King Goat – Debt Of Aeons

I King Goat fanno musica portandoci molto lontano, e questa loro seconda prova è consigliabile ascoltarla con le cuffie, di modo che si possa gustare in maniera totale questo doom altro, che è sentimento più che un genere.

Pochi gruppi hanno la capacità di fare musica pesante e al contempo così melodica e fluida come i King Goat, da Brighton, Isole Britanniche.

Il loro secondo disco Debt Of Aeons è un esempio molto deciso e forte di come si possa fare musica partendo dal doom metal più classico, in stile Candlemass, per arrivare a parti addirittura più progressive con aperture molto ariose e potenti. I King Goat sono un gruppo assolutamente unico in quanto a peculiarità, in un genere che è sempre stato suonato ed ascoltato da veri adepti. Il gruppo inglese riesce sempre a trovare la giusta soluzione sonora, favorendo la melodia in ogni suo aspetto, da quello musicale a quello fisico, nel senso che la loro musica interagisce con le nostre cellule, facendole muovere. Il punto di partenza di tutto è il doom classico, che in Inghilterra trova un substrato molto fertile, sia nelle tradizioni popolari che nel gusto gotico, e anche nella tradizione musicale. Il doom qui si sublima e diventa molte cose, e come in un processo alchemico cangia forma molte volte, muta per trasformare la propria essenza e diventare un significato differente. Il filo conduttore del disco, che si può anche ritrovare nella splendida copertina di Travis Smith già autore di copertine degli Opeth, Katatonia e Iced Earth fra gli altri, è il pessimismo cosmico, insito sia nella natura umana che nell’osservazione di questo veloce declino che stiamo vivendo. Non rimarrà molto delle nostre vite e delle nostre sicurezze, dato che ci crediamo la civiltà superiore ma siamo solo una pessima parentesi di una storia fortunatamente più grande di noi. La grande musica dei King Goat è qui per ricordarcelo, e non si limita a questo dandoci un affresco molto preciso di eoni che ci hanno preceduto e di quelli che seguiranno a noi. Nei momenti più atmosferici del disco possiamo ascoltare il battito dello spazio, di ciò in cui siamo immersi, ma che nella nostra protervia giudichiamo inutile. I King Goat fanno musica portandoci molto lontano, e questa loro seconda prova è consigliabile ascoltarla con le cuffie, di modo che si possa gustare in maniera totale questo doom altro, che è sentimento più che un genere. Oltre ad una grande capacità compositiva i King Goat hanno il pregio di avere una visione poetica davvero diversa ed importante, che impatta nella loro musica che è già una cosa inedita e molto piacevole. Una seconda prova ancora meglio della precedente, che entra di diritto nel meglio della scuola inglese di musica pesante degli ultimi anni.

Tracklist
1.Rapture
2. Eremite’s Rest
3. Debt Of Aeons
4. Psychasthenia
5. Doldrum Sentinels
6. –
7. On Dusty Avenues

Line-up
Vocals: Trim
Lead Guitar: Petros
Rhythm Guitar: Joe
Bass: Reza
Drums: Jon

KING GOAT – Facebook

ILSA – Corpse Fortress

Esordio su Relapse per ILSA, malevola creatura che racchiude un animo doom, sludge, crust e punk.

Gli ingredienti sono sempre i medesimi, doom impregnato di sludge e cosparso di scorie crust e punk,ma gli statunitensi ILSA li sanno maneggiare con perversa maestria.

La band nata nell’underground statunitense, giunge al quinto album e all’esordio sulla lunga distanza per Relapse (da ricordare nel 2016 anche uno split con i Coffins, altri maestri del genere, sempre sulla stessa etichetta) e lo fa miscelando, come al solito, ossessione per storie orrorifiche con partiture melmose, diaboliche, colme di soffocante feedback. Nove brani, quarantotto minuti laceranti, disturbanti fino dall’opener Hikikomori aperto da un classico riff doom, sommerso da un potente feedback e da una voce in growl straziata che crea un’atmosfera da incubo; le chitarre, oltre a generare riff si lasciano andare a parti soliste sinistre che mantengono alta la tensione, con la sezione ritmica sempre molto presente che prende il sopravvento i brani come Nasty, Brutish e Ruckenfigur, davvero due cingolati impazziti che travolgono tutto senza lasciare prigionieri. Il sound rimane sempre molto minaccioso, carico, non concede requie e trova le sue radici in act come Hooded Menace, Eyehategod, dove però la miscela appare meglio centrata; la band sa creare brani convincenti, soprattutto nella final track Drums of Dark Gods (magnifico titolo) dove il basso e la batteria trasportano l’ascoltatore verso profondi e innominabili abissi e la voce gorgoglia invocando … from the jaws of Leviathan the drums of Dark Gods. Un buon ascolto in definitiva, che purtroppo si perderà nella marea di uscite underground e verrà ricordato solo dai die-hard fans.

Tracklist
1. Hikikomori
2. Nasty, Brutish
3. Cosmos Antinomos
4. Prosector
5. Old Maid
6. Long Lost Friend
7. Rückenfigur
8. Polly Vaughn
9. Drums of Dark Gods

Line-up
Sharad – Bass
Joshy – Drums
Brendan – Guitars
Orion – Vocals
Tim – Guitars

ILSA – Facebook

Owl – Orion Fenix

Orion Fenix va lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà.

Torna dopo alcuni anni, con un ep composto da un solo lungo brano della durata di circa venti minuti,
il progetto solista denominato Owl di Christian Kolf, vocalist dei Valborg.

Il musicista tedesco, sin dall’inizio del decennio con questo monicker si è reso protagonista di un death doom piuttosto dissonante e sperimentale, con un’ampia componente ambient: Orion Fenix mantiene queste coordinate dimostrando come “il gufo” non intenda derogare dalla strada maestra intrapresa.
Ne viene fuori quindi un lavoro interessante, anche se non per tutti i palati, in quanto privo di decise aperture melodiche, salvo un più arioso frammento finale, o di passaggi comunque in grado di catturare l’attenzione al primo colpo; Orion Fenix va così lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà, che si svela in maniera definitiva attorno al quindicesimo minuto, quando parte appunto una bella progressione di natura post metal.
L’eterea chiusura di matrice ambient rafforza le sensazioni positive prodotte da un ep che costituisce l’ideale antipasto al già programmato ed imminente full length Nights In Distortion: Kolf conferma d’essere un musicista di vaglia, capace di costruire una proposta sonora solidamente introspettiva anche se, inevitabilmente, di non troppo semplice fruizione.

Tracklist:
1. Orion Fenix

Line-up:
Christian Kolf

OWL – Facebook

Antichrist – Pax Moriendi

Pax Moriendi si rivela un esordio su lunga distanza di assoluto livello per gli Antichrist, capaci di mostrare un potenziale tutt’altro che banale e foriero quindi di altri luttuoso frutti nel prossimo futuro.

Dopo alcuni anni di attività costellati dall’uscita di diversi demo e singoli, anche per i peruviani Antichrist è arrivato il momento del debutto su lunga distanza.

Pax Moriendi è un lavoro intriso di un death doom ruvido ed essenziale, reso appena più morbido da una tastiera volta a dare al tutto un tocco vagamente orrorifico, con il growl che si attesta invece su una modalità rantolo che nulla concede, men che meno all’intelligibilità dei testi.
Siamo quindi dalle parti dell’interpretazione del genere più vicina a band come Disembowelment, ma in maniera meno aspra e dissonante, e il tutto riesce in maniera apprezzabile alla band sudamericana, la quale offre talvolta squarci di melodia come nella parte finale dell’opener Forgotten in Nameless Suffering, e comunque mantenendo lungo i tre quarti d’ora dell’album un buon livello, anche quando i ritmi si intensificano spostando la barra verso un putrido death di scuola floridiana accompagnato dalla sempre presente tastiera in sottofondo.
Nei precedenti casi in cui mi ero imbattuto in doom band provenienti dal paese andino non ero rimasto particolarmente impressionato, trattandosi per lo più di lavori apprezzabili per genuinità ma, allo stesso tempo, approssimativi e troppo scarni per resa sonora; al contrario, gli Antichrist, pur non essendo tra gli interpreti più raffinati del genere, sanno decisamente il fatto proprio e mettono a frutto l’esperienza maturata attraverso un approccio cupo, diretto e dalla produzione adeguata alla bisogna.
Da rimarcare anche la bontà della lunga traccia conclusiva You Will Never See Sun Light, valido esempio di funeral che va a pescar oltre che dalla già citata seminale band australiana anche dagli Evoken: Pax Moriendi si rivela un esordio su lunga distanza di assoluto livello per gli Antichrist (ai quali di certo non giova più di tanto un monicker impegnativo ed un po’ inflazionato), capaci di mostrare un potenziale tutt’altro che banale e foriero quindi di altri luttuoso frutti nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Forgotten in Nameless Suffering
2. Obscurantism
3. In the Dark and Mournful Corner
4. Screams and Lamentations Drowned
5. You Will Never See Sun Light

Line-up:
Agalariept – Vocals
Sargatanaz – Drums
Zaren – Guitars, Keyboards
Gustavo Rodriguez – Bass

ANTICHRIST – Facebook

Suum – Buried Into The Grave

Collocando tutti i tasselli al proprio posto i Suum, con Buried Into The Grave, offrono sette brani incisivi il giusto, contenendo in maniera opportuna la lunghezza e compensando la fisiologica vicinanza ai propri modelli con il songwriting efficace di chi affronta il genere con la giusta dose di competenza e devozione.

La sempre fertile scena doom romana continua a sfornare band di sicuro spessore, indipendentemente dalle sfumature assunte dal genere in questione.

I Suum se ne escono subito con un full length devoto al 100% al versante più classico del doom, quello che trasse i primi impulsi vitali dai Black Sabbath per poi esser ulteriormente diffuso nell’etere metallico dai vari Candlemass, Saint Vitus, Pentagram e Solitude Aeturnus.
Ovviamente perché ciò funzioni alla perfezione sono necessari un riffing puntuale ed incisivo, garantito in questo caso salirono Painkiller (Fangtooth) ed una voce stentorea atta a declamare con chiarezza le funeste visioni della band capitolina, le cui funzioni vengono affidate a Mark Wolf, che già conosciamo quale vocalist degli ottimi Bretus.
Collocando tutti i tasselli al proprio posto i Suum, con Buried Into The Grave, offrono sette brani incisivi il giusto, contenendo in maniera opportuna la lunghezza e compensando la fisiologica vicinanza ai propri modelli con il songwriting efficace di chi affronta il genere con la giusta dose di competenza e devozione.
Premesso che è difficile per chiunque raggiungere i livelli delle band poc’anzi citate ricalcandone il raggio d’azione, la prova dei Suum possiede tutti i crismi per soddisfare chi delle stesse riconosce l’inconfutabile grandezza: per cui le dolenti cavalcate che si dipanano dalla prima nota di Tower of Oblivion fino all’ultima di Shadows Haunt the Night (con la sola breve pausa costituita dallo strumentale The Woods Are Waiting) non sconvolgeranno le gerarchie del doom metal, ma allo stesso tempo gratificheranno senza riserve i non pochi amanti del doom dai connotati più tradizionali.

Tracklist:
1. Tower of Oblivion
2. Black Mist
3. Buried into the Grave
4. Last Sacrifice
5. Seeds of Decay
6. The Woods Are Waiting
7. Shadows Haunt the Night

Line-up:
Marcas – Bass
Rick – Drums
Painkiller – Guitars
Mark Wolf – Vocals

SUUM – Facebook

Maze Of Feelings – Maze Of Feelings

Questo primo passo targato Maze Of Feelings si può considerare decisamente riuscito, in virtù di una resa sonora invidiabile e di una serie di canzoni complessivamente valide, collocando la band polacco/russa in una fascia di gradimento in grado di attrarre sia chi apprezza il doom sia gli appassionati di death melodico.

I polacchi Maze Of Feelings per proporre il loro ottimo death doom hanno pescato due vocalist dalla scena russa nelle persone di Andrey Karpukhin (Abstract Spirit, Comatose Vigil) e Ivan Guskov (Mare Infinitum).

In effetti l’interpretazione del genere in questo caso è piuttosto variegata, grazie anche all’uso della doppia voce, improntata per lo più sul profondo growl di Karpukhin e sulla stentorea tonalità clean di Guskov, che conferisce ulteriore dinamica ad un sound oscillante tra passaggi molto più robusti come l’ottima opener Drained Souls Asylum, ed altri maggiormente in linea con il death doom melodico come Where Orphaned Daughters Cry, o Cold Sun Of Borrowed Tomorrow e Grey Waters Of Indifference, nelle quali appare anche una voce femminile.
La band, guidata dai due chitarristi Marcin Warzyński e Krzysztof Wieczerzycki, dimostra comunque diverse pulsioni progressive il che apporta più di una variazione ai canonici temi del genere, senza che il lavoro ne risenta dal punto di vista dell’omogeneità; va detto che invece un minimo scostamento avviene in termini di qualità distribuita lungo l’album, visto che le prime tre tracce sono davvero molto belle ed appaiono sensibilmente superiori al resto della tracklist, che rimane attestata sempre su un buon livello medio ma senza colpire più di tanto, salvo la conclusiva Dreamcatcher, nella quale si ritorna ad atmosfere più aspre e nel contempo lentamente cadenzate.
Nel complesso questo primo passo targato Maze Of Feelings si può considerare decisamente riuscito, in virtù di una resa sonora invidiabile e di una serie di canzoni complessivamente valide, collocando la band polacco/russa in una fascia di gradimento in grado di attrarre sia chi apprezza il doom sia gli appassionati di death melodico.

Tracklist:
1. Drained Souls Asylum
2. Adherents Of Refined Severity
3. Where Orphaned Daughters Cry
4. Necrorealistic
5. Grey Waters Of Indifference
6. Cold Sun Of Borrowed Tomorrow
7. Dreamcatcher

Line-up:
Szymon Grodzki – Bass, Keyboards, Piano, Samples
Marcin Warzyński – Guitars
Krzysztof Wieczerzycki – Guitars
Ivan Guskov – Clean Voice, Screams, Growls & Whispers
Andrey Karpukhin – Growls, Screams & Monologs

Guest/Session
Dariusz “Daray” Brzozowski – Drums

MAZE OF FEELINGS – Facebook

Apostle of Solitude – From Gold to Ash

L’altra faccia del doom (ma pur sempre doom) secondo gli Apostle of Solitude. Un album che risulta di grande trasporto per noi ascoltatori, seppur sembri aver bisogno di un tocco di personalità in più.

Ci sono tutti gli ingredienti per un ottimo disco tra le mani degli Apostle of Solitude, band statunitense ancora giovane ma con un passato già degno di nota alle spalle.

A distanza di quattro anni dal loro ultimo lavoro, esce From Gold to Ash, e il risultato di questa nuova sfida musicale è di tutto rispetto. Gli Apostle of Solitude dimostrano ancora di sapere cosa vuol dire doom metal , ed in qualche modo riescono anche a distinguersi.
Alla base di tutto ciò vi è un’ottima abilità di ciascuno dei musicisti, che contribuisce a creare un’atmosfera sicuramente familiare a chiunque conosca già o si approcci al genere. In sintesi, anche per chi scoprisse questa band solo adesso, il doom degli statunitensi è carico di energia in quantità condita da una giusta dose di rabbia.
Si può dire, però, senza che sia per forza una critica, che non vogliono certamente strafare. Essendo il metal una galassia estremamente variegata, sta a discrezione di ognuno giudicare se questa caratteristica sia un pregio o un difetto. Sicuramente, per orecchie abituate ad un doom pesante, ma anche sludge, fino alla variante funeral, la proposta degli Apostle of Solitude non rappresenterà proprio una svolta. Si tratta infatti di un doom più educato, più compassato rispetto ai canoni.
L’indirizzo della band è chiaro e definito, anche per questo non troviamo una grande varietà strumentale all’interno dell’album. Interessante l’intermezzo del terzo brano Autumn Moon, che spezza i ritmi in maniera azzeccata.
Si può concludere dicendo che sono evidenti, in questo ascolto come nei precedenti, le grandi qualità di tutti i componenti della band così come della sfera musicale che ne risulta, ma sarebbe interessante capire se è questa la vera personalità fatta e finita degli Apostle of Solitude, oppure se la limitatezza (apparente) dell’orizzonte sonoro è data da una ricerca ancora da completare.

Tracklist
1. Overlord
2. Ruination Be Thy Name
3. Autumn Moon
4. Keeping the Lighthouse
5. My Heart Is Leaving Here
6. Monochrome (Discontent)
7. Grey Farewell

Line-up
Corey Webb – Drums
Chuck Brown – Guitars, Vocals
Steve Janiak – Guitars, Vocals
Mike Naish – Bass

APOSTLE OF SOLITUDE – Facebook

Bible Black Tyrant – Regret Beyond Death

Il filo conduttore è un groove incessante, una vibrazione nemmeno tanto di sottofondo che ci conduce in un mondo alieno e bellissimo, che dà assuefazione come se fosse un oppiaceo, perché qui dove tanti vedono solo pesantezza, chi ama questo suono trova carica e pace.

Disco di musica estrema fatto da musicisti che sanno maneggiare molto bene l’argomento.

Infatti il gruppo è formato da Tyler Smith, Aaron D.C. Edge e David S. Fylstra membri di Eagle Twin, Lumbar, KVØID., band che in ambito estremo hanno molto da dire. La loro unione produce un ottimo risultato e questo Regret Beyond Death è una mazzata che regalerà molte gioie a chi ama un suono sporco, pesante, ma non privo di una certa psichedelia. Gli ingredienti nel calderone sono molti, dallo sludge al post metal, passando per il noise. Le chitarre sono super distorte e ribassate, la voce è un grido che graffia, la velocità non è eccessiva, è piuttosto una lenta corrosione delle vostre resistenze sonore, per arrivare ad una totale sottomissione, almeno musicale. I nostri trovano soluzioni sonore assi difficili da trovare anche nella musica pesante, che ha da tempo imboccato la strada della standardizzazione, ma grazie a dischi come questo c’è ancora speranza. In Regret Beyond Death si può apprezzare la varietà e il talento musicale dei musicisti coinvolti la grande intensità del suono, che pur essendo massiccio e coriaceo non viene mai a noia, anzi. Il filo conduttore è un groove incessante, una vibrazione nemmeno tanto di sottofondo che ci conduce in un mondo alieno e bellissimo, che dà assuefazione come se fosse un oppiaceo, perché qui dove tanti vedono solo pesantezza, chi ama questo suono trova carica e pace. In certi momenti i Bible BlacK Tyrant sembra abbiano musicato lo spostamento di ghiacciai e montagne in epoche remotamente lontane, scontro di titani naturali. Un disco che fa star bene, viva la musica pesante.

Tracklist
1 Instead of…
2 The Irony
3 New Verse Inferno
4 Regret Beyond Death
5 Wilderness of Steel and Stone
6 The Standard
7 A Terror to the Adversary.

Line-up
Aaron D.C. Edge: Guitar, Bass, Vocals
Tyler Smith: Percussion
David S. Fylstra: Additional Guitar, Vocals, Soundscapes

BLACK BIBLE TYRANT – Facebook

Paragon Collapse – The Dawning

Per chi ha apprezzato in passato band come The Third And The Mortal, Stream Of Passion e, ovviamente, The Gathering era Anneke, The Dawning potrebbe rivelarsi una gradita sorpresa.

I Paragon Collapse sono una band rumena proveniente da Iasi, città che si trova vicino al confine con la Moldavia e piuttosto lontana geograficamente dalle zone più tradizionalmente foriere di band di un certo spessore come lo sono la capitale e la vicina Brasov, o Timisoara.

Forse anche per questo il sound del gruppo fondato dal chitarrista Alex Lefter si stacca parzialmente dalle forme di metal che, abitualmente, provengono dalla Romania, optando per un sound gothic doom dai tratti piuttosto pacati e che, pur non brillando per originalità, si fa apprezzare non poco per la propria limpidezza.
Aiuta senza dubbio in tal senso la voce cristallina di Veronica Lefter, vocalist e violinista che utilizza al meglio le proprie doti fornendo una prova misurata che ben si confa ad un sound per lo più soffuso, nel quale le accelerazioni sono rade così come i passaggi più robusti.
Nonostante siano al debutto, i Paragon Collapse hanno alle spalle una storia piuttosto lunga, per cui di sicuro non si ha a che fare con musicisti alle prime armi, cosa che si evince chiaramente dalla competenza nel trattare la materia, grazie alla quale riescono ad evitare certe stucchevolezze a rischio nel genere e rendere tutto sommato digeribile un lavoro della durata di quasi un ‘ora.
Volendo trovare qualche difetto alla proposta, non si può fare a meno di notare che la lunghezza dei brani, in certi casi oltre i dieci minuti, non agevola di sicuro la fruizione, così come una certa uniformità stilistica e la mancanza di un brano trainante impediscono a The Dawning di raggiungere un livello di assoluta eccellenza.
Detto ciò, l’operato deiParagon Collapse è decisamente piacevole e trova i suoi momenti migliori in due brani che in qualche modo mostrano i migliori aspetti della band: quello più rarefatto ed evocativo, con l’opener The Endless Dream, e quello più progressivo e robusto della conclusiva Deliverance.
Per chi ha apprezzato in passato band come The Third And The Mortal, Stream Of Passion e, ovviamente, The Gathering era Anneke, The Dawning potrebbe rivelarsi comunque una gradita sorpresa.

Tracklist:
1. The Endless Dream
2. The Stream
3. A Whisper of Destiny
4. Nirvana
5. Climbing the Abyss
6. A Winter Life
7. Deliverance

Line-up:
Ion Ciobanu – Guitars
Alex Lefter – Guitars
Veronica Lefter – Vocals, Violin
Vali Seciu – Bass
Codrin Murariu – Drums

PARAGON COLLAPSE – Facebook

Towards Atlantis Lights – Dust of Aeons

I Towards Atlantis Lights mettono in scena un ottimo funeral death doom dai tratti melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti.

I Towards Atlantis Lights sono una nuova band formata da musicisti di un certo nome all’interno della scena doom internazionale.

Il progetto vede all’opera il musicista italiano Ivano Zara (Void Of Silence) alla chitarra e con lui arriva dalla capitale anche il batterista Ivano Olivieri: assieme a loro troviamo un altro nome che tradisce le medesime origini, quello dell’inglese Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade), qui al basso, e del tastierista e cantante greco (ma attivo nella sua carriera soprattutto tra Belgio Olanda e Inghilterra in band come Pantheist, Wijlen Wij, nei Clouds di Daniel Neagoe e, in passato, negli stessi Aphonic Threnody).
Da una simile squadra era lecito attendersi un lavoro di un certo pregio e il risultato non delude affatto le attese: i Towards Atlantis Lights mettono in scena un’idea di funeral death doom dai tratti alquanto melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti.
Dust of Aeons è un lavoro che si protrae per quasi un’ora, con il solo brano iniziale che ne occupa metà dello spazio: The Bunker Of Life si snoda esibendo due aspetti del sound offerto, in quanto presenta una parte tipicamente funeral, con ritmiche bradicardiche ed un lavoro chitarristico volto a tessere magnifiche melodie, alla quale si alternano passaggi con voce pulita che apparentemente sembrano spezzare la tensione ma che, in realtà, sono propedeutici al suo ulteriore incremento ogni volta che tornano a farsi sentire il growl e i più canonici e granitici riff.
Il successivo Babylon’s Hanging Gardens è un brano piuttosto interlocutorio, nel senso che non lascia particolari tracce fungendo di fatto da cuscinetto tra i due episodi chiave del lavoro, ovvero la già citata The Bunker Of Life ed Alexandria’s Library che, forse anche per una maggiore sintesi, si rivela il momento più alto di Dust of Aeons, specie nella sua seconda parte quando Ivan Zara tesse una splendida melodia chitarristica che conduce ad un finale dall’elevato potenziale evocativo.
Greeting Mausolus’ Tomb chiude al meglio un album che è ovviamente rivolto, per le caratteristiche sopra enunciate, agli appassionati di doom più puri, quelli che hanno la pazienza di attendere tutto il tempo necessario alla mole di note riversate nel lavoro di ricomporsi, dopo diversi ascolti, nell’ennesima esperienza musicale in grado di fornire emozioni in quantità.
Detto ciò, sperando che i Towards Atlantis Lights non si rivelino un progetto estemporaneo bensì possano trovare una loro continuità discografica anche negli anni a venite, la sensazione è che questo quartetto di pregevoli musicisti abbia margini per migliorare ulteriormente una proposta già di ottimo livello, sfrondandola di qualche passaggio interlocutorio che affiora qua e là nel corso del lavoro.
Da rimarcare infine il magnifico artwork, anch’esso made in Italy essendo opera di Francesco Gemelli, uno dei grafici più richiesti ed apprezzati del momento.

Tracklist:
1. The Bunker of Life
2. Babylon’s Hanging Gardens
3. Alexandria’s Library
4. Greeting Mausolus’ Tomb

Line-up:
Kostas Panagiotou (Pantheist, Landskap) – Vocals and keyboards
Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade) – Bass
Ivan Zara (Void of Silence) – Guitar
Ivano Olivieri – Drums

TOWARDS ATLANTIC LIGHTS – Facebook

Mournful Congregation – The Incubus of Karma

Chiunque, dovendo scegliere se essere accompagnato nell’Ade a forza di bastonate o tenuto per mano da qualche eterea creatura, opterebbe per quest’ultima eventualità, che è in sostanza proprio quanto decidono di fare i Mournful Congregation, i quali non ci risparmiano certo né dolore né disperazione ma veicolano il tutto in maniera meno aspra rispetto al passato.

Nonostante siano tra coloro che più di altri ci ricordano la caducità dell’esistenza, i musicisti dediti al funeral doom normalmente si prendono tutto il tempo per comporre nuovi dischi, quasi che per loro, al contrario, il tempo a disposizione fosse illimitato.

Da questa che se vogliamo è una bizzarra contraddizione, ne scaturiscono comunque puntualmente dischi capaci di segnare gli appassionati del genere per per molto tempo per cui, per assurdo, basterebbe un solo disco all’anno del livello di questo The Incubus of Karma per colmare anche la minima sensazione di vuoto.
L’ultimo full length dei Mournful Congregation, band australiana unanimemente riconosciuta nell’elite del genere, risale addirittura al 2011 (si trattava del magnifico The Book Of Kings), mentre per trovare altro materiale inedito della band bisogna comunque tornare al 2014, con l’ep Concrescence Of Sophia.
Se qualche minima recriminazione può derivare quindi dall’avarizia compositiva di Damon Good e compagni, bastano poche note di The Indwelling Ascent per perdonare loro ogni peccato passato, presente e futuro: tre minuti di dolenti melodie chitarristiche ci avvolgono comunicando che qualcosa nel modus operandi dei Mournful Congregationi è sicuramente cambiato.
Se Whispering Spiritscapes si snoda a lungo in linea con la produzione passata della band è solo per trarci parzialmente in inganno, perché nel finale del brano ritorna una vis melodica che si ritroverà anche nella successiva The Rubaiyat, chiarendo doverosamente che tutti i sostantivi e gli aggettivi utilizzati vanno riparametrati tenendo conto che si parla pur sempre di funeral doom.
Del resto, credo che chiunque, dovendo scegliere se essere accompagnato nell’Ade a forza di bastonate o tenuto per mano da qualche eterea creatura, opterebbe per quest’ultima eventualità, che è in sostanza proprio quanto decidono di fare i Mournful Congregation, i quali non ci risparmiano certo né dolore né disperazione ma veicolano il tutto in maniera meno aspra rispetto al passato.
La chitarra solista è lo strumento dominante dell’album, e anche quando non resta costantemente sul proscenio giungono repentine quelle aperture che forniscono i brividi di commozione ricercati da chi considera il genere la forma d’arte suprema.
Sono trascorsi 40 minuti di rara intensità, sufficienti a chiunque per ringraziare la band australiana per quanto offerto con questo suo ritorno e, invece, ci attendono ancora tre brani per altrettanti momenti di funeral doom al massimo livello, con uno schema tutto sommato simile a quanto ascoltato precedentemente
Arriva quindi la title track, ovvero una più breve traccia strumentale che regala un oasi di pace con un chitarrismo morbido nel suo alternarsi tra soluzioni elettriche ed acustiche, prima che si ripiombi nuovamente nell’episodio più cupo dell’album, Scripture of Exaltation & Punishment, dove ritroviamo i Mournful Congregation maggiormente ripiegati nella propria introspettiva idea di dolore; anche qui, però, le linee melodiche sono ben presenti in una sorta di crescendo emotivo che annichilisce nella sua dolente bellezza.
Stupiti dal livello di un album di rara intensità e con gli occhi ancora inumiditi, non tutti potrebbero essere pronti per accogliere gli oltre venti minuti di A Picture of The Devouring Gloom Devouring the Spheres of Being, altro brano stupefacente che va creare un continuum emotivo rispetto al precedente: di fronte ad una simile esibizione di maestria nel maneggiare il genere si esauriscono ben presto gli aggettivi e non resta, così,  che lasciar fluire dentro di noi questa musica impareggiabile per le sensazioni che riesce ad evocare.
Quando la maggior parte delle band, dopo oltre due decenni di onorata carriera, e con una status acquisito di maestri assoluti nel proprio campo, si limitano spesso ad inserire il pilota automatico per riproporre album magari validi ma inevitabilmente sbiaditi rispetto a quanto già fatto, i Mournful Congregation pubblicano un capolavoro che resterà ovviamente relegato alla ristretta parrocchia del funeral doom e dei suoi fedeli adepti: Damon Good, Justin Hartwig, Ben Newsome e Tim Call hanno deciso di rendere più esplicito il senso di smarrimento, l’angoscia e la percezione della provvisorietà che è insita in ognuno di noi e che si può esprimere in diverse maniere.
Quella scelta da chi suona doom, come i Mournful Congregation, è una catartica quanto malinconica immedesimazione in un dolore universale che solo pochi, quasi fossero dei medium, sono capaci di fare proprio per poi trasmetterlo in un flusso continuo all’ascoltatore, andando a creare così una sorta di interminabile cerchio empatico.

Tracklist:
1) The Indwelling Ascent
2) Whispering Spiritscapes
3) The Rubaiyat
4) The Incubus of Karma
5) Scripture of Exaltation & Punishment
6) A Picture of The Devouring Gloom Devouring the Spheres of Being

Line-up:
Damon Good : Rhythm & lead guitars, vocals, bass guitars
Justin Hartwig : Lead guitars
Ben Newsome : Bass guitars
Tim Call : Drums, backing vocals

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook

Escape is Not Freedom / dusk Village – Split

Stringato ma interessante split album che vede impegnate due band statunitensi, Escape is Not Freedom e dusK Village.

Stringato ma interessante questo split album che vede impegnate due band statunitensi, Escape is Not Freedom e dusK Village.

Il territorio entro il quale entrambe si muovono è un luogo trasversale che sta fa qualche parte tra noise, sludge e grunge, anche se in effetti le differenze tra le due band appaiono abbastanza marcate, almeno in base a quanto ci è dato ascoltare in questo frangente.
Gli Escape is Not Freedom mostrano due volti piuttosto diversi nella copia di brani a loro disposizione: Boiling Nails è qualcosa di molto vicino ad un noise/sludge dalla buona intensità e con un tiro davvero notevole, mentre We’re Wrecked cambia decisamente le carte in tavola rivelandosi un brano di proto-grunge con voce femminile, bello ma che non aiuta molto a capire quale sia il vero volto della band.
In tal senso appaiono un po’ più leggibili i dusk Village, in virtù di una propensione più ruvida e diretta anche se le differenze tra i due brani offerti sono evidenti anche in questo caso: infatti, se Exolife Civilization Leak si muove su coordinate più rallentate e fangose, rivelandosi il mio brano preferito tra quelli offerti nello split, mentre A Self Fan parte sparato con venature punk hardcore e così si spinge sino al termine.
In sostanza, l’uscita offre più di un motivo di interesse soprattutto perché, inconsciamente o meno, nella proposta di entrambe le band assume un ruolo determinante un’anima grunge sporca e distorta che dimostra ai posteri, qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto quel movimento abbia marchiato non solo gli anni novanta, lasciando un’impronta anche nei decenni a venire e trovando spazio anche in uscite dalle disparate matrici musicali.

Tracklist:
1.Boiling Nails – Escape Is Not Freedom
2.We’re Wrecked – Escape Is Not Freedom
3.Exolife Civilization Leak – dusK Village
4.A Self Fan – dusK Village

Line-up:
Escape Is Not Freedom:
Mike – guitar, vocals
Darrin – drums
Josh – bass

Guest Vocals on “We’re Wrecked” by Emily Jancetic

dusK Village:
SLAV
GIL
FUKS

ESCAPE IS NOT FREEDOM – Facebook

DUSK VILLAGE – Facebook

Cruthu – The Angle Of Eternity

Un lavoro che non supera i confini del mood nostalgico di moda in questi tempi, quindi ad esclusiva degli amanti dell’hard rock tradizionale pervaso da atmosfere doom metal di scuola seventies.

Nella rivalutazione delle sonorità old school, il doom metal entra diritto nella schiera di quei generi a cui il trend ha sicuramente reso giustizia, soprattutto se lo sguardo cade, inevitabilmente sulle sonorità classiche.

Gli anni settanta, decennio d’oro e natale anagrafico per molti generi che vanno a comporre l’universo metal/rock, possono vantare tra i suoi nipoti gli statunitensi Cruthu, quartetto del Michigan attivo dal 2014 e al debutto con The Angle Of Eternity, album che in sé porta attitudine doom metal ed heavy per una proposta che più vintage di così non si può.
Licenziato dalla The Church Within Records, l’album risulta un primo esempio del credo musicale del gruppo: doom metal infarcito di ispirazioni settantiane, vintage e fuori dal tempo quel tanto che basta per accontentare principalmente i reduci dalle battaglie hard rock psichedeliche avvenute quarant’anni fa, tra citazioni occulte e rock di non facile presa ed assolutamente underground.
Si ritorna alle messe sabbatiche di inizio del decennio storico per il rock, anni in cui l’audience si divideva tra le sonorità progressive e quelle più orientate al credo hard & heavy di Black Sabbath ed Uriah Heep, maestri del combo in brani come Seance, per poi sconfinare negli anni ottanta e nella NWOBHM con la conclusiva title track.
Un lavoro che non supera i confini del mood nostalgico di moda in questi tempi, quindi ad esclusiva degli amanti dell’hard rock tradizionale pervaso da atmosfere doom metal di scuola seventies.

Tracklist
1. Bog Of Kildare
2. Lady In The Lake
3. Seance
4. From The Sea
5. Separated From The Herd
6. The Angle Of Eternity

Line-up
Ryan Evans-Vocals
Dan McCormick-Guitar
Erik Hemingsen-Bass
Matt Fry-Drums

CRUTHU – Facebook

Black Road – Black Road

Black Road tiene il passo senza grossi scossoni, il gruppo intona nenie doom tossiche e stregate da pozioni stoner, la chitarra vomita riff sabbathiani e solos hard & heavy che eruttano lava blues, mentre la singer ci trascina ipnotizzati in danze diaboliche.

La nuova ondata dei gruppi dai richiami vintage non si ferma solo all’hard rock classico ma, scavando nel tenebroso e mistico underground, il successo di band come Blues Pills ed Avatarium ha dato nuova linfa anche a quelle realtà che lontano dai riflettori suonano rock psichedelico, doom ed abbondantemente stonerizzato.

I Black Road per esempio sono un quartetto di Chicago fondato da solo un paio d’anni, la discografia vede il 2017 come anno zero, con un live e questo ep in uscita a pochi mesi l’uno dall’altro.
Black Road esce in cassette e vinile per la label olandese DHU Records, mentre la nostrana BloodRock Records curerà un’edizione limitata in cd.
L’album è composto da sei brani nei quali il doom e lo stoner incontrano l’hard rock e la psichedelia, facendo piccoli viaggi mistici a ritroso fino ai primi anni settanta con partenza dalla stazione chiamata From Hell, opener che avanza a passo lento e possente, dove il canto della sirena Suzi Uzi segue lo scorrere lavico delle note.
Black Road tiene il passo senza grossi scossoni, il gruppo intona nenie doom tossiche e stregate da pozioni stoner, la chitarra vomita riff sabbathiani e solos hard & heavy che eruttano lava blues, mentre la singer ci trascina ipnotizzati in danze diaboliche.
Il singolo Bloody Mary e la conclusiva title track sono pregne di umori vintage che, a tratti, tornano come in una vorticosa macchina del tempo verso gli anni novanta e ad un buon mix di doom e stoner tra Cathedral e Kyuss.
Un primo lavoro che sicuramente merita l’attenzione degli appassionati ai quali i è vivamente consigliato.

Tracklist
1.From Hell
2.Bloody Mary
3.Morte
4.Morte (Coda)
5.Red
6.Black Rose

Line-up
Casey Papp – Bass
Robert Gonzales – Drums
Tim M. – Guitars
Suzi Uzi – Vocals, Piano

BLACK ROAD – Facebook

Nekhen – Akhet

Quella offerta da Nekhen è musica che possiede tutte le caratteristiche per far breccia in chi dalle note ricerca nutrimento per la mente e l’anima.

Dopo il riuscito esordio intitolato Entering the gate of the western horizon, ritroviamo Nekhen, musicista italiano alle prese con la il proprio intrigante mix di doom, ambient e musica egizia.

La fascinazione per le sonorità tipiche del paese dei faraoni non è una novità in ambito metal, con i Nile a fare da capiscuola ed una serie di band a seguirne le tracce, sempre però all’insegna di sporadiche contaminazioni che vanno ad inserirsi all’interno di una struttura comunque estrema, death o black che sia.
In questo caso, invece, la musica tradizionale è la base sulla quale poi si diramano le varie pulsioni di Nekhen, il quale in questo caso, rispetto al lavoro precedente introduce maggiori contributi vocali, inclusi quelli femminili a cura di Eleonora B., mentre l’insieme appare ancora più vario e coinvolgente dal primo all’ultimo minuto.
Ovviamente questa mezz’ora di musica è divisa in quattro tracce che richiedono preferibilmente un ascolto continuato, in quanto i brani possiedono un forte legame tematico e musicale che porta a considerarli in maniera naturale come un corpo unico; di fatto, però, la suddivisione tra episodi consente di dire che Invocating Khentiamentiu rappresenta una sorta di lunga ed avvolgente introduzione acustica ad Invocating Bat, vero climax emotivo dell’album grazie a magnifiche intuizioni melodiche, con Invocating Kherti e la conclusiva title track che portano infine sound ad esplorare terreni più cupi, sotto forma di uno sludge doom che si fa più pesante proprio in quest’ultima traccia.
La bravura di Nekhen risiede nella capacità di mantenere stretto il legame con le sonorità etniche esibendo grande competenza e continuità, ed evitando quindi che le due componenti si presentino quasi come dei corpi separati.
Quella offerta in Akhet è musica che possiede tutte le caratteristiche per far breccia in chi dalle note ricerca nutrimento per la mente e l’anima.

Tracklist:
1.Invocating Khentiamentiu
2.Invocating Bat
3.Invocating Kherti
4.Akhet

Line-up:
Nekhen – all isntriuments

Eleonora B. – vocals

NEKHEN – Facebook

Visionoir – The Waving Flame of Oblivion

Un album frizzante e dal grande charme: l’ascolto che ne risulta è incredibilmente piacevole e di assoluto trasporto.

La musica dei Visionoir non è sicuramente di quella che trovi da tutte le parti. Il progetto nasce da un’idea di Alessandro Sicur, che fonda il progetto nel 1998 e lavora duramente a The Waving Flame of Oblivion, quest’album che esce solamente a fine 2017 dopo anni di rielaborazioni e nuovi contenuti.

Attesa lunga in stile (ormai) Tool, ma possiamo piangere da un solo occhio ascoltando i grandi risultati prodotti dal musicista friulano: il suo è un sound non inquadrabile in nessun genere preciso, e nemmeno identificabile da un singolo aggettivo. Questo è certamente il punto di forza del progetto, che propone uno sperimentalismo musicale variegato al 100% , prendendo elementi di post rock, avvertibile in pezzi come Coldwaves e A Few More Steps, progressive e space rock, ma non solo. Il sintetizzatore collabora nella creazione di tutto un universo musicale che schizza in mille direzioni e non è inquadrabile solamente nella categoria rock, per quanto già vastissima: basti ascoltare brani emblematici in tal senso come Shadowplay e Distant Karma.
L’artista esplora tutte le atmosfere possibili provocando nell’ascoltatore qualsiasi emozione meno che la noia. C’è sempre da aguzzare le orecchie durante l’ascolto, per cogliere ogni nuova sonorità introdotta nel viaggio musicale. L’unica band più rinomata, il cui sound è avvicinabile a ciò che il musicista italiano ha fatto, sono gli Arcane Alchemists, accompagnati da altri meno noti al grande pubblico.
Per il momento il nome Visionoir si trova tra questi ultimi ma siamo solo al primo vero e proprio album. Ci auguriamo solo che questo sia l’inizio una produzione più frequente negli anni a venire ma, ovviamente, senza mai cadere nell’errore opposto di sfornare album a raffica, come talvolta vediamo accadere ad altre one-man band.

Tracklist
1. Distant Karma
2. The Hollow Men
3. 7even
4. The Discouraging Doctrine of Chances
5. Shadowplay
6. Electro-Choc
7. Coldwaves
8. A Few More Steps
9. Godspeed Radio Galaxy

Line-up
Alessandro Sicur – Vocals, Keyboards, Piano, Bass, Programming

VISIONOIR – Facebook

Ataraxy – Where All Hope Fades

La proposta di questa ottima realtà estrema chiamata Ataraxy si colloca perfettamente nel doom/death metal e risulta una lenta agonia, tra impietose ed estreme parti death old school e sofferenze senza fine tramutate in cadute negli abissi eterni del doom.

La proposta di questa ottima realtà estrema chiamata Ataraxy si colloca perfettamente nel doom/death metal e risulta una lenta agonia, tra impietose ed estreme parti death old school e sofferenze senza fine tramutate in cadute negli abissi eterni del doom.

Il gruppo spagnolo non è certo nuovo a questi deliri oscuri e macabri: nato a Saragozza dieci anni fa, ha all’attivo un demo, l’ep Curse Of The Requiem Mass, licenziato nel 2010, ed il primo full length dato alle stampe sei anni fa, dal titolo Revelations Of The Ethereal.
La band alterna così dilatate parti doom a ripartenze death, lasciando che le atmosfere horror che pervadono i brani si impossessino dell’ascoltatore, avvolto da un penetrante fetore di carni in decomposizione.
Una catacombe, un abisso senza uscita dove aspettare la fine di ogni sofferenza ed il silenzio della morte, mentre le anime si dannano per trovare una pace irraggiungibile ed i guardiani si accaniscono sui corpi ormai ridotti ad ammassi di carne maciullata.
Un purgatorio, molto vicino all’inferno, raccontato dagli Ataraxy con lunghi brani come Matter Lost In Time o As Uembras d’o Hibierno, in una cornice estrema che ricorda il genere negli anni che vedevano muovere i primi passi i gruppi che hanno fatto storia.
Asphyx, ma anche primi Tiamat nel dna di questa ottima realtà estrema che lascia ai dodici minuti di The Blackness Of Eternal Night il compito di portarci nei meandri dove regnano il male, la sofferenza e la dannazione, tra growl abissali, clean vocals teatrali e sofferte e riff che lasciano in bocca il gusto sanguigno del Gregor Mackintosh di Lost Paradise e Gothic.

Tracklist
1. The Absurdity of a Whole Cosmos
2. A Matter Lost in Time
3. One Last Certainty
4. As Uembras d’o Hibierno
5. The Mourning Path
6. The Blackness of Eternal Night

Line-up
Javi – Vocals, Guitars
Santi – Guitars
Edu – Bass
Viejo – Drums

ATARAXY – Facebook

Polynove Pole – On the Edge of the Abyss

L’album viene eseguito con tale competenza e credibilità da renderlo un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.

Gradito ritorno per i Polynove Pole (Полинове Поле), band che tiene fede ad una ormai consolidata tradizione ucraina in ambito gothic death doom.

Il gruppo di Lviv ha iniziato la propria carriera nello scorso decennio ma, aver pubblicato due ep ed un full length tra il 2008 ed il 2009, è rimasta a lungo in silenzio prima di rifarsi viva con questo nuovo ep, On the Edge of the Abyss, sul quale in teoria non ci sarebbe moltissimo da dire, nel bene e nel male, trattandosi della riproposizione di un modello oramai consolidato da quasi due decenni.
In realtà l’unico dato relativamente negativo è proprio quello legato ad una inevitabile prevedibilità del sound, che non si sposta di una virgola dagli stilemi del genere, incluso il ricorso alla doppia voce (in growl maschile e operistica femminile); in compenso, però, il tutto viene eseguito con tale competenza e credibilità da rendere l’album un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.
I Polynove Pole, infatti, sciorinano cinque brani molto belli nei quali la fa da padrona la bravissima Marianna Laba, con la sua impeccabile impostazione da soprano operistico, un elemento determinante che va ad inserirsi all’interno di un contesto nel quale le quattro canzoni (la quinta è un beve interludio strumentale) sono sapientemente costruite attorno alla dicotomia tra le due voci, rimarcando il pregevole doppio lavoro di Yurii Krupiak alle prese con la chitarra ed il growl.
Valga come esempio e spinta ad approfondire la conoscenza della band, per l’ipotetico ascoltatore, la conclusiva title track, brano sognante, a tratti epico e capace di toccare le giuste corde emotive senza scadere nella stucchevolezza di certe proposte similari.
I Polynove Pole esibiscono nel migliore dei modi le coordinate di un genere nel quale lo spazio per particolari variazioni sul tema è piuttosto ridotto, per cui non resta, per chi lo propone, che focalizzarsi sulla scrittura e sulla concretezza della forma canzone, aspetti riguardo ai quali il gruppo ucraino dimostra ampiamente di sapere il fatto proprio.

Tracklist:
1. Сивий ангел (Grey Angel)
2. Каїнові діти (Cain’s Children)
3. Вогні в тумані (Lights in the Fog)
4. Нічні птахи (The Nightbirds) – Remake 2017
5. On the Edge of the Abyss

Line-up:
Andriy Kindratovich – Bass, Vocals
Yurii Krupiak – Vocals (backing), Guitars
Marianna Laba – Vocals
Sergiy Vladarsky – Drums
Andriy Divozor – Keyboards

POLYNOVE POLE – Facebook