None – None

Al di là del ridotto potenziale innovativo, un album di questo tipo lo si ascolta sempre volentieri, specialmente quando viene suonato e composto con tutti i crismi e con la dovuta intensità, e senza che ci si perda in troppi passaggi interlocutori.

Interessante lavoro da parte di questa band americana dedita ad un black metal atmosferico e dalle forti sfumature depressive.

Tre brani per circa una mezz’ora di buona musica sono il fatturato di quest’album autointitolato, pubblicato dalla Hypnotic Dirge: anche se il monicker None non è certo di quelli che si ricordano in maniera imperitura ed il genere suonato è discretamente inflazionato, il lavoro regala con buona continuità quelle sonorità oscillanti tra malinconia e disperazione, pescando con un certo equilibrio tra le due anime che confluiscono nelle composizioni.
Il depressive black prende campo specialmente quando è lo screaming straziante ad occupare la scena, mentre la componente atmosferica prevale nei momenti prettamente strumentali; peraltro, la copertina è piuttosto indicativa di quanto ci si possa attendere dalla musica della misteriosa band di Portland, per cui gli scenari esibiti corrispondono al senso di freddo e desolazione che prima o poi ognuno percepisce provando a scavare in profondità dentro sé stesso.
Al di là del ridotto potenziale innovativo, un album di questo tipo lo si ascolta sempre volentieri, specialmente quando viene suonato e composto con tutti i crismi e con la dovuta intensità, e senza che ci si perda in troppi passaggi interlocutori.
None non rappresenta nulla che possa stravolgere le gerarchie del metal underground ma è sicuramente un ascolto che non deluderà chi ama questo tipo di sonorità.

Tracklist:
1 – Cold
2 – Wither
3- Suffer

Entropia Invictus – Human Pantocrator (Opus Humani)

Tra Septic Flesh, Bal Sagoth e melodic death metal, Human Pantocrator ha le virtù per porsi all’attenzione non solo dei fans del metal sinfonico, ma anche di quello estremo in generale.

Metal estremo di ottima fattura, sinfonico e gotico, oscuro, a tratti magniloquente e vario nel proporre sfuriate di stampo black al più melodico death metal dai rimandi scandinavi.

I protagonisti di questa opera oscura e melodica sono i francesi Entropia Invictus, quartetto attivo da soli due anni ma con le idee chiare sul proprio sound.
Human Pantocrator (Opus Humani) risulta un’opera oscura dove le melodie hanno in mano il sound, anche se growl teatrale e ritmiche violente e veloci irrobustiscono un metal gotico che vive di orchestrazioni cinematografiche, repentini cambi di tempo ed umori, in un contesto che varia tra il black metal sinfonico ed il death metal melodico.
Prodotto benissimo, così da poter godere appieno sia della parte metallica che delle sinfonie classiche, l’album a tratti prende davvero il volo, con sfumature epiche che avvicinano il sound a quanto proposto dai Bal Sagoth (Cosmogenic Pandemonium) con una forte connotazione battagliera che si scontra con quella oscura e gotica dei brani precedenti.
Album curato nei minimi dettagli e che farà la gioia degli amanti del metal estremo sinfonico, Human Pantocrator si fa ascoltare che è un piacere, tra lievi accordi pianistici a smorzare la mastodontica pienezza della musica orchestrale che, con il metal estremo, forma oscure trame epiche ed atmosferici intermezzi dark gotici, dove cori lirici aumentano l’aura di sacrale epicità del sound (Singularity).
In conclusione un album riuscito: tra Septic Flesh, Bal Sagoth e melodic death metal, Human Pantocrator ha le virtù per porsi all’attenzione non solo dei fans del metal sinfonico, ma anche di quello estremo in generale.

TRACKLIST
01. I Will Overcome
02. Euphoria’s End
03. The Builder / The Destroyer
04. In the Attic
05. Cosmogenic Pandemonium
06. Kurzweil’s Dream
07. Singularity
08. Tree of Creation
09. Reflection
10. Imperfect God
11. Among Us

LINE-UP
Jérome Bougaret – Guitars
Jordan Chevreton – Guitars
Laurent Tort: bass
Pierjan Vadeboin – Drums

ENTROPIA INVICTUS – Facebook

AlNamrood – Enkar

Enkar si mantiene sulla linea dei lavori precedenti degli AlNamrood, lasciando pressoché immutate le coordinate e, conseguentemente, le buone impressioni che ne derivano.

A chi è convinto (un gran numero di persone, purtroppo) che tutti gli arabi, indistintamente, siano dei fanatici devoti ad Allah e pronti a farsi saltare per aria accecati dalla fede per il proprio dio, consiglierei, se non di ascoltare questo disco, quanto meno di prendere atto che esiste chi alla tirannia religiosa prova a ribellarsi anche nei paesi più strettamente connessi con la jihad islamica, quale è appunto l’Arabia Saudita.

Uno strumento di dissenso magari non consueto, e forse anche per questo più efficace, può essere suonare musica metal, un genere che sappiamo non essere visto di buon occhio neppure in paesi teoricamente a minore rischio di integralismo; se poi il tutto si trasforma in un black death dai testi chiaramente antireligiosi, si può ben capire come mai degli AlNamrood si conoscano solo gli pseudonimi, vista la necessità di mantenere l’anonimato per salvare essenzialmente la pelle (pur avendo base i nostri, probabilmente, nel ben più accogliente Canada).
Non si creda peraltro che questo sia un problema esclusivamente islamico: in India, per esempio, gli Heathen Beast, con la loro feroce critica nei confronti della tirannia di matrice induista, corrono esattamente gli stessi rischi. Alla fine il messaggio di tutti questi musicisti coraggiosi è finalizzato a far capire, anche a chi segue culti oggi un po’ più “annacquati” e di convenienza, quanto la religione sia in assoluto il vero cancro del pianeta, il male capace di obnubilare le menti costituendo una delle leve principali manovrate dai dai potenti per controllare le masse.
Venendo all’aspetto prettamente musicale, degli AlNamrood avevamo già parlato in occasione del loro precedente lavoro, apprezzandone il tentativo di fondere le sonorità estreme con quelle tradizionali della propria terra; Enkar si mantiene su questa linea lasciando pressoché immutate le coordinate e, conseguentemente, le impressioni derivanti dall’ascolto: la musica degli AlNamrood gode di una notevole intensità, è suonata e prodotta in maniera soddisfacente e risulta coinvolgente il giusto, anche se proprio per come è strutturata non sempre scorre in maniera fluida come dovrebbe.
In effetti, il black proposto dal trio arabo ha un andamento piuttosto simile per tutta la durata del lavoro, con rade accelerazioni rispetto alle quali viene privilegiato un mid tempo la cui ritmica si adegua, necessariamente alla particolare metrica della lingua araba: in definitiva, la condizione essenziale per apprezzare Enkar e tutta la precedente produzione degli AlNamrood è quella d’essere appassionati non solo di metal estremo ma anche di sonorità etniche, e mediorientali in particolare.
Non so quante persone rispondano effettivamente a tali requisiti, per cui l’album potrebbe essere anche un buon pretesto, da parte di chi predilige uno dei due aspetti, per fare un full immersion nell’altro. Per quanto mi riguarda, ascolto sempre con piacere soluzioni sonore di questo genere, provando a non farmi influenzare dalla naturale empatia nei confronti di questi ragazzi, anche se mi rendo conto di quanto questi quaranta minuti possano rivelarsi di complessa digestione per molti.
A tutti consiglio di ascoltare una traccia come Ensaf, quella in cui la commistione tra gli strumenti tradizionali ed il metal estremo funziona decisamente meglio: fatto questo passo e presa familiarità con il sound degli AlNamrood, Enkar  potrebbe rivelarsi molto più di una semplice anomalia geo-musicale.

Tracklist:
1. Nabth
2. Halak
3. Xenophobia
4. Estibdad
5. Efsad
6. Estinzaf
7. Ensaf
8. Egwaa
9. Ezdraa
10. Entiqam

Line-up:
Mephisto: Guitars/Bass
Ostron: Middle Eastern Instruments
Humbaba: Vocal

ALNAMROOD – Facebook

Diĝir Gidim – I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening

Da un luogo “sconosciuto” notevole esordio di incompromissorio e magmatico black metal.

Entità aliene provenienti da lontani mondi, demoni sputati fuori da innominabili profondità, questo il quesito che mi sono posto ascoltando i Diĝir Gidim, duo proveniente da un luogo ignoto, che esordisce dal nulla con un opus misterioso, affascinante, per nulla di facile ascolto.

L’unica notizia è che uno dei due musicisti, Lalartu, ha esordito nel 2016 con il suo progetto black ambient Titaan, mentre Utanapistim Ziusudra, che suona tutti gli strumenti, è del tutto sconosciuto. La label italiana ATMF, sempre attenta nella ricerca di nuove emozioni black metal, li fa esordire con un full di quattro lunghe composizioni all’insegna di un black metal intenso, magmatico, cangiante, ritualistico, devoto al fascino di antichi mondi, in questo caso la Mesopotamia; il Diĝir è un simbolo cuneiforme che rappresenta la suprema divinità Anu deus otiosus, mentre Gidim rappresenta l’ombra o lo spirito della persone morte; già altre band hanno subito il fascino delle Civiltà Egizie, vedi Nile e Melechesch, ma con i Diĝir Gidim il tutto, sia a livello concettuale che a livello musicale, si spinge maggiormente in profondità scavando a fondo e generando gelide emozioni in chi si vorrà far trasportare in questo flusso infinito di note e vocals straziate.
I quattro lunghi brani costituiscono un flusso costante e continuo in cui ritualistici cori, scream feroci e incompromissori, note dissonanti di chitarre si inseguono, si confondono per creare un massa incandescente dove alcune linee melodiche sono talmente oscure da atterrire l’ascoltatore; il termine estremo in questo caso assume, per chi vi si avventura, un effetto assolutamente catartico. Le spire gelide di vortici impazziti nell’oscurità infernale del primo magnifico brano si collegano, si amalgamano con cori di dei ancestrali, adorati ma non capiti, in un continuum senza luce né speranza, in abissi infiniti dove non vi è alcun filtro ma solo nichilismo assoluto: la presenza di un dio autoritario e vendicativo nega a menti schiave qualunque forma di ribellione e affrancamento. Il sound, che trova la sua genesi nei Deathspell Omega, nei Blut Aus Nord, è ribollente, non conosce pause liberatorie, tutto si stratifica, si attorciglia, si fonde e lascia alla fine dell’ascolto una sensazione di spossante purificazione. Da assimilare a piccole dosi, ma assolutamente da sentire!

TRACKLIST
1. The Revelation of the Wandering
2. Conversing with the Ethereal
3. The Glow Inside the Shell
4. The Eye Looks Through the Veils of Unconsciousness

LINE-UP
Utanapištim Ziusudra – All instruments and Music
Lalartu – Vocals and lyrics

DIGIR GIDIM – Facebook

src=”https://bandcamp.com/EmbeddedPlayer/album=2322564852/size=small/bgcol=ffffff/linkcol=0687f5/transparent=true/” seamless>I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening by DIGIR GIDIM

Somnium Nox – Terra Inanis

I Somnium Nox non si limitano a proporre un black tradizionale ma lo arricchiscono di parti più rarefatte e dal buon carico melodico, funzionali nel preparare il terreno ad accelerazioni che sono comunque piuttosto ragionate.

I Somnium Nox sono una band australiana che, con Terra Inanis, fa il primo passo su lunga distanza (almeno dichiarata, in quanto in realtà il lavoro non supera la mezz’ora di durata.

Trattandosi di una band alle prime uscite, visto che all’attivo fino ad oggi aveva solo il singolo Apocrypha dello scorso anno, non c’è molto su cui parametrarne l’operato, per cui Terra Inanis va valutato per quello che è ovvero un buon esempio di black metal atmosferico e dagli spunti pregevoli.
Infatti, pur non potendolo considerare innovativo nel senso letterale del termine, l’album offre tre tacce di circa dieci minuti ciascuna in gradi di farsi apprezzare dagli amanti delle sonorità oscure ma non asfissianti: i Somnium Nox non si limitano a proporre un black tradizionale ma lo arricchiscono di parti più rarefatte e dal buon carico melodico, funzionali nel preparare il terreno ad accelerazioni che sono comunque piuttosto ragionate.
I tre brani esibiscono comunque sfumature differenti: Soliloquy of Lament è black nella sua accezione più classica e beneficia di un bel crescendo conclusivo, The Alnwick Apotheosis è la traccia migliore ed anche la più anomala, visto che per una metà si snoda su velocità consistenti per poi sfumare in liquide sonorità ambient, mentre la conclusiva Transcendental Dysphoria è un black doom cupo e dai toni inquietanti e drammatici.
Indubbiamente l’uso di uno strumento tradizionale come il didgeridoo fornisce al lavoro una propria peculiarità, fornendo al sound talvolta un tocco solenne ed ancestrale, proprio quello che serve per provare ad emergere e mettere la testa fuori dal gruppone.
In Australia, negli ultimi anni, è emersa senz’altro una scena capace di interpretare la materia estrema in maniera efficace e i Somniun Nox ne sono un nuovo e fulgido esempio.

Tracklist:
1. Soliloquy of Lament
2. The Alnwick Apotheosis
3. Transcendental Dysphoria

Line-up:
Nocturnal – Guitars, Bass, Didgeridoo
Ashahalasin – Vocals
Forge – Drums
Olkoth – Keys
J.A.H – Guitars

SOMNIUM NOX – Facebook

Opprobre – Le Naufrage

Un plauso alla scena transalpina che continua a far nascere band che conoscono l’arte di emozionare.

Sembra un anno significativo per il black metal miscelato con il post black! Alla conferma dei The Great Old Ones si aggiunge l’esordio di questa giovane band, Opprobre, francese di Montpellier composta da quattro musicisti, derivanti da band come Mysticisme e Antropofago, che hanno esordito nel 2016 con il singolo Abysses in digital download e ora sulla label francese Endless Decrepitude Productions, fanno uscire Le Naufrage interamente cantato in francese, con copertina suggestiva e splendida raffigurante il dipinto del 1842, Snow Storm, dell’artista William Turner.

La proposta musicale appare già matura nell’elaborare un black metal sia raw che melodico, impastandolo con suoni post black/ dark per creare un profondo mood atmosferico ricco di pathos decadente e oscuro; l’assenza di soli, un suono di bass guitar ben presente e intarsi di piano e keyboard fanno risaltare l’arte della band transalpina. Fin dall’opening track Discerner, introdotta da rumori di vento e onde perigliose, ci si inabissa in un viaggio “ignoto” su dolenti note di keyboard, mentre in Abysses il veliero beccheggia e mostri marini gonfiano l’oceano mai sazio di tributi umani. La prima delicata parte di Inconnue, punteggiata da impressionistiche note di piano, ci conduce verso sferzanti note black cariche di primitivi istinti dove dei vendicativi pretendono continui sacrifici umani: qui lo scream esibito è particolarmente acido e ficcante, mentre il guitar sound è realmente evocativo. La title track, uno dei brani migliori, distilla puro black metal in mid tempo, creando paesaggi sonori in cui la mente è incatenata in assurdi e liquidi incubi. Ulteriore menzione per il brano finale Danse Catatonique, che con i suoi dieci minuti porta a definitivo compimento l’opera dove un io immobile agli eventi attende inerme una fine nel nulla, poiché nulla é sempre stato. In definitiva, un plauso alla band francese autrice di un buon lavoro che non entrerà nelle classifiche di merito di fine anno, ma che rappresenta una delle tante piccole pepite rinvenute durante le nostre ricerche musicali.

TRACKLIST
1. Discerner
2. Abysses
3. L’Inconnue,
4. L’Inconnue, Pt. 2
5. Opprobre
6. Sensitive
7. Danse catatonique

LINE-UP
Cyril – Bass
Clément – Drums, Guitars, Synth
Vincent – Guitars, Vocals (lead)
Olivier – Guitars, Synth, Vocals

OPPROBRE – Facebook

Conjonctive – In The Mouth Of The Devil

Una sorpresa questi ragazzi svizzeri, il loro album è davvero una bordata estrema come pochi nel genere e vale la pena dargli un ascolto.

Tra le montagne di una Svizzera cupa e grigia, fuori dalle stagioni turistiche, vi è una casa che il demonio ha ordinato alle sue truppe di conquistare, attraverso l’anima di chi la abita.

In un giorno uggioso e deprimente il vecchio sacerdote si avvicina all’uscio di quella che ormai è la dimora di Satana, armato della sua borsa e di una fede messa continuamente alla prova da un mondo dove gli eserciti del maligno dominano sulle forze del bene.
Nel momento in cui la vecchia nonna, segnata dagli ultimi terribili avvenimenti, lo accoglie nella casa, quello che succede è descritto in musica dal death/black core dei Conjonctive e del loro devastante secondo lavoro, In The Mouth Of The Devil.
Un esorcismo, una battaglia contro il demonio a colpi di un metal estremo terribilmente coinvolgente, al limite del brutal death, dall’attitudine black e dalle mazzate core di una potenza fuori controllo.
In The Mouth Of The Devil segue di quattro anni il primo album e per chi immagina un disco core, pregno di quei cliché commercialmente utili, ma qualitativamente sterili, ha sbagliato gruppo e disco.
Qui siamo al cospetto del maligno, dunque non c’è la minima apertura melodica, solo un’aggressione senza limiti, una barbarie in musica che si evince dal devastante uso della doppia voce di Sonia e Randy, demoni possessori della giovane donzella abitante nella vecchia casa, che sollecitati dai riti dell’esorcista, sputano blasfemie e rabbia, in un’orgia di violenza che si fa soffocante e pressante ed ogni istante.
Non è detto sapere chi la spunterà, sappiate solo che lo scontro è violentissimo e le forze del male non mollano di un centimetro sotto le benedizioni del prete, ormai allo stremo, attaccato senza tregua da belligeranti e potentissime bordate come Falling In The Mouth Of The Devil, The Cult Of The Shining Planet e Hills Of Abomination.
Una sorpresa questi ragazzi svizzeri, il loro album è davvero una bordata estrema come pochi nel genere e vale la pena dargli un ascolto.

TRACKLIST
01. Purgatory
02. You’re Next
03. Falling in the Mouth of the Devil
04. Down into the Abyss
05. Let Blow the Grim Wind
06. The Cult of the Shining Planet
07. Burn Your Eyes
08. Hills of Abomination
09. Defeat the Red Sun
10. Constellations & Black Holes

LINE-UP
Sonia – Vocals
Randy – Vocals
Raph – Guitars
Yannick – Guitars
Erwin – Bass
Manu – Drums

CONJONCTIVE – Facebook

Svart Crown – Abreaction

Un uso molto originale delle ritmiche per una band death/black (tra groove e percussioni tribali), la pesantezza sonora che si spinge fino a toccare lidi doom ed un songwriting vario e per nulla ripetitivo, spostano sicuramente la ragione dalla parte del gruppo nizzardo

Gli Svart Crown arrivano con Abreaction a quello che, di fatto, è l’album più importante della loro carriera e se la missione era quella di confermare il fiuto della Century Media, l’obiettivo è stato raggiunto.

Un uso molto originale delle ritmiche per una band death/black (tra groove e percussioni tribali), la pesantezza sonora che si spinge fino a toccare lidi doom ed un songwriting vario e per nulla ripetitivo, spostano sicuramente la ragione dalla parte del gruppo nizzardo, realtà oscura e perversa, occulta e blasfema, protagonista di un album estremo, maligno ed affascinate.
Non solo furia death/black dunque, ma atmosfere che variano, malatissime e contorte (The Pact: To the Devil His Due) così da non peccare di immobilismo come alcuni gruppi, magari più famosi ma dal compitino eseguito perfettamente da anni, variando l’estremismo tipico del metal estremo alla Behemoth con rallentamenti fusi in lava nera come la pece; il sangue spesso cola dalle fauci del demone, tra liturgie dannate e doom/death d’alta scuola, mentre le varianti tribali di ritmiche infernali conducono alla pazzia e alla danza prima della dannazione eterna.
JB Le Bail e compagni non lesinano sperimentazioni, cori monastici ed atmosfere da chiese sconsacrate, mentre gli episodi migliori sono proprio i più originali ed imprevedibili, nei quali la pesantezza delle atmosfere si scontra con una serie di spunti non così comuni nei gruppi del genere.
Khimba Rites, Transsubstantiation e Nganda sono gli episodi migliori, a cui si aggiunge Tentacion, un dark western alla Fields Of The Nephilim attraversato da un’oscura aura black che lo rende un brano strumentale atipico e da brividi.
In conclusione, un album riuscito ed una band che troverà la giusta attenzione da parte degli amanti dei suoni estremi, ai quali è consigliato l’ascolto di questa opera oscura, sinistra ed atmosferica.

TRACKLIST
1.Golden Sacrament
2.Carcosa
3.The Pact: To the Devil His Due
4.Upon This Intimate Madness
5.Khimba Rites
6.Tentacion
7.Orgasmic Spiritual Ecstasy
8.Transsubstantiation
9.Emphatic Illusion
10.Lwas
11.Nganda

LINE-UP
JB Le Bail – Vocals/Guitar
Ludovic Veyssière – Bass guitar
Kévin Paradis – Drums
Kevin Verlay – Guitar

SVART CROWN – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=hRaSi1IFaaM

Davide Laugelli – Soundtrack of a Nightmare

L’esperimento di Davide Laugelli è senz’altro convincente, nonostante il bassista scenda su un terreno normalmente non battuto, a dimostrazione di una preparazione inattaccabile ed anche di una certa ispirazione, sfuggendo agli stucchevoli tecnicismi che spesso ammorbano gli album strumentali.

Davide Laugelli è un musicista dal curriculum  piuttosto ricco in ambito metal, facendo parte attualmente dei Disease Illusion e degli Heller Schein ed avendo ricoperto nel recente passato il ruolo di bassista on stage al servizio degli storici Electrocution, senza contare la passata militanza in altre band e svariate collaborazioni.

Soundtrack of a Nightmare esula formalmente da tutto questo, trattandosi di un primo esperimento di musica interamente strumentale eseguita utilizzando due bassi (uno tradizionale ed uno fretless, suonati ovviamente da Laugelli),  synth (a cura di Fausto De Bellis) e batteria (Michele Panepinto): l’intenzione del musicista bergamasco (ma da tempo di stanza a Bologna) è quello insito nel titolo dell’ep, ovvero la creazione di una sorta di colonna sonora per gli incubi che, sovente, rendono piuttosto agitate le notti di ognuno.
Anche se il lavoro mostra aspetti per lo più imprevedibili, non sorprende la prima traccia visto che la Johannes Brahms Op.49 n. 4 altro non è che la ninna nanna per antonomasia, rivista con un certo gusto e senza stravolgerne l’essenza; il breve intermezzo onirico La Nave di Pietra introduce una più movimentata A Night At Stonehenge, nella quale si apprezza il lavoro dei musicisti che si snoda su coordinate progressive anche se non nell’accezione più comune del genere.
Hell With You è un altro brano piuttosto breve, nel quale il basso di Laugelli si fa minaccioso ed ossessivo, mentre Climbing The Wrong Mountain, con il suo andamento potrebbe rievocare quelle affannose rincorse a cui la nostra mente ci costringe mentre il corpo solo apparentemente riposa: anche qui va segnalato un lavoro strumentale di prim’ordine, prima che il trillo di una sveglia ci sottragga all’incubo per riportarci alla realtà, non necessariamente più rassicurante di quella elaborata dalla psiche durante il sonno.
L’esperimento di Davide Laugelli è senz’altro convincente, nonostante il bassista scenda su un terreno normalmente non battuto, a dimostrazione di una preparazione inattaccabile ed anche di una certa ispirazione, sfuggendo agli stucchevoli tecnicismi che spesso ammorbano gli album strumentali, e riuscendo infine a tenere fede alla dichiarazione d’intenti contenuta nel titolo dell’ep, grazie ad un sound cangiante che alterna passaggi più nervosi ad altri più rarefatti e vicini all’ambient.
La breve durata ne aiuta senz’altro l’assimilazione, ma l’ascolto di Soundtrack of a Nightmare offre la ragionevole certezza che Davide sia in grado, in futuro, di replicare quanto fatto in quest’occasione anche su un eventuale lavoro su lunga distanza.

Tracklist:
1. Johannes Brahms Op. 49 n. 4 (insane version)
2. La nave di pietra
3. A night at Stonehenge
4. Hell with you
5. Climbing the wrong mountain

Line up:
Davide Laugelli: bass
Michele Panepinto: drums
Fausto de Bellis: synth

DAVIDE LAUGELLI – Facebook

Obscure Devotion – Ubi Certa Pax Est

Un lavoro di grande maturità e chiarezza di intenti, per cui la naturale e spontanea espressione del genere si abbina ad una non sempre scontata cura dei particolari.

Gli Obscure Devotion sono una band potentina la cui genesi affonda le radici ancora nel secolo scorso: una storia lunga con una produzione comunque abbastanza scarna quantitativamente, visto che Ubi Certa Pax Est è solo il terzo full length in poco più di un ventennio.

Il passato è importante ma il presente lo è ancora di più, per cui è necessario focalizzarsi su questo notevole album che conferma il livello della scena black lucana, con pochi nomi ma decisamente buoni.
Ubi Certa Pax Est  si rivela un’interpretazione efficace e credibile di un genere nel quale si richiedono essenzialmente queste due doti a chi lo suona, ma l’operato degli Obscure Devotion non di riduce solo a questi aspetti, c’è infatti molti di più tra le note di un album che mette in mostra doti superiori alla media del genere per songwriting ed esecuzione.
Per esempio il lavori chitarristico di Cabal Dark Moon, in diverse occasioni, è ben più composito rispetto al canonico tremolo picking al quale siamo abituati, conferendo all’album quella componente death che viene poi rafforzata dalla sua interpretazione vocale efferata, ed  è piacevole godere al meglio di tutte queste sfumature grazie ad una produzione eccellente.
Tra gli aspetti che emergono dopo diversi ascolti va annotata la tendenza ad una sorta di attenuazione dei ritmi man mano che l’album procede verso la sue conclusione: se la prima metà tutto sommato ricalca con padronanza le sonorità tipicamente nordeuropee, nella seconda parte il tutto diviene ancor più vario e ragionato, elevando ulteriormente il valore complessivo di un lavoro già di suo ottimo.
Gli Obscure Devotion offrono così  un sound che sa essere maligno e corrosivo ma anche evocativo e malinconico: come brano trainante dell’album citerei la magnifica The Sign Of Pain,  anche se il trittico Arrivederci Part I e II e Beyond the Flesh mette in mostra un lato più riflessivo che, come detto, rende la parte conclusiva meno violenta e più meditata, a favore di un maggiore slancio melodico.
Ubi Certa Pax Est è un altro bel tassello piazzato a comporre l’interessante mosaico stilistico e geografico del black metal italiano; nello specifico questo è un lavoro di grande maturità e chiarezza di intenti, per cui la naturale e spontanea espressione del genere si abbina ad una non sempre scontata cura dei particolari.
Alla luce dei risultati ottenuti, resta solo da sperare che gli Obscure Devotion trovino lo slancio per presentare nuovo materiale nel prossimo futuro con una cadenza meno rarefatta.

Tracklist
1. Meet the Sorrow (Intro)
2. Ubi Certa Pax Est
3. Burning Blades of Frozen Tears
4. Dreaming a Dead Home
5. The Sign of Pain
6. On Butterfly Wings
7. Arrivederci Pt. I
8. Arrivederci Pt. II
9. Beyond the Flesh
10. Last Embrace (Outro)

Line-up:
Vox Mortuorum – bass
Abyss 111 – drums
Cabal Dark Moon – guitars, vocals

OBSCURE DEVOTION – Facebook

Naudiz – Wulfasa Kunja

Un disco come questo riporta alla sorgente stessa del concetto di black metal, dato che ha in sé tutte le caratteristiche migliori del genere.

Puro, devastante e senza compromessi black metal pagano, che più nero e pagano non si potrebbe.

Gli italiani Naudiz tornano con un secondo disco per la Iron Bonehead Productions, ed alzano ulteriormente l’asticella rispetto al disco precedente, Aftur till Ginnungagaps, che era già su ottimi livelli. Il black metal dei Naudiz è di concezione classica, ovvero chitarre non troppo distorte ma belle corpose e veloci, voce in clean e potente, e batteria al fulmicotone. Il risultato è molto interessante, regalando un gran disco di black metal, come è sempre più difficile ascoltarne. Con ciò qui non si vuole affermare che fosse meglio prima, anche perché il black metal ha moltissime declinazioni, e bisogna ascoltare caso per caso. Un disco come questo riporta alla sorgente stessa del concetto di black metal, dato che ha in sé tutte le caratteristiche migliori del genere. Wulfasa Kunja è soprattutto un disco pagano, che descrive il mondo e la religione nordica con competenza, come fanno i Naudiz fin dal primo disco. Non si sa granché di questo gruppo, ma non interessa nemmeno, dato che la potenza e la godibilità di questo lavoro sono molto esaurienti di per sé. Gli argomenti trattati sono tutti inerenti alla mitologia nordica, un substrato antichissimo che non è mai veramente morto, e che ha resistito più tenacemente delle nostre tradizioni pagane, che invece hanno perso molto presto la battaglia con il cristianesimo. Il mondo descritto in questo disco è radicalmente differente dal nostro, è più vicino di noi al caos primordiale, e sa che prima o poi finirà, e non ci sarà nessuna ricompensa. I Naudiz sono bravissimi nel mettere in musica questo differente sentire, che è maggiormente veritiero rispetto alle nostre menzogne quotidiane. Siete pronti per un ragnarok di black metal ? Una delle migliori uscite di quest’anno per il vero black metal.

TRACKLIST
01 Garmr
02 Vali ok Nari
03 Jarnvidr
04 Angrboda
05 Loki
06 Geri ok Freki
07 Vanargandr
08 Wulfasa Kunja

LINE-UP
ᛗᚲ: Guitars
ᚢᛞ: Bass, Vocals
ᛗᛞ: Drums

NAUDIZ – Facebook

Mosaic – Old Man’s Wyntar

Supreme Thuringian Folklore …come spesso accade nell’underground si celano grandi realtà per “open-minded people”.

Spettacolare riedizione (la quarta in tre anni) da parte della tedesca Eisenwald dell’ep Old Man’s Wyntar dei Mosaic, che in realtà nascondono le gesta musicali di un solo artista, Inkantator Koura, accompagnato da altri musicisti (Leshiyas, Scorpios, Maya e altri).

Le tre precedenti edizioni non sono neanche lontanamente paragonabili alla magnificenza dell’ attuale packakging in A5 digibook con testi tedesco e inglese, con intervista all’artista e storia del concept; inoltre, per rendere imperdibile il tutto e’ stato aggiunto un terzo capitolo intitolato Joyful reminiscense and sacred eyes. Inkantator Koura narra di un concept riguardo a winter journey through ancient mysticism and bittersweet darkness e lo fa creando un masterpiece, stratificando suoni black metal, neofolk, ambient, experimental trascinando l’ascoltatore in un vortice di emozioni varianti dall’ incanto alla melanconia, dall’orgoglio alla oscurità, dalla disperazione alla estasi. L’opera alterna momenti folk e neo folk struggenti e dolorosi con parti black raramente esasperate o ritmicamente forsennate, ma cariche di fierezza e disperazione; la struttura è complessa a formare una materia cangiante che sfida l’ascoltatore ad entrare in un regno di freddo e oscurità omaggiante la stagione invernale. L’opera originaria, edita nel 2014, nelle parole dell’autore intesa come un omaggio a Paysage d’Hiver, entità guidata da Wintherr (ora anche nei Darkspace), si divide in due capitoli: il primo, Awakening & Snowfall, inizia con Incipit:Geherre, una litania ovattata sferzata da un gelido vento, per poi proseguire con Onset of Wyntar, brano a tinte black molto atmosferico con Inkantator che declama le sue lyrickal magick.
Il terzo brano Im Winter, che conclude il primo capitolo, profuma di immobili e infiniti ghiacci e mi ha ricordato echi, probabilmente non voluti, di una leggenda Krauta di acidfolk, gli Amon Duul II (qualche vecchio ascoltatore ricorderà); il secondo capitolo, …of Magick and Darkness, presenta Snowscape, un breve viaggio guidato da una tersa melodia,White gloom, un fiero inno black come un lupo in cerca di prede da dilaniare, mentre in the darkness the wind still blows… e Black Glimmer, spettrale e salmodiante racconto ricco di tensione per un posto in cui …nothing shall be green here, for as long as winter reigns. Il terzo capitolo, Joyful reminiscense and sacred eyes, presenta altri tre brani che completano il concept, Silent world, holy awe, oscuro e acido folk rock ,Vom ersten schnee/a tale of mother Hulda dove una nonna, su note molto malinconiche, narra al nipote l’origine della neve; il finale Silver Nights, della durata di circa venti minuti (l’opera dura in tutto molto più di un’ora) chiude su intense, atmosferiche ed epiche note black un lavoro molto particolare, originale, di non facile assimilazione e, come chiosa Inkantator, …for candid, open minded people that take an umbiased approach to music and don’t need to sort everything into stereotyped thinking.

TRACKLIST
1.Incipit: Geherre
2.Onset of Wyntar
3.Im Winter
4.Snowscape
5.White Gloom
6.Black Glimmer
7.Silent World, Holy Awe
8.Vom ersten Schnee
9.Silver Nights

LINE-UP
Inkantator Koura – all instruments and vocals

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Author – Lopun Alku

Album che lascia poco all’ascoltatore se non la fatica di arrivare in fondo, Lopun Alku potrebbe trovare qualche estimatore solo tra gli appassionati più oltranzisti del black metal underground.

La terra dei mille laghi, tra i paesi nordici è quella che meno viene accostata al black metal, eppure nella storia della musica estrema la Finlandia non è certo meno importante delle vicine Svezia e Norvegia.

La tradizione vede la scena di questa terra più orientata verso il death metal o il viking ma non sono mai mancate le oscure realtà che mantengono alto il fuoco della fiamma nera della musica; in questi anni che ha visto il genere perdere popolarità, la scena underground è venuta in soccorso dei fans, supportando nuove band ed opere altrimenti perse negli oscuri inferi che si aprono come abissi su al nord.
Author è una one man band (il mastermind del gruppo è il polistrumentista J.V , aiutato dal vivo da una manciata di musicisti della scena) al primo full length, dopo un’ ep uscito sempre per Naturmacht Productions lo scorso anno del quale troviamo presenti due tracce, l’opener Kuolevaisen kirous e Olemme nähneet päivän päättyvän.
Lopun alku, dai testi rigorosamente in lingua madre, è un lavoro di black metal canonico, con scream maligno d’ordinanza ed un’atmosfera glaciale che pervade tutti i brani che compongono quest’ opera estrema, con il difetto non trascurabile di una piattezza di fondo che non dà modo ai brani di sollevarsi, con il ripetersi dello stesso riff per oltre mezz’ora di black metal scontato come il freddo dei mesi invernali nella città di Pori, città di prvenienza degli Author.
Album che lascia poco all’ascoltatore se non la fatica di arrivare in fondo, Lopun Alku potrebbe trovare qualche estimatore solo tra gli appassionati più oltranzisti del black metal underground.

TRACKLIST
1. Kuolevaisen kirous
2. Lopun alku
3. Olemme nähneet päivän päättyvän
4. Kadotus
5. Ei ikinä enää
6. Uusi aamunkoi

LINE-UP
J.V – Vocals, lyrics, guitars, bass, keyboards, all music :
J.W. – Studio Session drumming :

Live line up:
J.V. – Vocals
Chronos – Lead guitar
L.H. – Rhythm Guitar
J.H. – Bass
Enceladus – Drums

AUTHOR – Facebook

Azarath – In Extremis

In Extremis è un disco che merita grande attenzione e riverserà sopra di voi un’immensa potenza di fuoco, risultando moderno ma possiede anche un suono che riporta all’epoca d’oro del death metal.

Torna una delle bestie musicali più immonde della pia Polonia, ed è un ritorno molto gradito quello degli Azarath.

Il gruppo è stato fondato nel 1998 nella cittadina polacca di Tczew, e l’unico membro fondatore è il batterista Inferno, che altri non è che il batterista dei più famosi e altrettanto polacchi Behemoth fin dall’anno 1998, ed è tuttora attivo con loro. E gli Azarath sono appunto una delle maggiori band polacche attualmente in circolazione, e se ascolterete In Extremis capirete facilmente il perché. Il disco è un diluvio di ottimo death black metal, con un approccio, tanto per intenderci, alla maniera dei primi Morbid Angel, con il suono altrettanto rassomigliante a quello dei Behemoth o dei Marduk, ma in realtà il tutto è molto Azarath. In Extremis arriva sei anni dopo Blasphemer’s Maledictions uscito nel 2011, ed è un disco davvero estremo e potente. Il suo suono è un death con venature black soprattutto nell’impianto chitarristico, ma rimane comunque sempre fortemente death. La cosa più importante è che non troverete tregua in questo assalto guidato dalla potente batteria di Inferno, sempre puntuale e decisiva, e tutto il gruppo lo segue perfettamente, aiutato da una produzione molto precisa e mirata sul suono. Gli Azarath non sono l’ennesimo gruppo death black, e nemmeno il passatempo di Inferno, sono semplicemente uno dei gruppi più potenti in circolazione, forti di un suono peculiare, alfiere della via polacca al death metal, e più in generale alla musica estrema. In Extremis è un disco che merita grande attenzione e riverserà sopra di voi un’immensa potenza di fuoco, risultando moderno ma possiede anche un suono che riporta all’epoca d’oro del death metal.

TRACKLIST
1. The Triumph of Ascending Majesty
2. Let My Blood Become His Flesh
3. Annihilation (Smite All the Illusions)
4. The Slain God
5. At the Gates of Understanding
6. Parasu Blade
7. Sign of Apophis
8. Into the Nameless Night
9. Venomous Tears (Mourn of the Unholy Mother)
10. Death

LINE UP
Inferno – Drums
Bart – Guitars
Necrosodom – Guitars, Vocals
Peter – Bass

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Winter Deluge – Devolution-Decay

Quello dei Winter Deluge non è un black per palati raffinati ma neppure per gli appassionati duri e puri: si colloca piuttosto in una sorta di terra di mezzo nella quale, a mio avviso, riesce nell’intento di intrigare tutti piuttosto che non accontentare nessuno

Il secondo full length dei neozelandesi Winter Deluge è un classico esempio di come il black metal, in fondo, sia qualcosa in più rispetto ad un semplice genere musicale, almeno per chi lo apprezza per quello che è, senza troppo perdersi in menate connesse a look, stile, tecnica e stucchevoli diatribe su quanto sia o meno “true”.

Devolution – Decay lo ascolti una prima volta e pensi che sia nient’altro se non un normale album, onesto e corrosivo il giusto per attirare un minimo di attenzione ma, in fondo, privo di quel quid in più per renderlo in qualche modo “necessario”.
Poi, come quasi sempre avviene (spingendomi ad affermare che chi liquida un disco dopo uno o due ascolti commette non solo un atto di presunzione e superficialità, ma una sorta di reato di falso ideologico) i passaggi successivi sono quelli che rendono accessibile buona parte delle pieghe che increspano il sound: è solo allora che di Devolution – Decay si capisce molto di più, potendo osservare il tutto sotto una luce diversa.
L’operato dei Winter Deluge perde via via la sua apparente ed uniforme opalescenza per mostrare spunti dalla malevola incisività che non risparmiano la vanità umana (Tentacles Of Time), l’ingerenza della religioni su ogni aspetto dell’esistenza (Corrupt Prophets) o la deriva psichica che sempre più affligge un’umanità priva di certezze (The Negation of Existence): Devolution – Decay scorre ruvido su tempi medi e mai parossistici, ma con accelerazioni repentine che esaltano la rapidità percussiva di Autumnus e qualche rallentamento che va a lambire il doom.
Qualche parvenza gradita di melodia chitarristica la si riscontra in forme omeopatiche, come avviene nell’ottima …Now You Reap, ma è in generale la sensazione disturbante che pervade il lavoro a renderne l’ascolto molto più di un atto dovuto.
Quello dei Winter Deluge non è un black per palati raffinati ma neppure per gli appassionati duri e puri: si colloca piuttosto in una sorta di terra di mezzo nella quale, a mio avviso, riesce nell’intento di intrigare tutti piuttosto che non accontentare nessuno: certo, nesuna novità, ma il tutto va a favore di una asciutta ortodossia e, soprattutto, di una consistente profondità, che è proprio quanto serve per connotare il proprio operato di un valido segno distintivo.

Tracklist:
1.Der Letzte Atemzug
2.The Negation Of Existence (The Cotard Syndrome)
3.Corrupt Prophets
4.Yersinia Pestis
5.Tentacles Of Time
6….Now You Reap
7.Perversion Of Common Sense
8.Winter Deluge
9.The Image That Remains

Line-up:
Arzryth – Lead, Rhythm, Bass Guitars
Autumus – Drums
Mort – Rhythm Guitars
Seelenfresser – Vocals

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Aksaya – Kepler

Kepler è un disco non comune e nemmeno conforme, ma che segue una poetica tutta sua, ed è assai notevole poiché esula dal mero significato black, per andare a ricercare qualcosa di diverso.

Fondati nel 2013 i francesi Aksaya non sono affatto un gruppo black comune, poiché hanno una forte impronta personale, che rende unico il loro suono.

Sin dalle prime battute di Kepler gli Aksaya rendono satura l’atmosfera con il loro black geneticamente modificato, che si muove tra l’ortodossia classica, l’atmospheric, un pizzico di depressive e una forte carica hardcore. I tempi sono veloci ma all’occorrenza si dilatano, per trovare soffocanti aperture melodiche, che puntellano maggiormente l’impianto di sofferenza. Gli Aksaya parlano delle nostre vite, di sofferenza e della guerra che quotidianamente combattiamo, e che a volte si trasferisce sui tristemente noti campi di battaglia. Non c’è speranza in questo affascinante tipo di black metal, ma solo una dolorosa catarsi, che comunque non è poco. La potenza del gruppo è molto ben calibrata e precisa e si abbatte in improvvise sfuriate, ma la loro peculiarità maggiore è il fare mid tempo davvero carichi, progressivi e molto strutturati. Sono presenti anche pezzi più melodici, che impreziosiscono il tutto. Il cantato in francese conferisce un timbro molto personale alla musica degli Aksaya, e ciò funziona splendidamente, poiché la metrica della lingua dell’esagono è assai votata alla potenza.
Kepler è un disco non comune e nemmeno conforme, ma che segue una poetica tutta sua, ed è notevole poiché esula dal mero significato black per andare a ricercare qualcosa di diverso. Tutto l’album è sopra il buono, mentre alcuni passaggi sono davvero entusiasmanti.

TRACKLIST
1.Kepler
2.Laїka
3.Fractale
4.Anomalie, Prélude À La Découverte
5.Tau Ceti E
6.Syn 1.0
7.K-701.04
8.Non Morietur

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