Europa che nel nuovo continente, incidendo quattro demo tra il 1986 ed il 1990.
Poi il lungo letargo fino al 2014, anno del ritorno sul mercato con una compilation che serviva da preludio al nuovo album e prima vera prova sulla lunga distanza.
La line up vede il chitarrista Vince Vatican affiancato dal bassista e cantante Brain Mcnasty e dal batterista Vic Gribouski, così che March Of The Kings può sicuramente essere considerato un nuovo principio per le sorti metalliche dei Vatican, i quali risultano una più che ottima band di heavy metal dai rimandi classici, tra tradizione statunitense ed heavy britannico.
Tra queste due anime si sviluppa il sound del gruppo, con  il metal europeo che si unisce al power americano, facendone uscire dieci esplosivi brani dove il leader fa faville con la sei corde, ed il cantante passa con disinvoltura tra timbrica halfordiana e aggressività metallica.
Quaranta minuti circa ottimamente sfruttati, tanto che l’album non vede tregue qualitative, con una manciata di gioielli che alzano il livello di un lavoro suonato con la dovuta esperienza, magari con qualche soluzione di maniera frutto appunto della lunga militanza dei protagonisti sulla scena, ma perfetti per non perdere la bussola e mantenere l’attenzione dell’ascoltatore,
E così tra solos sferzanti, mid tempo dal taglio epico e tanta aggressività, le varie Alive To The Grave, Mean Steak e Waysted  continuano la tradizione dell’heavy metal classico, per i defenders con qualche anno in più sul groppone, ma anche per i giovani dal cuore d’acciaio.
Un buon ritorno, dunque, per il trio americano: March Of The Kings si rivela uno dei migliori motivi per amare ancora l’heavy metal di stampo classico.

TRACKLIST
1. Alive To The Grave
2. Deadly Wind
3. Running
4. Mean Streak
5. Falling From Grace
6. Waysted
7. Fears Garden
8. Die A Heart Attack
9. Corruption
10. Opus #9

LINE-UP
Brain McNasty – vocals, bass
Vince Vatican – guitars
Vic Gribouski – drums

VATICAN – Facebook

Soundscapism Inc. – Desolate Angels

Tra ambient e post rock, il disco dei Soundscapism Inc. si snoda apparentemente lieve e e delicato, entrando però subdolamente sotto pelle dopo qualche ascolto

Secondo lavoro targato Soundscapism Inc., attuale progetto di Bruno A., noto por il suo operato nel recente passato con gli ottimi Vertigo Steps

Chiusa, pare definitivamente, l’avventura in coppia con il vocalist finlandese Niko Mankinen, il musicista lusitano prosegue quindi sulla strada tracciata con l’album d‘esordio, all’insegna di un sound intimista e quasi del tutto scevro di pulsioni rock, in ossequio ad un monicker che rappresenta una chiara manifestazione di intenti.
Desolate Angels è una raccolta di brani per lo più carezzevoli, intrisi di una malinconia contemplativa, che solo di rado subisce qualche strappo, come avviene per esempio in Supernovas After Fever Pitch, canzone molto bella ed orecchiabile (accompagnata da un video) della quale però non condivido la scelta di filtrare la voce di Flavio Silva.
Proprio il cantante dei Left Sun presta la sua ugola educata a tre brani dell’album, mentre in altri casi per la prima volta è lo stesso Bruno a cimentarsi come cantante, con discreti risultati anche se, come spesso avviene in questi casi, il contributo vocale è del tutto funzionale ed asservito al contenuto musicale.
Tra ambient e post rock, il disco dei Soundscapism Inc. si snoda apparentemente lieve e e delicato, entrando però subdolamente sotto pelle dopo qualche ascolto, non potendo fare a meno di apprezzare in toto la qualità che in Desolate Angels viene esibita quasi con ritrosia.
Nonostante la mia parziale idiosincrasia per i lavoro di natura esclusivamente strumentale, andrò contro le mie opinioni affermando che, in questo caso, prediligo i brani che non prevedono un contributo vocale, se non quello occasionale di spoken word (Quintessence) , proprio perché musicalmente Bruno dà il meglio nelle parti più rarefatte, ai confini dell’ambient, potendo esibire al meglio un raffinato gusto melodico, ben esaltato da un eccellente tocco chitarristico e da una produzione cristallina (emblematici in tal senso i tre frammenti intitolati Zwischenspiel – in tedesco “interludio”).
Detto questo, resta il dato certo che la voce del bravo Silva non guasta affatto nelle bellissime Evening Lights, e February North, e lo stesso vale per quella di Bruno nella title track e nella conclusiva Sleep Arrives Under Your Wings.
Desolate Angels si rivela, come auspicato in sede di commento dell’album d’esordio, una naturale evoluzione volta al raggiungimento degli obiettivi perseguiti dal musicista portoghese (oggi di stanza a Berlino), tra i quali l’ideale rappresentazione di scenari sonori in grado di evocare visioni che travalicano le normali percezioni sensoriali e delle quali le splendide immagini presenti nel booklet sono una possibile chiave di lettura (non poco inquietante l’immagine della carcassa dell’aereo che campeggia anche sulla copertina del singolo).
La strada intrapresa è senz’altro quella giusta e non è azzardato immaginare un futuro foriero di ulteriori interessanti sviluppi.

Tracklist:
1.Evening Lights
2.Supernovas At Fever Pitch
3.The Mourning After pt II
4.Zwischenspiel I
5.Desolate Angels
6.Man In The Glass
7.Zwischenspiel II
8.February North
9.Quintessence
10.Low-Fi Man, Hi-Tech World
11.Zwischenspiel III
12.Desolate Angels (reprise)
13.Sleep Arrives Under Your Wings

Line-up:
Bruno A. – all instruments, vocals
Flávio Silva (vocals) on Evening Lights, Supernovas at Fever Pitch and February North.

SOUNDSCAPISM INC. – Facebook

Chrome Molly – Hoodoo Voodoo

Hoodoo Voodoo supera il buon predecessore e la band, ritrovando un minimo di continuità, imprime al sound del disco nuovo smalto e freschezza così che l’ascolto risulta fluido e l’hard’n’heavy della band si riveste di ottime melodie e di un’aggressività degna di giovincelli.

Direttamente dagli anni ottanta arrivano i Chrome Molly, gruppo inglese ai margini del successo ma valido a livello qualitativo, con il proprio sound che ha sempre mantenuto la giusta via di mezzo tra la new wave of british heavy metal e l’hard rock di scuola britannica.

Il gruppo di Leicester ha attraversato gli anni ottanta con lavori che lo portarono a dividere il palco con nomi altisonanti della scuola metallica come Alice Cooper e Ozzy Osbourne, ma non trovò mai il successo fuori dalla scena metallica rimanendo il classico gruppo conosciuto dagli amanti del genere.
Eppure la loro musica rimane anche oggi un buon ibrido tra aggressività dell’heavy metal e la grinta hard rock che richiama la fine degli anni settanta e i lavori dell’epoca di Uriah Heep (a tratti) e UFO.
I Chrome Molly andarono in letargo all’alba degli anni novanta, per tornare dopo ventitré anni (nel 2013) con un nuovo album, il discreto Gunpowder Diplomacy: Hoodoo Voodoo supera il buon predecessore e la band, ritrovando un minimo di continuità, imprime al sound del disco nuovo smalto e freschezza così che l’ascolto risulta fluido e l’hard’n’heavy della band si riveste di ottime melodie e di un’aggressività degna di giovincelli.
La musica condensata in questo lavoro rimane ancorata ai canoni del genere, le varie tracce formano un best of dell’hard & heavy di scuola britannica, con Steve Hawkins a dispensare consigli ai giovani vocalist in procinto di dedicarsi al classic metal, chitarre che graffiano da par loro ed una manciata di brani di alta scuola.
Un accenno ai sempre presente Iron Maiden, specialmente nei solos che prendono fuoco sotto le dita di John Foottit e Sam Flint, e tanto hard rock irresistibilmente britannico, con almeno una manciata di brani dall’alto voltaggio (Can’t Be Afraid of the Dark, Pillars Of Creation (Albion) e Rock For You) ed uno sguardo aldilà dell’oceano con la ballad di frontiera Now That Those Days Have Gone.
In conclusione, un ottimo album ed una band da riscoprire, specialmente se gli anta li avete superati da un po’ e nel genere avete lasciato un pezzo del vostro cuore.

TRACKLIST
01. In The Beginning
02. Can’t Be Afraid Of The Dark
03. Some Kind Of Voodoo
04. Pillars Of Creation (Albion)
05. Now That Those Days Have Gone
06. Indestructible
07. Save Me
08. Rock For You
09. Feeling Pressurised
10. Dial ‘F’ For Freakshow

LINE-UP
Steve Hawkins – voce
John Foottit – chitarra
Sam Flint – chitarra
Nick Wastell – basso
Greg Ellis – batteria

CHROME MOLLY – Facebook

Disharmony – Goddamn the Sun

Lo stile dei Disharmony fa riferimento alla vecchia scuola del black ellenico, fortemente legata all’aspetto epico sia del suono che dei testi.

Finalmente arriva il tempo del debutto per i Disharmony, gruppo greco di black metal sinfonico. Formati nel 1991, si sciolsero nel 1995 producendo tre demo ed un ep di culto sulla label Molon Lave, per poi riprendere recentemente le attività, culminate in questo disco.

Lo stile dei Disharmony fa riferimento alla vecchia scuola del black ellenico, fortemente legata all’aspetto epico sia del suono che dei testi. La forza dei Disharmony sta nella loro capacità di fondere molte cose diverse all’interno del loro suono, dagli elementi più vicini al suono classico del symphonic black metal, a cose più minimali e quasi recitate. Infatti si ha la netta impressione che questo disco sia come un atto teatrale, che parte da lontano per arrivare fino a noi. Il disco è pieno di pathos, di forza narrativa, e di immagini mentali molto forti. Il tortuoso cammino gruppo di questo gruppo rassomiglia al percorso di un fiume sotterraneo che ha finalmente trovato il modo di sgorgare in superficie sfogando tutta la sua potenza. Il disco è molto particolare e va approcciato con una mente aperta per poterlo apprezzare in tutta la sua ricchezza, che è molto grande e particolare. I Disharmony non sono affatto un gruppo comune e lo dimostrano con questo disco, che è al di sopra della media, e può essere considerato un nuovo inizio per loro. Le soluzioni sono molteplici per tutta la durata del disco, non facendo mai annoiare l’ascoltatore, introducendo anche qualche elemento di novità nel genere, a volte piuttosto stantio. Un lavoro epico, e forte, che narra di un mondo che non è il nostro, tutto da scoprire.

TRACKLIST
1. Invocation – Troops Of Angels
2. The Gates Of Elthon
3. Elochim
4. Summon The Legions
5. War In Heaven
6. Rape The Sun
7. Praise The Fallen
8. Whore Of Babylon
9. The Voice Divine
10. Third Resurrection

DISHARMONY – Facebook

Stamina – System Of Power

System Of Power è un altro centro pieno, meritevole di una maggiore attenzione, confermando gli Stamina come una delle migliori realtà nostrane nel genere.

Tornano i Royal Hunt Italiani, i campani Stamina, con un nuovo ottimo lavoro sempre incentrato su un power prog metal che si rifà ai maestri danesi, anche se non manca sicuramente al gruppo la personalità per trovare una propria dimensione.

D’altronde System Of Power è ormai il quarto full length , successore del bellissimo Perseverance uscito tre anni fa, e che vede un cantante in pianta stabile nella persona di Alessandro Granato, un nuovo bassista, Mario Urcioli, ed un session per la batteria, Andrea Stipa, tutti a girare intorno al duo storico formato dal chitarrista Luca Sellitto e dal tastierista Andrea Barone.
La band si presenta così con un album più aggressivo rispetto al passato, certo i cori alla Royal Hunt e le fughe tastieristiche fanno parte del sound ormai consolidato del gruppo che elegantemente disegna arabeschi di musica elegantemente progressiva, con la sei corde che spinge sulla parte neoclassica in molti frangenti dell’ album, accompagnando i tasti d’avorio in ghirigori barocchi, ma colpendo d’incanto l’ascoltatore con ritmiche ruvide e dai rimandi thrash.
Il tutto lascia sempre quell’alone di nobiltà insito nella musica della band, che gioca con l’AOR ed il power a suo piacimento tra le note magniloquenti di un lotto di brani entusiasmanti.
La prova del nuovo vocalist è da applausi, così come per tutti i protagonisti, ma per una volta (anche se il genere lo impone) lasciamo che sia la musica magnificamente regale del gruppo campano a parlare, con i suoi quarantacinque minuti di fughe tastieristiche e cori dal talento melodico neanche troppo distante dalle fonti di ispirazione del gruppo, così come il songwriting che fa risplendere perle musicali come Must Be Blind, One In A Million, Love Was Never Meant To Be e l’irresistibile Why, brano Royal Hunt fino al midollo, ma stupendo esempio dell’eleganza e raffinatezza del metal suonato dagli Stamina.
System Of Power è un altro centro pieno, meritevole di una maggiore attenzione, confermando gli Stamina come una delle migliori realtà nostrane nel genere.

TRACKLIST
1.Holding On
2.Must Be Blind
3.One In A Million
4.Undergo (Black Moon Pt.2)
5.Love Was Never Meant To Be
6.System Of Power
7.Why
8.Portrait Of Beauty

LINE-UP
Alessandro Granato – vocals
Luca Sellitto – guitars
Andrea Barone – keyboards
Mario “Uryo” Urciuoli – bass

Andrea Stipa – drums
Jacopo Di Domenico – backing vocals
Donata Greco – flute
Giulia Silveri – cello

STAMINA – Facebook

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