Kingfisher – The Greyout

Un ottimo esordio per una band più che promettente

I Kingfisher, formazione a cinque dove a farsi notare fin da subito è la presenza di tre bassisti, vengono dalla Lombardia e debuttano, dopo l’ep del 2014 con gli undici brani di The Greyout. Il lavoro, folle punto di incontro fra alternative metal, alternative rock e stoner, esplode nei timpani con la forza di mille granate, grazie anche all’ottimo lavoro di Andrea Cajelli in sala di registrazione e di Giulio Ragno Favero per quanto riguarda il processo di mastering.

La partenza bruciante e fulminante di Red Circle, correndo sui colpi di batteria e basso, scalcia con energia, introducendo l’altrettanto fiammante Sentient (intrigante il cuore leggermente più scuro e pacato) e le influenze stoner, dirottate su terreni estremamente metal, di Worm Tongue (bassi e batterie feroci come mitragliatrici).
L’aggressività iniziale di The Greyout, sviluppandosi poi su melodie più strutturate (ma non rinunciando a scalciare come un cavallo pazzo), lascia che a seguire siano i pugni nello stomaco sferrati da Even In Decay (provate a non essere rasi al suolo dalla forza d’impatto della seconda parte) e la breve strumentale Oneiric (decisamente più pacata, contenuta e delicata).
A ritornare a far ruggire i bassi ci pensa Eleven che, affidandosi ad architetture più complesse e cerebrali, rallenta i tempi e si tuffa in sonorità a metà fra stoner e southern metal.
Bizarre, infine, precipitando in complessi incastri di batteria e bassi, cede il compito di chiudere allo sfrecciare di Scent Of Reckoning, all’assalto sonoro dell’altrettanto distruttiva Relentless e all’ipnotico concludere della più distesa, melodica e matematica Mandala.

Il debutto dei Kingfisher, granitico, compatto e carico di energia, colpisce per la sua forza d’impatto, per il suo suono e per la sua intensità. Gli undici brani presentati, infatti, quasi non lasciando la possibilità di tirare il fiato nemmeno per un secondo, si susseguono, tirati, come ordigni esplosivi sempre pronti a brillare. A rovinare un pochino l’entusiasmo è la troppa omogeneità dei brani, ma, tolto questo difetto, tutto fila decisamente liscio. Un ottimo esordio per una band più che promettente.

TRACKLIST
01. Red Circle
02. Sentient
03. Worm Tongue
04. The Greyout
05. Even In Decay
06. Oneiric
07. Eleven
08. Bizarre
09. Scent Of Reckoning
10. Relentless
11. Mandala

LINE-UP
Davide Scodeggio
Alessandro Croci
Emanuele Nebuloni
Renato Di Bonito
Matteo Barca

KINGFISHER – Facebook

Holocaust – Predator

Predator ha nelle sue virtù, quella di non apparire come una mera operazione nostalgica, ma un lavoro di un gruppo di ottima qualità al quale il passare del tempo non ha scalfito, grinta e talento compositivo.

La New Wave Of British Heavy Metal viene ricordata sistematicamente,quando si parla delle solite band, conosciute più o meno anche da chi il genere lo mastica molto superficialmente, eppure intorno ad esse sono cresciute parecchie realtà che hanno regalato album storici, anche se magari diventati esclusiva solo per i true metallers, in questo caso più attempati.

I britannici Holocaust, possono essere considerati uno dei gruppi outsiders di maggiore qualità, nati in Gran Bretagna e di base in Scozia, il gruppo di Edimburgo esordì nel 1980 e può vantare una nutrita discografia che vede otto album ed una marea di ep e compilatiom.
Predator, licenziato dall’etichetta greca Sleaszy Rider Records , segue l’ultimo album inedito (Primal) di ben dodici anni, mentre la line up, vede lo storico axeman John Mortimer, unico superstite degli anni d’oro, affiancato da Mark McGrath (basso e voce) e da Scott Wallace alle pelli.
Un terzetto di musicisti tecnicamente ineccepibili, che giocano con l’heavy metal old school, valorizzandolo con sfumature progressive e attitudine settantiana, che si respira a pieni polmoni in questo concentrato di hard & heavy potente e melodico.
Sicuramente non conosciuta come i vari Iron Maiden e Saxon, la band si è guadagnata il rispetto di molti gruppi famosi, con vari brani coverizzati da nomi del calibro di Metallica e Gamma Ray, questo per ribadire di che pasta sono fatti i nostri tre heavy metallers scozzesi.
Predator conferma l’alta qualità della musica degli Holocaust, con un lotto di brani agguerriti, potenti, grintosi, sempre con quella nebbiolina progressiva che si poggia sulle tracce, come la brina mattutina nell’umido e piovosi Regno Unito, colpevole poi di rendere le songs varie e coinvolgenti.
Ottima la prova del vecchio chitarrista, con quel tocco old school nei riff che, per un amante del genere è vera goduria, e bella tosta la sezione ritmica che aggiunge un pizzico di groove alle ritmiche, una piccola concessione alla modernità che basta a Predator per non risultare troppo nostalgico.
Molto Thin Lizzy il sound del terzetto, ha nell’approccio diretto, ma sempre raffinato e tecnicamente sopra le righe il punto di forza di brani, a tratti splendidamente hard rock come Expander, Can’t Go Wrong with You, mentre Shiva avvicina la band al doom sabbatiano, e Revival è un massacro metallico dal groove micidiale.
Predator ha nelle sue virtù, quella di non apparire come una mera operazione nostalgica, ma un lavoro di un gruppo di ottima qualità al quale il passare del tempo non ha scalfito, grinta e talento compositivo.
Se non conoscete il gruppo di John Mortimer, potete iniziare da questo ottimo album, che può tranquillamente stare al fianco dei dischi storici del gruppo scozzese.

TRACKLIST
1. Predator
2. Expander
3. Can’t Go Wrong With You
4. Lady Babalon
5. Observer One
6. Shiva
7. Shine Out
8. Revival
9. What I Live For

LINE-UP
John Mortimer – guitars and vocals
Marc McGrath – bass
Scott Wallace – drums

HOLOCAUST – Facebook

Tarchon Fist – Celebration

Per tutta la durata dell’album vi troverete al cospetto di musica fieramente metallica e di prim’ordine, devota alla scena tedesca in primis, ma che non dimentica chi il genere lo ha inventato all’alba del decennio ottantiano sull’isola britannica.

Heavy metal, molte volte il solo pronunciarlo per molti è sinonimo di ignoranza, qualcuno addirittura lo dà per morto da anni, figuriamoci ora; la scomparsa in pochi anni di una manciata di icone del genere, da Ronnie James Dio a Lemmy, tanto per fare due esempi, hanno scatenato chi alla qualità ha sempre messo davanti l’appeal commerciale, sempre alla ricerca della band da un milione di dollari, di chi dovrebbe riempire gli stadi di fans o vendere migliaia di copie, tra dischi e riviste: un problema per loro, non per chi ama il genere.

L’heavy metal classico dopo i rigurgiti di metà anni novanta è tornato nell’underground, ed è qui che nutrendosi di realtà entusiasmanti come, per esempio, gli italianissimi Tarchon Fist, riacquista forza per tornare quando meno te lo aspetti sulla bocca di chi, un anno prima storceva, il naso al solo sentire nominare la parola heavy davanti a metal.
Ok tolto il dente, vi presento per chi ancora non la conoscesse questa band bolognese, che dell’heavy metal fuso nelle fiamme del monte fato fa la sua religione, già da una decina d’anni in giro a far danni ed incendiare palchi in giro per la vecchia Europa ed ora, con il supporto della Pure Steel, label tedesca ormai punto di riferimento per il metal classico, pronta a far esplodere Celebration, quarto full length che segue Heavy Metal Black Force di due anni fa e, oltre a qualche uscita minore i primi due lavori, l’omonimo debutto del 2008 e Fighters del 2009.
Celebration ha tutte le carte in regola per piacere e tanto ai true defenders, chorus irresistibili, solos taglienti come rasoi, vocals da manuale, ed un songwriting in stato di grazia,ne fanno un lavoro tremendamente coinvolgente, dallo spirito molto live, una raccolta di brani da urlare in faccia a chi vorrebbe il genere passeggiare per i campi elisi.
Senza fronzoli e dritti al punto i Tarchon Fist sparano la title track in apertura, spettacolari linee melodiche accompagnato Mirco “RAMON” Ramondo, singer di razza, nella sue corde vocali c’è tanto di Dickinson come di Ralph Scheepers, insomma due dei cinque migliori vocalist del genere.
Scheepers mi porta ai Primal Fear, indubbiamente la band più vicina ai nostri, anche se i Tarchon Fist usano molto ed in modo perfetto chorus di ispirazione power metal, così da richiamare i Gamma Ray dei primi dischi, dove il cantante tedesco impazzava, valorizzando la musica di quel geniaccio di Hansen.
Per tutta la durata dell’album vi troverete al cospetto di musica fieramente metallica e di primordine, devota alla scena tedesca in primis, ma che non dimentica chi il genere lo ha inventato all’alba del decennio ottantiano sull’isola britannica.
Nessun riempitivo, solo grande musica heavy che ha dei picchi qualitativi altissimi in brani dall’elevata elettricità come The Game Is Over, It’s My World, Metal Detector, il fiero ed epico inno metallico We Are The Legion e Still In Vice.
La ballatona d’ordinanza (Blessing Rain) conclude il lavoro, che risulta compatto e duro come l’acciaio, un monumento all’heavy metal che non deve sfuggire agli appassionati a cui va il mio consiglio spassionato di non perdersi un album così ben fatto.
Se vi capitano a tiro non perdeteli dal vivo, qualcosa mi dice che fanno sfracelli, Stay Metal!!

TRACKLIST
1. Celebration
2. Victims Of The Nations
3. Eyes Of Wolf
4. The Game Is Over
5. Fighters
6. It’s My World
7. Thunderbolt
8. Metal Detector
9. We Are The Legion
10. Ancient Sign Of The Pirates
11. Still In Vice
12. Blessing Rain
13. The Game Is Over (reprise)

LINE-UP
Mirco “RAMON” Ramondo – vocals
Luciano “LVCIO” Tattini – guitars, back vocals
Sergio “RIX” Rizzo – guitars, back vocals
Marco “WALLACE” Pazzini – bass, back vocals
Andrea “ANIMAL” Bernabeo – drums

TARCHON FIST – Facebook

Morgengruss – Morgengruss

Marco Paddeu centra perfettamente il bersaglio dando vita ad un disco clamoroso, denso ed etereo allo stesso momento, forte nella sua cristallina leggerezza, acido nella semplicità di slegare la chimica delle cose e dei suoni, e bello come un raggio del sole che bacia senza scottare.

In un giardino vicino al mare, un petalo ricade sul selciato dopo essere stato trasportato dal vento, il mare sussurra una litania mentre il resto è immoto, fuori dalla calca.

Questa è solo una delle immagini che evoca questo disco, un gioiello di lentezza e ricercatezza, di labor limae e di perfetto equilibrio fra tutti gli elementi. Morgengruss ricorda molto Warren Ellis, ma è ancora più ispirato e potente in alcune sue immagini, concependo un disco abbagliante nel suo sole soffuso, nel suo vivere di immagini riflesse e di tocchi leggeri di una madre preoccupata, mani sulle spalle di amanti già lontani. Raramente si ascolta musica che tocca così dentro. Morgengruss bisogna ascoltarlo non al massimo del volume, ma secondo quello che vuole il nostro orecchio.
Morgengruss è musica che scorre respirando insieme ai nostri polmoni, e nel mondo fisico risponde al nome di Marco Paddeu, anche in Demetra Sine Die e Sepulcrum, di cui presto uscirà il disco di debutto. Marco centra perfettamente il bersaglio dando vita ad un disco clamoroso, denso ed etereo allo stesso momento, forte nella sua cristallina leggerezza, acido nella semplicità di slegare la chimica delle cose e dei suoni, e bello come un raggio del sole che bacia senza scottare.
Registrato e mixato da Emi Cioncoloni al El Fish Studio di Genova, la fotografia e gli interni sono curati da Alison Scarpulla, fotografa americana già con Wolves In The Throne Room ed altri. Di questo capolavoro verranno pubblicate 100 copie in vinile trasparente e 200 copie in vinile nero.

TRACKLIST
1.Father Sun
2.To an isle in the water
3.River’s call
4.Apparent motion
5.Like waves under the skin
6.Vena
7.Hope

LINE-UP
Marco Paddeu

MORGENGRUSS – Facebook

Flegethon – Cry of the Ice Wolves III

Chi predilige l’ambient nelle sue sembianze più oscure potrebbe gradire non poco.

Flegethon è un nome che agita la scena russe del doom più estremo fin dall’inizio del secolo e Cry of the Ice Wolves III è addirittura il nono full length uscito sotto questo marchio.

Nata come duo, dopo l’uscita di De’Meon dal 2003 la band è di fatto un progetto solista guidato da Oden. L’album preso in esame costituisce la terza ed ultima parte del concept formato dal brano omonimo presente nell’album d’esordio The Last Stage of Depression e dall’altro lavoro su lunga distanza, Cry of the Ice Wolves II del 2007.
Rispetto all’ambient drone piuttosto tetragono di quell’opera passato, Oden in quest’occasione lascia spazio a spiragli di melodia che accompagnano piacevolmente la monotraccia fino al suo epilogo: i suoni appaiono molto più curati ed il soffocante senso di minaccia dell’episodio II viene rimpiazzato da un’irrequietezza che monta lentamente ed inesorabile come una marea.
Grazie a ciò questa mezz’ora di musica mostra più i pregi che non i difetti dello specifico sottogenere, riuscendo nell’impresa di non annoiare, avvolgendo invece l’ascoltatore con un flusso sonoro continuo ma dai tratti lineari e riconoscibili.
Se viene parzialmente meno la vis sperimentale che animava i passati lavori, Cry of the Ice Wolves III si rivela comunque un’opera matura e competitiva, sia pure nel suo ristretto ambito stilistico; in particolare, chi predilige l’ambient nelle sue sembianze più oscure potrebbe gradire non poco.

Tracklist:
1. Cry of the Ice Wolves III

Line-up:
Oden

Funebria – Dekatherion: Ten Years of Hate & Pride

Se volete cattiveria e blasfemie assortite condite da un buon black/death i Funebria sono il gruppo che fa per voi.

Torniamo in Sudamerica, precisamente a Maracaibo (Venezuela) per conoscere questi metallari estremi che nel 2015 hanno festeggiato i loro dieci anni di attività.

Con un monicker perfettamente in linea con il sound prodotto, i Funebria rilasciano il loro secondo full length di una discografia composta dal classico demo d’esordio, un ep rilasciato nel 2006, l’album In Dominus Blasfemical Est… Ad Noctum Sathania del 2009, ed uno split di tre anni fa diviso con i blacksters Veldraveth, anch’essi venezuelani.
Un drappo nero intriso di black metal oltranzista e fortemente anticristiano, reso putrido da marcio thrash/death, è il sound che ci propongono i nostri demoni sudamericani,influenzato dalla scena est europea, alquanto feroce e di buon impatto.
La band ce la metta tutta per risultare il più evil possibile e gli sforzi premiano le atmosfere da girone infernale dei brani che compongono l’album, cattivi e maligni, veloci e senza compromessi, con un buon uso delle voci ed il soddisfacente lavoro della sezione ritmica, massacrante e tempestosa quanto basta per risultare un bombardamento senza pietà contro le truppe del cielo.
Guerra, una guerra per il dominio sui popoli della Terra portato dagli eserciti di Satana, di cui l’album si vuol ergere a colonna sonora, riuscendoci in parte per merito di songs dal sicuro impatto come Serpent Sign o Cult of Cosmic Destruction, più in linea con il black scandinavo e delle urla belluine e demoniache, un vortice malefico sicuramente avvincente.
Chiaro, non siamo nel gotha del genere, pur essendo palesi i riferimenti alla scena polacca in primis, e le band storiche sono ancora lontane, ma Dekatherion: Ten Years Of Hate & Pride, rimane comunque un lavoro in grado di soddisfare i blacksters più oltranzisti, con tutti i pregi e i difetti di un’opera del genere, che si mantiene ben oltre una sufficienza abbondante in tutta la sua durata.
Se volete cattiveria e blasfemie assortite condite da un buon black/death i Funebria sono il gruppo che fa per voi.

TRACKLIST
1. Intro
2. Consolamentum
3. Serpent Sign
4. Whores of Babylon
5. Nihilist Revelation
6. Divide & Conquer
7. Aeon of Tyranny
8. Azag (The Crown of Void)
9. Cult of Cosmic Destruction

LINE-UP
Iblis – Bass
Daemonae – Guitars
Seth aum Xul – Vocals
Ed Thorn – Drums

FUNEBRIA – Facebook

Rhapsody Of Fire – Into The Legend

Album entusiasmante di una band unica, arrivata all’undicesima opera ed ancora in grado, dopo tanti anni, di regalare emozioni forti

Si torna a viaggiare sulle ali del drago con il nuovo lavoro di una delle band più illustri del panorama metal europeo, i nostrani Rhapsody Of Fire, l’altra metà dei Rhapsody (come sapete Luca Turilli, dopo lo split con il gruppo ha formato i Luca Turilli’s Rhapsody) band che, fin dal sorprendente debutto del 1997 (Legendary Tales), ha dato lustro all’Italia metallara.

Quasi vent’anni sono passati ormai da quel bellissimo lavoro, ed il gruppo non ha mai smesso di portare avanti la propria proposta, un symphonic power epico, barocco e dall’input cinematografico che ha fatto scuola e ha portato il nome della band nella storia del metal classico.
Into The Legend è il secondo lavoro in studio dopo la scissione, e segue Dark Wings of Steel di due anni fa, opera che vedeva la band intraprendere una strada più lineare e colma di epicità alla Manowar, risultando meno sinfonico e più improntato sulle sei corde.
Il nuovo lavoro torna in parte al sound dei primi album, rinverdendo i fasti delle due parti di Symphony of Enchanted Lands e tornando ad un’impronta palesemente barocca.
Inutile dire che il risultato soddisfa in pieno le aspettative dei molti fans del gruppo, le orchestrazioni tornano ad essere protagoniste indiscusse su un tappeto di power metal veloce ed epico, dove non mancano le classiche cavalcate che la voce di Lione valorizza, accompagnata da cori classici e ospiti solisti dal mood operistico.
Un album mastodontico, come da sempre ci ha abituati questo ambizioso gruppo di musicisti: magari talvolta prevedibile, non scalfisce comunque la fama consolidata dei Rhapsody Of Fire nel creare musica epica, sognante e tremendamente piena.
Un’altalena di emozioni, tra fughe metalliche in compagnia di orchestrazioni cinematografiche, l’uso smisurato di strumenti classici, cori, solos fusi nella fiamma sprigionata dall bocca del drago e tanta fierezza metallica, sprofondando in un mondo parallelo, dove non c’è spazio per la pochezza della vita moderna.
Ed è qui che la band è da sempre maestra, riuscendo per più di un’ora nella non sempre facile impresa di portare l’ascoltatore a vivere le atmosfere fantasy, come davanti allo schermo di una sala cinematografica, immagini nitide che si formano nella mente all’ascolto della tempesta di suoni creati dalla band.
Detto che la prova di Lione è da applausi, confermandosi come uno dei più bravi vocalist in circolazione nel genere, che Alex Holzwarth è la solita macchina da guerra dietro al drumkit, che Staropoli incanta ai tasti d’avorio e che Roberto De Michelis spara solos fiammeggianti, l’album è un saliscendi di metal operistico, di rabbiose ripartenze power ed atmosfere dal mood folk, con il flauto di Manuel Staropoli (fratello di Alex) a portarci in un emozionante viaggio nel tempo (A Voice in the Cold Wind) o a cavalcare verso la gloria (Valley Of Shadow).
Bellissima la suite finale, The Kiss Of Light, diciassette minuti di riassunto del credo musicale del gruppo, tra parti veloci, atmosfere sognanti, voci liriche e barocche, ed un Lione sontuoso nell’assecondare tutte le sfumature di un brano perfettamente in bilico tra irruenza metal, dolci parti folcloristiche e classiche fughe sinfoniche.
Album entusiasmante di una band unica, arrivata all’undicesima opera ed ancora in grado dopo tanti anni, di regalare emozioni forti, entrate anche voi nella leggenda.

TRACKLIST
01. In Principio
02. Distant Sky
03. Into the Legend
04. Winter’s Rain
05. A Voice in the Cold Wind
06. Valley of Shadows
07. Shining Star
08. Realms of Light
09. Rage of Darkness
10. The Kiss of Life

LINE-UP
Alex Staropoli – Keyboards, Harpsichord, Piano
Fabio Lione – Vocals
Alex Holzwarth – Drums, Percussion
Roberto De Micheli – Guitars

RHAPSODY OF FIRE – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
, entrate anche voi nella leggenda.

Phobonoid – Phobonoid

Una tempesta perfetta di metal cosmico, drammatico ed apocalittico.

Poco meno di due anni fa mi ero imbattuti nell’ep d’esordio di questa intrigante one man band denominata Phobonoid.

Quei 20 minuti di black metal dai connotati industrial facevano intuire ma non ancora esplodere del tutto il potenziale che il musicista trentino Lord Phobos dimostrava di possedere.
Questo primo full length autointitolato, invece, scardina definitivamente ogni dubbio investendoci con una tempesta perfetta di metal cosmico, drammatico ed apocalittico.
Se il concept resta sempre incentrato su storie che vedono come scenario la più grande delle due lune di Marte, il sound si è evoluto, come personalmente avevo auspicato, sulle coordinate che erano state già evidenziate nella parte finale dell’ep Orbita.
Se all’epoca mi ero lanciato in un accostamento con una band avanguardista come i Blut Aus Nord, in quest’occasione il respiro cosmico ed il senso di tregenda che scaturiscono dai suoni dell’album mantengono sempre oltralpe eventuali termini paragone, anche se, stavolta, il nome da citare sono i Monolithe: è chiaro, qui la base non è il funeral doom ma uguale è il senso di smarrimento di fronte ad avvenimenti che vedono come teatro uno spazio i cui limiti sono ben al di là della nostra umana comprensione.
Fuga nel vuoto, La risonanza della sonda, Kairos, la conclusiva title track e la clamorosa Frammenti di luce sono gli episodi più significativi di un insieme che annichilisce nel suo incedere più rallentato e che non lascia spazio a spunti melodici che poco si addirrebbero agli eventi apocalittici che ci vengono descritti in musica.
Come nell’opera precedente, la voce resta in sottofondo, quasi strumento tra gli strumenti, accentuando l’impatto straniante di suoni che non lasciano scampo.
Phobonoid è un ottimo album, magari non proprio alla portata di tutte le orecchie, ma che sicuramente chi apprezza sonorità come quelle citate dovrebbe far proprio senza particolari esitazioni.

Tracklist
1.Crono
2.Alpha Centauri
3.La sonda di Phobos
4.Fuga nel vuoto
5.Eris
6.Vento stellare
7.La risonanza della sonda
8.Kairos
9.Pulse
10.Frammenti di luce
11.Tachyon
12.Phobonoid

Line-up:
Lord Phobos

PHOBONOID – Facebook

Kaross – Two

La caratteristica maggiore e migliore dei Kaross è di saper generare un muro di suono cono un groove particolare e che ti uncina subito per non lasciarti.

Monolite sonico che cade nelle lane svedesi per conquistare il globo.

Questo disco ha una storia non semplice ma un finale per fortuna lieto. Two avrebbe dovuto vedere la luce nel 2013, ma per problemi con la loro precedente etichetta i Kaross non hanno potuto pubblicare il disco. Così succede cò che doveva succedere, ovvero il gruppo si riprende indietro i diritti per pubblicare il disco, che preceduto da due singoli vedrà la luce nel febbraio del 2016.
Il disco, il seguito di Molossu del 2007 è un potentissimo concentrato di stoner, sludge, rock and roll, un agglomerato ad altissima densità di groove. La caratteristica maggiore e migliore dei Kaross è di saper generare un muro di suono cono un groove particolare e che ti uncina subito per non lasciarti. Immaginatevi i Black Label Society più concreti, i Fu Manchu più convinti e i Black Sabbath con tanti watt in più. Two è un gran disco di un ottimo gruppo che pur essendo in giro dal 2002 non ha mai sfornato tante cose, ma tutte di una qualità eccezionale. Questo disco è del 2013 ma avrà ancora cose da dre negli anni futuri. I cuori di chi fra di voi ama la musica pesante saranno stra felici nell’ascoltare questo disco che ha seriamente rischiato di non vedere mai la luce, e sarebbe stato bruttissimo per tutti.

TRACKLIST
01. Burn Witch Burn
02. Borderline
03. The Lake, The Beach
04. The Evil
05. TWO
06. I Call The Shots
07. All Cream Is Gone
08. Hyde
09. Fawn
10. Dirty Beer

LINE-UP
Magnus Knutas – Lead Vocals
Kalle Sjöstrand – Lead Guitar
Patrik Olsson – Bass, backing vocals
Mojje Andersson – Drums, backing vocals

KAROSS – Facebook

Primal Fear – Rulebreaker

Rulebraker è quella combinazione di note immortali, amplificate e suonate al limite dei watt disponibili che la storia conosce come heavy metal, punto.

Acqua sotto i ponti ne è passata tanta dall’anno di grazia 1998 che vedeva il metal classico dominare il mercato europeo, con il ritorno in auge del power metal, genere diviso tra la tradizione tedesca e quella neoclassica proveniente dai paesi scandinavi.

Ralph Scheepers, storico cantante dei Gamma Ray e vicino ad entrare nei Judas Priest, orfani di Rob Halford, e Mat Sinner, leader degli immensi Sinner, esordirono con l’omonimo album della loro creatura rapace dal nome Primal Fear ed il risultato fu clamoroso, almeno per chi delle sonorità classiche si nutre.
Tanto heavy metal, forgiato nel più puro acciaio metallico del periodo ottantiano e la potenza devastante del power metal, fu la formula per il successo della band, che senza nascondersi dietro ad un dito guardava appunto ai Priest, risultando i figli più legittimi del sound di Painkiller, suonato da musicisti dal sicuro talento.
Sono passati quasi vent’anni e siamo arrivati all’undicesimo lavoro in studio di una carriera che si è mantenuta su livelli ottimi, anche se purtroppo il genere non ispira più il sensazionalismo degli anni novanta e Rulebraker, pur essendo un gran bel lavoro, rischia di non essere apprezzato per quello che è: un heavy metal album con tutti i crismi per far scatenare i fans del metal classico, quello vero, fatto di ritmiche e solos assassini, melodie vincenti, grintoso e aggressivo, cantato divinamente e pregno di anthem dall’appeal esagerato.
Inutile girarci intorno, questo è l’heavy metal, via sinfonie, suoni bombastici ed operistici, qui le chitarre tagliano l’aria con solos che squartano le carni, il vocalist fa il bello e cattivo tempo,con una prova che fa spallucce al passare degli anni ed i suoni escono cristallini e potenti, complice una produzione al top.
Una band dalla tecnica invidiabile (accanto ai due fondatori ci sono Tom Naumann, Alex Beyrodt, Magnus Karlsson ed il nostro Francesco Jovino, una vita alla corte di U.D.O) ed un songwriting che continua imperterrito a dispensare lezioni sulla religione metallica, rendono Rulebraker un altro tassello piantato nella storia recente del genere dal gruppo tedesco, che continua a correre su piste heavy, power,speed, forte di una line up invidiabile ed un lotto di canzoni da urlo.
Angels Of Mercy, In Metal We Trust, la semiballad We Walk Without Fear, la power At War With The World confermano i Primal Fear come massima espressione di un certo modo di suonare metal, magari per qualcuno fuori tempo massimo, per altri, abituati ai suoni bombastici di questo periodo, troppo semplici, non considerando che il sound proposto dal gruppo è quella composizione di note immortali, amplificate e suonate al limite dei watt disponibili che la storia conosce come Heavy Metal.
Bentornati Primal Fear.

TRACKLIST
1. Angels of Mercy
2. The End Is Near
3. Bullets & Tears
4. Rulebreaker
5. In Metal We Trust
6. We Walk Without Fear
7. At War with the World
8. The Devil in Me
9. Constant Heart
10. The Sky Is Burning
11. Raving Mad

LINE-UP
Ralf Scheepers – Vocals
Tom Naumann – Guitars
Alex Beyrodt – Guitars
Magnus Karlsson – Guitars, Keys
Mat Sinner – Bass, vocals
Francesco Jovino – Drums

PRIMAL FEAR – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=MLRjJQCqCeo

Abbath – Abbath

Se questa è una da considerarsi una rinascita, lontana dal gruppo che lo ha reso famoso, direi che senz’altro la carriera solista di Olve “Abbath” Eikemo parte con il piede giusto.

Album scomodo da recensire il debutto omonimo di uno dei personaggi più illustri della scena black metal: non si può che partire dalla fine della diatriba tra gli Immortal, dove Olve “Abbath” Eikemo ne è uscito sconfitto, perdendo il diritto sul monicker di una delle band più importanti del movimento della quale lui è sempre stato il principale compositore.

Scomodo perchè, da una figura così importante della scena estrema, ci si aspettavano grandi cose, ed in effetti Abbath è un gran bel disco ma con i suoi difetti (più che altro di produzione), così che, parlandone come merita, lascia nel lettore il dubbio su chi scrive.
Sarà di parte? O l’album merita davvero le lodi?
Allora chiarisco subito che il sottoscritto non è mai stato un grande fan della band norvegese, pur essendo conscio dell’importanza che ha avuto sulla nascita e l’affermazione di uno dei generi più importanti del mondo metallico estremo e dandole il merito di aver scritto almeno due album fondamentali, At the Heart of Winter (1999) e Sons of Northern Darkness (2002).
L’album si sviluppa su dieci brani, più una cover dei Judas Priest (Riding On The Wind), dove al sound di chiara ispirazione Immortal, il buon Olve toglie quasi del tutto le atmosfere epiche, presenti sopratutto nelle opere citate, a favore un approccio più asciutto e in your face.
Ma la differenza Abbath la fa nella prestazione dei musicisti coinvolti con il chitarrista che, ancora una volta, dimostra con uno tsunami di solos heavy metal il suo valore alla sei corde, straordinariamente accompagnato da due interpreti disumani: Kevin “Creature” Foley, batterista straordinario e, purtroppo, già fuori dal gruppo, ed il bassista King.
Aggressivo, veloce, glaciale, oscuro e senza fronzoli, Abbath, sfodera verve thrash metal e marziale estremismo black, il chitarrista norvegese sa perfettamente come intrattenere le orde di fans estremi e dall’alto della sua esperienza ci riesce alla grande.
Come detto non mancano ottimi solos di stampo heavy, ed un mood leggermente più moderno rispetto alle ultime produzioni degli Immortal: le gelide atmosfere di cui il musicista è famoso sono sempre lì  ad avvolgerci nel loro abbraccio freddo come la morte, mentre lo scream gracchiante (marchio di fabbrica di Abbath) non concede speranza.
L’opener To War è il perfetto esempio della musica proposta dal chitarrista e compositore norvegese, un black/thrash oscuro, senza compromessi e dal buon tiro, confermato dalle restanti tracce su cui spiccano Ocean Of Wounds, Count The Dead e la cadenzata ed heavy Root Of The Mountain.
Se questa è una da considerare una rinascita, lontana dal gruppo che lo ha reso famoso, direi che senz’altro la carriera solista dell’ex Immortal parte con il piede giusto, purtroppo l’abbandono prematuro del batterista sarà un altro problema da risolvere al più presto, ma statene certi che Abbath non si farà certo trovare impreparato al momento di portare la sua musica on stage, noi lo aspettiamo.

TRACKLIST
1. To War!
2. Winterbane
3. Ashes Of The Damned
4. Ocean Of Wounds
5. Count The Dead
6. Fenrir Hunts
7. Root Of The Mountain
8. Endless
9. Riding On The Wind
10. Nebular Ravens Winter

LINE-UP
Abbath: Voce, Chitarra
King: Basso
Creature: Batteria

ABBATH – Facebook

Di.Soul.Ved – Confessions from the Soul – Volume 1

Il grande talento nel saper costruire song perfette e complete in due minuti di durata e l’ottima tecnica, fanno di Confessions un gran bel dischetto

Non male la scena underground in quel di Lisbona: la capitale portoghese riesce sempre a sorprenderci, specialmente se si guarda la scena estrema, in particolare nella frangia più violenta del buon vecchio death metal.

Questa ottima band, proveniente dalla capitale lusitana, debutta tramite Murder Records con questo ottimo Confessions From The Soul Vol.1, un micidiale quanto efferato mix di death metal old school e grindcore, ed il risultato, complice un songwriting alquanto ispirato è davvero sopra le righe.
Composta da musicisti impegnati in un numero spropositato di gruppi della scena (specialmente per quanto riguarda il bassista Simão Santos, musicista che se la gioca con Rogga Johansson dei Paganizer in quanto a progetti in attività, ed ex di una ventina di band) la band di Lisbona in ventisei minuti crea un uragano di suoni estremi, che partono da ritmiche grindcore devastanti, per unirle ad una spiccata vena death metal, specialmente nel lavoro chitarristico.
Accompagnata da vocals che chiamare aggressive è un eufemismo, pur mantenendo anch’esse un approccio death oriented, la musica del combo deflagra e come un’onda anomala ci investe in tutta la sua potenza.
Il buon talento nel saper costruire song perfette e complete in due minuti di durata e l’ottima tecnica, fanno di Confessions un gran bel dischetto, che alla velocità della luce spazza via ogni dubbio sulla qualità del prodotto, così che dopo pochi ascolti i brani sono facilmente distinguibili, virtù non così frequente in questo genere.
Facile parlare di supergruppo, visto i precedenti dei musicisti coinvolti, certo è che le prestazioni del martello penumatico impazzito alla batteria (il fenomenale Rolando Barros, un’istituzione della scena estrema portoghese) e delle due asce José Marreiros e Hugo Andremon, imprimono il marchio di album irrinunciabile per gli amanti di queste sonorità.
Indecipherable Me, I, Evaluate and Liberate e The Prophecy – Convulsive Earth, vi convinceranno, già da un primo ascolto, di che pasta sono fatti questi i Di.Soul.Ved, con un cuore death metal che batte inesorabile dentro di loro e aleggia sui brani di Confessions From The Soul-Volume 1.

TRACKLIST
1. Where’s Your God
2. Indecipherable Me
3. Infinite Present
4. Invisible Empire
5. Dark Balance
6. I
7. Perceptions
8. The Convergence Revolution
9. Evaluate and Liberate
10. Alchemy
11. Dissolved Soul
12. Lost
13. Unrevealed Wisdom
14. The Prophecy – Convulsive Earth

LINE-UP
Simão Santos- Bass
Rolando Barros- Drums
Hugo Andremon- Guitars
José Marreiros- Guitars
Pedro Pedra- Vocals
Hugo Silva- Vocals

DI.SOUL.VED – Facebook

Raven Mocker – Livid Flame

I Raven Mocker offrono un’interpretazione del genere ortodossa quanto coinvolgente, con un buon lavoro di tastiera ad arricchire di pathos suoni prodotti ed eseguiti in maniera soddisfacente.

Altra band proveniente dagli USA dedita al funeral doom e della quale non si possiedono altre notizie se non quelle correlate a monicker e titoli dei brani, i Raven Mocker esordiscono con questo EP intitolato Livid Flame.

Le due tracce, denominate in maniera piuttosto essenziale e II, si snodano per una decina di minuti ciascuna offendo un’interpretazione del genere ortodossa quanto coinvolgente, ovvero con un buon lavoro di tastiera ad arricchire di pathos suoni prodotti ed eseguiti in maniera soddisfacente.
Tra i due brani, il primo vive di una solennità quasi liturgica conferita dall’eccellente operato dei nostri (o nostro ? ) ai tasti d’avorio, mentre il secondo lascia che sia prevalentemente la chitarra a disegnare le dolenti e struggenti melodie che, comunque, vengono riversate con buona continuità all’interno di questi venti minuti di funeral intenso ed emozionante.
Un lavoro davvero convincente, e consigliato senza remore a chi ama collezionare musica poco convenzionale proposta tramite supporti altrettanto particolari, visto che Livid Flame è stato pubblicato dalla Atrum Cultus nel formato della musicassetta in tiratura limitata a 100 copie; il tutto costa 5 dollari e, alla luce dell’ottima musica regalata dai Raven Mocker, per un amante del funeral il rapporto qualità/prezzo è senz’altro conveniente.

Tracklist
1. Livid Flame I
2. Livid Flame II

 

Kosmokrator – To The Svmmit

Misteriosi e sepolcrali, i Kosmokrator non cercano di certo la gloria commerciale con il loro lavoro, ma potrebbero essere una buona sorpresa per i blacksters duri e puri, consigliato solo a chi si nutre di queste sonorità.

Questo demo propostoci dalla Vàn Records, uscito nel 2014 in edizione limitata in cassetta, è il debutto discografico di questa misteriosa band proveniente dal Belgio, attiva dal 2013.

Tre brani, di cui due lunghissimi, per mezz’ora di musica, sono il biglietto da visita dei Kosmokrator, quintetto alle prese con un famigerato esempio di black metal occulto e misantropo, rinvigorito da iniezioni di death metal, in un contesto old school ed assolutamente underground.
Sacerdoti alle prese con litanie catacombali, messe nere terrorizzanti, per un sound che si avvale di atmosfere liturgiche, molto evil nell’approccio e dalle indiscusse origini infernali, il gruppo nord europeo ha dalla sua una buona presa, specialmente a livello atmosferico, mentre come molte delle realtà del genere lascia a desiderare in sede di produzione.
Attimi di sacrale musica perduta nei meandri di chiese sconsacrate si alternano a feroci accelerazioni black/death, niente di nuovo ma sicuramente affascinante, almeno per chi considera il metal estremo di estrazione black solo in un contesto underground e fuori dagli schemi preordinati del circuito metallico.
Non una nota che non sia assolutamente volta a rafforzare la componente occulta e misantropica del concept che sta dietro ai Kosmokrator, espressa anche dalla scelta di produrre il lavoro solo nel vecchio supporto in cassetta, cosi da ribadire la natura old school ed assolutamente underground del progetto.
Scrosci di pioggia in notti di luna piena, cori ecclesiastici di sacerdoti devoti all’oscuro signore, ed un’aura da messa nera che avvolge per tutta la durata To The Svmmit, con l’opener Ad Alta, Ad Astra, la devastante death metal song Adoration of He Who Is upon the Blackest of Thrones, che spezza in due l’atmosfera opprimente dell’album che torna a farsi terrorizzante, gelida e maligna con la conclusiva Sermon of the Seven Svns.
Misteriosi e sepolcrali, i Kosmokrator non cercano di certo la gloria commerciale con il loro lavoro, ma potrebbero essere una buona sorpresa per i blacksters duri e puri, consigliato solo a chi si nutre di queste sonorità.

TRACKLIST
1. Ad alta, Ad astra
2. Adoration of He Who Is upon the Blackest of Thrones
3. Sermon of the Seven Svns

LINE-UP
T – Bass
E – Drums
CM – Guitars
M – Guitars, Vocals
J – Vocals

Faida – Faida

Si è rimandati in un’epoca nella quale i dischi nu metal facevano male davvero, quando non erano fatti per commiserare la perdita di una donna o del cane, bensì per liberare positivamente la nostra rabbia.

Negli ascolti distratti che facciamo ogni giorno nello sfruttamento in streaming della musica, detto senza condanne, spesso può sfuggire qualcosa ed io mi ero perso questo gran disco, questo gran calcio in faccia da Venezia.

Qui trovate groove metal, o crossover, comunque cattiveria come nei bei dischi nu metal di qualche anno fa, quando l’incazzatura si congiungeva carnalmente con il groove e ne scaturivano grandi cose.
I Faida nascono a Venezia da reduci dalle più diverse esperienze passate, dai Sir Oliver Skardy & Fahrenheit 451, ai Cappellaio Matto o Sanakioplatz, accomunati dal voler fare musica potente ed incazzata. Obiettivo pienamente raggiunto con questo disco inciso nel giro di due anni ed uscito a ridosso del 2016. Ascoltandolo si è rimandati in un’epoca nella quale i dischi nu metal facevano male davvero, quando non erano fatti per commiserare la perdita di una donna o del cane, bensì per liberare positivamente la nostra rabbia. E i Faida danno solo grandi sensazioni, per tutta la lunghezza del disco. Personalmente lo sto risentendo ancora ed ancora, gasato come quando usciva il nuovo dei Soulfly, per dire.

TRACKLIST
1.Pimpin’
2.Herbalize
3.Outer Space
4.Aparentar (ft. Cuentas Claras from Cuba)
5.Nirvana
6.Soul cleaned
7.Destroy
8.No job
9.Not enough
10.The lumberjack

LINE-UP
Alessandro Numa
Fabio Giaggio
Giuliano Da Re
Igor Di Cataldo

FAIDA – Facebook

Brainstorm – Scary Creatures

Scary Creatures conferma quanto di buono fatto in vent’anni di carriera dalla band tedesca che, a distanza di un paio d’anni dall’ultimo Firesoul, regala un album irrinunciabile per gli amanti del power.

I Brainstorm sono uno dei gruppi più sottovalutati della scena power metal tedesca che incendiò il mercato nella seconda metà degli anni novanta, sempre collocati dagli addetti ai lavori un passo indietro a Gamma Ray, Grave Digger e compagnia, eppure negli anni sono riusciti a scaldare i cuori degli appassionati con una serie di opere di genere entusiasmanti, soprattutto con il trittico Ambiguity (2000), Soul Temptation (2003) e Downburst (2008).

La band, capitanata dal vocalist Andy B. Franck (ex Symphorce e Ivanhoe), torna con l’undicesimo album in studio di una carriera che l’ha vista muovere i primi passi nel 1989, ed arrivare nel nuovo millennio con una carica ed un’energia invidiabile, mostrate in questa nuovo lavoro che, se non porta grosse novità all’interno della proposta del gruppo, lo conferma come un punto fermo per chi ama il power metal ed i suoni metallici tradizionali.
Potenti, devastanti e, come tradizione nel genere, alquanto melodici, i Brainstorm con Scary Creatures dichiarano la loro appartenenza al gotha del power metal europeo alla luce dell’ esperienza e del talento al servizio del genere, e in controtendenza rispetto ai mezzi passi falsi dei gruppi più quotati, ormai non più sulle prime pagine delle riviste di settore, visto il momento di poco interesse da parte dei fans di uno dei generi storici del metal.
Il nuovo lavoro torna così a far risplendere il sound del gruppo con una raccolta di brani compatti, ruvidi ed oscuri, Andy B. Franck non ha perso un’oncia del suo talento interpretativo: singer sanguigno ed eclettico, anima il sound del gruppo, sempre perfetto nel portare avanti la tradizione tedesca nel power, lasciando che sfumature metalliche di derivazione statunitense entrino nel cuore delle composizioni, facendo dei Brainstorm il gruppo più americano della nidiata famelica nata in terra germanica.
Non sono così distanti, infatti, le drammatiche ed oscure atmosfere che troverete nel sound dei Circle II Circle di Zack Stevens, altra band da considerare in questi anni come una delle massime esponenti del power metal classico, anche se il gruppo tedesco ne violenta la struttura con le ritmiche devastanti tipiche del sound europeo.
Prova sopra le righe di tutta la band, composta da musicisti dall’esperienza e bravura indiscutibili, produzione perfetta, e via per questa discesa senza freni nelle travolgenti trame offerte dai Brainstorm, con una serie di brani che hanno nella cadenzata ed epica How Much Can You Take, nella devastante Where Angels Dream, nell’oscura e americana title track e nella maideniana Caressed By The Blackness, i picchi di un lavoro che riconcilia con un sound dato per morto troppe volte.
Niente da aggiungere se non che Scary Creatures conferma quanto di buono fatto in vent’anni di carriera dalla band tedesca che, a distanza di un paio d’anni dall’ultimo Firesoul, regala un album irrinunciabile per gli amanti del power.

TRACKLIST
1. The World to See
2. How Much Can You Take
3. We Are…
4. Where Angels Dream
5. Scary Creatures
6. Twisted Ways
7. Caressed by the Blackness
8. Scars in Your Eyes
9. Take Me to the Never
10. Sky Among the Clouds

LINE-UP
Andy B. Franck – Vocals (lead)
Dieter Bernert – Drums
Milan Loncaric – Guitars, Vocals (backing)
Torsten Ihlenfeld – Guitars, Vocals (backing)
Antonio Ieva – Bass

BRAINSTORM – Facebook

Ravensire – The Cycle Never Ends

Per gli amanti dell’heavy metal classico, l’album è una raccolta di canzoni perfette per tornare, ancora una volta, ad immergersi nelle atmosfere del genere e godere del suo spirito più puro.

Il metal non muore, magari per un periodo si lecca le ferite, si accompagna ad altri generi ma rimane un punto fermo della musica rock, trovando sempre nuovi figli e adepti in ogni parte del mondo.

Lisbona, nella capitale del Portogallo nascono nel 2011 i Ravensire, fieri guerrieri metallici, tornati in questo inizio anno con il secondo lavoro sulla lunga distanza, The Cycle Never Ends, buon esempio di heavy metal old school, dai tratti epici, successore dell’esordio We March Forward del 2013 e di un paio di lavori minori.
La band portoghese, è protagonista di una prova convincente, buon songwriting, ottime trame chitarristiche in un crescendo maideniano alquanto esaltante, ed un cantante aggressivo e ruvido quanto basta per donare alle canzoni un buon impatto.
The Cycle Never Ends si aggira tra gli spartiti delle band storiche degli anni ottanta, la produzione risulta perfetta per il genere proposto, non troppo patinata, ma sufficiente per far rendere al meglio l’atmosfera epica del lavoro.
Dall’opener Comlech Revelations in poi è un susseguirsi di riff e cavalcate heavy metal style, le chitarre intonano inni alla gloria, i chorus sono composti di pura epicità, ed il senso di deja vu è compensato da un buon songwriting e tanta attitudine old school.
La band ci catapulta in un mondo di battaglie, scudi che si spezzano, spade che stridono quando le lame si incocciano nel mezzo dello scontro, il tutto accompagnato da melodie di chiara ispirazione maideniana, anche se non manca lo spirito guerriero ed epico dei Manowar e l’orgoglio metallico di band come Heavy Load e Slough Feg.
Per gli amanti dell’heavy metal classico, l’album è una raccolta di canzoni perfette per tornare, ancora una volta, ad immergersi nelle atmosfere del genere e godere del suo spirito più puro che l’ottima trilogia finale, composta dalle tre parti di White Pillars Trilogy, riesce a conferire nei true metallers meno distratti.

TRACKLIST
1. Cromlech Revelations
2. Crosshaven
3.Solitary Vagrant
4. Procession of the Dead
5. Trapped in Dreams
6. White Pillars Trilogy: Part I – Eternal Sun
7. White Pillars Trilogy: Part II – Blood and Gold
8. White Pillars Trilogy: Part III – Temple at the End of the World

LINE-UP
F – Drums
Zé – RockHard Guitars
Nuno Mordred – Guitars
Rick Thor – Bass

RAVENSIRE – Facebook

Endless Recovery – Revel In Demise

Lo stile è classico ma la bravura degli Endless Recovery sta nel non fare una mera imitazione di un certo suono bensì rielaborarlo per ottenere un risultato simile ma allo stesso tempo originale.

Cari discepoli dello speed thrash metal anni ottanta qui avete occasione di sentire un rituale di gran valore.

Dalla Grecia più furente ecco gli Endless Recovery, ottimi fautori di un metal veloce, all’antica e senza compromessi stilistici. L’onda lunga ed immortale dello speed anni ottanta colpisce ancora con un’opera molto buona. Nati nel 2011 i nostri hanno presto impressionato la metallica comunità con Liar priest, ep del 2012, per poi dare alle stampe il full length del 2013 Thrash Rider, continuando con il 7″ Resistant Bangers nel 2014, per poi arrivare a questo cd.
Lo stile è classico ma la bravura degli Endless Recovery sta nel non fare una mera imitazione di un certo suono bensì rielaborarlo per ottenere un risultato simile ma allo stesso tempo originale. La tensione ed il divertimento non scemano mai e si ritorna ai tempi nel quale il metal era velocità, divertimento e sbronze facili. Questo disco piacerà sicuramente a Fenriz, cultore nel suo blog di questo tipo di metal che non è mai scomparso e non ha mai tradito grazie a dischi come questo.

TRACKLIST
01. Sinister Tales
02. Revel In Demise
03. Reaping Fire
04. Storming Death
05. Leather Militia
06. Trapped In A Vicious Circle
07. Blood Countess
08. Hypnos
09. Evoke Perdition
10. Lurking Evil

LINE-UP
Michalis Moatsos : Drums
Panayiotis Alikaniotis : Bass
Tasos Papadopoulos : Guitar
Apostolos Papadimitriou : Guitar
Michalis Skliros : Vocals

ENDLESS RECOVERY – Facebook

Shotgun Justice – State of Desolation

L’esordio della band vive tra alti e bassi, risultando nella sua totalità un lavoro sufficientemente piacevole, specialmente per i fans dei suoni classici.

Ci hanno messo ben tredici anni i tedeschi Shotgun Justice per dare alle stampe il primo full length, la band infatti aveva licenziato due demo, ed una compilation, un po’ poco visto il tempo trascorso dalla loro fondazione.

Finalmente, per gli amanti dei suoni metallici old school, ecco che il 2016 porta con se l’esordio sulla lunga distanza del gruppo, questo State Of Desolation, che richiama alla mente l’heavy metal ottantiano, anche se il quintetto sassone lo ricama con ritmiche hard rock ed una piccola dose di potenza thrash.
L’album che si sviluppa su liriche a sfondo sociale e politico che si discosta dai soliti cliché dei gruppi heavy metal classici, tutti spade e guerrieri senza paura, è incentrato su brani dai ritmi che viaggiano con il freno a mano tirato, mai troppo veloci, molto melodici, ed in linea con le metal band dal taglio classico.
Ne esce un lavoro che alterna brani ruvidi ad altri molto più eleganti, ed è proprio su questi che il gruppo costruisce il suo songwriting.
Sarà per una produzione classicamente old school, sarà per le buone melodie dal taglio drammatico nei brani meno aggressivi, ma Shotgun Justice regala buone canzoni dove il sound si contorna di un’aura intimista e tragica, con il picco qualitativo rappresentato dall’oscura Nemes ( a Global Killer), heavy song dove una voce soprano duetta con il singer.
Qualche accenno alla vergine di ferro nei numerosi riff e solos delle due asce e ritmiche di scuola Saxon, potenziati da sventagliate thrash, sono il mood della maggior parte dei brani che compongono State Of Desolation, con ancora una piccola gemma heavy, Head Full Of Bullets, dal solos settantiano e dall’andatura cadenzata e in crescendo.
L’esordio della band vive così tra alti e bassi, risultando nella sua totalità un lavoro sufficientemente piacevole, specialmente per i fans dei suoni classici, lodevole il lavoro delle sei corde, ma leggermente monotona la voce, piccolo difetto che toglie qualche punto al valore dell’album.
Ora che il ghiaccio è stato rotto aspettiamo buone nuove dalla band tedesca che, con qualche ritocco, potrebbe migliorare sensibilmente la propria proposta.

TRACKLIST
1. Proclamation of War
2. Blood for Blood
3. Blessed with Fire
4. Nothing Left to Fear
5. Nemes (A Global Killer)
6. The Scales of Justice
7. Head Full of Bullets
8. Forsaken
9. Harvest the Storm
10. State of Desolation

LINE-UP
Tobias Gross – Drums, Percussion, Vocals
Erik ”Kutte” Dembke – Guitars
Thomas ”Tom” Schubert – Bass
Marco Kräft – Guitar Vocals
Kai Brennecke – Guitar

SHOTGUN JUSTICE – Facebook

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