Dark Tranquillity – Atoma

Una band che, pur occupando con merito un posto di rilievo nella storia del metal, continua a calcare i palchi con lo spirito di un tempo e con la consapevolezza di chi sa di poter regalare ancora dell’ottima musica ai propri numerosi estimatori.

Circa 2000 anni fa Plutarco scrisse Le Vite Parallele, un opera importante che costituiva un primo esempio di letteratura biografica, utilizzando quale metodo narrativo la comparazione tra personaggi storici dalle analoghe caratteristiche appartenenti alla storia greca e romana.

Se lo scrittore e filosofo ellenico fosse stato un nostro contemporaneo e, magari, si fosse occupato anche di musica, avrebbe potuto sicuramente riservare un capitolo a due band che occupano un posto di rilievo nella storia del metal, In Flames e Dark Tranquillity.
Infatti, la storia di questi due gruppi, nati nella stesa città e pressapoco negli stessi anni, è emblematica di come, nella vita, ciascuno sia destinato prima o poi a prendere direzioni diverse pur percorrendo una strada comune per diverso tempo.
Inventori del Gothenburg Sound, più prosaicamente conosciuto come death melodico, Dark Tranquillity ed In Flames presero le mosse all’inizio degli anni ’90 e, a rimarcare la stretta connessione tra le due band, nei rispettivi full length d’esordio ebbero in comune persino il vocalist, visto che Mikael Stanne, storico singer dei Dark Tranquillity, prestò la sua voce all’esordio degli In Flames, intitolato Lunar Strain, prima di lasciare il posto in via definitiva ad Anders Friden.
Le due band percorsero la stessa strada, costellata di successi ed album di grande spessore, fino agli ultimi anni del secolo, quando i Dark Tranquillity impressero un’improvvisa svolta gothic al proprio sound con lo splendido Projector, mentre gli In Flames, con Colony, preparavano la svolta modernista di Clayman, album che sarebbe risultato lo spartiacque per la band di Friden, nonché l’imprevedibile imbocco di una strada senza ritorno.
Avvenne così che, mentre Stanne e soci, nonostante i buoni riscontri, tornarono sui propri passi rientrando nel loro più rassicurante trademark ma conservando, sia pure in maniera meno accentuata, gli aspetti peculiari immessi in Projector, gli In Flames impressero al loro sound una svolta commerciale che vide svanire progressivamente qualsiasi traccia di death per sostituirlo con una forma di metal moderno, discreto nelle sue prime espressioni ma resosi via via sempre più inoffensivo.
Il resto è storia dei nostri giorni: i Dark Tranquillity continuano a mettere a ferro e fuoco i palchi di tutta Europa, gratificando la numerosa frangia di fedeli seguaci con la riproposizione di un sound che potrà anche aver smarrito la propria carica innovativa, ma che viene proposto sempre con tanta e tale classe e maestria da risultare comunque al passo con i tempi. Ben diversa è la parabola degli storici dirimpettai, che quasi contemporaneamente (ed ecco quello che sarà forse l’ultimo parallelismo) hanno pubblicato Battles, album deludente del quale si può rinvenire, nella recensione scritta da Alberto per MetalEyes, tutta la delusione del fan di vecchia data.
Io ho sempre preferito, invece, tra le due band i Dark Tranquillity, e sono felice di constatare che la loro stella non ha smesso di brillare: lo scettro del death melodico è sempre nelle mani di Stanne e soci e, anche se vengono insidiati ormai da vicino da numerose realtà che, dalla loro, hanno quell’urgenza compositiva che non si può richiedere a chi calca la scena da oltre un quarto di secolo, non è solo il carisma a consentire loro il mantenimento di questo status ma sono i fatti parlare, sotto forma di un ottimo album come Atoma.
Infatti, considerando che i nostri mantengono ormai da un po’ un cadenza regolare di un album ogni tre anni, bisogna risalire a Fiction, datato 2007, per trovare un altra uscita di livello medio alto: nel nuovo lavoro, probabilmente, non sono rinvenibili brani epocali (i miei preferiti sono la title-track, The Pitiless e l’evocativa Merciless Fate) ma si tratta indubbiamente di una raccolta molto compatta e priva di filler.
La dozzina di canzoni vede un Mikael Stanne sempre in grande spolvero, anche nelle parti pulite, supportato da musicisti che riuscirebbero ad interpretare alla perfezione il genere anche con gli occhi bendati e le mani legate: chi li ha visti recentemente dal vivo non può che suffragare questa sensazione di trovarsi al cospetto di una band che, pur occupando con merito un posto di rilievo nella storia del metal, continua a calcare i palchi con lo spirito di un tempo e con la consapevolezza di chi sa di poter regalare ancora dell’ottima musica ai propri numerosi estimatori.

Tracklist:
1. Encircled
2. Atoma
3. Forward Momentum
4. Neutrality
5. Force of Hand
6. Faithless by Default
7. The Pitiless
8. Our Proof of Life
9. Clearing Skies
10. When the World Screams
11. Merciless Fate
12. Caves and Embers

Line-up:
Anders Iwers – Bass
Anders Jivarp – Drums
Niklas Sundin – Guitars
Mikael Stanne – Vocals
Martin Brändström – Electronics

DARK TRANQUILLITY – Facebook

Kansas- The Prelude Implicit

Questo nuovo album dimostra come una grandissima band attiva da oltre quarant’anni, peraltro rivoluzionata nella line-up per l’ennesima volta, possa tranquillamente reggere il cambiamento dei tempi.

Eccomi con grande emozione a parlare del nuovo prodotto di una band storica come i Kansas che, a distanza di sedici anni, riappare prepotentemente con un album nuovo di zecca, The Prelude Implicit.

Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di un gruppo che apprezzo da sempre e che ha segnato una fase importante nella musica d’oltre oceano, oltre ad aver ispirato moltissimi gruppi che hanno tratto ispirazione dalla loro musica a piene mani. Questo nuovo prodotto è ovviamente maturo e dimostra come una grandissima band attiva da oltre quarant’anni, peraltro rivoluzionata nella line-up per l’ennesima volta, possa tranquillamente reggere il cambiamento dei tempi. Entrando nel dettaglio, si scopre così un ottimo vocalist come Ronnie Platt, grandissimo nell’essere originale e nel non voler ricordare a tutti i costi Steve Walsh. I pezzi si susseguono ed emerge la maestria di un gruppo sempre al vertice: The Voyage of Eight Eighteen è a mio parere il classico pezzo di punta dell’intero album, con i suoi 8’18” di pieno orgasmo prog. Commentare la bravura dei Kansas è difficile, basterebbe solo dire che The Prelude Implicit è un album sicuramente da ascoltare e che piacerà agli amanti sia del metalprog che del prog classico. Ballate, assoli e il classico violino di David Ragsdale faranno riaffiorare emozioni mai sopite negli amanti del genere. Phil Ehart e Billy Greer sostengono le dinamiche della band in maniera perfetta, Dave Manion alle tastiere risulta preciso e mai invadente e la coppia Williams-Rizvi alle chitarre, entrambi grandissimi, completano il combo. Insomma, da non perdere …

TRACKLIST
1.With This Heart
2.Visibility Zero
3.The Unsung Heroes
4.Rhythm in the Spirit
5.Refugee
6.The Voyage of Eight Eighteen
7.Camouflage
8.Summer
9.Crowded Isolation
10.Section 60

Bonus Tracks:
11.Home on the Range
12.Oh Shenandoah

LINE-UP
Ronnie Platt – voce, piano
Richard “Rich” Williams – chitarra acustica, chitarra elettrica
Billy Greer – basso, voce, cori
Phil Ehart – batteria, percussioni
David Manion – piano, tastiera, organo
Zak Rizvi – chitarra elettrica, cori
David Ragsdale – violino, cori

Clouds – Departe

Departe è uno dei capolavori dell’anno, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom.

Quando qualche anno fa Daniel Neagoe, tra un capolavoro e l’altro dei suoi Eye Of Solitude, mise in piedi il progetto denominato Clouds, c’era la sensazione che potesse trattarsi di un progetto estemporaneo, per quanto splendido, alla luce di una line-up composita dal punto di vista logistico.

Oggi, anche se le redini compositive sono sempre ben salde nelle mani del musicista rumeno, con il secondo full length intitolato Departe, i Clouds fanno quel definitivo salto di qualità che conferma e rafforza il valore espresso con il precedente Doliu, facendolo apparire ancor più frutto del lavoro di una vera e propria band, e che band …
La definizione di supergruppo del funeral/death doom qui ci sta tutta e nessuno la può contestare: possiamo definire altrimenti un combo che presenta, oltre al proprio mastermind, il suo storico sodale Déhà (Deos, Slow, Imber Luminis, Yhdarl, We Al Die Laughing, e altri mille), Mark Antoniades (Eye Of Solitude), Jón Aldará (Hamferd, Barren Earth) Pim Blankenstein (Officium Triste), Natalie Koskinen e Jarno Salomaa (Shape Of Despair), Kostas Panagiotou (Pantheist, Wijlen Wij) e Shaun MacGowan (My Dying Bride)?
Non sempre la somma dei valori in campo corrisponde al prodotto finale, ed è proprio su questo punto che Departe ribalta le carte in tavola, riuscendo paradossalmente a spingersi anche oltre.
Clouds nasce come un progetto dedicato a chi non è più tra noi e questo, dal lato compositivo, si percepisce in ogni singola nota tramite la quale l’ascoltatore viene sommerso dalla commozione, il dolore ed il rimpianto, tutti sentimenti espressi da brani di bellezza irreale.
How Can I Be There è la prima gemma che si palesa alle nostre fortunate orecchie: una lunga e soffusa introduzione prepara il terreno al climax, che sopraggiungerà al momento dell’esplosione del growl di Daniel all’unisono con gli strumenti in sottofondo, seguendo un modus operandi non dissimile da quello degli Eye Of Soitude: nulla di strano, quando la mente compositiva è la stessa, ma nel sound dei Clouds è la malinconia, che questa traccia riesce a produrre a profusione, a prevalere sulla disperazione.
Migration è semplicemente uno dei brani più belli e toccanti mai ascoltati nella mia già abbastanza lunga vita di musicofilo: la voce spettacolare di Jón Aldará è il valore aggiunto, grazie a superlative clean vocals  che fungono da contrappeso ad un growl catacombale e a una struttura musicale che non lacera con il suo penoso incedere, bensì penetra e si insinua sottopelle con tutto il suo carico di nostalgico rammarico.
In The Ocean Of My Tears, interpretata da Natalie Koskinen, è un altro esempio di poesia musicale, introdotta da atmosfere dal sapore folk: ciò che nel brano si perde in drammaticità, si acquisisce in levità grazie alla voce della cantante finlandese e, in fondo, si rivela un mezzo diverso per evocare ugualmente quel senso di abbandono che nell’album non viene mai meno.
In All This Dark è uno dei sempre più frequenti brani in cui le clean vocals sono utilizzate in maniera consistente da Daniel Neagoe in alternativa al growl, a conferma di una crescita esponenziale negli ultimi anni della sua tecnica vocale, il che lo ha portato ad essere una delle migliori voci del metal odierno, non solo del genere specifico: anche quest’episodio conserva un livello di pathos non comune, pur mantenendo caratteristiche quanto mai atmosferiche.
E’ uno dei decani della scena, Pim Blankestein, storica voce degli Officium Triste, a prendere la scena nella magnifica Driftwood, assieme all’inconfondibile tocco chitarristico di Salomaa, che tesse nel finale una tela di passaggi indimenticabili.
La chiusura è affidata a I Gave My Heart Away, ed è inutile sottolineare quanto si tratti dell’ennesima gemma musicale, regalata a chi ne sa godere, contenuta in quest’album: chitarra, tastiere e violino producono un insieme che va a creare un contrasto esaltante con il growl, a sua volta appoggiato su un tappeto sonoro che, per quanto toccante, mostra fiochi barlumi di luce.
I Clouds rappresentano l’altra faccia della medaglia degli Eye Of Solitude, a ben vedere: se questi ultimi raffigurano in maniera tragica ed aspra il malessere esistenziale e la conseguente reazione all’ineluttabilità di un destino già scritto, i primi prefigurano una sorta di rassegnata accettazione di tutto questo, esprimendola con un sound più atmosferico e soffuso, dai toni consolatori.
Se vogliamo, anche il passaggio dal lutto (Doliu) alla lontananza (Departe) porta su un piano differente l’elaborazione del dolore: nel primo caso si descrivono la fase del distacco e le inevitabili lacerazioni che esso provoca, mentre nel secondo chi è scomparso fisicamente viene idealizzato spiritualmente in un non-luogo, il che consente di conservarne con nitidezza il ricordo, finendo per esacerbare ancor più il rimpianto .
Departe è uno dei capolavori dell’anno, e questo sia chiaro, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom. Qui siamo di fronte ad un’opera d’arte musicale che travalica generi e mode, peccato per chi pensa che la musica debba essere solo allegra, con la finalità di far muovere le membra umane in una grottesca e plastificata simulazione di felicità; i Clouds, al contrario, conducono ad un’estasi raggiungibile necessariamente tramite una catarsi emotiva indotta dalla tristezza.
Qualcuno ha scritto che un essere umano incapace di emozionarsi fa paura: sottoscrivo in pieno.

Tracklist:
1. How Can I Be There
2. Migration
3. In the Ocean of My Tears
4. In All This Dark
5. Driftwood
6. I Gave My Heart Away

Line-up:
Daniel Neagoe – Drums, Vocals
Jarno Salomaa – Guitars
Déhà – Guitars, Bass
Kostas Panagiotou – Keyboards
Jón Aldará – Vocals
Pim Blankenstein – Vocals
Eek – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Natalie Koskinen – Vocals
Shaun MacGowan – Violin

CLOUDS – Facebook

Path Of Sorrow – Fearytales

Se questo album fosse stato pubblicato da una band svedese un po’ di anni fa, i Path Of Sorrow sarebbero comparsi sulle copertine delle riviste di settore al fianco di At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity, ecc. tutto qui … e non è poco.

Sono passate due settimane da quando mi sono seduto alla scrivania per tentare di raccontare i contenuti dell’ultimo album degli In Flames.

La mia recensione la potete trovare qui su MetalEyes e chi l’ha già letta sa che la delusione del sottoscritto per un gruppo storico che, di fatto non esiste più, è stata tanta ed è alta la sensazione che il canto del cigno per un certo tipo di death metal melodico sia alle porte.
Fortunatamente ci pensa la scena underground a tenere alta la bandiera di un genere che, in barba agli imbolsiti protagonisti dell’ultimo decennio del secolo scorso, carica il suo cannone metallico di bombe devastanti (qualitativamente parlando) e mira al cuore degli amanti del metal estremo melodico centrandoli in pieno.
Dai vicoli che scendono a mare, tra gli anfratti e gli angoli dimenticati dal tempo di un centro storico che pompa sangue metallico in una Genova che, per una volta, si veste da Göteborg, arrivano i Path Of Sorrow, al debutto su lunga distanza con questo splendido esempio di death metal melodico come lo hanno voluto e creato i maestri svedesi più di vent’anni fa, irrobustito da letali dosi di thrash metal, ed impreziosito da una vena melodica entusiasmante.
Attiva dal 2012, la band arriva a questo primo episodio dopo tanta gavetta a suon di concerti (con Necrodeath, Electrocution, The Modern Age Slavery, Epitaph, The Vision Bleak) e vari cambi di line up che portano alla formazione attuale, alla firma con Buil2Kill Records e alla porta dei Blackwave Studio di Fabio Palombi (Nerve), che si chiude alle loro spalle per riaprirsi solo quando Fearytales è pronto per travolgervi con undici spettacolari brani in cui melodic death, thrash, sfumature ed atmosfere dark gothic, vi confonderanno facendovi smarrire tra le anguste vie della Superba che, d’incanto, si trasformano in una foresta magica, oscura e pericolosissima.
Chiariamolo subito, se siete in cerca di chissà quale chimera dell’originalità, tornate sui vostri passi perché rischiereste di inoltrarvi nel sottobosco e non uscirne più: Fearytales rimane un ‘opera che del death metal melodico made in Svezia si nutre, nel thrash trova la dirompente forza estrema e nelle atmosfere oscure e dark ci sguazza, mentre i nomi storici del genere sono tutti li sulla balconata ad applaudire.
Prodotto alla perfezione e suonato ancora meglio, l’album non concede cedimenti, i brani si susseguono uno più bello dell’altro alternando sfuriate ad  atmosfere molto suggestive, ottimi momenti di metallo cadenzato e fughe sui manici delle asce da brividi.
L’ottima prova dei musicisti valorizza un songwriting ispirato e l’impressione di essere al cospetto di un combo sopra la media è altissimo, mentre Under The Mark Of Evil toglie il respiro dandoci il suo benvenuto in Fearytales.
La muscolosa Survive The Dead è solo l’antipasto alla maligna e cattivissima Martyrs Of Hell, mentre il gran lavoro delle sei corde nella melodica Nobody Alive (addio In Flames), ci porta dritti nella boscaglia e a The Crawling Chaos, capolavoro dell’album insieme alla stupenda thrash-folk- epic metal Sea Of Blood: The March For Morrigan, fulgido esempio dell’ispirato songwriting del gruppo ligure.
This Is The Entrance mette la parola fine a questo bellissimo lavoro, la luce del sole si fa spazio tra i rami e dopo i primi passi fuori dalla foresta, la voglia di tornare indietro è tanta, così come quella di ripremere il tasto play.
Se questo album fosse stato pubblicato da una band svedese un po’ di anni fa, i Path Of Sorrow sarebbero comparsi sulle copertine delle riviste di settore al fianco di At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity, ecc. tutto qui … e non è poco.

TRACKLIST
1. Into The Path
2. Under The Mark Of Evil
3. Survive The Dead
4. Martyrs Of Hell
5. Lords Of Darkned Skies
6. Nobody Alive
7. Umbrages…
8. …Where Nothing Gathers
9. The Crawling Chaos
10. Sea Of Blood : The March For Morrigan
11. This Is The Entrance

LINE-UP
Attila – Drums
Robert Lucifer – Bass
Mat – Vocals
Davi – Electric,Acoustic & Classical Guitars,Mandolin,Piano
Jacopo – Electric Guitars

PATH OF SORROW – Facebook

Vanexa – Too Heavy To Fly

I nuovi Vanexa, a giudicare da questo lavoro, appaiono tutto fuorché che un gruppo con quarant’anni di musica metal sul groppone.

Si torna a parlare dei Vanexa, dunque di storia dell’heavy metal made in Italy.

La band ligure ritorna dopo più di vent’anni con un nuovo lavoro, una line up nuova di zecca e tanto heavy rock, magari non agguerrito come negli storici lavori degli anni ottanta, ma dalla classe di un’altra categoria ed un lotto di canzoni ispirate.
La storia del gruppo è conosciuta a memoria, almeno da chi ha nel cuore le sorti dell’heavy metal ed in particolare di quello suonato nello stivale: partiti sul finire degli anni settanta con l’esordio omonimo targato 1983, il gruppo del duo ritmico Sergio Pagnacco (basso) e Silvano Bottari (batteria), i soli rimasti della formazione originale, hanno scritto pagine importanti per il metallo tricolore ed i loro pochi, ma bellissimi lavori, hanno creato intorno al gruppo un aura leggendaria.
Oggi, affiancati dall’ottimo vocalist Andrea “Ranfa” Ranfagni singer di razza e vero portento al microfono, e con una coppia d’asce sontuosa con Artan Selishta a far danni in compagnia del talentuoso Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle), ci regalano questo ottimo Too Heavy To Fly, licenziato dalla Punishment 18 Records.
Heavy rock più che metal, è bene chiarirlo, la rabbia giovanile ha lasciato il posto ad un più ragionato approccio alla nostra musica preferita che, al netto di prestazioni sugli scudi dei protagonisti, equivale a dieci perle hard & heavy, ruvide, melodiche ma soprattutto elevate da una forma canzone che non lascia indifferenti.
Sotto questa nuova veste, diciamo più patinata, i Vanexa trovano le fonte della giovinezza con una serie di brani freschi, dalle ariose atmosfere, rinvigoriti da chitarre adrenaliniche, ma deliziati pure da molte parti melodiche che si manifestano non solo nelle ballad e nei molti mid tempo, ma anche quando sono la grinta ed i watt a guidare il suono.
Brani dalle ritmiche serrate, un gran lavoro delle sei corde ed una prestazione esemplare del singer, impreziosiscono le canzoni dei nuovi Vanexa che, a giudicare da questo lavoro, appaiono tutto fuorché che un gruppo con quarant’anni di musica metal sul groppone.
Tutte ottime canzoni, su cui spiccano la robusta title track e la seguente 007, per una partenza tutta potenza e classe, di un’ altra categoria Rain, mentre The Traveller conclude alla grande l’album con Ken Hensley degli Uriah Heep a valorizzare il brano con i suoi tasti d’avorio.
Nel mezzo, come detto, tanto ottimo heavy rock, non solo per nostalgici, ma assolutamente protagonista anche in questi disgraziati anni del nuovo millennio.
Noi siamo di passaggio, le leggende restano…

TRACKLIST
1. Too Heavy To Fly
2. 007
3. Life Is A War
4. Rain
5. It’s Illusion
6. Tarantino Theme
7. In The Dark
8. Kiss In The Dark
9. Paradox
10. The Traveller

LINE-UP
Andrea “Ranfa” Ranfagni – vocals
Pier Gonella – guitars
Artan Selishta – guitars
Sergio Pagnacco– bass
Silvano Bottari – drums

VANEXA – Facebook

KING CRIMSON – 5/11/2016 Milano

Sono passati ben tredici anni dall’ultima apparizione dei King Crimson in Italia, occasione in cui toccarono anche la mia città, Genova; stranamente, nonostante l’evento riguardasse una delle band che hanno segnato indelebilmente i miei gusti musicali, possiedo solo ricordi sbiaditi di quella serata, sintomo del fatto che, all’epoca, la fredda e chirurgica precisione esibita da Fripp e soci non riuscì a rendere memorabile l’evento.

Così, al momento di partire per Milano, recarmi nuovamente a vedere i King Crimson sembra più un doveroso rito che non la finalizzazione di un qualcosa atteso da tempo, forse anche perché condizionato dall’ascolto di un album come Radical Action (sul quale mi ero espresso in questa sede qualche settimana fa), capace di trasmettermi solo a intermittenza le emozioni che cerco da sempre nella musica, pur con la riproposizione di gran parte dei brani storici.
Dopo aver preso posto nell’accogliente sede milanese del concerto, il Teatro degli Arcimboldi, la prima prova da superare per gli spettatori è quella di scendere a patti con l’idiosincrasia frippiana verso qualsiasi dispositivo audio o fotografico: una richiesta che ai più credo appaia bizzarra, se non addirittura fuori dal tempo e frutto dei capricci e delle bizzarrie di una vecchia star (chi era a Genova nel 2003 ricorderà il nostro avvolto per l’intero concerto da una luce violetta che ne celava di fatto le sembianze …), ma che, ripensandoci, finisce invece per rendere a tutti un gran bel servizio.
Infatti, oggi sembra impensabile partecipare ad un qualsiasi evento senza riprenderne o fotografarne diversi momenti, quasi che chiedessimo alla memoria del supporto tecnologico di sostituirsi alla nostra; in realtà, non credo sia un caso se i concerti che meglio ricordo sono proprio quelli che vidi quando la parola cellulare evocava solo l’immagine di furgoni blu o celesti …
Obbligati, quindi, obtorto collo, a guardare direttamente ciò che avviene sul palco anziché tramite il display di un tablet o di uno smartphone (pena il cazziatone preventivo dei solerti addetti), gli spettatori possono godersi senza distrazione alcuna circa tre ore di musica che dimostreranno come il vero extraterrestre, “l’uomo che cadde sulla terra”, risponda al nome di Robert Fripp, con tutto il rispetto per il compianto Bowie.
Quella dei King Crimson è appunto arte aliena perché inimitabile in ciascuna delle diverse sembianze che il musicista inglese ha voluto donare alla sua creatura e, sabato scorso, persino chi l’ha sempre ritenuta una snobistica e fredda espressione di pura tecnica sarebbe stato costretto a ricredersi. L’uomo sembrerebbe aver fatto pace con il mondo e forse con sé stesso, visto che non ha lesinato un solo cavallo di battaglia, affidando ai fiati del sempreverde Mel Collins il compito di riscaldarne le note, anche se, come vedremo, tale scelta racchiude anche qualche controindicazione; nulla a che vedere, quindi, con quanto accadde nella serata del Carlo Felice, in cui venne perfidamente offerta al pubblico la sola produzione più recente, relegando ai bis tre brani ottantiani (Three Of A Perfect Pair, Frame By Frame ed Elephant Talk) e gettando in pasto ad un famelico pubblico di nostalgici il contentino finale di Red, quale briciola dei capolavori del passato.

scaletta1

Con un quarto d’ora di ritardo rispetto all’orario previsto si parte, e l’incipit di Larks’ Tongues in Aspic Part I è una sferzata emotiva violenta, quasi stordente per quanto inattesa: la bizzarra band che si esibisce sul palco, composta da una linea di tre batteristi piazzati in prima fila con alle spalle un quartetto di eleganti signori dall’età media piuttosto elevata, è in realtà un orologio di alta precisione in cui tutto funziona alla perfezione, anche in quelle parti che parrebbero frutto di improvvisazioni e che, invece, sono esito di una meticolosità certosina oltre che di un talento superiore.
Pictures Of A City è la conferma che questo viaggio a ritroso è appena iniziato e Dawn Song, frammento di Prince Rupert Awakes, rafforza la sensazione che questa volta nulla o quasi della produzione passata verrà lasciato indietro.
Red è il secondo momento topico, e qui devo ribadire l’impressione avuta ascoltando il live, ovvero che l’inserimento dei fiati in un brano così asciutto e squadrato lascia più di una perplessità. Poco male, quando una band subito dopo può offrire un‘altra pietra miliare come Cirkus, traccia d’apertura di un disco magnifico, anche se un po’ sottovalutato rispetto agli altri, quale Lizard. In questo caso, come in Dawn Song, Jakko Jakszyk fatica il giusto nel riprodurre le tonalità di Gordon Haskell, che era già di suo un cantante molto atipico, ma tutto sommato ne esce piuttosto bene, mentre Mel Collins può sfogare le sue doti senza apparire troppo invadente.
L’ascolto delle prime note dell’ossessivo giro di chitarra di Fracture fa compiere a molti un altro salto sulla poltroncina: sia Lizard che Starless And Bible Black erano stati del tutto ignorati in Radical Action, per cui si immaginava che avvenisse altrettanto in quest’occasione: qui, oltre alla velocità sempre innaturale delle dita di Fripp, si fanno apprezzare le tre piovre in prima fila (da sinistra verso destra, guardando il palco: lo storico Pat Mastelotto, Jeremy Stacey, subentrato a Bill Rieflin e alle prese anche con le tastiere, e Gavin Harrison, protagonista in passato con gli ottimi Porcupine Tree).
Epitaph, subito dopo, riporta a quelle atmosfere, definibili in maniera più appropriata come progressive, che ammantavano l’intero album d’esordio, mentre, dopo uno dei molti intermezzi strumentali di gran pregio, l’andamento beffardo e più catchy di Easy Money si prende giustamente la scena: qui va detto che, nonostante le mie perplessità, Jakszyk regge bene il confronto con un brano cantato originariamente da John Wetton, pur possedendo una timbrica decisamente diversa.
Ancora altre tracce di destrezza esecutiva preludono, prima, al percussivo crescendo di The Talking Drum e, dopo, alla spettacolare seconda metà di Larks’ Tongues In Aspic.
Si conclude così la prima parte dello show e, visto che la speaker, in sede di presentazione, l’aveva definito “primo set”, volendola leggere in maniera tennistica si può dire che i King Crimson abbiano inflitto all’ipotetico avversario al di là della rete un bel 6-0 …

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Dopo una tale scorpacciata di pezzi storici, al rientro la band fa subito intendere, con Fairy Dust, che in questa sessione dell’esibizione verranno proposti meno brani “monumento”, anche se dopo l’evocativa Peace, è la delirante Indiscipline ad infiammare nuovamente il teatro, rivelandosi non solo una gradita apertura alla trilogia ottantiana ma offrendo al trio di percussionisti un terreno ideale per esibire la loro sopraffina tecnica.
L’inconfondibile melodia di In The Court Of The Crimson King si palesa senza preavviso, facendo temere una imminente conclusione della serata, visto che nell’immaginario collettivo il brano manifesto della band sarebbe potuto essere posizionato in coda allo show.
Così con è, per fortuna, e si prosegue con un mix tra la produzione più recente e quella storica un po’ meno incisiva (Letters e Sailor’s Tail, che facevano parte di Islands, gran disco, per carità, ma a mio avviso il più debole della prima parte dell’epopea crimsoniana), il che fa leggermente scemare la tensione emotiva in questa fase del concerto, fino ad arrivare alla convincente doppietta di inediti in studio  Radical Action / Level Five, dall’impostazione non dissimile da quella che Fripp introdusse con Discipline.
Si creano così tutti i presupposti per arrivare all’autentica esplosione emotiva costituita da Starless, un brano capace di provocare quel turbamento che è prerogativa solo delle opere destinante all’immortalità: l’assimilazione della melodia prodotta dal peculiare tocco chitarristico di Fripp è un qualcosa che segna la linea di demarcazione tra l’uomo ed il bruto e, insomma, per farla breve, è impossibile non commuoversi nell’ascoltare per la prima volta dal vivo un simile capolavoro.
Fine del secondo set (conclusosi stavolta con un punteggio meno netto ma con un ultimo game memorabile …) e ritorno sul palco dei nostri per un bis il cui titolo era già scolpito nella pietra: 21st Century Schizoid Man, un brano profetico che, a 47 anni di distanza, ribadisce una volta di più la visionarietà del talento frippiano: del resto qui si parla di qualcuno che, con il senno di poi, tra pause prolungate, decisioni apparentemente illogiche e repentine infatuazioni mistico-filosofiche, ha forse prodotto meno di quanto avrebbe potuto fare, riuscendo ugualmente ad imprimere il suo geniale marchio sull’arte musicale della seconda metà del novecento.
Il momento in cui Tony Levin (a proposito, sempre un piacere per occhi e orecchie vederlo alle prese con il suo stick) imbraccia la macchina fotografica è il segnale stabilito per il libero scatenamento dei flash degli smartphone, oltre che il momento in cui si realizza la fine definitiva di queste tre ore di magia; la sensazione è quella d’aver assistito ad un evento in cui i primi a divertirsi siano stati proprio i musicisti, cosa non del tutto scontata in simili frangenti e conditio sine qua non per il completo coinvolgimento degli spettatori.
Considerazioni finali: Fripp si avvia alla settantina, io ho scollinato il mezzo secolo già da un po’ e tutto ciò che mi sta attorno (affetti, amici, animali e cose) porta impresso il segno inesorabile del tempo che scorre.
Così, poter assistere ancora una volta ad un concerto dei King Crimson si rivela in fondo un’arma a doppio taglio: in quegli attimi il tempo letteralmente si ferma ma, quando tutto finisce, il piacere lascia spazio al rimpianto verso tutto ciò che è stato e non potrà più essere, specie se ciò a cui si assiste è la fulgida rappresentazione di musica composta per la maggior parte più di quarant’anni fa, suonata oggi e che, tra altri quarant’anni, anche se purtroppo non ci potranno più essere Fripp a suonarla né gran parte dei presenti agli Arcimboldi ad ascoltarla, continuerà ad apparire sempre un passo avanti rispetto a chi si voglia cimentare con le sette note.

kc

VV.AA. – We Still Rock – The Compilation

Questa eccellente iniziativa non va assolutamente trascurata, il livello dei protagonisti e la bellezza delle canzoni contenute ne fanno un cd da custodire gelosamente

L’hard rock melodico ha sempre avuto scarsa fortuna nel nostro paese, sempre poco ricettivo nei confronti del metal/rock e confinato nell’underground in compagnia di tutti i generi che compongono la nostra musica preferita.

Eppure anche l’ Italia può contare su numerosi talenti che dell’anima melodica dell’hard rock fanno il loro credo, supportati dalle webzine di riferimento tra le quali i nostri colleghi di MelodicRock.it sono sicuramente i più accreditati.
Lo scorso anno, proprio in collaborazione con la famosa ‘zine, la label Tanzan Music ha prodotto il brano We Still Rock, creato e suonato da un gruppo di musicisti della scena nazionale sotto il monicker di I.F.O.R. (Italian Forces of Rock) proprio per omaggiare la webzine e tutti i fans della scena melodica mondiale.
A distanza di un anno questa splendida iniziativa è diventata qualcosa di più, grazie ad un concerto/evento il 1 Ottobre al Grindhouse di Padova, con i britannici Vega come headliners della serata.
Ora We Still Rock trova la chiusura del cerchio con questa compilation, che vede, oltre al brano degli I.F.O.R., una serie di inediti e versione rivisitate suonate da una buona fetta del meglio che la nostra scena può vantare in fatto di hard rock melodico, con i Vega a fare da padrini con la versione acustica di Every Little Monster.
Questa bellissima raccolta non poteva che partire con We Still Rock, stupendo brano da arena rock che vede come detto la partecipazione di musicisti dallo smisurato talento, ma il bello non finisce qui e farsi cullare dalle sontuose note di Together As One dei Laneslide o dalle trame dei tasti d’avorio di Love Nest dei Wheels Of Fire è un attimo.
Non mancano gruppi che per i lettori di MetalEyes (magari più indirizzati a sonorità estreme o metalliche ma che seguono i deliri del sottoscritto, amante della buona musica a prescindere dai generi) dovrebbero essere famigliari, come i clamorosi Soul Seller e la versione alternativa di Memories, tratta da quello scrigno di emozioni che risulta il loro ultimo Matter Of Faith, gli Alchemy con la grintosa Revolution e per concludere gli Highway Dream con Runaway.
Nel mezzo un apoteosi di classic hard rock, aor, arena rock e tanto talento che sprigiona da canzoni di rara bellezza come Gotta Get Away dei Charming Grace e Walk Away, emozionante tripudio di melodie dai grandiosi Danger Zone.
Questa eccellente iniziativa non va assolutamente trascurata, il livello dei protagonisti e la bellezza delle canzoni contenute ne fanno un cd da custodire gelosamente e imperdibile per gli amanti del genere, ma anche per quelli che hanno a cuore le sorti della scena underground.

TRACKLIST
01. I.F.O.R. – We Still Rock
02. Vega – Every Little Monster (Acoustic Version)
03. Laneslide – Together As One
04. Wheels Of Fire – Love Nest (Acoustic Version)
05. Alessandro Del Vecchio – Strange World
06. Charming Grace (feat. Nick Workman) – Gotta Get Away
07. Danger Zone – Walk Away (2016 Version)
08. Room Experience – No Time Yet For Lullaby (Alternative Vocals Version)
09. Soul Seller – Memories (Alternative Mix)
10. Hungryheart – Nothing But You (Acoustic Version)
11. Alchemy – Revolution
12. Highway Dream – Run Away

TANZAN MUSIC – Facebook

In Flames – Battles

Battles è un album apprezzabile se degli In Flames preferite questa versione americanizzata e commerciale, se invece siete amanti del Gothenburg sound rivolgete le vostre orecchie altrove, il gruppo di Colony e Clayman non esiste più.

Gli In Flames sono e resteranno una dei gruppi più importanti in senso assoluto per lo sviluppo delle sonorità estreme: fondatori insieme ad una manciata di band (Dark Tranquillity ed At The Gates su tutte) del death metal melodico, anche conosciuto come Gothenburg sound, nei primissimi anni novanta, e creatori di una serie di album fondamentali con cui attraversarono l’ultimo decennio del secolo scorso entrando nel nuovo millennio con il loro capolavoro, Clayman.

Da molti quello viene considerato l’album perfetto, il primo esempio di metal estremo moderno in equilibrio tra tradizione scandinava e statunitense, il padre di tutto un movimento musicale che si identifica con il metalcore, ma che del death metal melodico è figlio legittimo.
Purtroppo Clayman è stato per il gruppo svedese la fine di un ciclo e gli In Flames dal 2000 sono ripartiti, trasformandosi in un’entità che non ha più niente da spartire con la band di Lunar Strain, Whoracle, The Jester Race e l’altro capolavoro Colony.
Il salto temporale fino al 2016, con album più o meno riusciti, porta fino a Battles, ultimo lavoro che allontana sempre più il gruppo dal sound scandinavo e dal metal, per abbracciare l’alternative rock .
Non fraintendetemi, Battles troverà ancora molti estimatori, ma è indubbio che se il gruppo da qualche anno a questa parte avesse cambiato monicker nessuno si sarebbe scandalizzato, in sostanza con questo lavoro la trasformazione è completa e i vecchi In Flames non esistono più.
Questa band che si fa chiamare così in realtà è una band moderna, molto alternativa ma assolutamente poco originale, il suo nuovo lavoro risulta un poco riuscito sunto di quello che il metal/rock dalle mire mainstream ci riserva in questi primi anni del nuovo millennio.
La carica estrema è definitivamente scomparsa, almeno se pensiamo al death metal degli esordi, sostituita da un più commerciabile metal per adolescenti, con qualche intrusione nel rock patinato dei Muse e richiami al nu metal dei P.O.D. (The Truth), dei Linkin Park, con l’abuso delle parti elettroniche ed una prestazione troppo ruffiana di Fridèn al microfono.
Qualche riff più agguerrito sparso per l’album non basta: The End, Here Until Forever e Underneath My Skin sono brani che, se sull’artwork non ci fosse il logo del gruppo svedese, avrebbero un suo perché, magari suonati da cinque pivelli con il mascara, ma qui ci troviamo al cospetto di un gruppo troppo importante e con ormai troppe primavere sul groppone, e quei coretti alla P.O.D. che fanno capolino tra molti dei brani di Battles non possono che lasciare l’amaro in bocca, almeno ai vecchi fans.
Come già detto, Battles è un album apprezzabile se degli In Flames preferite questa versione americanizzata e commerciale, se invece siete amanti del Gothenburg sound rivolgete le vostre orecchie altrove, il gruppo di Colony e Clayman non esiste più.

TRACKLIST
1. Drained
2. The End
3. Like Sand
4. The Truth
5. In My Room
6. Before I Fall
7. Through My Eyes
8. Battles
9. Here Until Forever
10. Underneath My Skin
11. Wallflower
12. Save Me

LINE-UP
Anders Friden – vocals
Bjorn Gelotte – guitars
Niklas Engelin – guitars
Peter Iwers – bass
Joe Rickard – drums

IN FLAMES – Facebook

Carved – Kyrie Eleison

Un’ora di musica non è poco di questi tempi, ma la qualità è talmente alta che arrivare all’epilogo è un attimo e la voglia di ricominciare il viaggio insieme al protagonista è tanta.

La nostrana Revalve Records mostra i muscoli e ci regala in questo autunno che va a cominciare il secondo lavoro degli spezzini Carved, band di melodic death metal che già aveva ricevuto elogi con il precedente Dies Irae, uscito un paio di anni fa.

Kyrie Eleison segue il concept del primo lavoro, il racconto del viaggio del protagonista alle prese con figure mitologiche incontrate durante il suo peregrinare fino alla conclusiva battaglia finale.
Prodotto da Simone Mularoni ai Domination Studio, l’album conferma l’ottima proposta del gruppo ligure, un melodic death metal che non si ferma agli stilemi scandinavi ma si valorizza di atmosfere e sfumature orchestrali, portando un po’ di fresco vento italiano nel genere.
Infatti, oltre all’immancabile scena scandinava (Dark Tranquillity), sono i Dark Lunacy la band che più ispira il gruppo ligure, capace in questo secondo lavoro di toccare vette emotive veramente alte.
Inutile dire che i miglioramenti rispetto al primo lavoro sono tangibili e Kyrie Eleison risulta non solo un passo avanti deciso per la band, ma un lavoro che si piazza tra i migliori dell’anno nel genere.
Una vena progressiva prende a tratti il comando del songwriting e la musica del gruppo vola (Heart Of Gaia), quindi non solo con semplici melodie orchestrali che impreziosiscono il metal estremo, ma tramite bellissime parti dove, anche grazie alla tecnica dei musicisti, il sound si trasforma in una farfalla progressive, splendida protagonista di passaggi ariosi che, in un attimo si trasformano in perle estreme.
Perfette le due voci, specialmente quella pulita, non così facile da trovare nei gruppi che la usano, mentre nei Carved è emozionale e ben inserita nelle parti; spettacolari i passaggi orchestrali, capaci di offrire una certa enfasi al sound, così da rendere  Kyrie Eleison un lavoro completo sotto ogni punto di vista.
Un’ora di musica non è poco di questi tempi, ma la qualità è talmente alta che arrivare all’epilogo è un attimo e la voglia di ricominciare il viaggio insieme al protagonista è tanta.
Oltre alla già citata Heart Of Gaia, l’album è un susseguirsi di brani sopra la media con l’intensa Camlann, la carica Malice Stiker e i continui cambi atmosferici della sontuosa The Hidden Ones ad accompagnare l’album verso vette musicali molto alte.
Un album intenso, prodotto e suonato con tutti i crismi per non essere dimenticato tanto facilmente.

TRACKLIST
1.Viaticum
2.Malice Striker
3.Lilith
4.The Burning Joke
5.Heart of Gaia
6.Swamp
7.The Dividing Line
8.Absence
9.Faith
10.The Hidden Ones
11.Camlann
12.The Bad Touch

LINE-UP
Giulio Assente – Drums
Damiano Terzoni – Guitars
Alex Ross – Guitars
Lorenzo Nicoli – Vocals (backing), Bass
Cristian Guzzon – Vocals

CARVED – Facebook

LECTERN

iye Siete già da molti anni in attività e, dopo soli tre ep licenziati, negli ultimi due anni siete esplosi con un paio di album fenomenali come Fratricidal Concelebration e Precept Of Delator!

Fabio “Hey, grazie per i complimenti! Mi fanno davvero molto piacere! Sì è almeno dal 2012, che i Lectern hanno ritrovato, e direi finalmente, una continuità come band, quindi, anche a livello discografico. Siamo stati fermi per molto tempo, adesso ho trovato i ragazzi giusti, che sono la miglior benzina nel motore che i Lectern abbiano mai avuto fino ad ora!
Prima, e agli esordi, era molto più complicato anche solo provare, c’era chi aveva più band e cose simili. Quindi scrivere ed arrangiare nuovi brani era un processo a dir poco pachidermico, come solo pensarli di andare a registrare!
Spesso, mi sono fidato della gente sbagliata, che credevo adatta alla band mentre non faceva altro che remarmi contro, e tramare addirittura alle mie spalle. Avevo dei sospetti, che ho poi scoperto in seguito rivelarsi esatti e fondati!”.

iye L’ultimo lavoro si può considerare un concept incentrato sull’eterna lotta tra bene e male, volete spiegarlo ai lettori di Metaleyes?

Fabio “Direi proprio di sì. In realtà, la storia che ho ideato è quella del sottrarre a Dio il segreto dell’onnipotenza! Bilocazione e miracoli maligni: davvero mi sono spinto molto oltre, anche stavolta, riguardo al concept del disco e dei testi. I demoni spiano le schiere del Bene per scovarlo, ed essendoci riusciti, sulla copertina si vede che sul trono siede il Demonio che, sotto pelle, rivela le facezie di Dio! Una trasformazione dal Bene al Male! Se guardi il simbolo del Tao cinese, che mi ha sempre affascinato, riscontri che in ognuno c’è l’altro! Ultimamente sentiamo parlare del male della Chiesa! Ma la Chiesa è il Male!”.

Marco “Non lo affronta solo a livello concettuale ma anche, a livello ben più pratico. Esempio ne è la canzone Palpation Of Sacramentarian. Senza contare che i concetti di Bene e Male sono strettamente soggettivi, sta a noi decidere quale lato sia quello buono durante l’ascolto”.

iye Il vostro è un death metal dall’approccio old school che richiama la scena statunitense ed in particolare i Morbid Angel, siete d’accordo?

Fabio “Assolutamente sì sulla definizione sul death metal a stelle e strisce, sui Morbid Angel no! Li adoro, ma sono troppo lenti per accostarli ai Lectern! Noi non abbiamo e mai avremo, la componente slow and doom metal!”.
Pietro “Old school americano in generale con ottime influenze del death metal floridiano. Ma oltre a questo, anche un death metal moderno”.
Marco “Senza dubbio, ma le influenze thrash metal non mancano di certo, e nemmeno quelle black metal. Tanto quanto basta per creare un sound che sembri old school, ma senza esserne completamente fedeli”.

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iye Il vostro sound, brutale, oscuro e cattivissimo, è valorizzato da un’ottima tecnica strumentale e i brani mantengono una forma canzone che, nel genere, non è così facile da riscontrare: il vostro segreto?

Fabio “Grazie ancora per il tuo commento a dir poco lusinghiero! Comunque, non siamo un gruppo di technical death metal, non ci riguardano quegli ambiti, anche se vogliamo migliorare, e se proprio dovessimo rientrare nella categoria, ben venga!
Io al basso non valgo un emerito cazzo, lo suono per riempire, mi diverte e mi aiuta nel concentrarmi meglio sul vomitare i miei testi senza pietà! Nel death metal il basso non conta, nelle band old school sono pochi i bassisti che sanno davvero suonarlo decentemente! Prendi il signor Tony Choi degli Atheist ad esempio, o il maestro assoluto Steve Di Giorgio!
Lo sconfinamento sul tecnico, mi piaceva quando, nel 1991, i Death con Human, o i Pestilence con Testimony Of The Ancients, che altro non era se non un Consuming Impulse meno grezzo, avevano ancora una conformazione compositiva abbastanza classica e standard. Basti ricordare che questi ultimi andarono in tour con i Monstrosity quell’anno! Già i Death con Individual Thought Patterns ed i Pestilence con Spheres, erano entrati nel technical progressive death metal! Una sorta di Dream Theater di Images And Words, Awake e When Dream And Day Unite aumentati, per quei tempi, che rileggevano in chiave Rush la musica più estrema del pianeta! Il jazz entrava nel death metal ed anche la lezione, data dai Metallica con …And Justice For All, trovava seguito e veniva incattivita. Ma a tratti, era tecnica troppo fine a se stessa, sembravano esercizi matematici, fatti attraverso degli strumenti musicali! Poi sono arrivati i Meshuggah ed i Fear Factory, e la degenerazione è proseguita con chitarre a sette e otto corde, l’industrial, il nu metal o il djent, che dal death metal hanno ripreso il detuning delle accordature ad esempio. Il sound del nuovo disco l’ho curato io personalmente, volevo che le chitarre fossero un qualcosa il più vicino possibile ad un’esplosione nucleare! Il segreto mi chiedi? Semplice! L’odio per Cristo, un dio senza credenti!”.

Pietro ” L’album è stato creato canzone per canzone, e penso che il sound si mantenga, anche grazie
all’impegno che abbiamo dato tutti e tre insieme”.

Marco” Non mi considero un batterista tecnico, e penso che mai lo sarò. Penso stia tutto, comunque, nella dedizione allo strumento e alla dose massiccia di musica alla quale siamo da sempre esposti ogni giorno. Da qui poi parte l’esperienza condivisa insieme e la consapevolezza delle potenzialità reciproche, che ci portano a creare qualcosa che sappiamo già che suonato tutti assieme, risulterà devastante”.

Fabio “In poche parole, ci interessa essere brutali e basta, non puoi essere entrambe le cose! Il veleno è più
importante di quanto si possa saper suonare, se non lo fai con passione, e senza il sangue negli occhi, come puoi
pensare di definirlo death metal anche un po’?”.

iye Giuseppe Orlando, come nel precedente lavoro, si è occupato della produzione, e Precept Of Delator esce come un’opera dal taglio internazionale e professionale sotto tutti i punti di vista: che traguardi vi siete posti a lavoro finito?

Fabio “Lui è il nostro produttore. Punto! Giuseppe è il quinto elemento dei Lectern, nell’ombra come Satana! Lui ci guida in studio, ed ogni volta ci rende dei musicisti e dei ragazzi migliori! In poche parole, quell’uomo spacca il culo a tutti dietro al mixer, è a dir poco una furia! E’ un metronomo umano, ad ogni errore, si registra di nuovo! Lo facciamo incazzare come un professore del liceo, ogni volta! E se Scott Burns se n’era andato io ne ho trovato il rimpiazzo! Un altro aspetto fondamentale, è stato secondo me, il cambio di etichetta. Via Nocturna non ha nulla a che vedere proprio, con Sliptrick Records. Adesso siamo sotto gli occhi di tutti, con una promozione migliore e capillare!”.

Pietro “Sicuramente migliore del precedente. Un’ampia sponsorizzazione e lavorare sodo per suonare quest’album in vari posti e far conoscere a tutti la nostra potenza”.

Marco “Io avevo già scritto tre video diversi e steso un piano promozionale, che attualmente sta dando i frutti sperati. In una settimana siamo finiti a girare cinque video di cui uno già uscito, Precept of Delator, un altro in arrivo a dicembre e altri tre in fase di montaggio, sempre curato da me. Volevamo che questo album fosse notato, che ci portasse alle orecchie di tanti nuovi fan. E sfruttando tutti i media che abbiamo potuto, ci stiamo riuscendo alla grande”.

iye La Capitale è covo di una scena estrema di assoluto valore e nel death metal sta regalando band e opere di altissimo livello, ma in generale è tutto il paese che ormai può guardare le scene d’oltralpe direttamente negli occhi: voi che ne pensate?

Fabio “Non c’è dubbio! Ormai in Italia passa almeno l’ottanta percento del metal su scala mondiale, ed il novanta del death metal! Gruppi chiamati nei maggiori festival estremi, per restare nel nostro ambito, costantemente in tour europeo ed americano! Qualche nome? Deceptionist, Hideous Divinity, Corpsefucking Art, Dr. Gore, Helslave, Degenerhate, Airlines Of Terror, Devangelic, Bloodtruth, Blasphemer, Electrocution, Profanal, Antropofagus e tutti gli altri che non ho nominato, ovviamente!”.

iye Quali sono i piani dei Lectern per il 2017, ormai alle porte?

Fabio “Concerti, festival, magari un tour vero e proprio, provare come dei forsennati e comporre nuove tracce!”.

Pietro “Molti concerti e forse anche qualche canzone nuova, o album, se ne abbiamo le capacità ed il tempo per fare tutto il lavoro necessario”.

Marco “Non abbiamo smesso comunque di scrivere nuovo materiale, stiamo già componendo. Stiamo anche creando una nuova sinergia con il neo entrato Gabriele, che sarà fondamentale per l’anno a venire. Ci stiamo preparando a dei concerti all’estero e ad un probabile mini tour con una band giapponese chiamata Defiled, che si è dimostrata interessata e entusiasta di condividere il palco con noi”.

Fabio Bava: vocals, bass
Pietro Sabato: guitar
Gabriele Cruz: guitar
Marco Valentine: drums

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Discografia:
Bisbetical (1999)
Salvific Of Perhaps Lambent (2010)
Lectern (2013)
Fratricidal Concelebration (2015)
Precept Of Delator (2016)

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Teodasia – Metamorphosis

Basta chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalle melodie di brani entusiasmanti

Puntuale come promesso e di cui vi avevamo parlato nella recensione di Reloaded, arriva sul finire di questo sountuoso anno per il metal nazionale, il nuovo lavoro di inediti targato Teodasia.

La band, dopo averci presentato la nuova line up sul lavoro precedente, che vedeva i nostri riprendere vecchi brani e darli in pasto alla splendida voce di Giacomo Voli, torna con Metamorphosis, album ambizioso, vario e perfettamente in bilico tra il metal sinfonico e l’ hard rock, sia classico che moderno, con una vena progressiva sottolineata da molti cambi di ritmo ed un quid elettronico che rende il lavoro completo sotto ogni punto di vista.
Metamorphosis conquista, e non poteva essere altrimenti, d’altronde l’arrivo di Voli e del chitarrista Alberto Melinato ha portato nuova linfa ed entusiasmo, percettibili già su Reloaded, ma qui evidenziati da un lavoro di inediti che è pura arte metallica.
Quella musica dura, così bistrattata nel mondo delle sette note, trova nel talentuoso gruppo veneto quella nobiltà molte volte negata anche da chi invece dovrebbe supportarla, nonché splendidi interpreti di emozionanti e sognanti viaggi che l’ugola del cantante rende reali, basta chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalle melodie di brani entusiasmanti, uno diverso dall’altro, uno più bello dell’altro.
Partendo da tutto ciò, Metamorphosis conferma che l’attesa per l’ascolto di nuovi brani non è stata delusa,  e i Teodasia riescono nell’intento (non facile) di far emergere tutte le loro ispirazioni ed influenze, passando da un genere all’altro come un ape sui fiori: l’album si trasforma in un caleidoscopio di sonorità che vanno dall’hard rock di Release Yourself al power prog della potente Rise, per spostarsi su mirabolanti sinfonie nella bellissima #34 , far sognare di castelli medievali persi nel tempo con Crossroads To Nowhere, od emozionarci con dolci ballate come Two Worlds Apart, in cui Voli duetta con Chiara Tricarico dei Temperance.
Un album bellissimo per il quale la parola d’ordine è emozione, per una band che entra di diritto nelle eccellenze musicali dello stivale metallico, sempre più protagonista nella scena europea con una serie di talenti sopra le righe. Imperdibile.

TRACKLIST
1. Intro
2. Stronger Than You
3. Release Yourself
4. Rise
5. Just Old Memories
6. Idols
7. #34
8. Two Worlds Apart
9. Diva Get Out
10. Gift Or Curse?
11. Redemption
12. Crossroads To Nowhere
13. Metamorphosis

LINE-UP
Francesco Gozzo – drums, piano
Giacomo Voli – lead vocals
Alberto ‘Al’ Melinato – guitar
Nicola ‘Fox’ Falsone – bass

TEODASIA – Facebook

Tygers Of Pan Tang – Tygers Of Pan Tang

Una fantastica cavalcata nell’immortalità di un genere musicale

Sono passati trentasei anni da Wild Cat, debutto dei Tygers Of Pan Tang, una delle band più importanti uscite dalla new wave of british heavy metal e da un po’ di anni rinati sotto il segno del cantante Jacopo Meille, italiano di nascita ma dal sangue britannico, almeno a giudicare dalle prestazioni con lo storico gruppo dall’attitudine felina.

Doppia cifra raggiunta e superata con questo lavoro, almeno per quanto riguarda gli album di inediti, una carriera all’ombra dei nomi che occuparono le classifiche del vecchio continente (Def Leppard in primis), ma un livello qualitativo che non ha mai visto passi falsi clamorosi e si rinvigorisce con questo ennesimo album omonimo, davvero ispirato e travolgente nel saper sfruttare al meglio i cliché del vecchio hard & heavy britannico.
I Tygers Of Pan Tang del nuovo millennio sono nelle ottime mani del vocalist e del solo superstite Robb Weir, axeman di un’altra categoria, splendido nel rendere fresco ed attuale un genere che, nel 2016, vive in bilico tra capolavori ed opere stantie, ma che sa regalare musica metal di alto rango se a suonarlo sono gruppi come le tigri anglosassoni.
Si parte a razzo, con hard rock ed heavy metal che si rincorrono tra lo spartito con una serie di brani dall’impatto di un treno in corsa, perfettamente bilanciati tra grinta e melodia e radiofonici , se solo le radio non fossero invase dalla non musica di questi brutti tempi in cui viviamo e che si riflettono pure sulle sublime arte.
Si perché cosa sono, se non arte metallica, i quattro morsi con cui la band ci aggredisce (Only The Brave, Dust, Glad Rags e Never Give In), per poi farci rabbrividire con la semi ballad The Reason Why e ripartire con ancora più foga con la spettacolare Do It Again?
Detto di una prova clamorosa del “nostro” Jacopo e del sontuoso songwriting con cui è rivestito questo undicesimo album, vi lascio con le ultime quattro canzoni, la perfezione metallica data in pasto a noi, poveri cultori del bello aldilà di trend, mode ed altre amenità: una fantastica cavalcata nell’immortalità di un genere musicale. Bentornate tigri.

TRACKLIST
01. Only The Brave
02. Dust
03. Glad Rags
04. The Reason Why
05. Never Give In
06. Do It Again
07. I Got The Music In Me
08. Praying For A Miracle
09. Blood Red Sky
10. Angel In Disguise
11. The Devil You Know

LINE-UP
Robb Weir – guitars
Jacopo Meille – vocals
Micky Crystal – guitars
Gav Gray – bass
Craig Ellis – drums & percussion

TYGERS OF PAN TANG – Facebook

Argonauta Records – Skulls from the Sky

M Ciao Gero, ci racconti qualcosa della serata di domenica ?

Ciao Massimo, domenica sarà una data importante, l’inaugurazione di questi nuovi eventi denominati Skulls from the Sky. L’idea è quella di organizzare eventi satellite a quello che è l’appuntamento annuale dell’Argonauta Fest in primavera. L’occasione era propizia, in quanto gli svedesi Suma, fuori ora su Argonauta con il loro nuovo album, erano pronti per il loro tour europeo, così li abbiamo invitati a questo evento “apripista”, sarà la loro unica data italiana e presenteranno per intero il loro album. E poi il contorno non sarà da meno con i Nibiru pronti a mettere su un nuovo rituale live, gli Infection Code sempre sul pezzo a devastare tutto con il loro noisecore d’assalto, e poi i “miei” Varego con i quali suoneremo tutto il nostro CD dalla prima all’ultima canzone.

M Cosa ti aspetti da una serata come questa?

Mi aspetto al solito un bel riscontro da parte di chi ci segue tutti i giorni e che permette ad Argonauta Records di crescere di anno in anno, tutti coloro che comprano i nostri cd in sostanza, senza questi ragazzi Argonauta non sarebbe ciò che è oggi.

M Puoi fare un bilancio dell’ Argonauta Records fino a qui ?

Argonauta vive un periodo intensissimo di uscite, contatti, collaborazioni e quant’altro. Sono particolarmente soddisfatto di come si sono mosse e si stanno muovendo le cose. In giro c’è un forte interesse per le nostre uscite e soprattutto in ambito internazionale si iniziano ad avere riscontri importanti. In pochi anni siamo arrivati a oltre 50 uscite, vantando collaborazioni importanti con moltissime realtà, giovani e meno giovani con cui siamo sempre in stretto contatto. Ci sono tanti obiettivi da raggiungere ben definiti in agenda e altri ancora da definire. Il 2017 poi sarà un anno molto particolare, che segnerà già il nostro quinto anno di attività (la prima uscita Argonauta risale infatti a Settembre 2012).

M Come è nata la collaborazione con i Suma ?

Come nella maggior parte dei casi, è stata una cosa molto semplice, una collaborazione tra gentlemen, se mi passi il termine. Sono da tempo fan della band e quando mi è capitata l’occasione, l’ho presa al volo ristampando il loro precedente album Ashes. Le cose sono andate talmente bene che con i Suma abbiamo rinnovato l’accordo, “vincendo” la concorrenza di alcune label blasonate, ed oggi eccoci qui a promuovere e distribuire il loro attesissimo album dopo ben sei anni di silenzio.

M Farete altri festival del genere?

Sicuramente sì, non posso al momento anticiparti nulla, ma stiamo già lavorando al nuovo Skulls from the Sky che si terrà nei prossimi mesi.

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Easy Trigger – Ways Of Perseverance

Album da avere e consumare, brani da urlare in quei momenti in cui ci vuole una scarica di adrenalina per ritornare in carreggiata.

Diciamolo: nel nostro paese una buona fetta delle produzioni hard rock di un certo livello passano dalla famiglia Atomic Stuff / Street Symphonies.

E’ un fatto che, nelle sonorità care al vecchio hard rock con tutte le sue varianti, i ragazzi che lavorano alle label di riferimento hanno una marcia in più e, a confermare il tutto, arriva il secondo lavoro dei rockers Easy Trigger capitanati dal chitarrista Caste, un bella botta di vita street hard rock con tutti i crismi per divertire gli amanti di queste sonorità.
Dopo quattro anni dal debutto Bullshit e con una line up rinnovata, il gruppo torna con Ways Of Perseverance, aggiunge al talentuoso chitarrista un cantante che definire spettacolare è poco (Nico) e, con una sezione ritmica che brucia bassi e spacca pelli (Vale e Pane), conquistano un posto d’onore nei migliori album del genere in questo anno che si appresta a finire.
Grezzi, metallici nel miglior senso del termine, grintosi e con impatto e attitudine da vendere, gli Easy Trigger suonano l’hard rock come se non ci fosse un domani, perfettamente a metà strada tra le nuove generazioni dello street metal/rock scandinavo e la tradizione losangelina,  facendolo bene.
A tratti l’album esplode in fuochi d’artificio elettrici che sinceramente fatico a ricordare nell’ultimo periodo, meno belli dei bravissimi Hell In The Club (tanto per fare un paragone illustre) ma più smaccatamente cattivi, potenti e diretti.
Solo Blind (la ballad di ordinanza) lascia un attimo di respiro (ma siamo arrivati alla traccia numero sette) il resto, dall’opener My Darkness è un devastante bombardamento rock’n’roll, dinamitardo, irriverente e sfacciato, con un diavoletto punk sulla spalla dei musicisti che li istiga ad essere il più cattivi possibile, con l’anima del vocalist già prenotata e un sorriso beffardo sul volto.
Nico è dannato, non potrebbe essere altrimenti, la sua prestazione urla rabbiosa il ritorno al posto che meritano queste sonorità, che se suonate come nelle varie God Is Dead, Turn To Stone, Tell Me A Story e Sold Out, non ce n’è per nessuno.
Album da avere e consumare, brani da urlare in quei momenti in cui ci vuole una scarica di adrenalina per ritornare in carreggiata.

TRACKLIST
1. My Darkness
2. Land Of Light
3. The Watchmaker
4. God Is Dead
5. Turn To Stone
6. One Way Out
7. Blind (piano by Andrea Moserle)
8. Tell Me A Story
9. Sold Out
10. The Sand

LINE-UP
Nico – vocals
Caste – guitar
Vale – bass
Pane – drums

EASY TRIGGER – Facebook

Shining Line – Shining Line

AOR nella sua massima espressione, con ospiti internazionali ma orgogliosamente tricolore nella sua creazione

La Street Symphonies, label nostrana e ottimo punto di riferimento per gli amanti dei suoni hard rock, mette le mani e ristampa il clamoroso debutto dei rockers melodici Shining Line, uscito autoprodotto cinque anni fa e ore tornato a risplendere di magnificenza melodica.

Il gruppo nasce dalla mente di Pierpaolo Monti (ex Sovversivo) che insieme ad Amos Monti (basso), Alessandro Del Vecchio alle tastiere (Edge Of Forever, Eden’s Curse, Moonstone Project), ed alla coppia di chitarristi Marco D’andrea (Planethard) e Mario Percudani (Hungryheart) compongono la line up dei Shining Line, per poi avvalersi di un sontuoso nugolo di musicisti della scena hard rock melodica internazionale e dar vita ad una meravigliosa opera prima.
Un disco internazionale non solo per gli ospiti, ma anche per la cura nei dettagli, i suoni potenti e cristallini, la produzione lasciata ad Alessandro del Vecchio, con Michael Voss (Casanova, Mad Max, Voices Of Rock) alle prese con mix e mastering, fanno di Shining Line un gioiello nascosto che, finalmente ritorna a splendere con una label a supportarne la distribuzione.
AOR del più raffinato ed elegante abbia sentito negli ultimi tempi, valorizzato come detto dagli ospiti che sono tantissimi e di cui cito Robin Beck, Mikael Erlandsson, Michael Voss, Phil Vincent, Michael Bormann e Michael Shotton.
Per ottanta minuti, di cui neanche un secondo è sotto una media eccellente, verrete trasportati in un mondo di melodie dal taglio hard rock, a tratti sognanti, in altre supportate dall’energia sprigionata da sei corde ispiratissime e regali tastiere in un’apoteosi di musica sopra le righe.
Di un’altra categoria il songwriting, che se la gioca alla pari con le top band del genere e tenere un livello così alto per oltre un’ora non è cosa facile per nessuno, credetemi.
Una raccolta di brani che spazia dunque dall’appeal radiofonico che in anni passati avrebbe portato molte canzoni nel palinsesto delle radio rock di mezzo mondo, a suadenti note melodiche, trasformate in ballad e che i fans del genere non potranno che amare alla follia (Heat Of The Light con la voce di Robin Beck è da standing ovation) così come la traccia regina di questo lavoro, Can’t Stop The Rock, hard rock melodico a stelle strisce, che entra nella testa ipnotizzandoci e vi avverto, continuerete ad ascoltarla fino alla sfinimento.
Un album bellissimo, AOR nella sua massima espressione con ospiti internazionali, ma orgogliosamente tricolore nella sua creazione, un piccolo capolavoro da non lasciarsi assolutamente sfuggire.

TRACKLIST
01. Highway Of Love (feat. Erik Martensson)
02. Amy (feat. Harry Hess)
03. Strong Enough (feat. Robbie LaBlanc)
04. Heaven’s Path (strumentale)
05. Heat Of The Light (feat. Robin Beck)
06. Can’t Stop The Rock (feat. Mikael Erlandsson)
07. The Meaning Of My Lonely Words (feat. Michael Shotton)
08. The Infinity In Us (feat. Michael Voss)
09. Still In Your Heart (feat. Bob Harris & Sue Willetts)
10. Homeless’ Lullaby (feat. Carsten “Lizard” Schulz & Ulrich Carlsson)
11. Follow the Stars (feat. Phil Vincent)
12. Unbreakable Wire (feat. Jack Meille, Bruno Kraler, Graziano De Murtas & Alessandro Del Vecchio)
13. This Is Our Life (feat. The Italian Rock Gang – BONUS TRACK ESCLUSIVA)
14. Under Silent Walls Part I – Blossom: From Night to Dawn (strumentale)
15. Under Silent Walls Part II – Alone (feat. Michael Bormann)
16. Under Silent Walls Part III – Overture: Death of Cupid (strumentale)

LINE-UP
Pierpaolo “Zorro11” Monti – Drums & Percussion
Amos Monti – Bass
Alessandro Del Vecchio – Keybs & Vocals
Marco “Dandy” D’Andrea – Guitars
Mario Percudani – Guitars

Bob Harris (Axe, Edge Of Forever)
Brian LaBlanc (Blanc Faces)
Brunorock
Carsten “Lizard” Schulz (Evidence One, Domain, Midnite Club)
Douglas R. Docker (Biloxi, Docker’s Guild)
Elisa Paganelli
Enrico Sarzi (Midnite Sun)
Erik Martensson (Eclipse, W.E.T.)
Frank Law (The Pythons)
Gabriele Gozzi (Markonee)
Graziano “Il Conte” De Murtas (Wine Spirit)
Ivan Varsi
Harry Hess (Harem Scarem)
Jacopo Meille (Tygers Of Pan Tang, Mantra, Fool’s Moon)
Johan Bergquist (Elevener, M.ill.ion)
Josh Zighetti (Hungryheart)
Luke Marsilio (Lizhard)
Marco Tansini (Big Sur)
Marco Sivo (Planethard)
Marko Pavic
Matt Albarelli (Homerun)
Matt Filippini (Moonstone Project)
Michael Bormann (Rain, Charade, Jaded Heart, The Trophy, Redrum, Zeno)
Michael Shotton (Von Groove, Airtime)
Michael T. Ross (Hardline, Lita Ford, Angel)
Michael Voss (Mad Max, Voices Of Rock, Casanova, Demon Drive)
Mikael Erlandsson (Last Autumn’s Dream, Salute)
Phil Vincent (Tragik, Circular Logik)
Robbie LaBlanc (Blanc Faces)
Robin Beck
Sue Willetts (Dante Fox)
Tank Palamara (The Lovecrave, Oxido)
Tim Manford (Dante Fox)
Tommy Ermolli (Khymera)
Ulrich Carlsson (M.ill.ion)
Vinny Burns (Dare, Ten, Asia)
Walter Caliaro (Edge Of Forever)

SHINING LINE – Facebook

Sonata Arctica – The Ninth Hour

L’album mantiene per tutta la sua durata bellissime atmosfere malinconiche, trovando nelle orchestrazioni mai invadenti e nei passaggi progressivi la sua linfa e, forse, la strada definitiva per il sound dei futuri Sonata Arctica.

Apparsi sulla scena power sul finire del millennio, i Sonata Arctica hanno trovato il meritato successo con album che univano le cavalcate metalliche alla Stratovarius con un gusto melodico raffinato ed un approccio caldo che li allontanava dal maggior difetto dell’allora band di Timo Tolkki (sempre un po’ freddini, anche nei loro indiscutibili capolavori), in un crescendo qualitativo che li ha portati ad essere uno dei gruppi più rappresentativi del genere.

Con una discografia che, se consideriamo la riessue di Ecliptica uscita due anni fa, arriva con questo nuovo lavoro al traguardo della doppia cifra, la band finlandese ha ormai abbandonato le sonorità degli esordi per un sound più introspettivo, calcando la mano sull’aspetto melodico e prog del proprio credo musicale a svantaggio del più canonico power metal di scuola scandinava.
Non fraintendetemi, Tony Kakko and company non fanno certo mancare gli attimi dove sontuoso metallo nordico ha ragione dell’atmosfera malinconica che si respira su questo The Ninth Hour, ma è indubbio che una svolta c’è stata, partendo da Pariah’s Child, ultimo lavoro di inediti targato 2014.
E The Ninth Hour prosegue deciso la strada intrapresa, con le ballad che prendono il sopravvento sul songwriting e la furia power ormai domata in favore di un metal classico, colmo di melodie e dal gustoso sentore symphonic prog.
Ora, com’è normale in questi casi ci saranno i fans che storceranno il naso al cospetto di cotanta melodia e chi invece apprezzerà le scelte operate dal gruppo che, diciamolo, conferma l’essere una top band aldilà dei gusti personali.
Si perché The Ninth Hour è un ottimo lavoro, magari leggermente prolisso, ma sicuramente in grado di mantenere inalterata la fama del gruppo, con un Kakko probabilmente mai così interpretativo ed una serie di brani che alla lunga riusciranno ad aprire una breccia nel cuore dei fans.
Così, archiviato l’unico episodio che ricorda il passato del gruppo (Rise A Night), l’album mantiene per tutta la sua durata bellissime atmosfere malinconiche, trovando nelle orchestrazioni mai invadenti, in mid tempo dove la potenza è accennata ma mai liberata in toto e nei passaggi progressivi la sua linfa e, forse, la strada definitiva per il sound dei futuri Sonata Arctica.
Pioveranno critiche alla pari degli elogi, ma a mio parere la bellezza di Fairytale, Till Death’s Done Us Apart e White Pearl, Black Oceans Part II – By The Grace Of The Ocean non potranno che emozionare anche il fan più scettico.

TRACKLIST
01. Closer to an Animal
02. Life
03. Fairytale
04. We Are What We Are
05. Till Death’s Done Us Apart
06. Among the Shooting Stars
07. Rise a Night
08. Fly, Navigate, Communicate
09. Candle Lawns
10. White Pearl, Black Oceans (Part II: By the Grace of the Ocean)
11. On the Faultline (Closure to an Animal)

LINE-UP
Elias Viljanen – Guitars
Henrik Klingenberg – Keyboards
Pasi Kauppinen – bass
Tommy Portimo – Drums
Tony Kakko – Vocals

SONATA ARCTICA – Facebook

Soul Seller – Matter Of Faith

Uno scrigno delle meraviglie hard rock, che se ricorda non poche icone della nostra musica preferita, possiede comunque marchiato in bella mostra il monicker Soul Seller.

Finiti i tempi del successo commerciale, l’hard rock melodico di stampo classico ha continuato il suo percorso musicale all’ombra dei vari generi che si sono succeduti nel cuore dei fans negli ultimi venticinque anni.

Gli amanti della musica dura dal taglio raffinato hanno comunque avuto il supporto dei paesi scandinavi e delle terre d’oltreoceano, per saziarsi di melodic rock, con nel mezzo l’Europa centrale (Germania) da sempre culla di questi suoni.
In Italia la scena è comunque ricca di talenti e nell’underground valide etichette lavorano costantemente per dare spazio ai gruppi di genere meritevoli d’attenzione da parte dei fans.
Aspettando tempi migliori per un minimo di attenzione in più, soprattutto (carta stampata in primis) da chi detta regole di mercato non scritte, noi,  che dei trend (purtroppo fastidiosi anche nell’hard & heavy) ce ne freghiamo,  godiamo delle note eleganti e splendidamente melodiche di quegli eroi poco conosciuti che di melodic rock ci fanno innamorare.
I Soul Seller, per esempio, sono una band piemontese, attiva da un po’ di anni e con una già discreta discografia alle spalle composta da un primo album autoprodotto uscito all’alba del nuovo millennio, due ep e l’ultimo parto licenziato cinque anni fa (Back To Life).
Il sestetto nostrano torna con questo nuovo e bellissimo album dal titolo Matter Of Faith, un’opera di rock melodico colma di splendide tracce, dove l’hard rock tradizionale incontra l’AOR e con l’aiuto di sfumature progressive ci delizia con una serie di canzoni che, in un’altra epoca, suonerebbero nell’autoradio di molti rocker dal cuore tenero e dai gusti raffinati.
Matter Of Faith ha l’indubbia virtù di pescare tanto dalla tradizione europea quanto da quella statunitense, i richiami all’hard rock britannico infatti si riflettono in attimi dove un’energia stradaiola ci ricorda di notti infuocate nei locali della West Coast o ci portano ad inorgoglirci di epicità in quelle lande raccontate dai maestri Ten e Dare (Get Away From The Light, apice del disco).
Qui troviamo una produzione cristallina, un cantante sopra le righe, chitarre eleganti che ricamano riff e solos dove la melodia e l’energia vanno a braccetto, ballate che sprigionano un delicato gusto AOR, tastiere ariose che a tratti giocano con la tradizione progressiva nazionale, ma soprattutto canzoni, dannatamente coinvolgenti e che ci imprigionano senza lasciarci andare via, legati mani e piedi da un songwriting di altissimo livello.
L’energia della title track mi ha ricordato i migliori Scorpions in versione U.S.A, Alchemy e poi l’opener Neverending spoiccano da par loro ma non da meno sono tutte le altre tracce che formano questo scrigno delle meraviglie hard rock, che se ricorda non poche icone della nostra musica preferita, possiede comunque marchiato in bella mostra il monicker Soul Seller.
Album di una bellezza imbarazzante, fatevi sotto.

TRACKLIST
1.Neverending
2.Given To Live
3.Tide Is Down
4.Memories
5.Get Stronger
6.Echoes From A Distant Future
7.Get Away From The Light
8.Alchemy
9.Wipe Your Tears Away
10.Matter Of Faith
11.Strangers Apart
12.Made Of Stone

LINE-UP
Eric Concas – Lead & Backing Vocals
Cris Audisio – Lead, Rhythm & Acoustic Guitar, Backing Vocals
Dave Zublena- Rhythm & Acoustic Guitar, Backing Vocals
Mike Zublena – Bass
Italo Graziana – Drums & Backing Vocals
Simone Morandotti – Keyboards & Programming

SOUL SELLER – Facebook

Ataraxia – Deep Blue Firmament

La musica degli Ataraxia esula da etichette o limiti spazio temporali, ed è essenzialmente la rappresentazione più pura di quanto sia concesso fare all’uomo manipolando le sette note.

Non c’e dubbio che ogni genere musicale sia più o meno adatto agli umori ed alle circostanze connesse al momento dell’ascolto: per un disco degli Ataraxia immagino, quale luogo ideale, una zona collinare o, ancora meglio, posizionata sulle alture della mia Genova dove, con i contrafforti appenninici alle spalle, si ha la fortuna di godere, a poca distanza, della vista di tutto il golfo.

Purtroppo tale abbinamento non sempre è possibile, pertanto ad un lavoro come Deep Blue Firmament viene affidato il non facile compito di farci immaginare quegli stessi scenari anche stando seduti in un angolo delle proprie dimore abituali.
Del resto gli Ataraxia compiono questa magia ormai da venticinque anni, reiterandola mediamente una volta all’anno senza mai mostrare cenni di stanchezza o cali d’ispirazione: chiamiamola neo folk o come meglio ci aggrada, la verità è che questa musica esula da etichette o limiti spazio temporali, ed è essenzialmente la rappresentazione più pura di quanto sia concesso fare all’uomo manipolando le sette note.
La voce meravigliosa di Francesca Nicoli è ovviamente il tratto che identifica gli Ataraxia nel loro primo palesarsi al nostro udito, la guida ideale per un viaggio virtuale tra civiltà perdute, suoni ancestrali, spiritualità e natura, il tutto intriso di quel carico di malinconia che è insito nelle anime sensibili, un club che pare divenire sempre più ristretto, a giudicare dalle nefandezze che, quotidianamente, i nostri sensi devono sempre più subire.
Da Delphi ad Alexandria II è tutto un susseguirsi di emozioni, una danza tra luci ed ombre, condotta attraverso l’uso di diversi idiomi, a corollario di suoni talmente cristallini da far temere che qualcosa possa infrangerli da un momento all’altro.
Non mi dilungherò nel canonico passaggio ai raggi x dei vari brani, un po’ per atavica incapacità, ma soprattutto perché non c’è davvero bisogno di farlo quando ci si trova al cospetto di musica di tale levatura, e neppure mi permetterò di lanciarmi in improbabili paragoni che potrebbero risultare persino offensivi per chi ci regala la propria arte da oltre un quarto di secolo.
Mi limiterò quindi a chiedervi in maniera accorata di continuare a supportare questa band, se già la conoscevate, e di scoprirla definitivamente qualora così non fosse, a meno che non vogliate continuare ad ignorare le eccellenze che, almeno a livello artistico, questo vituperato paese continua a produrre nonostante la protervia e l’ignoranza dilagante provino a soffocarle: gli Ataraxia sono una di queste, indubbiamente tra le più luminose e durature.

Tracklist:
1.Delphi
2.Message to the clouds
3.Greener than grass
4.Myrrh
5.Alexandria part I
6.Rosso Sangue
7.Galatia
8.May
9.Vertical
10.Ubiquity
11.Phoebe
12.Alexandria part II

Line-up:
Francesca Nicoli – Voce
Vittorio Vandelli – Chitarra classica, chitarra elettrica, chitarra fado, basso, cori
Giovanni Pagliari – Tastiere, armonizzazioni, cori
Riccardo Spaggiari – Rullante, tamburi a cornice, daf, darabouka, piatti, pads elettronici, programmazione

ATARAXIA – Facebook