Radien – Maa

I Radien centrano l’obiettivo al primo colpo, ma ovviamente è doveroso attenderne la riprova alle prese con un minutaggio più consistente.

Maa è la prima uscita ufficiale dei Radien, sludge band finnica.

L’ep consta di due tracce lunghe una dozzina di minuti che si dipanano, appunto, lungo sonorità sludge doom che si tengono alla larga da stonerizzazioni assortite, spingendosi maggiormente verso lidi post hardcore, accentuati dall’uso di un tono vocale caratteristico di quest’ultimo genere.
Varjot parte in maniera abbastanza canonica, per poi distendersi in un avvolgente e minaccioso crescendo, mentre Viimeinen è molto più rocciosa, indulgendo più a lungo sui riff ribassati e distorti che il quartetto di Helsinki maneggia con buona padronanza, lasciando intendere grandi potenzialità ed altrettanto margini di manovra per il futuro.
Del resto, quando ci si lancia in un settore come questo, per fare la differenza bisogna, in primis, conferire al proprio sound un’intensità che vada a compensarne con gli interessi la ridotta varietà e la quasi totale asenza di sbocchi melodici: i Radien centrano tale obiettivo al primo colpo, ma ovviamente è doveroso attenderne la riprova alle prese con un minutaggio più consistente.

Tracklist:
1. Varjot
2. Viimeinen

Line up:
Jyri – Vocals, synth
Tommi – Bass, vocals
Felipe – Guitar, vocals
Mikko – Guitar, vocals
Tuomo – Drums

RADIEN – Facebook

Light Of The Morning Star – Nocta

Nocta è la summa di quanto di meglio possa offrire il metal più tenebroso quando si fonde con un senso gotico della melodia, e il disco potrebbe essere la colonna sonora della notte di un vampiro, che desidera lascivamente nottetempo ma al contempo è conscio di essere maledetto.

Non si sa granché di O-A, unico deus ex machina di Light Of The Morning Star, ma spiega molto più la sua musica che mille parole.

Dopo aver esordito nel 2016 con l’ep Cemetery Glow, andando ad esplicare le coordinate del progetto, O- A torna con questo debutto sulla lunga distanza, che è notevole. Nocta è la summa di quanto di meglio possa offrire il metal più tenebroso quando si fonde con un senso gotico della melodia, e il disco potrebbe essere la colonna sonora della notte di un vampiro, che desidera lascivamente nottetempo ma al contempo è conscio di essere maledetto. Questi nove cantici oscuri sono pieni di melodie sensuali e di distorsioni che accompagnano una tenebrosa eppure calda narrazione, senza fronzoli o autocompiacimenti, ma solo tanta nera sostanza. Molti sono i generi trattati, da una radice funeral doom melodica si passa ad un gothic metal con sfumature black melodiche, ma su tutto domina la melodia. Le canzoni sono strutturate in maniera da creare un climax che trasporta l’ascoltatore in un limbo piacevole, ma assai vicino alla morte, che è comunque uno stadio della nostra natura. O-A compone e suona da solo un album di canzoni bellissime e lascive, sensuali e vampiresche, il tutto con una lucidità ed una facilità musicale che non possono che stupire. Si rimane fortemente attratti da questa musica magnetica che sa di castelli polverosi e cimiteri con la nebbia, da ascoltare al buio e con le cuffie.
Nocta piacerà molto a chi ama il doom ed il metal più dark, ed è propenso a fare incursioni sonore in altri ambiti musicali.

TRACKLIST
1.Nocta
2.Coffinwood
3.Serpent Lanterns
4.Grey Carriages
5.Crescentlight
6.Oleander Halo
7.Ophidian
8.Lord of All Graves
9.Five Point Star

LIGHT OF THE MORNINGSTAR – Facebook

TETHRA – PLATEAU SIGMA – TENEBRAE – ABYSSIAN – The One, 11/2/17

Cronaca del release party del nuovo album dei Tethra, Like Crows For The Earth.

La presentazione dell’ultimo album dei Tethra, Like Crows For The Earth, in quel di Cassano d’Adda, è stata contraddistinta da una forte presenza ligure, essendo stati chiamati a partecipare alla serata anche i genovesi Tenebrae e gli imperiesi Plateau Sigma, oltre ai lombardi Abyssian: mi sia concesso, quindi, un piccolo moto d’orgoglio campanilistico, visto che anche MetalEyes ha la sua base nell’aspra lingua di terra compressa tra l’Appennino ed il mare.

L’occasione si prospettava irrinunciabile per gli appassionati di sonorità oscure e gravitanti nei dintorni del doom, considerando che tutte le band presenti erano in qualche comodo collegabili al genere, sia pure ciascuna caratterizzata da un diverso approccio.
La location scelta dai Tethra è stata il The One Metal Live, locale che si trova nell’ampio seminterrato di un centro commerciale della cittadina lombarda, il che consente di poter suonare fino a tarda ora senza rischiare di disturbare la pubblica quiete, stante la notevole distanza dalle abitazioni (basta non abusarne, però … iniziare una serata con quattro band alle 22 porta inevitabilmente l’ultima ad esibirsi in orari improbabili, con tutte le controindicazioni del caso); lo spazio davanti al palco è sufficientemente ampio per ospitare un buon numero di persone, e il fatto che il bar si trovi in un’area separata consente di godere dei concerti rigorosamente al buio e senza il nocivo disturbo degli schiamazzi tipici di chi preferisce bere e parlare anziché ascoltare la musica (problema che affligge i locali piccoli strutturati, invece, su un unico ambiente).

Abyssian – Foto di Chiara Bonanno

Ad aprire la serata sono stati i milanesi Abyssian, dediti ad un buon gothic dark/doom ispirato, tra gli altri, dai Paradise Lost, ed autori nel 2016 di Nibiruan Chronicles, un album capace di ottenere ottimi riscontri a livello di critica. Purtroppo l’esibizione della band lombarda, guidata da un musicista di grande esperienza come Rob Messina, ex membro di una delle band storiche del death tricolore come i Sinoath, è stata complicata in primis dall’assenza di un batterista, condizione con la quale i nostri stanno convivendo da qualche tempo, ed anche da alcuni problemi tecnici complicati ulteriormente dalla necessità di ricorrere a percussioni campionate.
La band ha comunque onorato al meglio l’impegno facendo intravedere le proprie notevoli potenzialità e mi auguro, pertanto, di avere al più presto l’opportunità di rivedere all’opera gli Abyssian in una situazione “di normalita”.

Tenebrae – Foto di Chiara Bonanno

Il secondo gruppo previsto nelle serata erano i Tenebrae, i quali, per fortuna, non sono stati afflitti dagli stessi problemi di chi li ha preceduti sul palco.
Inutile sottolineare come la conoscenza del repertorio e la frequentazione abituale delle esibizioni del gruppo genovese mi abbia consentito di godere appieno dell’esibizione, potendola più agevolmente parametrare rispetto al passato: ebbene, posso affermare tranquillamente che quella dell’altra sera è stata la migliore performance dei Tenebrae alla quale abbia mai assistito.

Tenebrae – Foto di Chiara Bonanno

Complice l’accresciuta coesione tra i componenti (in questo caso i due mesi dalla presentazione del nuovo disco non sono trascorsi invano) e anche una maggiore cattiveria dovuta, forse, al fatto di non suonare “in casa” (cosa che magari mette a proprio agio, ma inconsciamente fa smarrire qual pizzico di adrenalina in grado di fornire una marcia in più), il set è filato via in maniera travolgente, estraendo il meglio dallo splendido My Next Dawn.

Tenebrae – Foto di Chiara Bonanno

La title track, The Fallen Ones e As The Waves sono tracce magnifiche che non si finirebbe mai di ascoltare e, in quest’occasione Marco Arizzi, Pablo Ferrarese e compagni le hanno rese in maniera impeccabile e coinvolgente. Una gran bella iniezione di consapevolezza ed autostima per una band che ha dovuto soffrire, in passato, di tutte le problematiche connesse all’instabilità della line-up.

Plateau Sigma – Foto di Chiara Bonanno

Ancora Liguria, spostandoci però verso l’estremo ponente, con la salita sul palco dei Plateau Sigma, altra band che ho potuto vedere già più volte dal vivo grazie alla vicinanza geografica. Il quartetto imperiese ha dovuto un po’ comprimere il proprio set per il già citato slittamento in avanti dell’orario, ma ciò non ha pregiudicato un’esibizione che, questa volta, ha privilegiato il volto aggressivo ed orientato al funeral/death doom, piuttosto che i momenti più rarefatti e le pulsioni post metal che fanno ugualmente parte del background della band, come ampiamente riscontrabile dall’ascolto del magnifico Rituals.

Plateau Sigma – Foto di Chiara Bonanno

Il fulcro dell’esibizione è stato, comunque, un brano dall’alto tasso evocativo come Cvltrvm, contornato da altre tracce cariche di tensione, riversate sul pubblico da un gruppo caratterizzato da una proposta resa peculiare dall’alternanza vocale e chitarristica di Francesco Genduso e Manuel Vicari; le sonorità offerte dai Plateau Sigma non sono fruibili con immediatezza da chi non ne conosca già il repertorio, ma riescono a convincere ugualmente al primo impatto per l’intensità e la voglia di osare esibite sul palco.

Plateau Sigma – Foto di Chiara Bonanno

E finalmente arrivò il momento della presentazione del nuovo album da parte dei Tethra. Clode, vocalist e membro della band fin dagli esordi, nei quattro anni trascorsi dall’uscita di Drown Into The Sea Of Life, ha dovuto far fronte ad uno stravolgimento della line-up che lo ha visto quale unico superstite della formazione accreditata su quel disco.

Tethra – Foto di Chiara Bonanno

Un elemento, questo, che non può certo essere estraneo ai cambiamenti abbastanza sostanziali a livello di sonorità riscontrati nel nuovo e bellissimo Like Crows For The Earth (album che ho avuto occasioni di ascoltare più volte nei giorni precedenti e del quale parlerò più diffusamente nei prossimi giorni): il doom death granitico che era la base portante del sound si è stemperato in un gothic doom, sempre robusto ma senz’altro più fruibile, specie per la presenza di alcuni brani contenenti soluzioni capaci di trascinare il pubblico, uno su tutti Deserted, definibile quale una potenziale hit, se questo non fosse un termine che non dovrebbe mai stare nella stessa frase che contiene la parola doom …

Tethra – Foto di Chiara Bonanno

Clode, a mio avviso, è ulteriormente migliorato anche a livello vocale (benché fosse assolutamente all’altezza della situazione anche in precedenza, sia chiaro): specialmente le clean vocals sono oggi ancor più profonde ed evocative, e questo si rivela fondamentale in un lavoro nel quale tale soluzione ricorre più frequentemente che in passato.
I musicisti dei quali il vocalist novarese si è circondato sono apparsi perfettamente a loro agio, sobri e precisi, con nota di merito per Luca Mellana, capace di trasmettere le giuste vibrazioni con i suoi misurati ma efficaci assoli.
Anche se potrà sembrare un aspetto marginale, è stato interessante constatare un cambiamento anche a livello di immagine, con i Tethra passati ad una più elegante camicia color nero grafite al posto del saio sfoggiato in precedenti occasioni; la scaletta non ha seguito fedelmente quella del nuovo disco ma è stata rimescolata, inserendo anche a metà del set due brani tratti dal precedente lavoro.

Tethra – Foto di Chiara Bonanno

In questo modo la magnifica The Groundfeeder, altro esempio eloquente  dell’evoluzione del sound dei Tethra, è stata proposta nella parte iniziale, pur essendo la traccia che, di fatto, apre la seconda metà di Like Crows For The Earth, mentre comunque il finale è stato rispettato in pieno con la chiusura affidata all’altrettanto splendida title track.
Tra gli incitamenti di un pubblico non numerosissimo (in linea con le tendenze degli eventi doom in Italia) ma sicuramente partecipe, Clode e compagni hanno riproposto come bis la “catchy” Deserted, brano destinato a diventare un loro cavallo di battaglia in sede live, mettendo la parola fine ad una serata di musica che, personalmente, mi ha consentito di rivedere in un colpo solo, sia tra i musicisti che tra il pubblico, un consistente numero di belle persone con le quali è sempre un piacere condividere il tempo e le proprie passioni.

P.S. Un sentito ringraziamento a Chiara per il prezioso contributo fotografico.

Nekhen – Entering The Gate Of The Western Horizon

Non resta che immergersi in questa ideale esplorazione delle dimore eterne dei faraoni, accompagnati dall’ininterrotto ed avvolgente flusso sonoro di Entering The Gate Of The Western Horizon.

La fascinazione esercitata dalla civiltà egizia nei confronti dei musicisti che si muovono nell’ambito metal non è certo una novità: tralasciando l’inevitabile riferimento ai Nile, non sono poche le band che, spesso con ottimi risultati, riescono a fondere la materia estrema con le sonorità tradizionali originarie del paese nordafricano (ultimi trattati in ordine di tempo sono stati gli ottimi Akhenaten).

Il caso dei Nekhen è però diverso sia per provenienza che modalità: trattasi infatti di un progetto solista italiano e qui la componente etnica trova accoglienza all’interno di una forma musicale accostabile al doom piuttosto che al death o al black, in virtù di ritmiche piuttosto rallentate (salvo alcune notevoli progressioni percussive) ed un riffing ribassato e minaccioso che, sovente, va a braccetto con le più canoniche sonorità acustiche.
Il risultato è notevole, ancorché non semplicemente digeribile, sia perché l’assimilazione di certi suoni non è cosi scontata per chiunque, sia per la sua natura del tutto strumentale e, tanto per tornare ai Nile, potrebbe risultare utile far riferimento più che ai lavori della band a quelli solisti del leader Karl Sanders, soprattutto per l’approccio alla materia, visto che i due Saurian pubblicati dal chitarrista statunitense mostrano un volto per lo più acustico, oltre a sporadici interventi vocali.
Uguali sono senza dubbio la passione e la competenza esibite nei confronti della materia, componenti essenziali per rendere credibile un’operazione di questo genere: anche per questo ritengo che, pur non essendoci molto in comune, se non il riferimento alla civiltà egizia, con lavori come Annihilation Of The Gates, sia proprio quella degli estimatori dei tali sonorità la fascia di ascoltatori che più facilmente potrà essere raggiunta da questi tre quarti d’ora di ottima musica, suddivisa per comodità in dodici tracce nonostante si si tratti, di fatto, di una lunga suite; non resta quindi che immergersi in questa ideale esplorazione delle dimore eterne dei faraoni, accompagnati dall’ininterrotto ed avvolgente flusso sonoro di Entering The Gate Of The Western Horizon.

Tracklist:
1 – Waters of Ra
2 – Baw of the Duat
3 – Water of the Unique Master, which brings forth offerings
4 – With living forms
5 – West
6 – The depths, waterhole of those of the Duat
7 – Mysterious cavern
8 – Sarcophagus of her gods
9 – With images flowing forth
10 – With deep water and high banks
11 – Mouth of the cavern which examines the corpses
12 – With emerging darkness and appearing births

NEKHEN – Facebook

Cyclocosmia – Immured

Se già il precedente full length aveva mostrato le potenzialità enormi di questo progetto, l’ep in un questione ne rafforza lo status, facendo nascere spontaneo il desiderio di ascoltare al più presto nuova musica firmata Cyclocosmia.

Nati dalla fervida creatività di James Scott, personaggio che si muove in varie vesti nella scena metal underground londinese, i Cyclocosmia sono un duo che vede il musicista britannico affiancato anche da un’altra artista multiforme come Aliki Katriou (la quale si occupa per altro della regia del magnifico video di Immured Part II)

L’ep Immured, che segue l’album di debutto Deadwood, sul quale la voce era affidata invece a Lorena Franceschini, non poteva che essere, con tali premesse, un piccolo gioiello di musica dall’alto tasso evocativo, con una base doom sulla quale Scott va ad innestare una potente drammaticità di stampo sinfonico-orchestrale.
L’uso delle voci è una delle travi portanti del lavoro, in quanto la poliedricità della Katriou, capace di spaziare su diversi range, asseconda alla perfezione l’evolversi delle parti strumentali che spaziano tra momenti acustici ed altri più rabbiosi, ma sempre e comunque avvolti da un’aura sospesa tra solennità e drammaticità.
Immured si risolve in poco più di un quarto d’ora di spasmodica intensità, in ossequio ad un concept di grande impatto come può essere quello dedicato alla condizione di una vestale romana, murata viva per aver violato il voto di castità.
Se già il precedente full length aveva mostrato le potenzialità enormi di questo progetto, l’ep in un questione ne rafforza lo status, facendo nascere spontaneo il desiderio di ascoltare al più presto nuova musica firmata Cyclocosmia.

Tracklist:
1. Immured Part I
2. Immured Part II
3. Immured Part III
4. Immured Part IV

Line up:
James Scott – Production, guitar, male vocals.
Aliki Katriou – Female Vocals

CYCLOCOSMIA – Facebook

Egon Swharz – In The Mouth Of Madness

Quello degli Egon Swharz, pur non mostrando elementi di novità, si rivela al mio orecchio superiore ad altre uscite di questo tipo, grazie ad un suono più profondo ed intenso.

Egon Swharz è il nome di un trio abruzzese che si lancia in un segmento stilistico piuttosto affollato negli ultimi tempi, come è quello dello stoner doom strumentale.

Il mio pensiero, per quel che possa valere, l’ho già ribadito più volte: la rinuncia ad un vocalist nella maggior parte dei casi si fa sentire, e sono poche le band che riescono a sopperirvi brillantemente, in virtù di un approccio più deciso e soprattutto non manieristico.
In The Mouth Of Madness possiede una buona percentuale di tali caratteristiche, per cui l’operato degli Egon Swharz si snoda con una certa fluidità, nonostante non vengano meno momenti in cui la reiterazione ossessiva dei riff potrebbe indurre a pensare il contrario (valga quale esempio la conclusiva Hobb’s End Horror).
L’album è intriso di atmosfere che attingono ad un immaginario cinematografico contiguo all’horror lovecraftiano, ben raffigurato dalla copertina, opera del sempre bravo SoloMacello, traendo linfa musicalmente da quei tre o quattro nomi che la band stessa cita quali propri riferimenti (Electric Wizard, Iron Monkey, Sleep).
La chitarra si concede rare escursioni soliste, prediligendo semmai, in alternativa ad un riffing roccioso e pachidermico, sequenze di arpeggi che segnano i momenti più rarefatti (in particolare la parte centrale
della lunga Green Breathing Tunnel), mentre la base ritmica svolge il suo puntuale lavoro di robusto puntello dell’intera struttura musicale.
Quello degli Egon Swharz, pur non mostrando elementi di novità, si rivela al mio orecchio superiore ad altre uscite di questo tipo, grazie ad un suono più profondo ed intenso, capace di evocare le immagini di un ipotetico film tratto da qualche terrificante racconto del solitario di Providence.
Purtroppo, parafrasando quello che si dice a proposito di animali particolarmente intelligenti od espressivi, a questo album manca solo la parola …

Tracklist:
1.The Feeding
2.The Thing In The Basement
3.Green Breathing Tunnel
4.Haunter (Visions From An Abyss)
5.Hobb’s End Horror

Line up:
Enzo P.Zeder – bass
Gianni Narcisi – drums
Vittorio Leone – guitars

EGON SWHARZ – Facebook

Gurthang – Shattered Echoes

Shattered Echoes si rivela un album in grado di soddisfare ampiamente chi già apprezza le sonorità espresse dalla fertile scena estrema polacca.

I polacchi Gurthang, nonostante si siano formati all’inizio del decennio, hanno all’attivo più di venti uscite disseminate tra singoli, ep, split compilation e full length.

Di questi ultimi, Shattered Echoes è il quarto della serie, e ci presenta una band di buono spessore e sicuramente capace di maneggiare con competenza il genere proposto.
Il black doom del gruppo di Lublino è piuttosto tetragono nel suo incedere, affidando ad avvolgenti parti rallentate le variazioni su un tema scritto buttando sovente un occhio ai Behemoth, ma badando appunto ad inserire una componente doom con l’intento di rompere in parte il canovaccio consueto.
Un parziale elemento di discontinuità sono anche le clean vocals, non sempre a fuoco ma sufficientemente funzionali, e il tutto va così a comporre un quadro convincente, pur senza far sobbalzare sulla sedia chi ascolta.
Alla fine i brani migliori sono quelli che mantengono un’aura minacciosa senza premere eccessivamente sull’acceleratore, il cui emblema è la notevole accoppiata centrale My Salvation / Departed: in particolare la prima delle due si rivela il fulcro dell’album grazie al suo andamento relativamente catchy, che ne rende ben memorizzabili i passaggi salienti.
Per il resto i Gurthang svolgono al meglio il loro compito, grazie a un lavoro d’insieme pregevole che si attesta su un livello medio per quanto concerne il resto della tracklist.
Shattered Echoes si rivela, così, un album in grado di soddisfare ampiamente chi già apprezza le sonorità espresse dalla fertile scena estrema polacca.

Tracklist:
1.Closure
2.Denial
3.Advance the Disease
4.Paragon of Virtue
5.My Salvation
6.Departed
7.Inheritance – The Distress
8.Rebirth
9.Ignite
10.Pylon of Blaze
11.Inheritance II: Red Mourning

Line up:
A.Z.V. – throat, whispers, clean & distorted guitars, all music, lyrics
Stormalv – bass guitars
G.H. – ambience, effects
Vojfrost – keys, effects
Turenn – drums, percussion

GURTHANG – Facebook

Altar Of Betelgeuze – Among The Ruins

Doom metal classico, death metal e stoner rock, uniti per regalare emozioni che vanno aldilà del semplice ascolto.

Capita, fortunatamente più spesso di quanto crediate, che una proposta musicale, sconosciuta fino all’attimo prima di aver schiacciato il tasto play, si riveli un’autentica sorpresa.

Così ecco che, stordito ed ipnotizzato dalle pesanti e messianiche note che compongono l’opera, vi lascio il mio parere  (specialmente se siete amanti di queste sonorità) sul secondo lavoro di questo quartetto proveniente dalla Finlandia.
La band in questione si chiama Altar Of Betelgeuze, è stata fondata da Matias Nastolin (Decaying), Olli Suurmunne (Stream Of Sorrow, ex-Decaying) e Juho Kareoja nel 2010 ed è del 2014 l’esordio sulla lunga distanza Darkness Sustains the Silence.
Among The Ruins continua il percorso iniziato dal primo lavoro, un inesorabile e lento viaggio messianico tra death/doom e stoner, a comporre un affascinante e perfetto riassunto di questi tre generi assemblati in un unico mastodontico sound.
Doom metal classico, death metal e stoner rock si uniscono per regalare emozioni che vanno aldilà del semplice ascolto, in un’esperienza onirica tra i misteri di quelle terre indomite: i brani sono tutti splendidi ma sono No Return e la conclusiva title track a lasciare le impressioni migliori, le voci si danno il cambio tra cleans evocative e gorgoglianti parti doom/death, tradizione del metal estremo di queste terre già dai primi anni novanta; Among The Ruins ne esce come figlio legittimo di quel sound, con la parte stoner che rende l’atmosfera ancor più ipnotica e fumosa.
Se siete amanti di questi generi perdervi un album del genere sarebbe davvero un peccato, perché Among The Ruins è un lavoro di cui non farete più a meno.

TRACKLIST
1.The Offering
2.Sledge of Stones
3.No Return
4.New Dawn
5.Absence of Light
6.Advocates of Deception
7.Among the Ruins

LINE-UP
Juho Kareoja – Guitars
Matias Nastolin – Bass, Vocals (growling and spoken word)
Olli “Otu” Suurmunne – Guitars, Vocals (clean and throat singing)
Aleksi Olkkola – Drums

ALTAR OF BETELGEUZE – Facebook

The Ossuary – Post Mortem Blues

Bellissimo album di hard rock/doom sulla scia dei maestri settantiani da parte dei The Ossuary, band formata da musicisti della scena estrema e metallica nazionale.

Non è la prima volta che dei musicisti attivi nella scena death metal lasciano i suoni estremi per tornare indietro nel tempo, fino alla fine degli anni settanta per ricreare l’atmosfera ipnotica ed occulta di molte delle opere hard rock uscite in quel periodo, magari perse tra le nebbie di fumi illegali, basti pensare agli Spiritual Beggars ed ai trascorsi estremi dei suoi componenti.

Questa nuova band pugliese è formata da tre musicisti che facevano parte degli storici Natron, più Stefano Fiore dei Twilight Gates alla voce, si chiama The Ossuary ed è attiva da un paio d’anni.
Nell’ossario troviamo uno straordinario esempio di hard rock/doom metal dal titolo Post Mortem Blues, una messianica opera dove il blues è più concettuale che suonato, mentre aumenta la voglia di farci travolgere da questo sabba settantiano, in compagnia di un sound che, da frangia dell’hard rock, si trasformò in qualcosa di più pesante.
Post Mortem Blues è un bellissimo lavoro, il suo compito non è quello di stupirci, ma di farci vivere ancora una volta le atmosfere dei primi lavori di Black Sabbath e Pentagram, aggiungendo dosi massicce di Rainbow e Deep Purple, interpretando in maniera straordinaria i suoni rock a cavallo tra gli anni settanta ed il decennio successivo, divenuto poi il periodo d’oro dell’heavy metal che stava nascendo.
Un enciclopedia rock; questo possiamo definire l’album, con la voce di Fiore che richiama il Dio alla corte di Iommi ed il Gillan più introspettivo, mentre si passa da brani hard rock come l’opener The Curse o la melodica title track a molossi doom metal come Graves Underwater ed Evil Churns.
Band già da culto, grazie ad un album da conservare tra gli altri gioielli di un prolifico underground tricolore.

TRACKLIST
01. Black Curse
02. Witch Fire
03. Blood On The Hill
04. Graves Underwater
05. Post Mortem Blues
06. The Crowning Stone
07. Evil Churns
08. The Great Beyond

LINE-UP
Stefano “Stiv” Fiore – vocals
Domenico Mele – guitars
Dario “Captain” De Falco – bass
Max Marzocca – drums

THE OSSUARY – Facebook

A Sun Traverse – A Sun Traverse

Un’opera breve ma che fa presagire la prossima affermazione di una nuova realtà in grado di regalare emozioni agli estimatori del doom death melodico.

Guardando la formazione degli A Sun Traverse, band danese all’esordio con questo ep autointitolato, chi ama i Saturnus e ne conosce a menadito la storia avrà avuto senz’altro un sussulto: infatti, ad esclusione del vocalist Michael H. Andersen, tutti gli altri musicisti coinvolti nel progetto furono artefici dell’incisione di quel capolavoro intitolato Veronika DecidesTo Die (2006).

Quindi era lecito attendersi da questo gruppo un death doom melodico e dalle ampie aperture atmosferiche e così è, visto che in circa 25 minuti il sestetto di Copenhagen mette in scena quello che è naturalmente nelle loro corde.
Al netto dei due brani strumentali, è il caso di soffermarsi sulle altre tre tracce, tra le quali l’opener Still Shining ha un andamento più movimentato pur non lesinando le consuete malinconiche progressioni chitarristiche.
Molto più saturniana invece è Dance Darkness, Dance introdotta da The Meadow: qui si riconoscono alcune delle coordinate tipiche quali appunto il piano, che fa la sua apparizione sia nell’intro che in alcun parti del brano, sia il magnifico assolo di chitarra; anche The Autumn Of Fall si ammanta di magnifiche e dolenti melodie, spingendo maggiormente sul piano ritmico e trovando in qualche modo una sorta di trait d’union tra Saturnus e Swallow The Sun, complice anche lo screaming utilizzato talvolta dal bravo Andersen. Molto bella comunque anche la traccia finale, uno strumentale dai tratti davvero inquietanti, suggello di un’opera breve ma che fa presagire la prossima affermazione di una nuova realtà in grado di regalare emozioni agli estimatori del doom death melodico.

Tracklist:
1.Still Shining
2.The Meadow
3.Dance Darkness, Dance
4.The Autumn Of Fall
5.The Harvest

Line-up:
Lennart Jacobsen – bass
Nikolaj Borg – drums
Peter Erecius Poulsen – guitars
Tais Pedersen – guitars
Anders Ro Nielsen – keyboards
Michael H. Andersen – vocals

A SUN TRAVERSE – Facebook

Artemisia – Rito Apotropaico

Un album molto bello ed intenso, un passo avanti importante per gli Artemisia ed uno dei migliori esempi di metal cantato in italiano degli ultimi tempi.

Tornano gli Artemisia con il quarto album della loro carriera, a conferma dello stato di grazia raggiunto dal precedente lavoro, Stati Alterati Di Coscienza, uscito tre anni fa ed applaudito da fans e addetti ai lavori.

La band della splendida interprete Anna Ballarin e del chitarrista Vito Flebus, ormai da dieci anni nella scena metal nazionale, propone il suo disco più oscuro e dark, potenziato da scariche metalliche classic doom ed una vena psichedelica che spunta tra i brani come ipnotici occhi di un serpente pronto a colpire.
Sempre valorizzato da testi d’autore, questa nuova quarta opera dal titolo Rito Apotropaico (termine riferito a oggetto, atto, animale o formula che allontana o annulla un’influenza maligna) porta con sé una voglia di cambiamento da parte del quartetto, che potenzia la vena sabbatica del proprio sound, lasciando le sfumature alternative dei precedenti lavori e proponendosi come band metal a tutti gli effetti.
Oscuro e potente dicevamo, proprio come un rito che deve allontanare le forze oscure, con una Ballarin espressiva e a tutti gli effetti sacerdotessa di questi trentacinque minuti di metal cantato in italiano.
Leggende, magia, l’aldilà ed il sempre aberrante lato oscuro dell’uomo sono i temi trattati in questi otto brani ,con l’opener Apotropaico che, senza indugi, ci invita al sabba creato dagli Artemisia e che continua ipnotico con Il Giardino Violato, traccia dedicata al tema scottante della pedofilia.
Stupenda Tavola Antica, con in evidenza il basso di Ivano Bello, mentre la tensione metallica rimane altissima, con la protagonista che tramite una tavola ouija cerca di evocare uno spirito guida.
Doom stoner di alta qualità nella rituale Iside e atmosfera che si rilassa con le ariose armonie acustiche di La Guida, prima che il gran finale venga assicurato dalle sfuriate metalliche del trittico La Preda, Regina Guerriera e Senza Scampo.
Un album molto bello ed intenso, un passo avanti importante per gli Artemisia ed uno dei migliori esempi di metal cantato in italiano degli ultimi tempi.

TRACKLIST
1.Apotropaico
2.Il giardino violato
3.Tavola antica
4.Iside
5.La guida
6.La preda
7.Regina guerriera
8.Senza scampo

LINE-UP
Anna Ballarin – Voce
Vito Flebus – Chitarra
Ivano Bello – Basso
Gabriele “Gus” Gustin – Batteria

ARTEMISIA – Facebook

Clouds Of Dementia – Seventh Seal

Black Sabbath, Pentagram e Candlemass, nè più ne meno il sound del gruppo è ispirato a queste icone del genere, perciò un ascolto è consigliato a chi ama le band citate ed i loro figli sparsi per il mondo musicale.

Nel doom di stampo classico non sono poche le buone realtà che ci arrivano da tutto il mondo, ed in questa sede vi presentiamo il quartetto transalpino dei Clouds Of Dementia, all’esordio autoprodotto e promosso dalla Solstice Promotions, con Seventh Seal, ep di cinque brani ricchi di atmosfere heavy/doom classiche.

Tempi medi, rallentamenti e riff di granitico heavy metal si scagliano su ritmiche e sfumature messianiche in orge temporali dove vengono chiamate in causa i migliori act della musica del destino.
Dagli anni settanta passando per i vari decenni, la scena del doom classico ha vissuto una vita parallela mentre piano piano passavano le mode, continuando a proporre  litanie e riti di questa magica variante della musica heavy: i Clouds Of Dementia tutto questo lo fanno assaporare agli amanti del genere, con brani forgiati nello spartito dei mostri sacri del genere, con tutti i tasselli al loro posto e forti di una manciata di brani che da Welcome, passando per la title track e la notevole My Friend, non ci fanno risparmiare i complimenti per Jujux (voce) e soci.
Black Sabbath, Pentagram e Candlemass, ne più ne meno il sound del gruppo è ispirato a queste icone del genere, perciò un ascolto è consigliato a chi ama le band citate ed i loro figli sparsi per il mondo musicale.

TRACKLIST
1.Welcome
2.All My Prayers
3.Seventh Seal
4.Love Song
5.My Friends

LINE-UP
Jujux – Vocals
Ben – Lead Guitar
Chérubin – Rhythm Guitar
Cécile – Bass
Azra – Drums

CLOUDS OF DEMENTIA – Facebook

Dread Sovereign – For Doom The Bell Tolls

Un ep convincente, a conferma del fatto che i Dread Sovereign non sono solo un diversivo per Alan Averill.

A quasi tre anni dall’ottimo All Hell’ Martyrs ritroviamo i Dread Sovereign, quella che pare essere diventata l’attuale priorità musicale di Alan Averill alias Nemtheanga, visto il prolungarsi del silenzio discografico dei Primordial.

For Doom The Bell Tolls esce in formato 12 pollici e di fatto consta di tre brani veri e propri, più due strumentali e la cover di Live Like An Angel, Die Like A Devil dei Venom.
Il contenuto del lavoro, per quanto possa avere un carattere estemporaneo vista la sua relativa brevità, parrebbe propendere verso forme di heavy doom più in linea con la tradizione, per quanto reso sempre inquieto dal timbro vocale non comune di Averill, senza farsi mancare accelerazioni che nel precedente full length non venivano esibite in maniera così convinta.
Ritengo però che, come spesso accade negli Ep, vi sia un brano portante con tutti gli altri che gli fanno da corollario, è non c’è dubbio che questo corrisponda a Twelve Bells Toll In Salem, lungo episodio che a mio avviso rappresenta al meglio la vera natura dei Dread Sovereign, con il suo pesante carico psichedelico che si fa spazio nella seconda parte rispetto ad una prima metà in cui, invece, spadroneggia la solita debordante interpretazione di Nemtheanga su un magnifico tappeto doom.
Sarebbe facile liquidare i Dread Sovereign come una sorta di versione a 16 giri dei Primordial, alla luce anche della presenza del drummer Sol Dubh che, con il vocalist, compone la rocciosa base ritmica: in realtà le cose non stanno così perché, come già ampiamente dimostrato in All Hell’s Martyrs, Bones si dimostra ancora una volta chitarrista versatile e capace di spostare il sound della band su piani stilistici differenti, passando dai toni classici del genere a sfumature gothic, che in questo caso si manifestano maggiormente in una traccia a tratti dai sentori nefiliani come The Spines Of Saturn.
Per il resto, buona anche This World Is Doomed, specie nella sua seconda parte, quando è il doom psichedelico a prendere la scena rispetto ad una più movimentata fase iniziale, mentre la cover dei Venom è il classico elemento che nulla aggiunge e nulla toglie al valore di un lavoro che offre almeno una mezzora di musica convincente, a conferma, soprattutto, del fatto che i Dread Sovereign non sono solo un diversivo per Alan Averill, il che fa presagire buone nuove anche per il futuro.

Tracklist:
1. For Doom The Bell Tolls
2. Twelve Bells Toll In Salem
3. This World Is Doomed
4. Draped In Sepulchral Fog
5. The Spines Of Saturn
6. Live Like An Angel, Die Like A Devil (Venom Cover)

Line-up:
Nemtheanga – vocals, bass
Dubh Sol – drums
Bones – guitar

DREAD SOVEREIGN – Facebook

Faces Of The Bog – Ego Death

Ego Death scorre via intenso e soprattutto vario, ciò che, alla fine, si manifesta come il suo vero punto di forza assieme ad una scrittura che si tiene a costante distanza di sicurezza da soluzioni cervellotiche.

I Faces Of The Bog provengono da Chicago ed offrono, con questo loro esordio intitolato Ego Death, uno sludge doom dai tratti piuttosto orecchiabili, almeno se raffrontati alle uscite più frequenti nel genere.

Infatti, il quartetto immette nel proprio sound una buona dose di psichedelia e, inoltre, a tratti pare di ascoltare una sorta di grunge dai toni molto più minacciosi (Slow Burn) conferiti dalle chitarre ultra ribassate e da una voce aspra.
Tutto questo consente ai Faces Of The Bog di differenziarsi sufficientemente dai canoni del genere, proprio in virtù di un indole progressiva che porta l’album su piani differenti, e in tal senso risultano emblematiche le ultime due tracce: The Weaver, che dopo una sua prima metà tooliana fino al midollo si apre in un più tradizionale e coinvolgente doom, e Blue Lotus, lungo viaggio psichedelico in cui sono nuovamente le chitarre, come sul brano precedente, a condurre le danze nella part conclusiva.
In effetti lo sludge, nel complesso del lavoro, rappresenta più una solida base su cui edificare il sound che non la sua vera essenza, ma non bisogna neppure pensare che Ego Death risulti poco profondo od ancor peggio leggero: la differenza qui la fa la capacità dei ragazzi dell’Illinois nello scovare sempre e comunque degli efficaci sbocchi melodici anche quando i brani paiono avviati ineluttabilmente avvolgersi su stessi.
Se l’obiettivo dei Faces Of The Bog era quello di comporre un album brillante e non troppo ostico all’ascolto, pur senza rinunciare ad andarci giù pesante, direi che ci sono riusciti in pieno: dal magnifico strumentale d’apertura Precipice alla già citata chiusura affidata a Blue Lotus, Ego Death scorre via intenso e soprattutto vario, ciò che, alla fine, si manifesta come il suo vero punto di forza assieme ad una scrittura che si tiene a costante distanza di sicurezza da soluzioni cervellotiche.
Un primo passo decisamente brillante.

Tracklist:
1.Precipice
2.Drifter in the Abyss
3.Slow Burn
4.The Serpent & The Dagger
5.Ego Death
6.The Weaver
7.Blue Lotus

Line-up:
Paul Bradfield – Bass
DannyGarcia – Drums/Percussion
Mark Stephen Gizewski – Guitars/Vocals
Trey Wedgeworth – Guitars/Vocals

Additional Credits:
Sanford Parker – Synth/FX

FACES OF THE BOG – Facebook

VV.AA. – Transcending Obscurity Label Sampler 2016

Cliccando il link che troverete in calce all’articolo, avrete la ghiotta opportunità di fare un bel giro metallico del globo, gentilmente offerto da Kunal Choksi e dalla sua Transcending Obscurity.

La Transcending Obscurity è un’etichetta alla quale noi di MetalEyes siamo particolarmente affezionati: intanto perché, quando abbiamo iniziato ad occuparci di metal qualche anno fa, ancora all’interno di In Your Eyes, la label indiana è stata una delle prime a darci credito senza farsi troppe domande su chi fossimo o quanti contatti facessimo, e poi, soprattutto, perché colui che ne regge fila, Kunal Choksi, è uno di quei personaggi che dovrebbero essere clonati per tutto quello che ha fatto e sta facendo per la diffusione del verbo metallico in Asia.

Dopo questo doveroso panerigico nei confronti del dinamico discografico di Mumbai, non resta che invitare ogni appassionato di metal che si rispetti a fare propria questa esaustiva compilation contenente un brano di ciascuna delle band appartenenti alla scuderia delle Transcending Obscurity, tanto più che il tutto è scaricabile gratuitamente dal bandcamp.
Lì troviamo cinquantacinque tracce che offrono contributi provenienti da nomi già noti ed altri ancora da scoprire, abbracciando tutti i generi estremi, a partire soprattutto dal death metal, spesso rappresentato nella sua versione old schol, passando per il black ed il doom, con qualche sconfinamento nel thrash, nello stoner/sludge e nel più tradizionale heavy metal.
Molti di questi brani fanno parte di album che abbiamo avuto il piacere di recensire, quasi tutti accompagnati da valutazioni lusinghiere, segno di un roster dal livello medio molto elevato, benché composto per lo più da realtà dalla notorietà confinata all’underground.
Quasi superfluo segnalare uno o l’altro brano, si può solo aggiungere che per chi ama il death c’è da sbizzarrirsi, tra i Paganizer dell’onnipresente Rogga Johnasson, i Sepulchral Curse e gli storici Warlord UK, per i death/doomsters le icone Officium Triste e Mythological Cold Towers e i più recenti Chalice of Suffering e Illimitable Dolor, mentre per chi predilige sonorità più distorte e stonate ci sono gli Altar Of Betelgeuze, gli Algoma e i The Whorehouse Massacre e per i blacksters realtà stimolanti come i Norse, i Seedna ed i Somnium Nox, tutto questo senza voler fare alcun torto a chi non è stato citato.
Infine, questa compilation offre la possibilità anche ai più scettici di farsi un’idea di quale sia il livello raggiunto dalle band asiatiche, autrici spesso di opere di livello pari, se non superiori, a quelle dei corrispettivi europei od americani: cito tra queste i “vedic metallers” Rudra, i Grossty, i Dormant Inferno ed i Darkrypt (da notare che la sezione asiatica è facilmente individuabile essendo stata racchiusa negli ultimi quindici brani).
Quindi, cliccando il link che troverete in calce all’articolo, avrete la ghiotta opportunità di fare un bel giro metallico del globo, gentilmente offerto da Kunal Choksi e dalla sua Transcending Obscurity.

Tracklist:
1. Officium Triste (Netherlands) – Your Heaven, My Underworld (Death/Doom Metal)
2. Mythological Cold Towers (Brazil) – Vetustus (Death/Doom Metal)
3. Paganizer (Sweden) – Adjacent to Purgatory (Old School Death Metal)
4. Ursinne (International) – Talons (Old School Death Metal)
5. Echelon (International) – Lex Talionis (Classic Death Metal)
6. Henry Kane (Sweden) – Skuld Och Begar (Death Metal/Crust)
7. Stench Price (International) – Living Fumes ft. Dan Lilker (Experimental Grindcore)
8. Sepulchral Curse (Finland) – Envisioned In Scars (Blackened Death Metal)
9. Fetid Zombie (US) – Devour the Virtuous (Old School Death Metal)
10. Infinitum Obscure (Mexico) – Towards the Eternal Dark (Dark Death Metal)
11. Altar of Betelgeuze (Finland) – Among the Ruins (Stoner Death Metal)
12. Illimitable Dolor (Australia) – Comet Dies or Shines (Atmospheric Doom/Death)
13. The Furor (Australia) – Cavalries of the Occult (Black/Death Metal)
14. Warlord UK (United Kingdom) – Maximum Carnage (Old School Death Metal)
15. Norse (Australia) – Drowned By Hope (Dissonant Black Metal)
16. Soothsayer (Ireland) – Of Locust and Moths (Atmospheric Doom/Sludge)
17. Swampcult (Netherlands) – Chapter I: The Village (Lovecraftian Black/Doom Metal)
18. Seedna (Sweden) – Wander (Atmospheric Black Metal)
19. The Slow Death (Australia) – Adrift (Atmospheric Doom Metal)
20. Arkheth (Australia) – Your Swamp My Wretched Queen (Experimental Black Metal)
21. Mindkult (US) – Howling Witch (Doom/Stoner Metal)
22. Warcrab (UK) – Destroyer of Worlds (Death Metal/Sludge)
23. Isgherurd Morth (International) – Lucir Stormalah (Avant-garde Black Metal)
24. Lurk (Finland) – Ostrakismos (Atmospheric Doom/Sludge Metal)
25. Come Back From The Dead (Spain) – Better Morbid Than Slaves (Old School Death Metal)
26. Somnium Nox (Australia) – Apocrypha (Atmospheric Black Metal)
27. MRTVI (UK) – This Shell Is A Mess (Experimental Black Metal)
28. Veilburner (US) – Necroquantum Plague Asylum (Experimental Black/Death Metal)
29. Jupiterian (Brazil) – Permanent Grey (Doom/Sludge Metal)
30. Exordium Mors (New Zealand) – As Vultures Descend (Black/Thrash Metal)
31. Embalmed (US) – Brutal Delivery of Vengeance (Brutal Death Metal)
32. Gloom (Spain) – Erik Zann (Blackened Brutal Death Metal)
33. Marasmus (US) – Conjuring Enormity (Death Metal)
34. Algoma (Canada) – Reclaimed By The Forest (Sludge/Doom Metal)
35. Cemetery Winds (Finland) – Realm of the Open Tombs (Blackened Death Metal)
36. Marginal (Belgium) – Sign of the Times (Crust/Grind)
37. Chalice of Suffering (US) – Who Will Cry (Death/Doom Metal)
38. Briargh (Spain) – Sword of Woe (Pagan Black Metal)
39. Ashen Horde (US) – Desecration of the Sanctuary (Progressive Black Metal)
40. The Whorehouse Massacre (Canada) – Intergalactic Hell (Atmospheric Sludge)
41. Rudra (Singapore) – Ancient Fourth (Vedic Metal)
42. Dusk (Pakistan) – For Majestic Nights (Death/Doom Metal)
43. Ilemauzar (Singapore) – The Dissolute Assumption (Black/Death Metal)
44. Severe Dementia (Bangladesh) – The Tormentor (Old School Death Metal)
45. Warhound (Bangladesh) – Flesh Decay (Old School Death Metal)
46. Assault (Singapore) – Ghettos (Death/Thrash Metal)
47. Gutslit (India) – Scaphism (Brutal Death/Grind)
48. Plague Throat (India) – Inherited Failure (Death Metal)
49. Darkrypt (India) – Dark Crypt (Dark Death Metal)
50. Against Evil (India) – Stand Up and Fight! (Heavy Metal)
51. Grossty (India) – Gounder Grind (Grindcore/Crust)
52. Dormant Inferno (India) – Embers of You (Death/Doom Metal)
53. Carnage Inc. (India) – Defiled (Thrash Metal)
54. Lucidreams (India) – Ballox (Heavy Metal)
55. Nightgrave (India) – Augment (Experimental Black Metal/Shoegaze)

TRANSCENDING OBSCURITY – Facebook

Ursa – The Yerba Buena Session

Gli Ursa riescono a mantenere un’ottima tensione per tutto il disco, e queste sessioni assumono il carattere di jam composte molto bene.

Gli Ursa sono la dimostrazione che con talento e passione si può fare un ottimo doom stoner metal, pur provenendo da un ambito diverso dell’universo metal.

I tre provengono da Petaluma in California, stato fresco della legalizzazione dell’erba, e questo disco è appunto un lungo viaggio in cinque canzoni in download libero.
La nascita degli Ursa si deve ad un progetto parallelo di tre quarti dei Cormorant, un buon gruppo black metal. I tre si staccano momentaneamente dal gruppo madre per fare del doom stoner di alta qualità.
Il loro suono parte dalle coordinate classiche del genere, con un passo arioso ma che non tralascia momenti maggiormente veloci, anche con l’ottimo ausilio di un organo. Gli Ursa riescono a mantenere un’ottima tensione per tutto il disco, e queste sessioni assumono il carattere di jam composte molto bene. Una delle grandi protagoniste in questo disco è l’epicità delle canzoni, e anche i testi riflettono un amore per il fantasy e per il fantastico in genere. A volte spunta il loro amore per il black metal in alcune energiche tirate, che non sono di fatto black ma che lasciano trasparire ciò. Ci si deve addentrare in The Yerba Buena Sessions per carpirne il forte carattere e la gran classe, e per gustare a fondo questo ottimo ed epico doom stoner.
In definitiva un disco che vi stupirà e che conferma l’ottima via americana al doom epico.

TRACKLIST
1.Wizard’s Path
2.Frost Giantess
3.Thirteen Witches
4.Scourge of Uraeus
5.Dragon’s Beard

LINE-UP
Brennan – Drums & Synth
Matt – Bass & Vocals
Nick – Guitars & Synth

Yith – Dread

Yith sforna un disco cthulhiano dai nobili e orrorifici propositi che, pur non potendo dirsi un capolavoro, vale il prezzo del biglietto

Dread – un dischetto ibrido black / doom che non si lascia andare ad eccessi avanguardisti – è il debutto di Yith, one-man band statunitense che negli anni scorsi ci aveva deliziati con svariati demo che lasciavano ben sperare per il futuro. Prodotto, questo, confezionato con cura maniacale fin dalle copertine: la prima è un bellissimo olio di G. Illness – uno dei maggiori paesaggisti della pittura americana moderna – mentre la seconda riporta Le Prisonnier di Odilon Redon, oggi conservato al Musée des Beaux Arts di Nantes.

Dread è un’opera lovecraftiana fin dai titoli (Centuries of Horror, ad esempio, fa sicuramente venire in mente l’epica e l’universo dello scrittore statunitense) che si propone di narrare in musica l’odissea esistenziale degli umani che vengono a contatto con l’orrore del malevolo Cthulhu, Yuggoth e consoci: il ché – ammetteranno gli appassionati – non è certo compito facile visto la portata del genio letterario di cui stiamo parlando. Se il concetto che vi sta dietro è interessante e complesso, il lavoro finito è più solido che brillante. L’album si apre con Time and Loss: arpeggi acustici, di tentazione (trattenuta) quasi neo-folk, che esplodono prestissimo in un dapprima monolitico e veloce black metal ortodosso che rallenta a tratti per farsi doom. Ma è dalla seconda traccia che l’album svolta: Resentment è forse il brano più rappresentativo del disco. Brano compatto che si apre, verso la fine, ad un pattern di interessantissimi riff astrali alternati a momenti più funerei, a simboleggiare la “doppia dimensione” lovecraftiana, divisa tra gli spazi cosmici e multidimensionali – comunque sempre cupi e spaventosi – in cui vivono le forze e l’entità del suo universo e il mistero, tutto terreno, che suscita agli involontari umani e agli adepti che vengono a contatto con rimandi, culti, sette iniziatiche, tracce che tali entità hanno sparso nel mondo: soluzione interessantissima questa ai fini di tradurre in musica il concept dell’album, che sarebbe potuta esser sfruttata in maniera maggiormente coraggiosa, azzardando qualcosina di più. Successivamente, mentre Remembrance funziona da intermezzo acustico (piuttosto inutile e superficiale), Upon Dark Shores sorprende per il suo dividersi equamente – a frazioni – tra un black tanto oscuro quanto canonico e certi raffinati citazionismi a quella scuola doom anni ’90, sulla falsa riga dei primi Thergothon di Fhtagn-nagh Yog-Sothoth – a loro volta affascinati dallo scrittore statunitense -. Infine, la breve e inaspettata Immurement – con tastiere, synth eterei e lugubri, certe sonorità alla Lustre in versione più funeral – chiude il lavoro in maniera azzeccata: misterica e ambienteggiante.

Se il concept che sottostà a questo disco – patrizio nelle intenzioni – è indubbiamente notevole, il prodotto finito purtroppo non è sempre all’altezza dei propositi. Le vocalità non sono mai particolarmente originali o incisive, ma la fase di produzione è attenta e curata. Il tutto vanta comunque la ripresa di un mondo letterario nobilissimo, oltre a momenti e cavalcate talvolta avvincenti e interessanti. Purtroppo è un album che, vista la sovrabbondanza di dischi simili e/o di superiore livello, rischia di finire presto risucchiato e dimenticato in quel gigantesco maelstrom da fast-food che è il metal attuale: merita invece a nostro giudizio almeno un ascolto, perlomeno da quella nobilissima frangia di cultori più attenta, colta e fanatica. E poi, diciamocelo, il binomio Lovecraft / black-doom è sempre sfiziosissimo.

TRACKLIST:
1. Time and Loss
2. Resentment
3. Remembrance
4. Dread
5. Centuries of Horror
6. Upon Dark Shores
7. Immurement

LINE-UP:
Yith – All instruments

YITH – Facebook

Mangog – Awakens

L’effetto di insieme è notevole e questo Awakens è un disco gigantesco, con pesanti giri di chitarra ed un’interpretazione canora affatto comune: la bestia avanza lentamente.

Ci sono luoghi dove certe cose vengono fatte meglio rispetto al resto del mondo, per esempio nel Maryland il doom classico lo fanno meglio, e il nuovo disco dei Mangog ne è la dimostrazione.

Questa nuova bestia che porta riff e cattiveria è formata da membri di altri notevoli gruppi del Maryland, come Beelzefuzz, Iron Man e Revelation. Tutti questi gruppi hanno in comune una visione classica del doom metal, fatta di grassi e lenti giri di chitarra, un basso ben piazzato e batteria piuttosto sabbathiana. L’effetto di insieme è notevole e questo Awakens è un disco gigantesco, con pesanti giri di chitarra ed un’interpretazione canora affatto comune: la bestia avanza lentamente.
Questo è un disco di doom underground al 100 % e ogni canzone scava a fondo, rompendo tutto ciò che incontra. Il suono della chitarra ha vari registri, e non ci sono solo giri lenti, ma anche canzoni più veloci, che testimoniano la versatilità del gruppo che rende di altro livello tutte le canzoni. In alcuni momenti ci sono anche offerte a dei di altri generi, tanto che la voce di Myke Wells sembra quasi heavy metal, e il gruppo offre sempre ottimi spunti.
Nell’insieme questa seconda prova dei Mangog, dopo l’ep del 2015 Daydreams Within Nightmares, è un disco meravigliosamente pesante, che farà la gioia di chi ama il doom classico, ma molti elementi musicali vanno ben oltre la classicità. I Mangog uniscono vari stili pera arrivare ad un risultato notevole, e Awakens sta riscuotendo già ottime accoglienze, sia per il peso dei nomi coinvolti sia per la sua qualità. Tutte le canzoni sono ottime, e la produzione minimale aggiunge ancora maggior peso al disco. Da Baltimora la musica del destino.

TRACKLIST
1. Time Is a Prison
2. Meld
3. Ab Intra
4. Of Your Deceit
5. Into Infamy
6. Modern Day Concubine
7. A Tongue Full of Lies
8. Daydreams Within Nightmares
9. Eyes Wide Shut

LINE-UP
Myke Wells – Vocals
Bert Hall, Jr. – Guitars, vocals, devices
Darby Cox – Basses
Mike Rix – Drums

MANGOG – Facebook

Ephedra – Can’ – Ka No Rey

Gli Ephedra vanno in profondità nello scrivere le loro canzoni e fanno provare all’ascoltatore un’esperienza nuova, ampliando le possibilità della musica strumentale, con la loro miscela di stoner doom ed heavy metal.

Le miscele se equilibrate e fatte bene sono irresistibili.

E’ questo il caso degli Ephedra, da Zofingen nel cantone Argovia, quartetto svizzero che propone un suono davvero particolare, a cavallo di molti generi, tra i quali lo stoner, il doom, ma con un fortissimo substrato di heavy metal, più che altro un sentire. In questo disco d’esordio gli Ephedra fanno sfoggio di un suono che non è facile da sentire, possiamo prendere come punto di partenza la musica pesante strumentale dei Karma To Burn. ad esempio, anche se qui la filigrana è più sottile, ma giusto per far capire all’ascoltatore cosa lo aspetta. Partendo da queste coordinate gli Ephedra viaggiano fra i generi, e nella stessa canzone possiamo ascoltare post rock, post metal ed altro. Ancora più in profondità la struttura della maggior parte delle canzoni è composta da un’epicità e classicità metal davvero peculiare. Gli Ephedra vanno in profondità nello scrivere le loro canzoni e fanno provare all’ascoltatore un’esperienza nuova, ampliando le possibilità della musica strumentale, rendendo Can’- Ka No Rey un disco molto particolare. Il titolo del disco deriva dal nome di un luogo nella saga della Torre Nera di Stephen King, e questo già rende bene l’idea dell’epicità fantasy insita in questo disco, che è davvero piacevole alle orecchie di chi lo sente, perché è strutturato davvero bene. Gli svizzeri fanno venire voglia di sentirli molte volte, e sarà interessante testarli dal vivo, anche perché il loro suono è stato costruito sui palchi delle loro numerose esibizioni di fronte al pubblico. Un album di esordio molto positivo, ma che soprattutto si distacca dalla media dei lavori di altre band a loro affini.

TRACKLIST
1.Vicious Circle
2.Bad Hair Day
3.Mother Stone
4.Cornfield Disaster
5.Monday Morning
6.Metamorphosis Calypso
7.Coco Mango Soup
8.Happy Threesome
9.Road Trip
10.Barstool Philosophy
11.Moonshiner
12.Southern Love

LINE-UP
Roman Hüsler -Guitar
Andy Brunner – Guitar
Kilian Tellenbach – Bass
Tomi Roth – Drums

EPHEDRA – Facebook

The Ruins Of Beverast – Takitum Tootem!

Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

The Ruins Of Beverast è un progetto solista di Alexander Von Meilenwald, il quale agita i sonni degli appassionati di metal estremo da quasi una quindicina d’anni.

Il black doom del musicista tedesco è sempre stato caratterizzato dalla sua non omologazione ai canoni dei generi di riferimento, collocandosi costantemente un passo avanti rispetto alle posizioni consolidate.
Non fa eccezione questo Ep intitolato Takitum Tootem!, con il quale il nostro si concede un’esplorazione più approfondita di territori ancor più sperimentali, lasciando che la propria musica si faccia avvolgere da un flusso rituale e psichedelico.
Il primo dei due brani raffigura, come il titolo stesso fa intuire, una sorta di rito sciamanico che si protrae nella fase iniziale per poi sfociare in una traccia che presenta sfumatura industrial, in virtù di un mood ossessivo (che potrebbe ricordare alla lontana certe cose dei migliori Ministry), ideale prosecuzione dell’invocazione/preghiera ascoltata in precedenza: questi otto minuti abbondanti costituiscono un’espressione musicale di grande spessore e profondità, tanto che quando il flusso sonoro improvvisamente si arresta provoca una sorta di scompenso alla mente oramai assuefatta a quell’insidioso martellamento.
Il vuoto viene ben presto riempito dalla magistrale cover di una pietra miliare della psichedelia, la pinkfloydiana Set The Controls For The Heart Of The Sun, che viene resa in maniera in maniera del tutto personale pur mantenendone l’impronta di base, ma conferendole ovviamente una struttura maggiormente aspra e, se, possibile, ancor più ossessiva; l’idea di farla sfumare nella stessa invocazione rituale che costituiva l’incipit del primo brano conferisce al tutto un‘andamento circolare, creando così una sorta di loop se si imposta il lettore in modalità “repeat all”.
Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

Tracklist:
1. Takitum Tootem (Wardance)
2. Set The Controls For The Heart Of The Sun

Line-up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=vbvvbokHtaw