La Fantasima – Notte

Notte è un disco totalmente strumentale, e questo impasto sonoro sembra quasi doom fatto con un altro codice, con quella cifra stilistica che parla di malinconia ma anche di adorazione delle poche cose belle che ci circondano.

I La Fantasima sono un trio di Roma che vuole rendere omaggio alle atmosfere e ai colori del nostro paese, cercando una poetica musicale molto differente e totalmente personale.

La loro musica è per nostra fortuna e godimento difficilmente classificabile, dal momento che troviamo diversi stili in essa. La struttura è prevalentemente progressive, nel senso che è musica fatta per andare avanti senza ritornelli od inutili abbellimenti, ma è prodotta per creare uno stato d’animo nell’ascoltatore attraverso dilatazioni sonore che fanno sia meditare sia elevare. Notte è un disco totalmente strumentale, e questo impasto sonoro sembra quasi doom fatto con un altro codice, con quella cifra stilistica che parla di malinconia ma anche di adorazione delle poche cose belle che ci circondano. Qualcuno potrebbe anche sentirci dentro qualcosa di post rock, ma i La Fantasima sono un gruppo devoto alla tradizione, anche se sono molto moderni nel porsi in maniera originale. Lo scopo di Notte è di creare una mitopoiesi di questo paese che si chiama Italia e che forse non è mai stata una nazione, ma che ha dei luoghi unici, dove è meglio andare quando in cielo comanda la luna, perché certe cose con una luce differente si vedono assai meglio. Le atmosfere create dal trio romano, qui al secondo disco, sono molto belle e godibili: si gusta a fondo questo disco inforcando le cuffie e pensando solo a quello che stiamo ascoltando. La nuova fatica dei La Fantasima è preziosa, fa parte di quel poco tempo che strappiamo al panopticon che ci circonda, dove possiamo essere noi stessi e rincorrere ancora le lucertole sui muri, o impressionarci per un albero visto di notte. C’è tanta dolcezza in questo disco, ma anche la consapevolezza che siamo stati recisi dal nostro vero io, che possiamo trovare nelle cose e nei rari momenti in cui tutto si allinea e noi con esso, rare apparizioni di sapienza come questo disco che parla direttamente alla nostra anima, come poche altre cose sanno fare.

Tracklist
1.Notte
2.Placida Musa
3.Dea mia
4.Amante Silente
5.Sino Al Mattino

Line-up
Chris: Guitars
Maxbax: Bass
Artifex: Drums

LA FANTASIMA – Facebook

The Sullen Route – Last Day In Utter Diseases

Quello che resta di Last Day In Utter Diseases è la sensazione di un lavoro da rifinire ma anche suggestivo di una band dalle potenzialità ancora da esprimere, oltre che indecisa sulla direzione da intraprendere.

I russi The Sullen Route si erano fatti notare nel 2016 con un lavoro piuttosto interessante come Last Day In Utter Diseases: il lavoro viene riproposto oggi da Grimm Distribution con l’intento di ridare un po’ di visibilità alla band.

Il death doom del gruppo formatosi a Volgograd è più aspro che melodico e, comunque, non resta più di tanto nei canoni del genere grazie ad un andamento dal buon groove, anche se magari privo dei picchi e della profondità necessaria in ogni frangente.
Anche l’uso della voce non è neppure troppo scontato con il ricorso, oltre al growl e a rivedibili cleans, anche a tonalità tipiche del metal alternativo.
Quello che resta di Last Day In Utter Diseases è la sensazione di un lavoro da rifinire ma anche suggestivo di una band dalle potenzialità ancora da esprimere, oltre che indecisa sulla direzione da intraprendere. Non resta quindi che ascoltare con curiosità buoni brani come Jack the Sinner e Lead Undone, in attesa di nuovo materiale inedito.

Tracklist:
1. Sullen Overcome
2. Bonesacs
3. Other Side of Pillars Truth
4. Pintacry
5. Dead Horizon
6. Jack the Sinner
7. Town Constructor
8. Lead Undone
9. Last Process of Falling (Morton’s Fork)

Line-up:
Elijah – Vocals, Guitars
Serge – Guitars, Vocals
Dmitry – Drums
Maks – Guitars (lead)

THE SULLEN ROUTE – Facebook

Amarok – Devoured

Mastodontica opera prima del quartetto californiano capace di unire in un epico viaggio desolazione,pesantezza e personalità.

Bisogna armarsi di tempo e pazienza per avventurarsi nelle mastodontiche quattro track che compongono l’opera prima degli statunitensi Amarok, giunti dopo otto anni al fatidico esordio sulla lunga distanza, dopo aver affilato le armi in vari split con Hell, Pyramido (doom sludge targato USA) e gli Enkh (funeral polacco).

Il quartetto californiano di Chico incorpora nel proprio sound elementi doom, sludge, funeral e black con una fluidità notevole; non ci sono forzature ma un ininterrotto flusso di note, che dipinge paesaggi desolati e disperati, marcati da una buona ispirazione e tensione narrativa. La melodia circolare punteggiata da note di piano dell’opener Sorceress, si carica di tensione e potenza con il passare dei minuti, mentre la ritmica dal passo marziale e le vocals in scream screziato di growl si caricano di una disperazione tangibile, soffocante e claustrofobica. Le due chitarre aprono colossali universi di distorsione mantenendo comunque il suono fluido e ricco di sfumature; gli ingredienti sono sempre gli stessi e la differenza in questo tipo di musica la fa sempre la capacità dei singoli musicisti di saper mantener alta la tensione, apportando anche solo minime variazioni al suono. Gli Amarok sono assolutamente credibili e in più hanno anche una capacità di scrittura varia anche in un genere monolitico come questo; le distorsioni finali e le laceranti urla alla fine di Sorceress inscenano paesaggi terrifici. Settanta minuti di questo suono non disturbano certo chi è avvezzo a frequentare questi paludosi lidi, capaci di creare sensazioni ed emozioni molto particolari; i ventitre minuti di Rat Tower ci trasportano in un viaggio epico e dolente rimembrante alcune belle pagine del funeral doom dell’est europeo, dove le band hanno la maestria di creare “soundscapes” infiniti e dal forte impatto emotivo. Di sicuro una band da seguire ma per i cultori del doom non è neanche il caso di dirlo!

Tracklist
1. VI Sorceress
2. VII Rat Tower
3. VIII Skeleton
4. IX Devoured

Line-up
Brandon Squyres – Bass, Vocals
Kenny Ruggles – Guitars, Vocals
Colby Byrne – Drums
Nathan collins – Guitars

Witch Mountain – Witch Mountain

I riff di scuola classica si alternano ad aperture blues psichedeliche, senza intaccare il rituale oscuro e sabbathiano, lunghe ed estenuanti danze stregonesche in alcuni casi al limite dello sludge, che la nuova cantante dirige con la sua voce ipnotica e calda.

La scena doom classica sta vivendo un ottimo periodo, le opere che arrivano da ogni parte del mondo dimostrano che nell’underground il genere vive e si evolve, si muove tra le ispirazioni e le influenze in un clima tradizionale e vintage, trainato dal successo dei suoni settantiani degli ultimi tempi.

I suoni classici hanno una loro marcata tradizione anche sul territorio americano, non solo nel Nord Europa, e gli Witch Mountain ne sono il classico esempio.
Attivo da vent’anni, il gruppo di Portland può vantare quattro full length più una manciata di lavori minori: l’ultimo album risale al 2014, quel Mobile Of Angel che vedeva ancora in sella la cantante Uta Plotkin, su questo nuovo album omonimo sostituita dalla bravissima Kayla Dixon, una voce “nera” che apre nuovi orizzonti musicali al quartetto.
Witch Mountain, infatti, mantiene la sua natura doom e psichedelica, quel poco di stoner tanto da risultare al passo coi tempi, ma al crocicchio del diavolo prende la strada del blues.
Ed il sound se ne giova assai, riuscendo nella non facile impresa di risultare vario, preso per mano dalla voce particolare e versatile della singer che sciorina una prestazione intensa e personale, passando da toni evocativi a passaggi blues rock e feroci scream, così da sembrare in preda a più demoni che affiorano in superficie, dopo essersi impossessati della sua anima.
I riff di scuola classica si alternano così ad aperture blues psichedeliche, senza intaccare il rituale oscuro e sabbathiano, lunghe ed estenuanti danze stregonesche in alcuni casi al limite dello sludge, che la nuova cantante dirige con la sua voce ipnotica e calda.
Troviamo in scaletta solo cinque brani, che hanno nell’opener Midnight e nella conclusiva suite Nighthawk il loro apice compositivo: la prima più dinamica e potente, la seconda è invece una cadenzata suite di quattordici minuti impregnata del sound di cui è rivestito Witch Mountain.
Un buon lavoro che conferma la reputazione del quartetto, in una scena che ultimamente regala grandi soddisfazioni a chi la segue con interesse.

Tracklist
01. Midnight
02. Mechanical World
03. Burn You Down
04. Hellfire
05. Nighthawk

Line-up
Rob Wrong – Guitars
Nathan Carson – Drums
Kayla Dixon – Vocals
Justin Brown – Bass

WITCH MOUNTAIN – Facebook

Not My Master – Disobey

Violenti, paranoici, e pericolosissimi i Not My Master esordiscono con un concentrato di musica pesante e schizzata, che in mezzora costruisce un muro sonoro invalicabile.

Nelle province americane non scherzano, quando si parla di estremizzare la materia metallica.

Sarà il disagio , il caldo soffocante o i morsi dei crotali, ma i Not My Master sono l’esempio di come (in questo caso in Texas) prendano sul serio l’estremismo sonoro, amalgamando in un unico sound sludge, southern e metalcore con tanto di quel disagio da bastare per dieci generazioni.
Violenti, paranoici, e pericolosissimi i Not My Master esordiscono con un concentrato di musica pesante e schizzata, che in mezzora costruisce un muro sonoro invalicabile.
L’opener Acadence è l’inizio di un urlo brutale e rabbioso che si sviluppa su sei brani più la cover di How The Gods Kill di Danzig, uno spaccato della provincia americana tra crocifissi, predicatori e famiglie impegnate nell’omicidio seriale stile Non Aprite Quella Porta, deliri di vite travolte da droghe, alcool e follia.
E Disobey è la perfetta colonna sonora di queste nefandezze e molto altro, un album disturbante già dalla copertina con quattro cadaveri che penzolano da un patibolo, in una foto in bianco e nero che mette i brividi più che centinaia di innocui demoni death/black.
Mixato e masterizzato da Chris Collier (Korn, Prong, Fear Factory), l’album risulta un debutto di tutto rispetto nel panorama sludge metal, quindi cercatelo assolutamente se il genere è nelle vostre corde.

Tracklist
1. Acadence
2. Revenge
3. Where’s God Now
4. Morning Star
5. Lies
6. How The Gods Kill
7. Consume

Line-up
Chris Kidwell – Vocals
Chelo Styes – Guitar
Rudy Barajas – Bass
Charlie Gonzalez – Drums

NOT MY MASTER – Facebook

https://youtu.be/NhOoqKUcRN8

King Heavy – Guardian Demons

Guardian Demons si rivela un lavoro di buona fattura, curato ed onesto, sicuramente adatta ai fans del doom, i quali troveranno nei King Heavy una band affidabile nel suo genere.

Doom metal di estrazione classica ed heavy è quello che ci propongono i King Heavy, band per tre quarti cilena che si avvale del cantante belga Luce Vee (Luther Veldmark).

Guardian Demons è il loro secondo full length, successore dell’ep Horror Absoluto con cui hanno aperto le ostilità nel 2014 ed il primo album omonimo rilasciato l’anno dopo.
Potente, epico ed evocativo, il lavoro è un buon esempio di doom metal tradizionale: il quartetto segue la strada tracciata da Candlemass, Trouble e Slough Feg, le atmosfere ricalcano con coerenza i dettami del genere senza sorprese a livello di sound, proponendo la formula collaudata del genere con lente marce e dirompenti acuti heavy metal.
Il singer riesce a coinvolgere con il suo approccio alla Messiah Marcolin, la musica viaggia in scioltezza tra non pochi riferimenti allo storico gruppo svedese, e riff pesantissimi e solos heavy di buona fattura fanno di Guardian Demons un buon lavoro, epico e dinamico nella sua pesantezza e potenza doom metal.
I brani di durata medio lunga, come impone il genere, hanno in Come My Disciples il migliore esempio del sound proposto dai King Heavy, trattandosi di una monolitica suite di dieci minuti nella quale una lenta ed inesorabile marcia doom viene resa epica da un cantato evocativo ed attraversata da solos che fungono da litanie heavy, creando così un’atmosfera pesantissima e granitica.
In conclusione, Guardian Demons si rivela un lavoro di buona fattura, curato ed onesto, sicuramente adatta ai fans del doom, i quali troveranno nei King Heavy una band affidabile nel suo genere.

Tracklist
1.Guardian Demon
2.(Death is but an extreme form of) Narcosis
3.Doom Shall Rise
4.Cult Of The Cloven Hoof
5.Come My Disciples
6.As in a Nightmare

Line-up
Luce Vee – Vocals
Matias Aguirre – Guitar
Daniel Pérez Saa – Bass
Miguel Canessa – Drums

KING HEAVY – Facebook

Lurk – Fringe

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure

Quella denominata Lurk è l’ennesima mostruosa creatura che avanza strisciante, questa volta non in fangose paludi americane bensì tra le nevi ed i ghiacci dei mille laghi finlandesi.

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure.
Abbiamo così un sound che, nella sua monolicità di fondo, a tratti può richiamare i primissimi Cathedral, come nell’opener Ostrakismos, oppure srotolarsi nel mid tempo black di Reclaim; lo sludge viene offerto nella sua forma più esasperata nella notevole Elan, mentre un più movimentato death doom prende forma in Furrow.
Proteus Syndrome chiude al meglio il lavoro, racchiudendo in sé buona parte delle caratteristiche sopra accennate, a suggello di un operato che lascia ben poco spazio alla melodia ma che offre più di uno spunto capace di agganciare l’ascoltatore, al netto dello snodarsi di un sound sulfureo e pachidermico.
I Lurk sono l’ennesima band che viene portata all’attenzione grazie al meritorio lavoro della Transcending Obscurity, label indiana specializzata nello scavare in profondità nell’undergroung fino al reperimento di grezzi diamanti sonori come questo Fringe.

Tracklist:
1. Ostrakismos
2. Tale Blade
3. Reclaim
4. Elan
5. Offshoot
6. Furrow
7. Nether
8. Proteus Syndrome

Line-Up:
Kimmo Koskinen – Vocals
Kalle Nurmi – Drums
Arttu Pulkkinen – Guitar
Eetu Nurmi – Bass

Guest vocals by Aleksi Laakso on Elan
Alto saxophone by Aino Heikkonen on Ostrakismos

LURK – Facebook

Omit – Medusa Truth, Part 2

In questo mondo ovattato le regole della nostra dimensione vengono cambiate e si entra in un qualcosa di profondamente diverso. Un disco suonato e composto con cura e dedizione, e che non lascia nulla al caso, una splendida fuga.

Gli Omit suonano un doom metal con forti influenze funeral e gothic, con la splendida ed eterea voce femminile di Cecilie Langlie.

I norvegesi sono qui alla loro terza prova, e questo è il seguito di Medusa Truth Part One del 2014. Il loro intento è di illustrare con ogni disco un determinato periodo della vita di ciascun uomo, esplorando ciò che si vede e soprattutto ciò che non si vede. Le canzoni degli Omit durano molto e sono tutte composte come se fossero piccole opere, molto ben strutturate ed epiche. Questo secondo disco della serie Medusa Truth prende le mosse da questa frase di Jack London che possiamo trovare nel libro L’Ammutinamento della Elsinore del 1914 : “The profoundest instinct in man is to war against the truth; that is, against the Real. He shuns facts from his infancy. His life is a perpetual evasion. Miracle, chimera and to-morrow keep him alive. He lives on fiction and myth. It is the Lie that makes him free. Animals alone are given the privilege of lifting the veil of Isis; men dare not. The animal, awake, has no fictional escape from the Real because he has no imagination. Man, awake, is compelled to seek a perpetual escape into Hope, Belief, Fable, Art, God, Socialism, Immortality, Alcohol, Love. From Medusa-Truth he makes an appeal to Maya-Lie.
Insomma come dare torto a Jack… la nostra vita è una continua fuga, e anche l’ascolto di questo bell’album, decadente e dolce, è una fuga da ciò che viviamo o da ciò che siamo. E questo disco è una bella fuga, essendo gli Omit un buon gruppo di doom metal melodico, con parti funeral, ma soprattutto un gran substrato gotico che permea il tutto, dando un’accezione romantica al loro lavoro. Il loro incedere è lento, ma possente, dolce ma tagliente, la musica è l’ancella della splendida voce di Cecilie, ma non è affatto un semplice ornamento, ma una parte importante del tutto. In questo mondo ovattato le regole della nostra dimensione vengono cambiate e si entra in un qualcosa di profondamente diverso. Un disco suonato e composto con cura e dedizione, e che non lascia nulla al caso, una splendida fuga.

Tracklist
01. Passage
02. Veil Of Isis
03. Medusa Truth

Line-up
Cecilie Langlie – Vocals
Kjetil Ottersen – Keyboards
Tom Simonsen – Guitars, keyboards, bass, drums and programming.

OMIT – Facebook

Khemmis – Desolation

Questo ultimo disco dei Khemmis ne conferma la formula di successo, ovvero una miscela di giri di chitarra e voce ora melodici ora pesanti, a seconda della necessità del momento.

I Khemmis sono di Denver, Colorado e fanno un gran bel doom metal ricco di molteplici influenze.

Attivi dal 2012, hanno conosciuto un buon successo con l’album Hunted del 2016, che li ha fatti notare a tutti gli amanti della musica pesante. Questo loro ultimo disco ne conferma la formula di successo, ovvero una miscela di giri di chitarra e voce ora melodici ora pesanti, a seconda della necessità del momento. La melodia è una delle peculiarità principali dei Khemmis, i quali la trattano in maniera speciale. Desolation è composto da molte forze diverse che concorrono tutte a farne un disco molto fruibile e che regala moltissimi ascolti. La prima traccia Bloodletting è paradigmatica su ciò che verrà i seguito, con i suoi tempi cadenzati, i riff di chitarra molto ariosi e la voce che è calda e piena, creando un effetto d’insieme molto potente. I Khemmis sono un gruppo da ascoltare a volume molto, e come i compagni di etichetta Pallbearer fondono musica pesante e melodia in una maniera importante, come si può sentire benissimo in Desolation. L’album non cambierà le sorti della musica, ma alzerà l’umore di moltissime persone ascoltandolo, oppure le farà ragionare, dato che è intriso di malinconia espressa in decibel. I Khemmis sono uno dei risultati della musica pesante americana che presenta alcune differenze rispetto a quella europea, dato che in alcuni frangenti dall’altra parte dell’Atlantico sanno suonare con più semplicità ed immediatezza. C’è un sentire che ti avvolge immediatamente in questo disco, come se il gruppo lo si conoscesse da sempre, oppure come se il disco fosse quello che si aspettava da tempo. Ogni canzone contiene sviluppi e svolte assai interessanti e non c’è mai nulla di scontato in questo doom che incontra il pop senza mai perdere la sua rumorosa identità.

Tracklist
1.Bloodletting
2.Isolation
3.Flesh To Nothing
4.The Seer
5.Maw Of Time
6.From Ruin

Line-up
Ben
Dan
Phil
Zach

KHEMMIS – Facebook

Hangman’s Chair – Banlieue Triste

Potenza,drammaticità, melodia sono gli ingredienti primari del quinto album degli Hangman’s Chair: stoner/doom personale e con una forte identità.

Con il quinto full length i francesi Hangman’s Chair proseguono il loro viaggio all’ interno dell’anima triste e disagiata della metropoli parigina; a loro non interessa disegnare con la musica e con i testi paesaggi fantastici o avventurosi, o raccontare storie sociali a lieto fine.

La musica e i testi si inabissano nel degrado sociale, nella noia, nella mancanza di futuro, nelle dipendenze e in tutte quelle situazioni che, a loro dire, rappresentano il “broken French dream”. Attivo dal lontano 2009, il quartetto esprime la propria arte doom e stoner ricorrendo a un suono drammatico, intenso, aggressivo, rifuggendo dai soliti schemi sonori e inoltrandosi in brani visionari e potenti dal forte sapore seduttivo; in Sleep Juice un grande lavoro al basso conduce in territori viziosi dove le vocals di Cedric Toufouti ci ammaliano con toni suadenti, ma decisi nel refrain (“…everything must die tonight”). Le vocals di Cedric sono estremamente convincenti nella ricerca di tonalità il più possibili varie e, non ricorrendo né a growl o scream, rappresentano un vero valore aggiunto perché impreziosiscono i vari brani con fascino e mistero. La tesa Touch the Razor nel suo lungo sviluppo, memore di suoni darkwave, tocca punte drammatiche importanti mentre le chitarre mostrano potenza ed inventiva. E’ un modo diverso di intendere la materia doom, i brani hanno una tensione interiore a tratti insostenibile, ma nascondono una anima melodica dark e seducente molto personale; la voce suadente dai toni morbidi entra sotto pelle e lacera lentamente le nostre terminazioni nervose narrando storie vere di desolazione e disperazione dei sobborghi parigini, dove la vita è spesso condotta ai margini, senza speranza di poterla cambiare. L’opera è lunga (circa 68 minuti) e non perde un grammo del proprio fascino, avvolgendoci in atmosfere notturne e fumose dal taglio cinematografico (gli strumentali Tara, Banlieu Triste e la disperata Sidi Bel Abbes) e stritolandoci con immani ritmi stoner (la kyussiana 04/09/16) carichi di potenza e antico fascino. Tired Eyes nasconde tratti melodici fuori dall’ordinario e il gran finale Full Ashtray con la sua atmosfera pesante ci ricorda una volta di più che il doom sa offrire sempre molteplici varianti emozionali. Opera veramente notevole.

Tracklist
1. Banlieue Triste
2. Naive
3. Sleep Juice
4. Touch the Razor
5. Tara
6. 04 09 16
7. Tired Eyes
8. Negative Male Child
9. Sidi Bel Abbes
10. Full Ashtray

Line-up
Cédric Toufouti – Vocals, Guitars
Julien Chanut – Guitars
Clément Hanvic – Bass
Mehdi Birouk Thépegnier – Drums

HANGMAN’S CHAIR – Facebook

Obseqvies – The Hours Of My Wake

L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.

L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.

Di questa band si sa poco o nulla, se non che proviene dalla Finlandia, il che rappresenta una sorta di bollino di garanzia quando si parla di questo genere: la naturale conseguenza non può che essere quella di affidare alla musica il compito di raccontare agli ascoltatori l’ennesimo doloroso capitolo di una storia che trova sempre nuova linfa e magnifici interpreti, nonostante il suo risibile appeal commerciale.
The Hours Of My Wake riparte pressapoco da dove ci avevano lasciato gli Ea con il loro ultimo album del 2013, con un sound però ancor più curato e ammantato di un’aura oscura e leggermente meno melodica, includendo anche alcuni spunti che riconducono agli Shape Of Despair; l’esito non può che essere esattamente ciò che vorrebbe sempre ascoltare chi adora questo genere: ritmiche bradicardiche e variazioni di tono quasi impercettibili ma costanti, fondamentali per accrescere il pathos.
Grazie anche ad un growl che per profondità si avvicina non poco a quello di Daniel Neagoe, i tre lunghi brani si trascinano dolenti per quasi un’ora con la loro ricetta essenziale ma sempre di grande efficacia, con gli Obseqvies che affidano il lavoro di costruzione melodica alle tastiere e mettono in scena, alla fine, una litania funebre che non può lasciare indifferenti gli animi più sensibili.
Soloqvam è un brano di squassante bellezza, con il cantato che nella parte conclusiva diviene uno straziante screaming, indicativo del fatto che il risveglio al quale fa riferimento il titolo non dev’essere stato esattamente quello auspicato; Dawning è una traccia relativamente più aspra nella parte iniziale ma destinata a divenire più ariosa con i suoi accenni ad un canto di tipo monastico, mentre Cold è l’ideale unione tra i diversi spunti offerti in precedenza, per quanto tali scostamenti possano essere pressoché impercettibili per orecchie poco esperte.
Contrariamente ad un avvio illusoriamente consolatorio, il lavoro degli Obseqvies assume via via toni sempre più disperati con inesorabile e costante lentezza; il sonno eterno resta pur sempre la soluzione finale e più sicura, indipendentemente da come la si voglia pensare.

Tracklist:
1. Soloqvam
2. Dawning
3. Cold

OBSEQVIES – Facebook

Fading Bliss – Journeys in Solitude

Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità.

I belgi Fading Bliss arrivano con Journeys in Solitude al loro secondo full length in circa un decennio di attività.

Il precedente From Illusion to Despair, risalente al 2013, era stato un buon esordio che attingeva a piene mani dalla tradizione del gothic doom novantiano, con tanto di voce femminile a sostenere un growl profondo, entrambi adagiati su un tappeto melodicamente malinconico.
Nonostante siano trascorsi cinque anni non c’era da attendersi che le coordinate sonore potessero subire una variazione, visto che alla fine il genere, così come lo amiamo, è questo, prendere o lasciare; quello che viene richiesto alle band che vi si cimentano è produrre emozioni e metterci comunque qualcosa di proprio per evitare di apparire delle copie, seppur ben riuscite, delle band che hanno fatto la storia.
Ecco, se devo trovare un difetto ai Fading Bliss è proprio la mancanza di una maggiore personalità, che è poi l’ingrediente che rende irrinunciabile l’ascolto di un album: a tratti, infatti, sembra d’essere al cospetto di un gruppo abile nell’assemblare tutte le istanze provenienti dal passato senza però riuscire, se non a tratti, nell’intento di far scaturire quella scintilla capace di scuotere emotivamente l’ascoltatore.
Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità: indubbiamente l’opener Ocean è il brano migliore dei quattro con le sue notevoli intuizioni melodiche, mentre alla successiva Mountain manca il cambio di passo necessario per dare continuità all’evocativa chiusura della traccia precedente.
La cover di A Forest dei Cure è coraggiosa nel suo intento (cimentarsi con brani iconici come questo è sempre un’arma a doppio taglio), ma se è vero che è inutile proporre composizioni altrui in maniera eccessivamente fedele, qui i Fading Bliss eccedono in senso opposto, visto che in comune con il capolavoro di Robert Smith ci sono fondamentalmente solo il titolo ed il testo (apprezzabile comunque il lavoro della chitarra solista, come del resto avviene un po’ in tutto il disco).
I diciassette minuti di Desert, che regalano nuovamente un bellissimo assolo nella sua parte finale, chiudono un album gradevole e ben costruito ma che, al di là dei notevoli ma non sempre adeguatamente sfruttati guizzi chitarristici, fatica ad imprimersi con forza nella memoria: la dicotomia tra voce maschile e femminile funziona sulla carta ma, all’atto pratico, è troppo netto lo scostamento dei livelli di tensione percepibili allorché entra in scena l’una o l’altra voce.
Parlando di una band di Liegi mi si consenta il paragone ciclistico: con Journeys in Solitude i Fading Bliss dimostrano di reggere agevolmente l’andatura sostenuta del gruppo in pianura ma, allo stato attuale, manca loro quello spunto per restare con i migliori allo scollinamento della di Côte de Saint-Nicolas; questo almeno oggi, ma non è detto che non ci possano riuscire in futuro, visti i buonissimi mezzi a loro disposizione.

Tracklist:
1. Ocean
2. Mountain
3. A Forest
4. Desert

Line up:
Mélanie : Vocals
Dahl : Vocals
Steph : Guitars
Michel : Drums
Kaz : Guitars
Arnaud : Bass
Venema : Keyboards

FADING BLISS – Facebook

The Body – I Have Fought Against It, But I Can’t Any Longer

Lasciatevi intrigare dalla persuasiva copertina e immergetevi in un calderone ribollente di industrial,noise,doom da parte di una band che non ha eguali.

Il potere persuasivo di una semplice, ma particolare copertina, può incidere molto spesso nella scelta e nell’acquisto di un’opera; è bastato uno sguardo alla cover del sesto full length degli statunitensi The Body per convincermi che si nascondeva qualcosa di intrigante e di inafferrabile nella loro musica.

Attivo dal 2004 il duo, formato da Lee Buford e Chip King, ha sempre definito la propria musica noise e ha intrecciato il proprio percorso artistico con diversi act mutanti del panorama weird e heavy statunitense, con i powernoise grinder Full of Hell o con i blackster Krieg, senza dimenticare quella con i mostruosi Thou; tutto nella costante ricerca di musica stimolante, senza schemi e libera da vincoli commerciali. Anche questa opera, sulla scia del precedente No One Deserves Happiness del 2016 , dove il duo aveva tentato un riuscito approccio più meditato alla materia investendola di una personalissima forma pop, necessita di pazienza per essere ben assimilata, trattandosi di suoni sfuggenti dove momenti di grazia sono disintegrati da muri di noise, vocals dolcissime e suggestive sono inseguite da scream e urla sinistre e agghiaccianti. L’opener The Last Form of Loving presenta misteriose note di violino su uno sfondo noise sfumato che, lentamente, si trasforma in un cuore pulsante, mentre una delicata voce femminile declama intrecciandosi direttamente con il secondo brano, dove il ritmo lentamente cresce creando un atmosfera dal forte sapore cinematografico. I brani sono vari, intrecciando al loro interno sonorità doom, industrial, dub e trip hop e fornendo molteplici chiavi di lettura: il drum beat incessante e marziale di Partly Alive, le mutazioni noise su abissali ritmiche dub e le urla terrorrizzate in The West Has Failed dipingono, ricordando i Dalek, quadri di desolante oscurità. La band non ha assolutamente paura di osare, del resto è stato sempre il suo trademark e raggiunge vertici assoluti in Nothing Stirs, dove l’atmosfera si incupisce ulteriormente creando paesaggi fortemente disperati e claustrofobici. E’ un modo diverso di creare musica estrema ma fortemente appagante, perché sviluppata da menti creative; la mancanza di schemi e la capacità di miscelare ingredienti molto diversi è la chiave vincente ed è necessario realmente un approccio “open minded”per apprezzare queste sonorità.

Tracklist
1. The Last Form of Loving
2. Can Carry No Weight
3. Partly Alive
4. The West Has Failed
5. Nothing Stirs
6. Off Script
7. An Urn
8. Blessed, Alone
9. Sickly Heart of Sand
10. Ten Times a Day, Every Day, a Stranger

Line-up
Lee Buford – Drums
Chip King – Guitars, Vocals

THE BODY – Facebook

Demetra Sine Die – Past Glacial Rebound

Una vera lezione di stupendo post-black sperimentale, con intrusioni dark, noise, drone e doom. Un nuovo ed ulteriore volto dei Demetra Sine Die, fedeli a sé stessi eppure sempre capaci di rinnovarsi.

E’ a dir poco strepitoso il nuovo capitolo dei Demetra Sine Die, eccellente gruppo italiano, giunto al terzo full-length, pubblicato dalla inglese Third I Rex.

Il lavoro si dipana attraverso sette tracce, tutte all’insegna di una grande varietà sonora. Post Glacial Rebound è – come anticipa il titolo – freddo e cerebrale, ma anche emozionale ed evocativo, intenso ed attento alle suggestioni che la musica – un grandioso mix di post-black, drone doom, noise e dark prog sperimentale – sa evocare ad ogni solco in maniera sublime. Quasi alla stregua di un film, le composizioni di questo nuovo CD dei Demetra Sine Die – nei suoi quarantasette minuti di durata complessiva – si presentano come una sorta di viaggio nello spazio, un’esplorazione cinematica che può ricordare, con il suo post-metal mutante, Tool, Virus e in particolare Oranssi Pazuzu. Si ascoltino al riguardo, tra loro collegate, l’opener Stanislaw Lem – il suo Solaris è stata una fonte d’ispirazione letteraria fondamentale – e la quarta traccia, Gravity: nelle due composizioni i sintetizzatori (tutti analogici, a cominciare dal Korg MS20) rendono atmosferico e fantascientifico il sound. Un taglio futuristico che non è tuttavia privo di calore, come sottolinea la sezione ritmica (il batterista Marcello Fattore, abilissimo nelle sue tessiture percussive, e il bassista Adriano Magliocco, dal tocco, a tratti, quasi grunge). I riverberi e gli squarci materici della chitarra di Marco Paddeu fanno il resto, compattando e variegando il magma sonoro esplorato dai Demetra Sine Die, declinandolo in termini ora tesi e drammatici (Lament), ora più melodici (Liars). Anche le linee vocali sono assai varie: abbiamo parti recitate (quelle iniziali di Eternal Transmigration hanno un che di pinkfloydiano), clean vocals ed uno screaming di stampo più classicamente black (in veste di ospite partecipa Luca Gregori dei torinesi Darkend), il che dona un tocco weird al tutto. La title-track conclusiva riassume tutte le caratteristiche della band ligure e di questo suo nuovo magistrale lavoro, densa e concettuale, spirituale e cangiante, pulitissima nelle soluzioni timbriche adottate di volta in volta e potente nell’impatto. La grafica di Anna Levytska, che ha collaborato tra gli altri con i Blut Aus Nord, incornicia il tutto. Capolavoro, tra i dischi dell’anno.

Tracklist
1 Stanislaw Lem
2 Birds Are Falling
3 Lament
4 Gravity
5 Eternal Transmigration
6 Liars
7 Post Glacial Rebound

Line up
Adriano Magliocco – Bass, Synthesizers
Marco Paddeu – Vocals, Guitar, Korg MS20
Marcello Fattore – Drums

DEMETRA SINE DIE – Facebook

Tannoiser – Alamut

Con una classica formazione a tre, i Tannoiser propongono un lavoro che spazia con buona fluidità tra le influenze dichiarate (Celtic Frost, Electric Wizard e primissimi Cathedral), mettendo a frutto l’esperienza live maturata in questi anni.

Alamut è un ep della durata di circa mezz’ora che rappresenta l’esordio in formato fisico per i Tannoiser, band bresciana dedita ad un’interessante forma di doom (al 2016 invece risale l’altro ep Mekkano, uscito solo in digitale).

Con una classica formazione a tre, i Tannoiser propongono un lavoro che spazia con buona fluidità tra le influenze dichiarate (Celtic Frost, Electric Wizard e primissimi Cathedral), mettendo a frutto l’esperienza live maturata in questi anni.
Baba Vanga apre al meglio il lavoro con un giro di basso killer, facendo presupporre un approccio catchy al genere che in realtà poi non si rivelerà tale: infatti, sin dalla seconda traccia Paradacsa, il sound si fa sempre più buio, rallentato e disturbato, accompagnato dal ringhio sgraziato ma efficace dell’addetto alle quattro corde Bruno Almici. Le distorsioni pronunciate di Necrophage donano al brano un’aura particolare, mentre con March of Wrecks i ritmi divengono ancor più rarefatti, e se The Void rilancia in parte l’andatura, la conclusiva Mekkano pianta i classici chiodi sulla bara con il suo doom mortifero ed essenziale.
Proprio quest’utimo aspetto a tratti può rivelarsi un limite, perché un sound leggermente più ricco (magari con l’apporto di una tastiera sullo sfondo) valorizzerebbe ancora di più le buone intuizioni dei Tannoiser: Alamut è in ogni caso un altro buonissimo tassello, piazzato al posto giusto allo scopo di edificare sonorità oscure capaci di intrecciarsi efficacemente con un contenuto lirico affascinante che, partendo dalla citazione della storica fortezza iraniana che dà il titolo all’album, trae spunto dal passato finendo per tratteggiare scenari foschi per l’umanità riguardo al suo futuro.

Tracklist:

1. Baba Vanga 04:11
2. Paradacsa 05:33
3. Necrophage 05:20
4. March of Wrecks 03:59
5. The Void 05:52
6. Mekkano

Line up:
Davide Serpelloni Drums (2015-present)
Francesco Bellucci Guitars (2015-present)
Bruno Almici Vocals, Bass (2015-present)

2018

Vor – Depravador

Un lavoro a dir poco urticante il cui solo scopo e quello di scuotere e mettere a disagio l’ascoltatore: zero fronzoli, cosi come totale è l’assenza di una qualsiasi parvenza melodica.

Credo che uno dei momenti in cui si realizza pienamente quanto la musica rivesta un ruolo fondamentale nella propria vita, sia quando si riescono ad apprezzare pienamente forme espressive lontanissime tra loro.

Tutto questo rende possibile godere di strutture complesse e potenti come quelle del progressive, così come quelle essenziali e scarnificate di certo sludge doom.
Proprio a quest’ultima categoria appartiene Depravador, album d’esordio dei Vor, duo spagnolo che con il solo apporto di batteria, basso ed una voce strepitante riesce a produrre molto più baccano di quanto non facciano molte band con tripla chitarra, tastiere e quant’altro.
Quanto scritto come premessa sta a significare che non c’è una forma predefinita per catturare in maniera efficace l’attenzione dell’ascoltatore, ma che, in realtà, se non si demanda il tutto alla melodia e alla tecnica devono essere l’intensità e l’urgenza espressiva a fare la differenza.
Queste ultime sono le caratteristiche fondanti di Depravador, un lavoro a dir poco urticante il cui solo scopo e quello di scuotere e mettere a disagio l’ascoltatore: zero fronzoli, cosi come totale è l’assenza di una qualsiasi parvenza melodica.
Ciò avviene dalla prima nota della title track fino all’ultima di Dark Fraga (sia pure in tal caso con un più ragionato break centrale) per un ascolto che, alla fine si rivela ostico ma, alla lunga coinvolgente nel suo rabbioso ed ostile incedere.

Tracklist:
1. Depravador
2. Black Goat
3. Why
4. Cudgel
5. Blood… Fear… Knife… Sin.
6. Daga
7. Dark Fraga

Line-up:
Iván: bass, noise & shrieks
Edu: drums & noise
Anxela (Bala): guest vocals in “Dark Fraga”

The Red Coil – Himalayan Demons

Un continuo groove sludge stoner metal, con intarsi desert, intensità mostruosa e su tutto una potenza distorta che porta via.

Un continuo groove sludge stoner metal, con intarsi desert, intensità mostruosa e su tutto una potenza distorta che porta via.

Non è mai facile descrivere un disco che fa pensare a molte cose, e non soggettive ma oggettive. I milanesi The Red Coil faranno la gioia di chi ama la musica pesante nelle sue accezioni più disparate, e qui ce n’è per tutti i gusti. Il gruppo suona uno sludge stoner di rara potenza che non fa prigionieri e che costringe e sentirlo disparate volte. Lla band lombarda esordisce nel 2009 con l’ep Slough Off che riceve una buona accoglienza sia dal pubblico che dalla critica. Nel 2013 i nostri escono con il primo disco su lunga distanza, intitolato Lam, che procura loro  diversi concerti in giro per il nord Italia, soprattutto. Ed eccoci infine arrivati al presente Himalayan Demons, un disco gigantesco. La voce graffia ed è un mirino preciso che indirizza le bordate che arrivano dal resto del gruppo. Prendete i migliori Pantera e date loro un respiro sludge stoner e vi avvicinerete un minimo a cosa sia questo disco. Quando l’atmosfera è incendiata dalla loro musica, arrivano aperture melodiche ottime e totalmente inaspettate. Forte è anche l’influenza dello stile southern metal, che qui è presente in maniera diabolica. I The Red Coil sono un autentico godimento, riescono a trovare sempre la soluzione sonora giusta e rendono rovente il vostro impianto stereo, i loro inediti sono fantastici, ma rende bene e velocemente l’idea di cosa siano l’ultima traccia del disco, la cover di When The Leeve Breaks dei Led Zeppelin, fatta in maniera sublime e con la loro fortissima impronta. Un disco pesantemente fantastico.

Tracklist
1. Withdrawal Syndrome Wall
2. Godforsaken
3.Oriental Lodge
4. Opium Smokers Room
5. The Shroud
6. Moksha
7. The Eyes Of Kathmandu
8. When The Levee Breaks

Line-up
Marco Marinoni – voice
Luca Colombo – guitar
Daniele Parini – guitar
Gelindo – bass
Bull – drum

URL Facebook
https://www.facebook.com/theredcoil/