Dharmanaut non è un disco comune grazie alla sua intensità e potenza, con un’ottima unione fra desert stoner e psych settanta, e ci si può trovare anche uno spruzzo di grunge.
I Mars Era sono nati a Firenze nel 2014, ispirandosi allo stoner, e più in particolare alla scena desertica statunitense che tante gioie ha regalato.
Per il loro debutto discografico però questi ragazzi vanno ben oltre, confezionando un concept album che si basa sull’idea di un lungo dialogo fra lo Ying e lo Yang, che ci riporta al dualismo fra bene e male e a tanti altri dualismi sia della filosofia orientale che di quella occidentale. La musica dei Mars Era è molto energica e di forte impronta settantiana, con una potente benzina di modernità. Il disco è molto bello, con canzoni veloci ed altri momenti maggiormente dilatati, e stupisce la maturità sonora di questo gruppo esordiente, che certamente non propone novità rivoluzionarie, ma confeziona un disco molto ben fatto e piacevole, intenso e coinvolgente. Il suono è vitaminico e ben bilanciato, con una forte impronta anni settanta come si diceva prima, e partendo da qui i Mars Era sviluppano un suono peculiare ed importante, ben definito e con ulteriori margini di miglioramento. Dharmanautnon è un disco comune grazie alla sua intensità e potenza, con un’ottima unione fra desert stoner e psych settanta, e ci si può trovare anche uno spruzzo di grunge. Il concept si sviluppa con un film accompagnato da una musica davvero notevole, che rende l’opera molto interessante. Disco di rara intensità e pathos che spalanca un futuro davanti ai Mars Era.
TRACKLIST
01. Enemy Was a Friend of Mine
02. Emprisoned
03. The Leap
04. Revolution
05. Red Eclipse
06. Licancabur
07. Desolate Wasteland
LINE-UP
M. Verdelli _guitars
D. Ferrara_vocals
L. Storai_bass
T. Tassi_drums
Fuck The Trinity è un esempio di musica underground nella più pura concezione del termine, è metallo disturbante e malvagio, dove mere disquisizioni tecniche lasciano spazio ad impatto ed attitudine, presentandoci una nuova realtà estrema che trae linfa dai padri storici del metal estremo ottantiano.
Pei i Deathfucker il tempo si è fermato ai primi anni del decennio ottantiano, quando nella fiorente scena heavy metal muovevano i primi passi realtà molto più estreme e pericolose.
Devoto al signore oscuro e fortemente anticristiano, questo progetto vede coinvolti Insulter (chitarra, basso, voce e testi) e J.K. (batteria), nel passato membri di gruppi come Raw Power, Valgrind ed Inferi.
Questo demo di tre brani ci presenta una realtà malvagia, famelica e ingorda di male, che si nutre del più marcio thrash metal underground e lo potenzia di devastante attitudine death.
Il lavoro denota un approccio di inumana violenza, senza compromessi, satanico ed assolutamente old school, roba per maniaci del metal estremo underground: i tre brani (Dechristianized, Fuck The Trinity, Intoxication Of The Soul), sono altrettante spallate metalliche di diabolica violenza, frustate che dal braccio di Insulter arrivano alla schiena, conficcando i chiodi tra le scapole come nel supplizio del Cristo. Fuck The Trinityè un esempio di musica underground nella più pura concezione del termine, è metallo disturbante e malvagio, dove mere disquisizioni tecniche lasciano spazio ad impatto ed attitudine, presentandoci una nuova realtà estrema che trae linfa dai padri storici del metal estremo ottantiano.
TRACKLIST
1.Dechristianized
2.Fuck The Trinity
3.Intoxication Of The Soul
I The Great Saunites spingono in maniera decisa e senza tentennamenti verso un impatto lisergico che avvolge nelle sue insidiose e piacevoli spire l’ascoltatore.
Dopo oltre 3 anni dall’ottimo The Ivy, del quale avevo già avuto occasione di parlare sulle pagine di In Your Eyes, e circa ad uno di distanza da Nero, arriva l’atto secondo della trilogia iniziata proprio con quest’ultimo lavoro da parte dei lombardi The Great Saunites.
Rispetto ai due lavori precedenti, il duo composto da Atros e Leonard K. Layola spinge in maniera decisa e senza tentennamenti verso un impatto lisergico che avvolge nelle sue insidiose e piacevoli spire l’ascoltatore di turno: i brani sono solo due ma, insieme, assommano più di tre quarti d’ora di musica, con Dhaneb che martella implacabilmente reiterando le poche variazioni sul tema fino a portare all’assuefazione, ed Antares che viaggia sulla stessa falsariga, con la grande differenza che, mentre la prima traccia si placa nella sua parte finale, la seconda dopo circa un quarto d’ora intensifica ulteriormente suoni e ritmi.
Anche se qualcuno potrà sostenere che The Ivy fosse senz’altro più vario, alla luce della sua distribuzione su cinque brani piuttosto diversi tra loro, personalmente ritengo che, con Green, la band riesca a focalizzare molto meglio le proprie naturali pulsioni, lasciando da parte una vena sperimentale che, invece, era stata evidenziata maggiormente in Nero: a livello di approccio, inoltre, Greensembra ripartire da quello che era il brano migliore dell’album d’esordio, Medjugorje, del quale riprende l’impagabile ed ossessivo incedere.
Ciò che ne resta (molto) è una sorta di lunghissima jam session nella quale la noia è bandita se si hanno nel proprio dna i primi Pink Floyd, gli Hawkwind o gli stessi Ozric Tentacles, rispetto ai quali però i The Great Saunites possiedono un’anima ben più robusta.
Per chi apprezza i nomi succitati Greenè un’opera che darà molte soddisfazioni, mentre magari potrebbe trovare qualche ostacolo in più nel penetrare in chi non ha familiarità con questi suoni: di sicuro, il fatto che quest’album sia di assoluto valore è un dato oggettivo, che depone a favore delle doti compositive dei The Great Saunites, capaci di provocare con la loro musica alterazioni di coscienza senza dover ricorrere a sostanze illegali, nonché in grado di prodursi in una progressione stilistica costate e priva di calcoli di convenienza.
Tracklist:
1. Dhaneb
2. Antares
Line-up:
Atros – basso
Leonard K. Layola – batteria, tastiere, chitarra
Ars Goetia, per il suo potenziale, è un album capace di travalicare i ristretti confini musicali del nostro paese, anche perché le più pesanti sfumature death che presenta potrebbero ampliare non poco la gamma dei suoi possibili fruitori.
Quarto album per gli Infernal Angels, band guidata ormai da quindici anni da Xes, uno dei migliori vocalist italiani in ambito black/death e che, non a caso, troviamo all’opera anche in altre due ottime realtà come Lilyum e Byblis.
Come il precedente Pestilentia, anche Ars Goetia è un album tematico, che incentra ognuno dei dieci brani su altrettanti demoni tra i 72 principali, quelli descritti nella prima parte della Piccola Chiave di Salomone, che dà appunto il titolo al lavoro.
Oltre ad essere una buona occasione per dare un ripasso o approfondire maggiormente il significato di alcuni nomi divenuti familiari a chi ascolta metal (ben pochi sono quelli che non sono diventati un ambito monicker), Ars Goetia è soprattutto un altro notevole lavoro fornito da questa band: se Pestilentia conservava maggiormente la sua impronta black, qui invece gli Infernal Angels vanno ad esplorare anche il versante death.
Non se a ciò possa aver contribuito il totale stravolgimento della line-up, che vede ora il sempre convincente Xes accompagnato da quattro nuovi musicisti, tra i quali sicuramente il più noto è il batterista Alex Venders, attivo soprattutto in sede live con diversi gruppi estremi della scena nazionale ma, assieme a lui, i bravi Apsychos, Nekroshadow (chitarre) e Hagen (basso) rendono oggi gli Infernal Angels una gruppo più che mai completo, pronto a mettere a ferro e fuoco i palchi anche senza ricorrere all’aiuto di altri musicisti in sede live. Ars Goetia è un disco oscuro e dai suoni ottimali che gode anche di una certa varietà, ulteriormente conferita, oltre che da una scrittura tutt’altro che monolitica, anche dal ricorso alle voci di tre ospiti disseminate in altrettanti brani: Asmoday, con il contributo della voce inconfondibile di Mancan (Ecnephias), e Bael e Paimo, rispettivamente con le timbriche più harsh di Lorenzo Sassi (Frostmoon Eclipse) e Snarl (Black Faith), sono tutte tracce notevoli, anche se ritengo che i picchi dell’album vengano raggiunti nella trascinante Balam e nella più impressionante, per costruzione ed impatto, Belial (scelta opportunamente per essere accompagnata da un video).
Con questo ottimo lavoro gli Infernal Angels proseguono la loro opera di consolidamento di uno status già consistente, e l‘operazione non può che trarre giovamento dall’avere oggi alle spalle un’etichetta come la My Kingdom: Ars Goetia, per il suo potenziale, è un album capace di travalicare i ristretti confini musicali del nostro paese, anche perché le più pesanti sfumature death che presenta, a mio avviso, potrebbero ampliare non poco la gamma dei suoi possibili fruitori facendolo entrare nell’orbita dei fans di Behemoth e co.
Tracklist:
1. Amdusias: The Sound Of Hell
2. Vine: Destroyer Of The World
3. Asmoday: The Impure Archangel
4. Purson: Matter And Spirit
5. Bael: The Fire Devour Their Flesh
6. Paimon: The Secret Of Mind
7. Balam: Under Light And Torment
8. Zagan: The Alchemist
9. Belial: The Deceiver
10. Beleth: Lord Of Chaos And Spirals
Path To Redemption è un prodotto curato nei minimi dettagli, un altro gioiellino made in Italy su cui puntare per i prossimi ascolti.
Il death metal melodico scandinavo, in particolare lo swedish sound nato a Goteborg nei primi anni novanta, sembra aver trovato nuova vita lungo il nostro stivale con ottime realtà alle quali si vanno ad aggiungere i Frozen Hell, band veneta al primo full length, successore dell’ep Rise, che viene con un mix nella conclusiva What We Were.
Del resto Path To Redemptionè legato a quel lavoro sia nell’artwork che nella struttura dei brani che rispecchiano lo stile scandinavo, con la melodia nei solos in primo piano, un imponente lavoro ritmico ed atmosfere estreme che si avvicinano senza paura al black di stampo Dissection.
I brani sono tutti collegati tra loro come una lunghissima traccia di oltre un’ora, forse un po’ troppo, ma in ogni caso la scelta risulta coraggiosa, dimostrando che il quintetto è sicuro dei propri mezzi, in un’epoca in cui, specialmente nel metal estremo, difficilmente si superano i quaranta minuti di durata.
Masterizzato nella patria del genere da Jens Bogren (Katatonia, Amon Amarth, Soilwork e Kreator), Path To Redemption non ha nulla da invidiare alle opere uscite all’estero nell’ultimo periodo e, sinceramente, non è una novità, ad indicare lo stato di salute e gli importanti passi avanti fatti dalla scena metallica tricolore.
Dunque aspettatevi quello che un lavoro del genere sa abbondantemente regalare, ovvero furiose cavalcate, ritmiche devastanti, chitarre che, torturate a dovere, sprizzano melodie oscure e a tratti pregne di sana epicità metallica, ed quel tocco demoniaco che tramuta in metallo nero molte delle atmosfere dell’album.
I musicisti impegnati in questo tour de force metallico sono sul pezzo, ed il buon songwriting dona qualità ai brani, con più di un picco rinvenibile in Stainless, Everything Ends e Killing Temptation. Path To Redemption è un prodotto curato nei minimi dettagli, un altro gioiellino made in Italy su cui puntare per i prossimi ascolti.
TRACKLIST
01.Stainless
02.Absently
03.Chaotic Hostilities
04.Lethal Syndrome
05.Demons Inside
06.Quiet Before The Storm
07.Everything Ends
08.Deathly Route
09.Weavers of fate
10.Until Daybreak
11.Unforgotten
12.Killing Temptation
13.The Last Torture
14.What We Were
Nero Inferno Italiano è un disco composto e suonato benissimo, pieno di novità e di carattere, originale dall’inizio alla fine, e diverte moltissimo, se solo ci fosse qualcosa da ridere.
Vizio, perdizione ed inutili giustificazioni, insomma la vita nel bel paese, o è solo il nero inferno italiano ?
Tornano i romani Chronic Hangover, con il loro ottimo stoner doom metal, con molto groove e canzoni composte molto bene. I ragazzi hanno ascoltato ed assorbito molte cose per poter fare un disco così, completato poi da ottimi testi in inglese. Questo è il loro debutto su lunga distanza, dopo l’ottimo ep del 2014 “Logicamente il Signore ci punirà per questo”, e a quanto pare non li ha puniti, o almeno non nel modo canonico. Il suono dei Chronic Hangover è un misto di elementi classici del metal, ma la loro rielaborazione è talmente buona che ne esce un qualcosa di davvero originale. La voce di Jacopo è il noi narrante del disastro dell’italica vita, e ci accompagna per mano in una galleria di quadri che descrivono la nostra vita, si è proprio la nostra vita, senza senso e deprimente. Ma non piangiamoci addosso, facciamo schifo perché lo vogliamo fare e questo splendido disco è qui per ricordarcelo. Ci sono tante cose qui dentro, dallo stoner al doom, dal groove metal all’heavy, ma è tutto Chronic Hangover, qualcosa di completamente nuovo. Nero Inferno Italiano è un disco composto e suonato benissimo, pieno di novità e di carattere, originale dall’inizio alla fine, e diverte moltissimo, se solo ci fosse qualcosa da ridere. La soluzione è quella della copertina, in più però al bar fate mettere questo gran disco.
TRACKLIST
1. Vituperio
2. Homunculus
3. Sociopatia
4. Regretudo
5. Tossine
6. Villa Triste
7. Alamut 2112
8. Nero Inferno Italiano
9. Lucifer In The Sky With Diamonds
Tales è un’opera d’arte, intesa nel senso più completo del termine: fatela vostra, ne godrete, vi commuoverete ed amerete il lavoro di questi ragazzi.
I viterbesi The Chasing Monster sono una band di formazione recente e, nonostante questo, hanno già modificato in maniera sensibile l’approccio rispetto agli esordi.
Dalle tendenze post hardcore racchiuse nell’ep autointitolato del 2014 giungono, infatti, con questo primo full length, ad esplorare territori post rock dalla struttura prevalentemente strumentale, ma arricchita dal ricorso a spoken word.
Nel caso di Tales, i ragazzi laziali si spingono anche oltre, offrendo, oltre alla versione standard, anche quella extended che porta come sottotitolo Today, Our Last Day On Earth, nella quale i vari brani vengono legati l’uno all’altro da una storia che racconta, appunto, le ultime fasi dell’esistenza terrena dei due protagonisti.
Un’operazione, questa, che si addice alla perfezione allo stile dei The Chasing Monster, autori di oltre quaranta minuti di musica intrisa di poesia e sempre pervasa, al contempo, da una malinconia di fondo che sfocia frequentemente in passaggi di grande impatto emotivo; personalmente ritengo un brano come The Porcupine Dilemma un vero e proprio capolavoro, che ha il solo difetto, paradossalmente, di offuscare con la sua struggente e drammatica bellezza altri brani di livello superiore alla media come Itai, La Costante e Today, Our Last Day On Earth, senza per questo dimenticare tutti gli altri.
Non so se la band abbia del tutto la percezione della portata di un lavoro del genere, anche perché, operando in un paese dalla ricettività del tutto relativa per tutto ciò che non sia di immediata fruizione, c’è il rischio di sottostimare il proprio potenziale, accontentandosi di quel minimo sindacale di consensi che dalle nostre parti appare già un risultato rilevante per chi opera al di fuori del mainstream.
Apro questo fronte ricollegandomi alla presenza di Theodore Freidolph, chitarrista degli Acres, quale ospite nel brano La Costante: il gruppo britannico, attivo da più tempo e fautore una forma di post rock senz’altro più abbordabile, in patria gode di un consenso meritato ma che, se lo si paragona a quello dei The Chasing Monster, appare sproporzionato rispetto al valore delle due band, segno che il problema è evidentemente tutto italiano.
Per questo invoco la massima attenzione ed il supporto, da parte di tutti gli addetti ai lavori, nei confronti del gruppo laziale: la nostra è una webzine piccola, attiva solo da qualche mese in maniera autonoma e di conseguenza in grado di raggiungere un numero ancora limitato di persone, ma mi auguro che le mie parole siano di stimolo a qualcuno di ben altro “peso”, affinché spinga un pubblico più ampio a godere di questo splendido lavoro. Tales, nonostante la sua propensione chiaramente strumentale, sfugge alle controindicazioni che la soluzione alla lunga può comportare, grazie all’inserimento delle spoken word che, pur non sostituendo del tutto le parti cantate, conferiscono ai brani una sembianza diversa, attirando maggiormente l’attenzione dell’ascoltatore; poi, e è evidente che tutto risulterebbe vano se non ci fosse dietro una band come i The Chasing Monster, in grado di offrire con grande continuità momenti ora liquidi, ora più robusti, ma sempre intrisi di linee melodiche splendide, elemento fondamentale nell’economia di un album che non patisce neppure per un attimo di passaggi a vuoto o di riempitivi. Talesè un’opera d’arte, intesa nel senso più completo del termine: fatela vostra, ne godrete, vi commuoverete ed amerete il lavoro di questi ragazzi.
Tracklist
1. Act I *
2. Itai
3. Act II *
4. The Porcupine Dilemma
5. Act III *
6. The Girl Who Travelled The World
7. Act IV *
8. Albatross
9. La Costante (feat. Theodore Freidolph from Acres)
10. Act V *
11. Creature
12. Today, Our Last Day On Earth
Il sound è deciso, urgente, le note desertiche arrivano stonate ma piene di grinta heavy, mentre i The Brain Waghing Machine si fanno apprezzare anche nei momenti leggermente più introspettivi.
E non dite che nel nostro paese non si suona stoner rock !
Dalle Alpi alle terre che si affacciano sui deserti africani (che non saranno quelli americani ma in quanto a sabbia e caldo…) il nostro stivale pullula di gruppi heavy rock che all’hard rock moderno aggiungono sfumature settantiane e stoner di origine controllata, made in Sky Valley, così da uscirsene con bombe rock che, se lanciate in un cratere, sveglierebbero anche il più addormentato dei vulcani, devastando di lava e cenere le città della nostra penisola.
Nati più di dieci anni fa e con una più che rispettata attività live in compagnia di The Quill, Exilia e Karma To Burn, i padovani The Brain Washing Machine arrivano al secondo lavoro sulla lunga distanza dopo gli ottimi riscontri ottenuti con Seven Years Later, debutto licenziato nel 2013.
Il loro hard rock unisce come descritto rock zeppeliniano, alternative e stoner, niente di nuovo direte voi, di questi tempi: vero, ma il gruppo veneto lo fa con una grinta da heavy metal band, un appeal americano e quel tocco stonerizzato che sa tanto di desertiche passeggiate.
L’opener, che riprende il monicker del gruppo, è un clamoroso attacco alle coronarie tra ultimi Zeppelin e i primi Soundgarden, quelli selvaggi di una Seattle imprigionata dalla pioggia e lontana dai riflettori del music biz.
Il sound è deciso, urgente, le note desertiche arrivano stonate ma piene di grinta heavy (la title track, Waiting The Blow), mentre il quartetto si fa apprezzare anche nei momenti leggermente più introspettivi, come se riprendesse respiro per tornare ad esplodere in riff che avvicinano terribilmente ora i Black Label Society e gli Alice in Chains, ora i Kyuss con i Jane’s Addiction in un turbinio di varianti rock di rara efficacia.
Ottima la prova dei quattro musicisti, con il drummer Sidd a lasciare le braccia sulle pelli distrutte del suo drumkit, il cantante Baldo a trovare a tratti la magia del giovane Perry Farrell, il bassista Berto intento ad assecondare il suo compagno di ritmiche e la sei corde del chitarrista Muten, incisiva e graffiante.
Un ascolto obbligato per gli amanti del genere, ancora una volta prodotto una band italiana: sono bei tempi, questi, per l’underground nazionale a livello qualitativo.
TRACKLIST
1.The Brain Washing Machine
2.Are You Happy?
3.Connections
4.Reset
5.Restless Night
6.The Show
7.Waiting The Blow
8.Let Your Body Go
9.Feel Inside
10.Holy Planet
Hereafter è un disco intenso e perfettamente suonato e cantato: per i Cromo un esordio da non perdere.
I Cromo suonano heavy metal classico forgiato nell’acciaio, con fuoco e fiamme che modellano e domano la lega che dalla notte dei tempi accompagna l’arma degli eroi e delle leggende.
La band festeggia i dieci anni di attività con il debutto sulla lunga distanza che segue il primo demo uscito nel 2010 (Heavy Metal Lover) ed il primo mini cd (Unchained), licenziato quattro anni fa. Hereafterè stato affidato per la produzione a Salvatore Addeo negli Aemme Recording Studios di Lecco, mentre per il mastering ci si è spinti fino ai Metropolis Studios di Londra (The Clash, The Cure, Led Zeppelin, Iron Maiden, The Who, Slipknot, Garbage).
Tanta gavetta live e palchi divisi con glorie metalliche come Girlschool ed Angel Witch hanno forgiato il sound ed i suoi creatori, ed ora le note metalliche di Hereafter possono conquistare la scena metallica underground a colpi di musica dura, a tratti epica come solo il metal classico sa essere, conquistando grazie ad intrecci chitarristici che nascono negli anni ottanta per esplodere in tutta la loro magnifica potenza nel nuovo millennio: quale valore aggiunto ecco poi un vocalist (Matteo “Blade” Musolino) che a tratti commuove nel suo saper dosare quello che la storia del genere gli ha messo a disposizione, non un semplice emulo ma un animale di razza, tra Dickinson, Halford e … sé stesso .
I primi cinque brani dell’album sono da scolpire sulle tavole della legge dell’heavy metal: ritmiche serrate, solos potenti e melodici, chorus da urlare a squarciagola prima di tuffarsi nella mischia di uno scontro o semplicemente sotto il palco, cominciando dall’opener Unchained, dalla priestiana Supersonic e dall’inno Pedal To The Metal, a livello di sound una perfetta via di mezzo tra Primal Fear e Manowar.
Non mancano piacevoli riferimenti al Bruce Dickinson solista di The Chemical Wedding su questo lavoro, specialmente nelle ottime Heart Of The Brave e Waiting For The Death To Come, mentre si arriva in un attimo alla fine delle ostilità, passando per Desperate Cry e Desert Tales, fino all’epic folk heavy metal di Iron Call, altro brano su cui il gruppo comasco potrà costruire i prossimi fiammeggianti live. Hereafter è un disco intenso e perfettamente suonato e cantato: per i Cromo un esordio da non perdere.
TRACKLIST
01. Unchained
02. Supersonic
03. Heart Of The Brave
04. Pedal To The Metal
05. Waiting For The Death To Come
06. Dreams Still Remain
07. Desperate Cry
08. Format
09. Desert Tales
10. You Are Not Alone
11. Iron Call
12. Silver Shade
La prova dei Raj è di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.
Ep d’esordio per i Raj, band lombardo/veneta dedita ad uno sludge/stoner doom davvero intrigante.
La prima cosa che balza all’occhio è la durata dei brani, imprevedibilmente brevi per gli standard del genere, mentre appare molto più in linea con le abitudini il sound, piacevolmente retrò nel suo unire pulsioni sabbathiane, a partire dalla voce (spesso filtrata) di Francecsco Menghi, con le atmosfere diluite dello sludge e la psichedelia dello stoner.
Chitarra e base ritmica contribuiscono ad erigere un muro sonoro che non stravolge i canoni stilistici conosciuti, puntando su un impatto ossessivo che il riffing dai toni ribassati rende efficace e gradevole a chi è avvezzo al genere; interessante anche il break ambient costituito dalla quarta traccia Black Mumbai, indicatore di una propensione sperimentale che forse meriterebbe d’essere maggiormente distribuita all’interno del disco.
Come detto, il suo essere rivolto al passato, a volte in maniera ostentata, non si rivela affatto una nota di demerito per il gruppo: chi suona questo genere è una sorta di medium, capace di rendere del tutto vive ed attuali sfumature sonore che a molti possono apparire datate; i Raj lo fanno con competenza e convinzione, andando a fondere talvolta il sound più psichedelico dei Doomraiser con certo doom sciamanico in voga negli anni scorsi (Omegagame ne è forse l’esempio migliore ) oppure richiamando in maniera più esplicita, ma comunque non calligrafica, il marchio di fabbrica sabbathiano (Kaluza).
Dovendo cercare il pelo nell’uovo, al netto delle citata traccia ambient, questo ep autointitolato mostra a tratti un’eccessiva uniformità compositiva e, inoltre, non sempre convince la scelta di deformare il timbro vocale; resta il fatto che la prova dei Raj è senz’altro di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.
Tracklist:
1. Omegagame
2. Eurasia
3. Magic Wand
4. Black Mumbai
5. Kaluza
6. Iron Matrix
Line-up:
Marco Ziggiotti – guitars
Daniel Piccoli – drums
Francesco Menghi – vocals
Davide Ratti – bass
Una battaglia infernale tra cielo, terra e acqua, molto swedish non solo nei riff ma nella sua struttura, tra death metal old school e black melodico.
Una band italiana alla corte della Metal Scrap, label ucraina della quale MetalEyes ha avuto il piacere di occuparsi, parlando delle sue band, di buon livello medio e dedite ai generi più disparati.
Il sound dei From The Shores è un death metal feroce, in cui non mancano soluzioni vicine al black ed ottimi spunti melodici: il quintetto veneto, nato nel 2008 e con solo un ep ed un singolo alle spalle, di ormai cinque anni fa, è al primo lavoro sulla lunga distanza. Of Apathyè furente, suonato con un’urgenza tipica del thrash metal , ma oscuro e devastante e dalle chiare influenze death/black scandinave.
le melodie, molto importanti nell’economia dei brani sono lasciate a solos di ottima fattura, che non scendono sotto il limite di una velocità disumana, ma mantengono un ottimo appeal e rendono i brani godibili nella loro furia estrema, una vera battaglia infernale tra cielo terra e acqua, molto Swedish, non solo nei riff ma nella struttura, tra death metal old school e black melodico.
Quasi quaranta minuti di metal estremo di matrice nordeuropea (Dissection, At The Gates), con il growl deciso e perfetto di Luca Cassone, le ritmiche infernali della coppia Nicolò ‘Theo’ Del Zotto (basso) e Nicolò Sambo (batteria) e l’ottima vena dei due chitarristi Leonardo Manente e Giorgio Dorigo, davvero bravi nel mantenere un approccio melodico alle sfuriate estreme del loro strumento come in Heaven’s Dark Harbinger, Incest of the Wretched e Hourglass.
Un esordio più che positivo per la band veneta ed ottimo colpo della Metal Scrap: Of Apathyrisulta un lavoro soddisfacente ed un nuovo e solido punto di partenza per i From The Shores.
TRACKLIST
1. This Ain’t Another Feast For Crows
2. Heaven’s Dark Harbinger
3. The Constellation Thirst
4. To Rest In Arms Of Perfection
5. Incest Of The Wretched
6. Primal
7. Opus XIII
8. Hourglass
9. I, The Firebreather
10. Weakness Of The Flesh
Fragments è un album bellissimo, perfetto nei dettagli e composto da dieci piccole gemme musicali.
Che album questo Fragments, opera prima dei The Black Crown, trio capitanato da Paolo Navarretta voce, chitarra e produttore accompagnato in questa ombrosa, drammatica e seducente avventura da Fulvio Di Nocera al basso e Scott Haskitt alle pelli.
Partiamo da questo insindacabile concetto: ogni decennio, in un modo o nell’altro, ha lasciato qualcosa di importante nella storia della musica contemporanea e questi primi anni del nuovo millennio a mio parere, non solo verranno ricordati come il ritorno delle sonorità vintage, ma anche per l’altissima qualità delle proposte del mondo underground.
Se negli anni ottanta ed in parte nel decennio successivo l’underground venne visto quasi come un commovente sottobosco di musicisti poi rivalutati in seguito, oggi proprio da lì arrivano le maggiori soddisfazioni a livello qualitativo e questo Fragmentsne è il più fulgido esempio: un metal alternativo che si nutre di dark elettronico, grunge, nu metal e hard rock moderno d’autore, in un stupendo esempio di poesia industriale, un arcobaleno di tonalità che dal grigio portano al nero, come le facciate di palazzi in una città post atomica. Fragments è la colonna sonora di un film ambientato tra mille anni, dove gli uomini vampiri sono costretti a muoversi di notte per sfuggire ai robot, cloni senz’anima, annientatori di emozioni, tiranni e padroni di ogni forma d’arte in un mondo dove dal nero del cielo una pioggia acida bagna strade ormai non più percorribili.
L’elettronica accompagna l’andamento di brani dal forte sentore alternative metal, il dark moderno ammanta di atmosfere tragicamente oscure brani che mantengono un appeal elevato, la sezione ritmica picchia come e più di una metal band moderna, ed una poetica intimista e drammatica prende direttamente allo stomaco l’ascoltatore, in un delirio di influenze che vedono God Machine, Nine Inch Nails e i Sundown del capolavoro Design 19, mentre veniamo catapultati nel mondo ombroso e acido di Forge, Ghosts, Rising e delle altre straripanti tracce. Fragments è un album bellissimo, perfetto nei dettagli e composto da dieci piccole gemme musicali: non resta che farlo proprio.
Il gruppo fondato da Emanuele Zilio, composto da musicisti dalla provata esperienza, non solo conferma quanto di buono era stato fatto con il precedente lavoro ma, passando al livello successivo, offre agli amanti del genere un gioiello di death metal contaminato da rock ‘n’ roll.
Il 2017 si annuncia come anno di ritorni e conferme nella scena underground nazionale, le prime avvisaglie arrivate sul finire dello scorso anno e un inizio scoppiettante in questi primi giorni del nuovo, fanno pensare ad un’altra ottima annata per il metal tricolore.
Puntuale, la famiglia Logic Il Logic/Atomic Stuff immette sul mercato il primo lavoro sulla lunga distanza dei Sinatras, gruppo vicentino apparso sulle pagine di Iyezine nel 2015, quando il primo ep di sei brani (Six Sexy Songs) diede il buongiorno agli amanti del death ‘n’ roll.
Il gruppo fondato da Emanuele Zilio, composto da musicisti dalla provata esperienza, non solo conferma quanto di buono era stato fatto con il precedente lavoro ma, passando al livello successivo, offre agli amanti del genere un gioiello di death metal contaminato da rock ‘n’ roll, scariche adrenaliniche di groove e leggermente stonerizzato, quel tanto che basta per sfondare crani e non solo a chi con queste sonorità si sazia abitualmente. Drowned, infatti ha nel songwriting l’arma in più per lasciare a terra decine di cadaveri travolti dall’impatto irresistibile dei brani in scaletta, che non scendono mai neppure per sbaglio sotto l’eccellenza.
Come scritto in sede di recensione dell’ep, il sound dei nostri risulta un mix tra gli Entombed dello storico Wolverine Blues ed i Pantera, il tutto centrifugato a pazza velocità con dosi letali di groove ed una predisposizione per il rock’n’roll che, per impatto ed attitudine, non possono che far pensare al compianto Lemmy ed i suoi Motorhead.
La title track parte come un razzo Acme alla ricerca di Beep Beep e l’esplosione di note continua per tutta la durata del disco, con 24/7 studiata per fare male in sede live, Something to Hate che sfodera ritmiche da infarto, e la pazzesca cover di You Spin Me Round dei Dead Or Alive, qui chiamata You Spin Me Round (Like A Record), la velocissima ed irriverente Miss Anthropy e la conclusiva Spiral Hell, ma è tutto l’album, come detto, che si rivela nel genere un lavoro perfetto.
Nella scena attuale l’unica band che mi sento di paragonare a questi fenomenali Sinatras sono i genovesi Killers Lodge, a formare una coppia d’assi di un modo di fare musica estrema che viene sicuramente enfatizzata dal talento dei musicisti coinvolti.
TRACKLIST
1. Drowned
2. 24/7
3. Cockroach
4. Something To Hate
5. Flow
6. You Spin Me Round) (Like A Record
7. Los 43
8. Miss Anthropy
9. Back In Frank
10. Blind Fury
11. Spiral Hell
Un album che merita la massima attenzione da chi si dichiara un fan del metal estremo.
Un’altra perla estrema made in Italy è pronta a risplendere nell’underground metallico e noi di MetalEyes non possiamo che farvi partecipi di cotanta violenza sonora.
Questa volta si tratta di death metal old school, tecnicamente ineccepibile ed esaltante nel suo ripercorrere le strade tracciate nel profondo sentiero degli inferi da Morbid Angel ed i loro seguaci.
Il gruppo protagonista di questi quaranta minuti circa di death metal d’alta scuola sono i bergamaschi Maze Of Sothoth, giovane quartetto nato nel 2009 dalla mente diabolica del chitarrista Fabio Marasco (ex Hiss Like The Damned).
Dopo il primo demo Guardian of the Gate, uscito nel 2011, ed uno split in compagnia di un nugolo di band estreme gravitanti nell’underground più oscuro (Molto Male Fest Vol.1, uscito lo scorso anno), la band licenzia il suo primo lavoro su lunga distanza tramite la Everlasting Spew Records, questo mastodontico Soul Demise che ha sicuramente nei Morbid Angel la sua principale fonte di ispirazione, ma che non manca di correre più veloce, trovando la sua via tramite scosse telluriche alla Nile e qualche ritmica slayerana.
L’atmosfera è di soffocante oscurità, anche nelle parti più violente la coltre di nebbia, dove vivono e si riproducono orrendi demoni, non lascia respiro: la velocità, molto spesso ai limiti, lascia talvolta spazio a mid tempo pesantissimi, mentre le chitarre urlano dolore sotto le torture di Marasco e di Riccardo Rubini.
La formazione viene completata dal maremoto ritmico composto da Cristiano Marchesi che, oltre a vomitare nefandezze al microfono si occupa del basso, e da Matteo Moioli alla batteria: Soul Demise si rivela così un esempio idelae di death metal old school, oscuro e mostruoso, da concedersi in tutta la sua estrema potenza senza perdere neanche una delle bordate che Lies, Multiple Eyes, l’accoppiata distruttiva The Dark Passenger – At The Mountain Of Madness, e la conclusiva Divine Sacrifice sanno sparare.
Un album che merita la massima attenzione da chi si dichiara un fan del metal estremo.
TRACKLIST
1.Cthulhu’s Calling
2.Lies
3.Seed of Hatred
4.Multiple Eyes
5.The Outsider
6.The Dark Passenger
7.At the Mountain of Madness
8.Blind
9.Azzaihg’nimehc
10.Divine Sacrifice
Debutto con i fiocchi, The Evolution Of Love merita tutta l’attenzione degli amanti della buona musica, sperando che il trio possa recuperare, con gli interessi, il tempo trascorso prima di tagliare questo traguardo.
Finalmente giungono al traguardo del primo full length gli storici hard rockers napoletani Wizard, un trio fondato dal bassista Roy Zaniel e dal batterista Rino Musella, addirittura sul finire degli anni settanta.
Il gruppo campan,o dopo anni di attività live ed una serie di demo, dà così continuità alla sua discografia, dopo l’ep Straight to the Unknown, uscito un paio di anni fa. The Evolution Of Love è dunque il primo lavoro su lunga distanza per uno dei gruppi più longevi dell’hard rock napoletano: magari poco conosciuti fuori regione, anche per la discografia piuttosto scarna, i Wizard si palesano come realtà di grande spessore, grazie ad un sound che, ovviamente, attinge dal decennio settantiano, ma senza risultare assolutamente vintage o nostalgico.
Melodie, buone soluzioni ritmiche che passano dal progressive al funky rock, ed una naturale predisposizione per il rock strumentale, seguito ovviamente dal tocco bluesy che è insito nei gruppi hard rock di ispirazione settantiana, sono le principali caratteristiche del trio, e il loro riferimento principale non può che essere il Glenn Hughes solista, assieme a Deep Purple e Led Zeppelin, il tutto amalgamato con la componete groove che accompagna la musica degli Wizard nel nuovo millennio.
Ad aprire le danze ci pensa il rock strumentale di W3/79, che verrà bissato nel corso dell’album dal capolavoro Metaphysical Journey, altro strumentale purpleiano dalle ottime reminiscenze progressive, poi The Evolution Of Love diviene un un emozionante viaggio nell’hard rock degli ultimi trent’anni, con un stile ora aggressivo (The Walking Dead), ora melodico e sognante (The Eden), e infine stupendamente progressivo nella conclusiva Lucy Is Coming.
Debutto con i fiocchi, The Evolution Of Love merita tutta l’attenzione degli amanti della buona musica, sperando che il trio possa recuperare, con gli interessi, il tempo trascorso prima di tagliare questo traguardo.
TRACKLIST
1.W3/79
2.You got the feeling
3.The walking dead
4.Intro
5.Take me away
6.Mainline
7.Loneliness
8.The Eden
9.Metaphysical Journey
10.The evolution of love
11.Lucy is coming
LINE-UP
Roy Zaniel – Bass, Vocals
Rino Musella – Drums
Marco Perrone – Guitars
Un disco che potrebbe essere tranquillamente tra i migliori dell’anno in campo rock, per chi ama fare classifiche, ma il consiglio è quello di ascoltare Alberi Dai Muri, perché ne vale davvero la pena e vi farà stare bene.
Gruppo campano fautore di un buon rock incentrato sulla tradizione italiana e sulla sua buona capacita compositiva.
La particolarità degli Hydronika è sapere coniugare molto bene testi affatto comuni con un rock felicemente imbastardito con altri generi, per arrivare ad un risultato molto accattivante e piacevole. La loro padronanza tecnica certamente porta qualità e si distaccano, per questo, da molti altri gruppi sia nostrani che non. Gli Hydronika nascono nel 2004 con una formazione molto diversa da quella attuale; nel 2006, dopo una grande attività dal vivo, arrivano a pubblicare il primo disco omonimo. Nel 2009 arriva Attraverso, completamente autoprodotto e disponibile in free download dal loro sito, il che li porta a a totalizzare più di 10.000 downlaod, confermando la felicità di tale scelta. Dopo sette anni e vari problemi di formazione, i ragazzi campani sono tornati con un gran bel disco che ripaga il loro entusiasmo e che è davvero notevole. Sentire gli Hydronika potrebbe cambiare la concezione che molti hanno erroneamente del rock italiano, soprattutto per colpa di band qualitativamente scarse, sebbene di successo. Gli Hydronika fanno canzoni molto belle e piacevoli, ci si diverte a sentire questo album, ma ci si emoziona pure, e poi in più c’è una musicalità davvero notevole che lo pervade. Un disco che potrebbe essere tranquillamente tra i migliori dell’anno in campo rock, per chi ama fare classifiche, ma il consiglio è quello di ascoltare Alberi Dai Muri, perché ne vale davvero la pena e vi farà stare bene.
The Evil Smoke Possession ci riporta alle sonorità delle band che nei decenni scorsi hanno fatto la storia del genere, rivelandosi una bella sorpresa per gli appassionati.
Il doom classico ha avuto nella prima metà degli anni novanta un ritorno di fiamma che andava a braccetto con la qualità dei gruppi della Hellhound prima e, in seguito della, Rise Above di Lee Dorrian, label fondata dallo sciamano inglese dopo il buon riscontro dei suoi Cathedral.
Ovviamente anche per quegli ormai storici gruppi, gli anni settanta ed i gruppi pionieri del rock metal messianico erano le fonti massime di ispirazione per tornare a far risplendere i suoni diventati famosi grazie ai Black Sabbath, ma glorificati da enormi talenti come Pentagram e Candlemass.
Il successo dello stoner, figlio tossico e desertico del doom, ha lasciato qualche scoria nel sound dei nuovi gruppi che, nell’underground, intraprendono la strada lenta e monolitica della musica del destino: un bene per certi versi, visti i risultati e le ottime realtà che, specialmente. nel nostro paese arricchiscono il patrimonio sabbatico della scena metal. Ufosonic Generator, monicker che ricorda non poco il mondo della cattedrale di Dorrian, sono un quartetto nostrano che arriva all’esordio con questo The Evil Smoke Possession, fulgido esempio di doom metal potente, molto rock’ n’ roll nell’approccio, con riferimenti ed ispirazioni che vanno dagli anni settanta ai gruppi della generazione successiva, senza farsi mancare di un pizzico di follia stoner, ormai presente nelle opere delle nuove generazioni.
Una quarantina di minuti tra potenza dirompente, frenate monolitiche ed andamento che si trascina tra la sabbia di un deserto reso rosso dal fiume vulcanico che gli scorre sotto, pronto ad esplodere tra le pachidermiche note di At Witches’Bell, Meridian Daemon e Silver Bell Meadows. The Evil Smoke Possession ci riporta alle sonorità delle band che nei decenni scorsi hanno fatto la storia del genere, rivelandosi una bella sorpresa per gli appassionati.
Un tuffo freschissimo nelle acque del miglior indie noise rock degli anni novanta, tanto per intenderci Touch & Go et similia.
Un tuffo freschissimo nelle acque del miglior indie noise rock degli anni novanta, tanto per intenderci Touch & Go et similia.
Nati a Torino nel 2006 come trio strumentale, questi ragazzi si sono poi trasformati in una macchina di noise math e dintorni. Il loro suono è scarno, minimalista ed estremamente affascinante e tocca corde a cui non si può rimanete indifferenti. La qualità del disco è davvero alta, si sarebbe voluto ascoltare un disco così anche in anni nel quale questo genere furoreggiava nelle orecchie alternative. Gli Into My Plastic Bones esprimono una forza ed un’energia incredibili, supportate da una forza compositiva che lascia stupefatti. Tutto sembra molto semplice e nervoso, con chitarre che sgusciano creando inusitate linee melodiche con la parte ritmica. Il disco è stato registrato in presa diretta all’Oxygen Recording Studio di Verzuolo in provincia di Cuneo e poi rimasterizzato da un certo Bob Weston a Chicago, e si sente. Il disco non contiene sovraincisioni o correzioni, e la sua vera imperfezione è ulteriore motivo di bellezza.
Un disco molto bello, che risente di una certa atmosfera che sembrava ormai dimenticata, ma che può ancora regalare molte gioie se fatta nella giusta maniera.
I Sail Away propongono un hard’n’heavy dalle sonorità old school, ovviamente pervaso di quell’hard rock che faceva capolino nelle opere dei primi anni ottanta e con una buona e personale rilettura dei suoni cari ad Iron Maiden, Running Wild e con più di un riferimento ai Riot di Mark Reale.
Le nuove band che si affacciano sulla scena nostrana aumentano ogni giorno di più, fortunatamente mantenendo alta la qualità di un metal italiano mai così protagonista come in questi ultimi anni.
I torinesi Sail Away presentano il loro debutto, anche se si tratta di musicisti con una già buona esperienza alle spalle: infatti i due fondatori, Francesco Benevento (chitarra) e Federico Albano (voce), sono delle vecchie conoscenze della scena underground torinese e coppia collaudata in Savage Souls e Assedio.
Raggiunti da Luca Guglielminotti al basso e Alessio Piedinovi alle pelli, danno vita a questo progetto hard’n’heavy dalle sonorità old school, ovviamente pervaso di quell’hard rock che faceva capolino nelle opere dei primi anni ottanta e con una buona e personale rilettura dello stile caro ad Iron Maiden, Running Wild e con più di un riferimento ai Riot di Mark Reale: ne esce un album migliorabile a livello di suoni ma molto affascinante, con una serie di inni dal mood piratesco e volontà ribelle in puro stile heavy metal.
Heavy metal e hard’n’roll si danno il cambio nel comandare l’arrembaggio ai padiglioni auricolari degli ascoltatori, mentre la chitarra di Benevento spara assoli che sono cannonate da colpito ed affondato e Albano ci suggerisce cori epici e guerreschi che si stampano in testa al primo ascolto.
Tra i brani, The Artificial Impostor, l’irriverente hard rock di Sweet Dried Rose, la pesante e metallica Engraved In The Stone ed il tributo a Mark Reale ed i suoi Riot posto in chiusura (Immortals Hymns Shine One), brano dalle molte citazioni alla musica del grande chitarrista scomparso, sono vento tempestoso sopra il mare metallico su cui viaggia la nave Sail Away, e i mid tempo di cui è ricco Welcome Aboard non mancheranno di soddisfare gli equipaggi delle navi battenti bandiera heavy metal.
TRACKLIST
1.Welcome Aboard
2.Another Sunday
3.The Artificial Impostor
4.Petals Of Blood
5.Sweet Dried Rose
6.Engraved In The Stone
7.Giants Of The Dawn
8.Wine In My Glass
9.Immortal Hymns Shine On
Molti cambi di tempo e di atmosfere sonore rendono questo disco una piccola perla da scoprire canzone dopo canzone, addentrandosi nei territori sconosciuti che Maher ha approntato per noi.
La musica ha moltissime facce, tante quante le infinite sfaccettature dell’animo e del cervello umano.
Può essere una fuga, o un ristabilire pienamente ciò che siamo per davvero. Per Maher, musicista siracusano potrebbe essere entrambe le cose. Come molti di noi, non moltissimi vista l’attuale livello di disoccupazione, Maher lavora in un ufficio, spendendo ore per qualcun altro, ma poi con la musica riesce ad esprimere quello che porta dentro: Golden Rusk è un progetto death metal in cui lui compone e suona tutto. In verità definirlo death metal è alquanto riduttivo, poiché si va ben oltre, con ritmiche ed atmosfere industrial e sfuriate black metal.
Molti cambi di tempo e di atmosfere sonore rendono questo disco una piccola perla da scoprire canzone dopo canzone, addentrandosi nei territori sconosciuti che Maher ha approntato per noi: pensate ad un sound in cui il death metal degli Obituary incontra la pazzia industrial dei Ministry e la ferocia black dei Mayhem, ed avrete più o meno un’idea di cosà possano contenere brani come No Blame No Gain, As It Should Be e Life No More.
Dietro e dentro questo esordio vi è un gran lavoro, una fortissima passione ed una non comune capacità di fare musica che offre quale risultato un album dalla natura estrema, vario e perfettamente in grado di soddisfare più palati. Il metal underground si conferma ancora una volta una scoperta continua di musicisti incredibili e molto dotati, e soprattutto di metal al cento per cento.
TRACKLIST
1. Grave of Dawn
2. What Will Become of Us?
3. No Blame No Gain
4. Painful Demise
5. As It Should Be
6. Show Me Your Hate
7. Black Aura
8. Life No More
9. Take off the Mask (Alternative Mix)
10. No Blame No Gain (Demo Version)
LINE-UP
Maher – All instruments, vocals and sampling