Embrace Of Silence – Where Darkness Swallow The Sun

Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto.

Quasi cinque anni dopo il buon esordio su lunga distanza Leaving The Place Forgotten By Gods ritornano gli ucraini Embrace Of Silence,con il loro eccellente death doom.

All’epoca definimmo quell’album come un’operazione riuscita, in quanto tutto sommato neppure troppo derivativa e dipendente dalle pesanti influenze delle band di riferimento del genere: tale giudizio vale anche per il nuovo Where Darkness Swallow The Sun, nel quale lo stile del gruppo assume contorni ancora più nitidi, benché scevri da ogni tentazione innovativa.
L’album si dipana lungo una serie di tracce dall’incedere oscuramente melodico, con uno sguardo rivolto più alla scuola nordamericana che non a quella scandinava, quindi, per essere sintetici, più affine ai Daylight Dies che non ai Swallow The Sun, benché il titolo dell’album possa suggerire il contrario: alla riuscita del tutto, poi, contribuisce in maniera decisiva quel tocco drammatico che è l’impronta di molte band provenienti dall’ex-URSS.
In un contesto di buona compattezza qualitativa si stagliano la title track, piuttosto movimentata per ritmi e soluzioni melodiche, e la stupenda In The Embrace Of The Stygian River, segnata da un eccellente lavoro chiotarristico che delinea un tema portante davvero struggente.
Proprio le sei corde assumono il totale controllo della situazione, in virtù della rinuncia sostanziale alle tastiere, che venivano invece utilizzate più generosamente in Leaving The Place Forgotten By Gods: questo rende il suono senz’altro più roccioso ed asciutto senza fargli perdere, però, i tipici connotati dolenti anzi, attribuendogli forse anche una maggiore incisività.
Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto; come per altre band del settore i tempi molto dilatati tra un’uscita e l’altra con aiutano a tenere caldo il nome, per cui una nuova release in tempi leggermente più ristretti potrebbe avere una doppia valenza, quella di fissare nella mente degli appassionati il monicker Embrace Of Silence, oltre alla possibilità di accelerare quell’ulteriore salto di qualità che pare essere nelle corde della valida band ucraina.

Tracklist:
1. The DesertOf Your Mind
2. Where Darkness Swallow The Sun
3. Faceless
4. Last Winter
5. Cyclic Motions
6. Idols Defame Your Faith
7. In The Embrace Of The Stygian River

Line-up:
Eugeniy Voronchihin – Bass
Yuriy Sivkov – Guitars
Igor Zhurzha – Vocals, Guitars
Vladislav Fatkhullin – Drums
Dennis Kutsy – Guitars

Nailed To Obscurity – King Delusion

King Delusion ha tutte le caratteristiche per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.

King Delusion è il terzo album dei tedeschi Nailed To Obscurity in circa un decennio di carriera.

Indubbiamente i ragazzi della Bassa Sassonia devono essere soliti a prendersi il loro tempo prima di dare alle stampe un nuovo disco, ma tutto sommato i frutti compensano le attese; intendiamoci, qui non si parla di un lavoro epocale e capace di sposate gli equilibri all’interno del death doom melodico, ma sicuramente siamo in presenza di un’opera di indubbio spessore esecutivo e con più di un passaggio dal grande impatto.
Se vogliamo, quello che potrebbe esser il punto di forza dei Nailed To Obscurity, ovvero l’incontro tra il death melodico di scuola scandinava e quello venato di doom, potrebbe rivelarsi anche un aspetto negativo, rischiando di non accontentare i fans più intransigenti in nessuna delle due correnti.
Al di là di questo, King Delusion ha tutte le caratteristiche, invece, per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.
Provando a shakerare con una certa pervicacia Novembres Doom, Dark Tranquillity, Opeth e Swallow The Sun, quelle che ne salta fuori è a grandi linee il contenuto di quest’album, che vede i suoi picchi in Memento e Devoid, brani che si avvolgono di linee chitarristiche decisamente coinvolgenti, mentre il resto della tracklist non delude e non esalta, lasciando comunque sensazioni abbastanza positive al termine dell’ascolto.
Se proprio devo fare un appunto ai Nailed To Obscurity è la mancanza di una certa profondità, compensata non del tutto dalla padronanza del genere: il re non risulta affatto una delusione, ma alla lunga alcune delle caratteristiche evidenziate impediscono all’album di raggiungere l’eccellenza nonostante, ripeto, l’ascolto si riveli alquanto gradevole.

Tracklist:
1.King Delusion
2.Protean
3.Apnoea
4.Deadening
5.Memento
6.Uncage My Sanity
7.Devoid
8.Desolate Ruin

Line-up:
Jan-Ole Lamberti – Guitars
Volker Dieken – Guitars
Jann Hillrichs – Drums
Carsten Schorn – Bass
Raimund Ennenga – Vocals

NAILED TO OBSCURITY – Facebook

Duel – Witchbanger

Ascoltando Witchbanger si potrà tornare integralmente tornare indietro nel tempo, o anche solo vivere una grande esperienza sonora, degustando un hard rock puro, con melodie incredibili.

Tornano i texani Duel, uno dei migliori gruppi di rock doom occulto che ci siano in circolazione.

Il loro suono è un affascinante rielaborazione di quel suono anni settanta tra hard rock e doom, aggiungendoci molto di personale. I Duel catturano l’ascoltatore con un impasto sonoro ben composto, con la giusta miscela di durezza e melodia. Nella composizione del disco i texani non fanno giustamente eccedere nessuna componente, anzi lasciano il giusto spazio a tutto, lavorando come un vero collettivo sonoro, ed il risultato è eccellente. Il gruppo può annoverare un fedele e numeroso seguito, coltivato sia grazie ai dischi che con i loro concerti. Certamente gli anni settanta fanno la parte del leone in questo suono, ma vi sono anche apprezzabili elementi moderni. I Duel vi avvicinano con il loro suono sinuoso e sensuale, per portarvi in una dimensione magica e occulta, perché qui si parla anche di questo, e siamo in un universo ben diverso dal nostro. Qui il piacere scorre benigno, attraverso riff di chitarra ed accelerazioni sinceramente seventies che sembravano essere ormai perdute nell’orgia musicale odierna. Ascoltando Witchbanger si potrà tornare integralmente tornare indietro nel tempo, o anche solo vivere una grande esperienza sonora, degustando un hard rock puro, con melodie incredibili. Rimane notevole il fatto che questo sia solo il secondo disco del gruppo, anche se non si tratta certo di musicisti esordienti, dato che due membri erano negli Scorpion Child. Occultismo, sangue, e tanto hard rock puro e senza compromessi. Gran disco.

TRACKLIST
1.Devil
2.Witchbanger
3.The Snake Queen
4.Astro Gypsy
5.Heart Of The Sun
6.Bed Of Nails
7.Cat’s Eye
8.Tigers And Rainbows

LINE-UP
Tom Frank – guitar,vocals
Shaun Avants – bass, vocals
JD Shadowz – drums
Jeff Henson – guitar

DUEL – Facebook

Dool – Here Now, There Then

La proposta dei Dool risulta profonda senza sconfinare in soluzioni cervellotiche, e il tutto viene eseguito in maniera esemplare: la spiccata varietà sonora non diviene sinonimo di dispersività, ma si rivela l’elemento decisivo per rendere Here Now, There Then un lavoro adatto ad ascoltatori dal differente background.

Dopo aver fatto conoscenza con i Dool l’anno scorso, in occasione dell’uscita del singolo Oweynagat non era difficile presagire che il loro primo lull length avrebbe potuto lasciato il segno.

La band olandese mantiene le promesse e rafforza l’impressione, avuta allora, di trovarsi al cospetto di un gruppo di musicisti di livello superiore: se poteva esserci un minimo dubbio in considerazione del fatto che azzeccare un singolo brano capita a molti, poi incapaci di mantenere uno stesso standard su lunga distanza, era stata la versione acustica del brano a farmela considerare una vera e propria epifania di un nuovo talento.
Oweynagat è presente in Here Now, There Then solo nella sua versione canonica ed il lavoro è, appunto, del tutto all’altezza del suo brano trainante: come detto all’epoca, non deve destare stupore neppure il fatto che tale opera sia pubblicata da una band all’esordio, visto che la line up vede all’opera protagonisti piuttosto conosciuti della scena underground olandese, tra cui membri di band come The Devil’s Blood e Gold, oltre alla più nota Ryanne van Dorst.
Non c’è dubbio che una vocalist cosi versatile e dalla spiccata personalità sia un vero valore aggiunto, ma non va sottovalutato l’operato dei suoi degnissimi compagni di viaggio, musicisti davvero sopraffini.
Anche i Dool, come altri gruppi trattati di recente, sono difficili da catalogare, ma affermare che il loro sound, a grandi linee, si snoda lungo coordinate doom, dark e psichedeliche non sarebbe un peccato, per quanto comunque non del tutto appropriato.
La bellezza di Here Now, There Then sta anche nel suo cambiare toni da una traccia all’altra, con episodi trascinanti e dallo sviluppo in progressivo crescendo, come l’opener Vantablack e la già citata Oweynagat, altri magari più ariosi e dal chorus incisivo (Golden Serpents e In Her Darkest Hour), per giungere a canzoni che rimandano in maniera più decisa al gothic dark (She Goat) o alle atmosfere cupe del doom (The Alpha).
La proposta dei Dool risulta profonda senza sconfinare in soluzioni cervellotiche, e il tutto viene eseguito in maniera esemplare: la spiccata varietà sonora non diviene sinonimo di dispersività, ma si rivela l’elemento decisivo per rendere Here Now, There Then un lavoro adatto ad ascoltatori dal differente background.
I Dool, pur a fronte di una storia ancora breve, stanno già ottenendo riscontri importanti ed un’attenzione che li porterà senz’altro ad occupare posizioni di prestigio in diversi festival estivi, in primis al Prophecy Fest di fine luglio: non c’è davvero nulla di fortuito in tutto questo …

Tracklist:
1.Vantablack
2.Golden Serpents
3.Words On Paper
4.In Her Darkest Hour
5.Oweynagat
6.The Alpha
7.The Death Of Love
8.She Goat

Line-up:
Ryanne van Dorst – Vocals/Guitar
Micha Haring – Drums
Job van de Zande – Bass
Reinier Vermeulen – Guitar
Nick Polak – Guitar

DOOL – Facebook

Lucifer’s Fall – II Cursed & Damned

Il nuovo album dei Lucifer’s Fall alza non poco il giudizio su questo quintetto di doomsters australiani, rendendosi più che appetibile per gli amanti della musica del destino di stampo classico.

Tornano con il secondo album sulla lunga distanza i doomsters australiani Lucifer’s Fall: II Cursed & Damned segue il primo album omonimo uscito tre anni fa, anche se ci eravamo occupati del gruppo di Adelaide solo in occasione dell’uscita dell’ep Fuck You We’re Lucifer’s Fall lo scorso anno.

Le cose cambiano notevolmente rispetto a quella che era, di fatto, una raccolta di brani in versione demo, più tre inediti che non avevano impressionato il sottoscritto, mentre alla riprova su lunga distanza la band ne esce molto meglio, e l’album si può certamente considerare un buon esempio di heavy doom sulla scia di Pentagram, Candlemass , Count Raven e degli onnipresenti Black Sabbath.
La produzione gioca un ruolo fondamentale per l’ascolto del cd, essendo stata davvero poco soddisfacente nel lavoro precedente e rivelandosi invece più esplosiva oggi, specialmente per quanto riguarda le ritmiche.
Dell’ep precedente vengono riprese l’inno (Fuck You) We’re Lucifer’s Fall e l’ottima Mother Superior, che funge da opener, il resto dell’album sono brani scritti per l’occasione e che, come da tradizione Lucifer’s Fall, spaziano dal lentissimi e liturgici esempi di doom classico (Cursed Priestess, The Mountain Of Madness e l’ evocativa The Necromancer), a tracce che si specchiano nell’ hard & heavy settantiano rifacendosi il trucco con pennellate derivanti dal decennio successivo, valorizzandole con bordate di doom dai tratti epici (Mother Superior, The Invocator/Cursed Be Thy Name).
Come detto la storia cambia non poco rispetto all’ep, con la produzione che valorizza il buon songwriting del gruppo ed una raccolta di brani che, dall’opener passando per l’epic doom di The Mountain Of Madness e la lunga The Necromancer alzano non poco il giudizio su questo quintetto di doomsters australiani, rendendo II: Cursed & Damned un ascolto consigliato agli amanti della musica del destino di stampo classico.

TRACKLIST
1. Mother Superior
2. Damnation
3. The Mountain of Madness
4. Cursed Priestess
5. (Fuck You) We’re Lucifer’s Fall
6. The Necromancer
7. Sacrifice
8. The Invocator / Cursed Be Thy Name
9. Homunculus

LINE-UP
Deceiver – Bass, Guitars, Vocals
Unknown and Unnamed – Drums
Cursed Priestess – Bass
The Invocator – Guitars
Heretic – Guitars

LUCIFER’S FALL – Facebook

Marche Funèbre – Into The Arms Of Darkness

Il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se non mancano margini di ulteriore miglioramento.

I belgi Marche Funèbre appartengono a quella tipologia di band che hanno avuto una crescita graduale nel corso degli anni.

Se il primo lavoro su lunga distanza, To Drown, aveva ricevuto pareri discordanti, Root Of Grief aveva già mostrato una progressione importante che non era però ancora sufficiente per portare il gruppo fiammingo al livello delle migliori realtà europee del death doom: l’operazione riesce con questo buonissimo Into The Arms Of Darkness, per la soddisfazione degli estimatori del genere.
Va detto subito che l’album ruota indubbiamente attorno ad un brano magnifico come Lullaby of Insanity, che gode di soluzioni melodiche di gran pregio e si imprime con un certo agio nella memoria, nonostante la sua lunghezza sfiori il quarto d’ora (condivisibile al 100% la scelta di abbinarvi un riuscito video); il risultato è ottimale grazie alle soluzioni brillanti che ben si sposano con l’interpretazione vocale versatile e sentita di Arne Vandenhoeck, con l’unico neo di un break centrale recitato che, per quanto funzionale a livello lirico, finisce inevitabilmente per spezzare il pathos del brano.
A proposito del vocalist, è apprezzabile la sua capacità di districarsi con disinvoltura tra growl, scream e clean vocals, anche se queste ultime non sempre sono stabili per intonazione, ma ciò viene compensato da una spiccata carica evocativa; il riferimento naturale a livello stilistico non può che essere comunque Stainthorpe, per il tipico incedere cantilenante che tutti noi abbiamo imparato ad amare.
Del resto l’interpretazione del genere dei Marche Funèbre è quanto mai ortodossa e trae linfa, appunto, dalla tradizione del death doom albionico, per conferirvi poi una certa vis melodica espressa dal pregevole lavoro di Peter Egberghs alla chitarra solista, ma rinunciando all’uso delle tastiere, strumento che in certi frangenti si sarebbe rivelato utile per riempire un sound talvolta troppo asciutto (come per esempio nel brano di chiusura The Garden of All Things Wild).
Detto ciò, Into The Arms Of Darkness è un disco che parte con il piede giusto fin dall’opener Deprived e così si snoda, prima tramite un’altra traccia dall’andamento simile (Capital of Rain) e contrassegnata da sempre buone linee melodiche, poi con un brano relativamente differente per ritmiche e costruzione come Uneven, carico di tensione nella sua parte iniziale per poi stemperarsi in un lento e più tradizionale deflusso sonoro.
L’episodio conclusivo è invece ingannevole, perché per 2/3 del suo sviluppo appare troppo ripiegato sulle posizioni dei My Dying Bride nella loro versione più statica, ma si riscatta ampiamente con una parte finale dall’elevata emotività: in ogni caso, gli sporadici cali risultano un peccato veniale allorché inseriti nel contesto di un’opera dalla durata corposa, non andando ad inficiarne in alcun modo la resa complessiva.
Sebbene perfettibile in qualche frangente, il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se ritengo che ci siano abbondanti margini per fare ancora meglio: l’importante monicker prescelto pesa un poco sulle spalle dell’ottima band belga, creando negli appassionati elevate quanto inevitabili aspettative che, comunque, in quest’occasione sono state ampiamente mantenute.

Tracklist:
1. Deprived (Into Darkness)
2. Capital of Rain
3. Uneven
4. Lullaby of Insanity
5. The Garden of All Things Wild

Line up:
Dennis Lefebvre – Drums
Peter Egberghs – Guitars, Vocals
Kurt Blommé – Guitars
Arne Vandenhoeck – Vocals
Boris Iolis – Bass, Vocals

MARCHE FUNEBRE – Facebook

Red Harvest – HyBreed

The Soundtrack to the Apocalypse: ristampa fondamentale per una band geniale e avvincente, da maneggiare con cura …

Ogni anno il mondo musicale è sommerso da grandi quantità di materiale e diventa sempre più difficile, anche per chi si diletta come “cercatore d’oro”, seguire tutte le uscite, nuove o ristampe che siano; in questo caso rischia di passare inosservata la reissue di un autentico capolavoro della leggenda underground norvegese Red Harvest, band attiva fin dal lontano 1989 con il demo Occultica, con il suo suono claustrofobico figlio di commistioni industrial, death, doom e ambient.

La ristampa in questione, Hybreed, presentata in un elegante confezione accompagnata da una copertina virata rosso deserto e con un secondo cd contenente un concerto reunion del 2013, presenta il loro apice creativo, anche se i successivi quattro full esalteranno e completeranno il loro percorso artistico. L’opera, uscita nel 1996 per Voices of Wonder, si articola su undici brani che presentano un grande varietà di suoni miscelati sapientemente tra loro, a partire dal opener Mazturnation, breve, ma intenso urlo ribelle di entità aliene alla natura bizzarra, per poi proseguire con il lento cammino di un’anima ruggente in Lone Walk; l’incipit di questa opera è già magistrale ma è con il prosieguo dei brani che si rimane stupefatti di fronte alla magnificenza regalataci da cinque grandi artisti: Mutant, urgente messaggio da un futuro graffiante e oscuro, After All, quattro minuti in cui sembrano scontrarsi oscuri eserciti di anime bruciate che ci narrano di inferni micidiali, l’oasi elettroacustica lugubre e metropolitana di Ozrham, screziata da fredde percussioni anticipa lo zenith On sacred ground, dove una maestosa melodia si apre lentamente in un mondo pesante, plumbeo e greve: un brano veramente magnifico! La materia fluttuante e le cascate laviche che accompagnano The Harder they fall trovano fugace quiete nell’ottavo brano Underwater, dove il lento salmodiare è squarciato da strali improvvisi di oscura luce; gli ultimi tre brani, Monumental, In deep (sinistra ambient) e The Burning wheel, portano a completa sublimazione l’arte di una band che tanto ha dato e poco o niente ha ricevuto. Ripetuti ascolti porteranno assuefazione e gioveranno allo spirito in questi tempi privi di certezze; la promessa da parte della band di un comeback discografico nel 2017 ci lascia speranzosi di poter ascoltare altre meraviglie.

TRACKLIST
1.Maztürnation
2.The Lone Walk
3.Mutant
4.After All…
5.Ozrham
6.On Sacred Ground
7.The Harder They Fall
8.Underwater
9.Monumental

CD2
1.In Deep
2.The Burning Wheel
3.Live BlastFest 2016
4.Omnipotent
5.The Antidote
6.Hole in Me
7.Godtech
8.Cybernaut
9.Mouth Of Madness
10.Sick Transit Gloria Mundi
11.Absolut Dunkel-Heit

LINE-UP
Jimmy Bergsten – Vocals, Guitars, Keyboards
Cato Bekkevold – Drums
Thomas Brandt – Bass
Ketil Eggum – Guitars
Lars Sørensen – Samples, Keyboards

RED HARVEST – Facebook

Frowning – Extinct

Un’ora di ottima musica che arriva a consolidare le posizioni del nome Frowning tra le realtà di spicco del funeral doom del nuovo secolo.

Tre anni dopo l’ottimo Funeral Impressions ritorna Val Atra Niteris con il suo progetto funeral doom Frowning.

Il nuovo parto si intitola Extinct ed appare quale naturale sviluppo di quel cammino intrapreso dal musicista tedesco all’inizio del decennio, attraverso alcuni singoli prima di affacciarsi con decisione sulla scena con lo split album del 2014 in compagnia degli Aphonic Threnody.
Se parlare di evoluzione nel funeral potrebbe essere improprio, non lo è invece utilizzare quale parola chiave “focalizzazione”, ovvero l’ideale passo verso il raggiungimento della perfezione formale e compositiva del genere.
Extinct rappresenta questo passaggio nel percorso dei Frowning: il funeral qui è interpretato in maniera quanto mai ortodossa ma non calligrafica e se l’opener Nocturnal Void è il brano che offre i maggiori spunti dal punto di vista melodico, nelle successive e più ripiegate su sé stesse Encumbered By Vermin e Veiled In Fog il sound mantiene il suo incedere dai ritmi bradicardici, trovando poi la sua quintessenza in Buried Deep, traccia di venti minuti che si pone quale manifesto musicale del musicista della Sassonia.
Le influenze nei Frowning sono molteplici, ma nessuna di esse appare particolarmente marcata: la lentezza portata talvolta alle estreme conseguenze è senz’altro riconducibile ai connazionali Worship, mentre il senso melodico ed atmosferico, più che a fonti di ispirazioni dichiarate e ben presenti quali Mournful Congregation ed Evoken, paiono essere assimilabili a campioni del funeral emotivo quali Ea o Eye Of Solitude; la bontà del lavoro di Val Atra Niteris risiede appunto nel sapere fondere con maestria tutto il vissuto del genere, per poi riversarlo in un modus compositivo che si trasforma in un’esibizione pressoché perfetta del genere (con il raggiungimento, appunto, di quell’obiettivo di ci si diceva in precedenza).
A livello soprattutto di curiosità va citata la versione della celeberrima Marcia Funebre di Chopin (volendo, lo si potrebbe considerare “il primo brano funeral della storia”, ma qualcuno più ferrato di me nella musica classica magari mi confuterà scovando qualcosa di anteriore…) anche se, personalmente, l’avrei omessa lasciando che l’album si chiudesse con le ultime note della splendida Buried Deep.
Poco male, quando resta quasi un’ora di ottima musica che arriva a consolidare le posizioni del nome Frowning tra le realtà di spicco del funeral doom del nuovo secolo.

Tracklist:
1.Nocturnal Void
2.Ecumbered By Vermin
3.Veiled In Fog
4.Buried Deep
5.Frederic Chopin’s Marche Funebre

Line-up:
Val Atra Niteris

FROWNING – Facebook

Moaning Silence – Fragrances from Yesterdays

Fragrances from Yesterdays è una breve quanto esaustiva dimostrazione di un’ulteriore crescita da parte dei Moaning Silence.

Dopo il buon esordio A World Afraid of Light, full length datato 2015, ritornano i greci Moaning Silence, gothic doom band guidata da Christos Dounis, con questo ep intitolato Fragrances from Yesterdays.

Rispetto all’uscita precedente va registrato un cambio di line up tutt’altro che marginale, visto che riguarda la voce femminile, oggi affidata ad Eleni Kapsimali che va a sostituire Emi Path; pur essendo quest’ultima dotata di un buon timbro, ritengo che la nuova entrata offra quel qualcosa in più per esaltare al meglio l’afflato melodico che il gothic metal dei Moaning Silence offre con sempre maggiore continuità.
Come detto per il suo predecessore, il sound del gruppo ellenico è assolutamente ancorato agli stilemi del genere, ma ciò avviene in maniera così competente e gradevole che non si può fare a meno di apprezzarne l’incedere malinconico asservito ad una forma canzone sempre ben delineata.
Ogni brano, così, gode di una sua precisa fisionomia, sia quando i ritmi si fanno più intesi e la voce di Christos diviene aspra nel duettare con Eleni (Before The Dawn e Just Another Day), sia nel momento in cui il sound si fa più cullante e la melodia prende decisamente il sopravvento (Flaming Fall e Summer Rain, tracce baciate da chorus davvero splendidi).
Qualche dubbio lo lascia solo la scelta di coverizzare Yesterday, eseguita comunque ottimamente e resa in maniera tutto sommato abbastanza fedele, soprattutto perché l’andare a confrontarsi con certi monumenti musicali ha sempre qualche controindicazione, non fosse altro per il fatto che, al limite, l’operazione può solo togliere e non aggiungere qualcosa a chi vi si cimenti.
Detto questo, Fragrances from Yesterdays è una breve quanto esaustiva dimostrazione di un’ulteriore crescita da parte della creatura di Christos Dounis, coadiuvato anche stavolta dal batterista Vaggelis X e, soprattutto, dal ben noto Bob Katsionis a sovrintendere la produzione e a fornire il suo contributo fattivo come bassista e tastierista.
Il segreto dei Moaning Silence, in fondo, risiede in una ricetta all’apparenza elementare, ovvero quella che prevede un approccio al genere lineare e volto ad andare dritto al cuore dell’ascoltatore, senza ricorrere ad artifici particolari ma badando solo a creare delle belle canzoni. Facile? Se così fosse ci riuscirebbero tutti …

Tracklist:
1.Entering The great Night
2.Before The Dawn
3.Just Another Day
4.Yesterday
5.Flaming Fall
6.Summer Rain

Line-up:
Eleni Kapsimali – Vocals
Christos Dounis – Guitars, Vocals
Vaggelis X – Drums
Bob Katsionis – Bass, Keyboards

MOANING SILENCE – Facebook

The Replicate – The Selfish Dream

Questo lavoro merita un minimo di interesse, ma per la prossima volta speriamo in qualche ragguaglio in più per conoscere meglio i protagonisti di cotanto dolore musicale.

Capita spesso che arrivino album di band che probabilmente giocano con il mistero, oppure sono solo composte da sadici musicisti che si divertono a mettere in difficoltà chi cerca di supportarli, anche a costo di perdere pomeriggi interi per trovare anche la più semplice delle informazioni, come per esempio la line up o addirittura la tracklist.

Sembra una stupiggine, ma per chi cerca di fare le cose per benino, dando in pasto ai lettori un articolo il più completo possibile, diventa un’avventura nei meandri del web, soprattutto quando non si trova alcunché neppure sulla pagina Facebook del gruppo alla voce informazioni.
Un peccat,o perché poi ci si trova al cospetto di lavori che meritano un accurato approfondimento come questo ep di quattro tracce opera della band proveniente dalla California ma guidata dal musicista indiano Sandesh Nagaraj, aiutato da un manipolo di colleghi della scena estrema e protagonista di questi dieci minuti di death metal estremo, paranoico e totalmente libero da vincoli, che rispecchia l’attitudine morbosa dei Morbid Angel, avvicinandosi terribilmente agli Obituary del fratelli Tardy, ma riveduto con una personalità ed un impatto sopra le righe.
Sono solo dieci minuti certo, ma l’atmosfera che si respira è soffocante e pregna di pazzia, i brani sono attraversati da una vena che dal death metal passa al doom, tra accelerazioni e rallentamenti in un clima di annichilente tortura mentale.
Cercatevi questo lavoro perché merita un certo di interesse, ma per la prossima volta speriamo in qualche ragguaglio in più per conoscere meglio i protagonisti di cotanto dolore musicale.

TRACKLIST
1.Chainsaw Of God
2.Eugenicide
9.The Saline
4.A Selfish Dream

LINE-UP
Sandesh Nagaraj – Guitar and Bass
Kaitie Sly – Bass on Eugenicide
Ray Rojo – Drums
Morgan Wells – Vocals/Lyrics on Chainsaw Of God
Jordan Nalley – Vocals/Lyrics on Eugenicide
Arun Natrajan – Vocals/Lyrics on The Saline
William Von Arx – Guitar Solo on Chainsaw Of God

THE REPLICATE – Facebook

Ever Circling Wolves – Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom

Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.

Gli Ever Circling Wolves arrivano da Helsinki e, quindi, la loro provenienza costituisce una sorta di marchio di qualità quando si parla di death doom dalle inclinazioni melodiche.

Nonostante ciò, le presumibili forti influenze di Swallow The Sum e co. non si fanno sentire più di tanto, perché i nostri prediligono un approccio piuttosto particolare, affidandosi per lo più ad un riffing secco e ritmato e rinunciando sostanzialmente all’apporto delle tastiere. Anche per questo il lavoro, cosi come il sound della band, appare saltellante e talvolta dispersivo ad un primo ascolto: non a caso il meglio lo si percepisce proprio negli episodi più convenzionali, quelli in cui il sound rallenta lasciandosi guidare dalle melodie chitarristiche.
Emblematica in tal senso è la traccia finale These Are Ashes, These Are Roots, perfetta esibizione di death doom dolente e malinconico, ma tutto questo non deve far pensare che il resto del lavoro sia trascurabile: semplicemente Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.
L’operazione riesce piuttosto bene, visto che il death doom del gruppo di Helsinki, screziato da intriganti sfumature sludge (Haunted) e post metal (Challenger Deep), convince non poco a lungo andare, anche se poi sono comunque gli episodi più “classici” a risaltare per il loro carico melodico ed emotivo (assieme alla già citata These Are Ashes, These Are Roots, va segnalata anche In The Trench).
Molto interessante anche una canzone come Lenore,dallo sviluppo particolare visto che, dopo una metà fatta di un riffing abbastanza compatto si apre in una parte corale in stile Novembers Doom, per poi defluire in un bel crescendo di chiatarra, elettrica prima ed acustica infine.
L’album ha avuto una gestazione lunga, dato che parte dei brani trova la sua genesi all’inizio del decennio, subito dopo l’uscita del full length d’esordio The Silence From Your Room, e questo fa pensare che i diversi rivoli stilistici rinvenibili nel lavoro siano dovuti all’inevitabile trascorrere del tempo, oltre che all’evolversi come musicisti da parte di Otto Forsberg ed Henri Harell.
In definitiva, Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom è un buonissimo disco (oltre che un bel titolo), che necessità però di qualche ascolto in più rispetto al dovuto per coglierne l’essenza e, magari, imparare davvero come smettere di preoccuparsi, accettando il lato oscuro dell’esistenza …

Tracklist:
1. Sunrise Has Gone
2. Coeur
3. Haunted
4. In The Trench
5. Challenger Deep
6. Deeper
7. Lenore
8. Ibn Qirtaiba
9. These Are Ashes, These Are Roots

Line up:
Otto Forsberg – Guitar
Henri Harell – Guitar, Vocals
Niko Karjalainen – Drums
Sami Nevala – Bass

EVER CIRCLING WOLVES – Facebook

Distressful Project – Fucked Up Songs

Il sound, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo.

Fucked Up Songs, nonostante risulti quale secondo full length di questo duo russo, è in realtà una nuova versione del precedente Neverending Pain, del quale ricalca fedelmente la scaletta mantenendone in comune persino la copertina.

Inoltre, per quanto le tracce siano state oggetto di una revisione, il materiale ivi contenuto è stato composto quasi dieci anni fa, quindi è difficile stabilire quanto possa essere indicativo delle inclinazioni attuali della band.
Il sound, comunque, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo, visto che la canzone migliore del lotto è per distacco la conclusiva Blindness, che non a caso è quella che più di altre affonda con più decisione le radici nel doom più estremo, con il suo incedere rallentato sorretto da evocative tastiere e da un bellissimo lavoro chitarristico.
Sullo stesso filone si va a collocare anche At Eternity’s Gate, altra ottima traccia in cui l’ottimo growl ne ammanta di oscurità le trame dolenti meglio di quanto non avvenga con le clean vocals.
Il resto dell’album viaggia invece su coordinate più canonicamente gothic, rievocando a tratti qualcosa dei primi Evereve, ma con una vena drammatica ed un enfasi vocale di molto inferiore, offrendo comunque canzoni pregevoli come Skotodini, Soulless e Paranoia.
Pur non risultando un’opera imprescindibile, Fucked Up Songs (non un gran titolo, peraltro, meglio quello precedente) mostra a tratti la buona qualità compositiva del duo composto da Alextos e Yanis e, in considerazione di quanto detto in fase introduttiva riguardo al periodo di composizione dell’album, non è escluso che un eventuale prossimo lavoro possa mostrare un volto diverso o comunque più definito dei Distressful Project.

Tracklist:
1….
2.Tristia
3.Skotodini
4.At Eternity’s Gate
5.The Curse
6.Volition
7.Twilight
8.Soulless
9.Paranoia
10.Blindness

Line-up:
Alextos – Vocals, Bass, Programming
Yanis – Vocals, Guitars, Keyboards, Programming

Bathsheba – Servus

“Open your eyes,open your mind”un gioiello di heavy,dark doom da una giovane realta’che promette meraviglie.

Un grande, atteso, esordio quello dei Bathsheba, quartetto dedito a un evocativo, atmosferico effluvio di arte doom.

Nati nel 2014 e già autori di un demo e di un EP (Sleepless Gods), i belgi arrivano sulla magnifica Svart Records a questo opus di spettrale heavy doom: i testi si immergono in storie di occultismo e il loro suono è imbevuto di pura arte doom con un suono denso, avvolgente, lento, spirituale già a partire dall’opening Conjuration of Fire, che scalda gli animi preparandoci a ulteriori meraviglie; queste immediatamente emergono dal secondo brano Ain Soph dove un inizio dalle forti tinte black si sfibra in un arcigno heavy doom accompagnato dalla voce di Michelle Nocon, vocalist anche nei Death Penalty di Gaz Jennings, chitarra dei mai dimenticati Cathedral, che intona litanie sinistre modulando le sue vocal su toni ora aspri ora soavi, e la presenza di un sax accresce e arricchisce l’atmosfera opprimente creata dalle chitarre per un brano notevole da ascoltare a lungo.
Le altre quattro tracce sono ricche di sfumature, sempre rimanendo all’interno della musica del “destino”, con la ammaliante voce di Michelle che può ricordare Jex Thoth, altra grande female vocalist, e il suono oscuro, mastodontico, ricco delle chitarre che si librano in assoli misurati ed evocativi.
Un’atmosfera cupa, ben resa dalla ottima produzione, penetra profondamente nelle ossa regalandoci tre quarti d’ora di intenso piacere che porta assuefazione e ci induce a continui assaggi: la final track dal suggestivo titolo I, at the end of everything, con i suoi aromi darkwave, suggella infine una grande opera da un band che promette ulteriori meraviglie.

TRACKLIST
1. Conjuration of Fire
2. Ain Soph
3. Manifest
4. Demon 13
5. The Sleepless Gods
6. I at the End of Everything

LINE-UP
Raf Meuken Bass
Jelle Stevens Drums
Dwight Goosens Guitars
Michelle Nocon Vocals

BATHSHEBA – Facebook

Until Death Overtakes Me – Antemortem

Le atmosfere che troviamo in Antemortem sono plumbee ma non soffocanti e anche i momenti più vicini all’ambient mantengono un incedere più dolente che apocalittico, confacendosi al tema di fondo trattato nel lavoro.

Until Death Overtakes Me è uno dei diversi progetti che vede protagonista il musicista belga Stijn Van Cauter, e tra questi e senz’altro il più aderente alle coordinate tipiche del funeral doom.

Le atmosfere che troviamo in Antemortem sono plumbee ma non soffocanti e anche i momenti più vicini all’ambient mantengono un incedere più dolente che apocalittico, confacendosi al tema di fondo trattato nel lavoro, che mette sempre in primo piano la morte ma, questa volta, non tanto come una mostruosità incombente bensì quale naturale approdo di un percorso che conduce ad una sorta di accettazione della sua ineluttabilità.
Van Cauter, per descrivere questo, utilizza due tracce risalenti allo scorso decennio (Antemortem e Days Without Hope) e due di produzione di poco precedente all’uscita dell’album: Antemortem non risente del possibile stacco stilistico derivante dal logico evolversi del musicista belga a livello compositivo ma anzi, lo rende un punto di forza che consente all’ascoltatore di entrare maggiormente in simbiosi con l’autore ed il suo approccio alla materia.
I ventiquattro minuti di Before e gli undici di di Days Without Hope sono fondamentalmente complentari, con il loro penoso incedere, laddove sonorità avvolgenti vengono percosse dai regolari e violenti spasmi provocati dall’unisono e bradicardico palesarsi di riff e percussioni.
The Wait, altra traccia che supera i venti minuti, rappresenta con il suo crescendo il picco dello stato emotivo, evocando la tensione spasmodica che precede una consapevole rassegnazione, ben rappresentata dalla conclusiva Inevitability, nella quale le strutture tratteggiano atmosfere solennemente consolatorie.
Arrivato a sette anni di distanza dal precedente full length, sesto ed ultimo di una prima fase di carriera molto prolifica per il progetto Until Death Overtakes Me, e inframmezzato da una serie di singoli (poi raccolti nella compilation Well Of Dreams, risalente alla primavera scorsa), Antemortem è il lavoro che suggella il valore assoluto della creatura di Stijn Van Cauter, solitario cantore di quelle sensazioni che solo chi suona funeral doom ha il coraggio di affrontare ed esibire senza alcuna ritrosia.

Tracklist:
1.Before
2.Days Without Hope
3.The Wait
4.Inevitability

Line-up:
Stijn Van Cauter

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