Uncoffined – Ceremonies of Morbidity

Un album che ribadisce con forza, semmai l’avessimo dimenticato, quale sia la vera patria del genere.

Sicuramente, se si cerca del death doom della vechcha scuola suonato con proprietà e competenza, l’approdo in terra albionica è una sorta di certificato di garanzia.

Gli Uncoffined provengono, appunto, da Durham ed esprimono in maniera ideale questo stile musicale: Ceremonies of Morbidity è il loro secondo full length che conferma il buon livello già raggiunto con il precedente Ritual Death and Funeral Rites, grazie alla coesione di un gruppo di musicisti capaci di mettere a frutto l’esperienza maturata in passato.
Il motore della band è la cantante batterista Kat Shevil, attiva nella scena britannica fin dai primi anni novanta, guida del manipolo di dannati che ne accompagna l’efferato rantolo; Ceremonies of Morbidity è un lavoro che, con soli cinque brani, supera l’ora di durata ma tutto sommato il peso di tutto ciò non si avverte più di tanto: se si apprezza il genere non sarà un problema convivere con il sound pachidermico ma sufficientemente dinamico offerto dal quartetto.
Grazie ad una produzione efficace ma che lascia al sound quella “sporcizia” che ben gli si addice, l’album lascia il segno, mantenendo una sua drammaticità di fondo, dovuta anche all’inserimento di numerosi samples che rimandano agli horror in bianco e nero dello scorso secolo, e si pone una spanna al di sopra delle uscite di stampo analogo che mi è capitato di commentare ultimamente, alle quali mancava quella profondità che, invece, gli Uncoffined riescono ad imprimere con forza al lavoro.
Della tracklist segnalo gli ultimi due brani, Ill Omens of Death and Disease e Awakened from Their Dormant Slumber, che forse più degli altri si snodano lungo le coordinate che preferisco, quando il death doom volge lo sguardo ai dsichi d’esordio di Cathedral e Anathema, o all’unico splendido full length pubblicato dagli effimeri Decomposed: qui gli Uncoffined esprimono il meglio, ma non demeritano assolutamente anche nel resto di un album che ribadisce con forza, semmai l’avessimo dimenticato, quale sia la vera patria del genere.

Tracklist:
1. The Horrors of Highgate
2. Plague of the Uncoffined
3. Ceremonies of Morbidity
4. Ill Omens of Death and Disease
5. Awakened from Their Dormant Slumber

Line-up:
K.Shevil – Vocals, Drums
G.Hall – Guitars
Jonny Rot – Guitars
Gory Sugden – Bass

UNCOFFINED – Facebook

Gespenst – Forfald

I Gespenst scarnificano e rimodellano in più occasioni il loro black, donandogli pulsioni doom, ambient e rendendolo sempre e comunque poco rassicurante.

Da due quarti dei temibili Wobegone Obscured prendono vita i Gespenst, di stanza ad Aarhus ma, di fatto, per metà francesi, visto che il sedicente Galskab è il Quentin Nicollet che troviamo anche nei validi Dwell, nonché nelle vesti del Q. Woe dei doomsters estremi danesi.

Il progetto è stati avviato diversi anni fa da Genfærd (alias M.Woe) ma appare molto più di un semplice sfogo collaterale: se black metal deve essere, questo non è davvero né malleabile né scontato, visto che il duo (coadivuato alla batteria da Andreas Joen) lo scarnifica e lo rimodella in più occasioni, donandogli pulsioni doom, ambient e rendendolo sempre e comunque poco rassicurante.
Il bello di tutto questo è che resta ugualmente rinvenibile una linea guida melodica che consente di non smarrirsi, neppure quando sono pesanti dissonanze ad occupare la scena (Sorgens Taage e Min sjael raadner) oppure è la studiata lentezza del doom ad emergere con prepotenza (Revelation of Maggots); è magnifica, infine, nella sua solenne ed apocalittica ferocia, la conclusiva Life Drained to the Black, solo leggermente più fruibile per soluzioni ritmiche rispetto al resto del disco.
Forfald è un lavoro dannatamente difficile da decifrare, perché quando sembra scivolare via senza lasciare alcuna traccia si insinua subdolamente sottopelle invitando ad approfondirne i contenuti, ed è quello il momento in cui si comprende appieno che, quando il black metal è suonato e composto da musicisti capaci, esperti e soprattutto credibili come lo sono i Gespenst, si trasforma in una forma artistica che può rivelarsi trascurabile solo per chi non abbia voglia di ascoltarla per partito preso.

Tracklist:
1. Sorgens Taage
2. Revelation of Maggots
3. Min sjael raadner
4. Life Drained to the Black

Line-up:
Genfærd Guitars, Synths
Galskab Vocals, Bass

GESPENST – Facebook

Black Oath – Litanies In The Dark

Litanies In The Dark offre una ventina di minuti dall’indubbia qualità che servono a tenere viva l’attenzione nei confronti degli ottimi Black Oath

Nuovo Ep per i Black Oath, una delle migliori band italiane dedite al doom nelle sue sembianze più classiche.

Litanies In The Dark esce esattamente un anno dopo l’ottimo To Below and Beyond, lavoro che aveva consolidato lo status del gruppo milanese quale interprete credibile della musica del destino nella sua essenza più pura. In quest’occasione i nostri ci regalano tre brani inediti oltre ad una magnifica cover (Reincarnation Of The Highway Cavalier) che in realtà è molto di più, trattandosi del medley di due brani contenuti in The Time Lord, ep dei Pagan Altar  del 2004.
Detto dell’ottima riuscita di questa versione, va rimarcato sopratutto il brano d’apertura, …From Here, vero marchio di fabbrica dei Black Oath, sempre guidati dalla voce stentorea di A.Th, cerimoniere che ha il compito di introdurci in un mondo parallelo in cui l’occulto ed il sacrilego vanno a braccetto, provocando brividi ed inquietudine senza dover nemmeno ricorrere a particolari artifici.
Davvero una magnifica canzone, questa, alla quale fanno da corollario gli altri due inediti strumentali, la più composita Funeral Alchemy e una A Song To Die With che sfuma misteriosamente sul più bello dopo due minuti, proprio quando stava prendendo corpo un coinvolgente crescendo.
In sintesi, Litanies In The Dark offre una ventina di minuti dall’indubbia qualità che servono a tenere viva l’attenzione nei confronti degli ottimi Black Oath, in attesa di una prossima prova su lunga distanza.

Tracklist:
1. …From Here
2. Funeral Alchemy
3. Reincarnation Of The Highway Cavalier
4. A Song To Die With

Line-up:
A.Th – Vocals, Guitars
Chris Z. – Drums
B. R. – Guitars

BLACK OATH – Facebook

Soliloquium – An Empty Frame

An Empty Frame è un album sorprendente, se non per spunti innovativi, sicuramente per la qualità compositiva esibita da musicisti capaci di spaziare, con grande disinvoltura, fra diverse sfumature ed umori.

An Empty Frame è il full length d’esordio degli svedesi Soliloquium, un duo attivo dall’inizio del decennio e che, dopo l’accordo con la label americana Transcending, qualche mese fa aveva pubblicato una compilation (Absence) nella quale venivano racchiusi i brani contenuti nel demo e nei due ep usciti tra il 2012 ed il 2013.

Stefan Nordström e Jonas Bergkvist sono attivi anche in due death band, i Desolator e gli Ending Quest, e con i Soliloquium spostano il loro raggio d’azione verso suoni ben più malinconici, andandosi a muovere su terreni cari a connazionali quali Katatonia, October Tide e When Nothing Remains, senza perdere di vista ovviamente la scuola inglese del death doom.
Ciò che ne scaturisce, An Empty Frame, è così un album sorprendente se non per spunti innovativi, sicuramente per la qualità compositiva esibita da musicisti capaci di spaziare, con grande disinvoltura, fra diverse sfumature ed umori.
Così si passa in un attimo dall’opener Eye of the Storm, in pieno stile Novembers Doom, quindi una cavalcata death doom piuttosto arcigna, alle atmosfere liquide e rarefatte di Earthly Confine, canzone splendida nella quale si possono apprezzare le clean vocals di Nordström, per poi proseguire con brani che fondono sapientemente i due aspetti, attingendo ovviamente alla tradizione scandinava ma senza disdegnare appunto sconfinamenti oltreoceano, tra Novembers Doom e Daylight Dies (The Sorrow Path, With or Without, The Observer e Procession) e chiudere infine con lo strumentale Fear Not, dai tratti sognanti che ne spingono le note ai confini del postmetal.
An Empty Frame è un lavoro di grande pulizia esecutiva, ben costruito e ricco di ottimi spunti disseminati in ciascuna traccia: ci sono tutti i motivi, quindi, per ascoltarlo e farlo proprio.

Tracklist:
1. Eye of the Storm
2. Earthly Confine
3. The Sorrow Path
4. With or Without
5. The Observer
6. Procession
7. Fear Not

Line-up:
Stefan Nordström – vocals, guitars
Jonas Bergkvist – bass
Mortuz – drums
Mike Watts – electronics

SOLILOQUIUM – Facebook

Whores. – Gold.

Una botta spaventosa da parte una band che potrebbe ritagliarsi fin d’ora uno spazio davvero importante.

Se non hai nelle tue corde l’ispirazione per produrre qualcosa di veramente innovativo (cosa che capita comunque di rado), hai perlomeno l’obbligo morale di mettere tutta l’intensità possibile nella musica che proponi.

Quanto sopra è ciò che accade ad una band come gli statunitensi Whores., i quali si lanciano con un approccio rabbioso e in maniera spasmodica in una corsa che rade al suolo tutto ciò che incontra.
La band di Atlanta è al proprio full length d’esordio, che arriva dopo alcuni ep, senza aver omesso di mettere in cascina il fieno rappresentato da una consistente attività live, con la possibilità di condividere il palco con i migliori gruppi della scena rock/noise a stelle e strisce.
Il risultato è tangibile: Gold. è un album che deflagra senza perdersi in troppi preamboli e, anche se supera di poco la mezz’ora di durata, il suo minutaggio ridotto basta ed avanza, visto che una tale intensità sarebbe persino difficile da sostenere più a lungo.
Punk, rock, noise e, in misura inferiore, sludge, confluiscono in un unico condotto sotto forma di rumore fragoroso che, quando fuoriesce, si trasforma assumendo una sembianza musicale ugualmente godibile e sempre contraddistinta da un filo conduttore ben delineato.
Proprio qui sta il bello: anche se i georgiani sembrerebbero farsi trascinare, a prima vista, da un istinto animalesco, in realtà il frutto del loro impegno è una decina di brani ben ponderati e costruiti con sagacia, tra i quali la noia non fa capolino neppure per un attimo. Ghost Trash, Of Course You Do e I See You Also Wearing A Black Shirt sono alcuni tra gli ordigni più efficaci scagliati sulla folla dalle “puttane” di Atlanta.
Una botta spaventosa da parte una band che potrebbe ritagliarsi fin d’ora uno spazio davvero importante.

Tracklist:
1.Playing Poor
2.Baby Teeth
3.Participation Trophy
4.Mental Illness As Mating Ritual
5.Ghost Trash
6.Charlie Chaplin Routine
7.Of Course You Do
8.I See You Also Wearing A Black Shirt
9.Bloody Like The Day You Were Born
10.I Have A Prepared Statement

Line-up:
Christian Lembach – Vocals, guitar
Casey Maxwell – Bass
Donnie Adkinson – Drums

WHORES. – Facebook

Queen Elephantine – Kala

Psichedelia pesante e molto noise, acida e fuzz, rituale e cosmica.

Psichedelia pesante e molto noise, acida e fuzz, rituale e cosmica. Non bastano le parole per provare l’esperienza sonora che fanno vivere i Queen Elephantine.

Nati ad Hong Kong, non hanno fissa dimora, si possono trovare nello loro numerose uscite, quattro album, split e sette pollici. La loro psichedelia pesante e rituale è la continuazione della lotta per portare il rumore e la confusione quella vera al centro dell’arena. Bisogna abbandonarsi a Kala, lasciare che il trip salga e vi prenda, non resistete alle sirene elettriche. Questa non è musica, ma un rituale per espandere le nostre coscienze, allargare gli orizzonti e le sinapsi. Gli strumenti sono appunto un mezzo per creare stati di coscienza alterati, senza pose o forme da assumere, questo è puro flusso, rimodellando la materia secondo multiversi che inventiamo noi. dischi come Kala sono da studiare, assaporare, ma certamente non possono essere ascoltati in mezzo alla folla, ma bisogna cercare un qualche spazio meditativo, sia fisico che spirituale. In certi frangenti il gruppo, ora di stanza a Providence, ricorda la psichedelia tedesca tendente al krautrock, quello splendido tentativo di sintesi che poi non si ripeterà più. Ed invece qualcosa è tornato indietro, sotto forma di un disco di rumore cosmico, colonna sonora di pianeti che si spostano su assi lontani milioni di anni luce, ma con la nostra mente possiamo arrivarci, possiamo esserci ascoltando i Queen Elephantine, traghettatori neuronali.

TRACKLIST
1.Quartered
2.Quartz
3.Ox
4.Onyx
5.Deep Blue
6.Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus

LINE-UP
Indrayudh Shome – Guitar
Ian Sims – Drumset
Mat Becker – Bass
Srinivas Reddy – Guitar
Derek Fukumori – Percussion
Samer Ghadry – Guitar, Synth
Nathanael Totushek – Drumset + Percussion on 2,4,6
Nick Disalvo – Mellotron on 1, 2, 3
Michael Scott Isley – Percussion on 2,4
Danny Quinn – Surgeon Pepper

QUEEN ELEPHANTINE – Facebook

Dopethrone – 1312

Un piccolo regalo dei Dopethrone, tre tracce in free download in attesa del loro nuovo disco.

Un piccolo regalo dei Dopethrone, tre tracce in free download in attesa del loro nuovo disco.

I Dopethrone prendono al volo le possibilità che offre la rete nel condividere musica con gli utenti, ed ecco un ep in download libero per saziare la voglia del gruppo canadese. Tre canzoni con la consueta carica di marcezza e distorsione che contraddistingue questo gruppo, uno dei migliori in campo stoner e sludge. I Dopethrone hanno un passo veramente importante, un incedere distorto e possente, che lascia solo fumo e macerie. Questo ep non offre nulla di nuovo, ma con il trio non si cerca la novità, ma la sostanza e qui di sostanza ce n’è molta. Le storie sono quelle del disagio che vive ad ogni latitudine, anche nell’apparentemente pulito Canada. Qui giacciono oscure forze che sono bene evidenziate dai Dopethrone. Questo ep è forse ancora più decadente e sludge di Horchelaga, il loro ultimo full length del 2015, dedicato all’omonimo quartiere di Montreal, dove tutto è in vendita. Un gruppo che si conferma sempre ad alti livelli, con uno stile ben riconoscibile, a differenza di molti altri gruppi dello stesso genere, che sta diventando molto ripetitivo, ma finché ci sono i Dopethrone non c’è pericolo. È anche gratis dai, voi dovete solo comprare la droga.

TRACKLIST
1. SHOT DOWN
2. DRIFTER
3. SKAG REEK

DOPETHRONE – Facebook

Doomed – Anna

Doomed è ormai un marchio di qualità all’interno della scena doom, così come lo è la tipica copertina a sfondo verde che contraddistingue ogni sua uscita.

I Doomed, creati da Pierre Laube cinque anni fa, sono diventati in poco tempo uno dei nomi più interessanti della scena death doom europea.

A questo non ha contribuito solo la prolificità del musicista tedesco che, in media, ha pubblicato un full length all’anno, ma anche e soprattutto la qualità dei suoi lavori ai quali si unisce una indubbia peculiarità sonora.
Con Anna, i Doomed (tecnicamente un progetto solista di Laube, il quale ricorre però a diverse collaborazioni al momento dell’incisione dei dischi, diventando una band vera e propria in sede live) raggiungono il picco della loro produzione, grazie ad un songrwiting aspro ed intenso e ad un’esecuzione di grande spessore esaltata da una produzione perfetta.
L’album ruota attorno ad un concept piuttosto crudo che, descrivendo la storia di Anna, bambina che ha visto morire il padre durante la deportazione nazista, prende in esame il dramma della guerra visto e subìto dalla parte dei bambini, un argomento ben presente, purtroppo, in ogni fase della storia dell’umanità.
Il sound risente a livello di umore dei temi trattati, anche se per assurdo i momenti melodici persistono ugualmente e tutto sommato in misura non minore rispetto al passato: il fatto è che questi sono perfettamente inglobati all’interno di un mood drammatico, a tratti così violento da restituire pari pari la rabbia ed il dolore che l’argomento riesce ad evocare.
Il fulcro di Anna lo si ritrova nella sua parte centrale, quando due brani magnifici quanto differenti come The Weeping Trees e Withering Lives tratteggiano un’immagine nitida delle doti compositive di Pierre Laube: se nella prima traccia l’effetto straniante viene provocato da un intreccio vocale tra il nostro e la cognata Daniela, tra dissonanze ed aperture melodiche (qui l’assolo di chitarra è magnifico), la seconda è una vera e propria mazzata che si concretizza tramite una ritmica squadrata, riff pesantissimi e lo screaming dell’ospite Kris Clayton (Camel Of Doom) che ne moltiplica il livello di efferatezza.
Come detto anche in passato, il death doom dei Doomed è sovente sbilanciato sulla prima componente a livello sonoro, ma della seconda è del tutto intriso l’umore di un sound compresso da un livore sordo che ben esprime la reazione dell’artista nei confronti degli avvenimenti descritti.
Doomed è ormai un marchio di qualità all’interno della scena, così come lo è la tipica copertina a sfondo verde che contraddistingue ogni sua uscita, diventata ormai un appuntamento fisso in grado di ricordarci che il doom può essere anche una forma di reazione decisa nei confronti delle brutture che ci circondano, e non solo un malinconico e disperato ripiegarsi su sé stessi che è, invece, il leit motiv della sua frangia più melodica.
Entrambe le opzioni, comunque, sono assolutamente gradite, anzi, direi di più, necessarie …

Tracklist:
1. Your Highness The Chaos
2. Anna
3. As The Thoughts Began To Be Tarnish
4. The Weeping Trees
5. Withering Leaves
6. Roots Remain
7. The Frozen Wish

Line-up:
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

Guest musicians:
Ed Warby (Hail Of Bullets / Ayreon / The 11th Hour, ex-Gorefest) – lead vocals on “The Frozen Wish”
Markus Hartung (Panzerkreuzer) – add. vocals on “Your Highness The Chaos”
Kris Clayton (Camel Of Doom, ex-Esoteric) – add. vocals on “Withering Leaves”
Daniela Laube – add. backing vocals on “The Weeping Trees”
Uwe Reinholz (Oak Ridge) – add. solo guitar on “Wither Leaves

DOOMED – Facebook

Haunted – Haunted

Un’altra opera affascinante proveniente da una Sicilia nella quale sono sempre più curioso di fare un salto per scoprire il segreto di una tale magnificenza musicale.

Esordio omonimo per questo quintetto doom stoner siciliano, nato solo lo scorso anno in quel di Catania e che annovera tra le sue fila Frank Tudisco, un passato nei seminali Sinoath e bassista nella nuova formazione degli storici Schizo.

Nelle nostre due isole maggiori deve nascere qualche pianta a noi sconosciuta, dagli effetti collaterali tremendamente allucinogeni, vista (e non è la prima volta che lo scrivo) la qualità altissima delle uscite discografiche nel genere, confermate pure da questa pesantissima opera degli Haunted.
La grafica che accompagna l’album (ad opera di Sandro Di Girolamo, leader degli straordinari psycho-stoner palermitani Elevator To The Grateful Sky) ricorda le opere doom settantiane e soprattutto gli album usciti per la Rise Above del sommo sacerdote Lee Dorrian, impressione confermata dal sound di cui che si avvicina a quanto fatto da Orange Goblin ed Electric Wizard.
Una voce femminile (Cristina Chimirri), ci accompagna in questo trip doom messianica di una potenza pari ad un eruzione vulcanica, le sei corde ribassate fino al limite, il basso che pulsa come il cuore di un gigante addormentato e le pelli che si squarciano sotto i colpi inferti da Valerio Cimino, formano un monolite sonoro di impressionante potenza e pesantezza.
Non manca, come spiegato, quella componente psichedelica che è ormai tradizione per i gruppi che provengono dal profondo Sud, come dal bel mezzo del Mediterraneo, che rende l’opera ancora più sabbatica e disturbante, facendoci perdere a lunghi tratti la bussola nel mezzo del magma sonoro che il gruppo catanese ci rovescia addosso.
Cinque brani per più di quaranta minuti di musica del destino dall’inquietante incedere, un mega trip che ci incatena alla poltrona e ci invita ad un diabolico sabba, ipnotizzante e pericolosissimo, una lunga e drammatica avventura persi in deserti oscuri dove il sole è una palla di micidiale catrame nerissimo e caldissimo, una lenta agonia che ha nelle sabbatiche note del singolo Silvercomb, dell’opener Nightbreed e della conclusiva title track le sue magmatiche perle nere.
Un’altra opera affascinante proveniente da una Sicilia nella quale sono sempre più curioso di fare prima o poi un salto per scoprire il segreto di una tale magnificenza musicale.

TRACKLIST
1. Nightbreed
2. Watchtower
3. Silvercomb
4. Slowthorn
5. Haunted

LINE-UP
Valerio Cimino – Drums
Cristina Chimirri – Vocals
Frank Tudisco- Bass
Francesco Orlando – Guitars
Francesco Bauso – Guitars

HAUNTED – Facebook

Crowbar – The Serpent Only Lies

Suono potente e che dà dipendenza, i Crowbar sono tornati e la sofferenza continua.

Tranquilli, i Crowbar sono in gran forma. Eravate forse preoccupati di trovare un disco molle? Non mi sembra che i Crowbar abbiano mai sbagliato un disco.

E The Serpent Only Lies è un disco tipico del gruppo di New Orelans, pieno di riffoni pesanti, con la voce di Windstein che ci ricorda della sofferenza che noi chiamiamo vita, e il gruppo che va come uno schiacciasassi. I Crowbar negli anni, nonostante qualche pausa dovuta ai molti progetti paralleli di Kirk, sono sempre stati sinonimo di pesantezza, e alla fine sono rimasti i portatori del vero suono di New Orleans. Questo disco in particolare segna un ritorno agli inizi. Proprio Windstein ha affermato che, per produrre questo disco, è andato a risentire con attenzione i primi dischi del gruppo, ascoltando con attenzione anche quelli di gruppi che lo hanno influenzato all’epoca, come i Trouble, i Melvins, i St. Vitus e i Type O Negative. The Serpent Only Lies è un disco molto potente, prodotto in maniera totalmente adeguata al suono dei Crowbar, ed è notevole. Nel disco il gruppo va al meglio delle proprie possibilità, regalando pezzi potenti ma anche ottimi passaggi più cadenzati, mostrando sicuramente più varietà rispetto alle ultime uscite. Dopo aver girato tanto il suono pesante di New Orleans sta tornando a casa, ritrovando quel tiro che aveva perso. Qui tutto è potente e sofferente, come è giusto che sia in un disco dei Crowbar. La ricerca delle origini gli ha giovato molto, e il tiro dell’album è molto forte, i Crowbar riescono a generare un groove sonoro fatto di sludge, hardcore e stoner che è di loro unica proprietà, e lo fanno davvero bene. Suono potente e che dà dipendenza, i Crowbar sono tornati e la sofferenza continua.

TRACKLIST
01. Falling When Rising
02.Plasmic And Pure
03. I Am The Storm
04. Surviving The Abyss
05. The Serpent Only Lies
06. The Enemy Beside You
07. Embrace The LIght
08. On Holy Ground
09. Song Of The Dunes
10. As I Heal

LINE-UP
Kirk Windstein – Guitar/Vocals
Matt Brunson – Guitar
Tommy Buckley – Drums
Todd Strange- Bass

CROWBAR – Facebook

Atten Ash – The Hourglass

The Hourglass non cede mai per intensità emotiva e stupisce per la sua qualità a prova di comparazione: non c’è infatti un solo brano che non meriti d’essere ricordato o che non contenga momenti di memorabile ed evocativo lirismo.

Non è mai troppo tardi per recuperare un bel disco, anche se questo è stato edito per la prima volta come autoproduzione nel 2012, per essere poi riproposto tre anni dopo dalla Hypnotic Dirge: The Hourglass, infatti, è in assoluto uno dei migliori lavori scaturiti dalla scena doom death statunitense nell’ultimo decennio.

Va premesso subito che nascondere o negare le affinità degli Atten Ash con i Daylight Dies è piuttosto difficile e, anche se volessimo passare sopra alle caratteristiche del sound, troviamo una stessa provenienza geografica (il North Carolina) e addirittura un membro in comune (il chitarrista Barry Gambling).
Dopo di che, fatte le debite premesse, l’ascolto di The Hourglass regala il doom death melodico alle sue massime potenzialità, con tanto di certificato sonoro da esibire alla bisogna come See Me… Never, una canzone a dir poco meravigliosa che ricorda non tanto qualcuno ma qualcosa, ovvero quanto questo genere musicale sia inimitabile nel suo offrire emozioni a profusione.
The Hourglass non cede mai per intensità emotiva e stupisce per la sua qualità a prova di comparazione: non c’è infatti un solo brano che non meriti d’essere ricordato o che non contenga momenti di memorabile ed evocativo lirismo.
Se non siamo ai livelli di A Frail Becoming (che uscì nello stesso anno), poco ci manca, e anche per questo non serve parlare oltre di questo disco, che va solo ascoltato e goduto in ogni suo attimo in attesa che gli Atten Ash ritornino alla ribalta con un nuovo e sospirato full length (che, a quanto pare, dovrebbe essere in via di realizzazione).

Tracklist:
1. City in the Sea
2. See Me… Never
3. Not as Others Were
4. Song for the Dead
5. Born
6. First Day
7. Waves of Siloam
8. The Hourglass

Line-up:
Barre Gambling – Guitars, Keyboards
James Greene – Vocals (clean), Guitars, Bass, Drums
Archie Hunt – Vocals (harsh)

ATTEN ASH – Facebook

Blind Marmots – Spore

Una mezza dozzina di brani intriganti, coinvolgenti, sufficientemente freschi e irriverenti il giusto per cogliere nel segno.

Ritroviamo i padovani Blind Marmots due anni dopo l‘ep d’esordio autointitolato: questo nuovo Spore è di poco più lungo ed arriva dopo diversi cambi di formazione che, alla fine, paiono aver dato dei buoni risultati.

La band fagocita, rumina e restituisce (meglio non sapere attraverso quale orifizio) svariate influenze che fanno capo al rock e al metal alternativo, lasciando sul terreno un melting pot di stoner, sludge, grunge, funky, psichedelia, che si rivela piuttosto organizzato nonostante l’ approccio scanzonato alla materia possa far temere, in prima battuta, il contrario.
Ne deriva così una mezza dozzina di brani intriganti, coinvolgenti, sufficientemente freschi e irriverenti il giusto per cogliere nel segno: i Blind Marmots manifestano apertamente il proprio atteggiamento ironico e pungente (in questo vedo una certa similitudine con gli alassini Carcharodon), a partire da testi che ci portano a spasso tra maniaci incendiari, marmotte, topolini, sbronze e conseguenti minzioni, ma ciò non impedisce loro di fare molto sul serio a livello musicale, visto che la mezz’oretta scarsa che ci vene offerta riesce a lasciare il segno specialmente nei primi tre brani, davvero eccellenti nella loro spontanea robustezza e molto più diretti rispetto a restanti, pervasi invece da un più accentuato mood psichedelico
Il potenziale per emergere c’è tutto, ma è chiaro quanto non sia semplice in un settore piuttosto frequentato e nel quale, al di là dello spingere in una direzione musicale piuttosto che in un’altra, il rischio è quello di restare confinati allo status di band divertente (e non c’è dubbio alcuno che il quartetto padovano lo sia), specie dal vivo.
Ma, immaginando che quest’obiettivo, peraltro ampiamente raggiunto, sia una delle priorità per i Blind Marmots, in attesa di risentirli all’opera magari su lunga distanza, non resta che unirci alla loro invocazione: Dio salvi la marmotta!

Tracklist:
1. Pyromaniac
2. God Save The Marmot
3. Mice In The Attic
4. The Hangover
5. Pissing
6. Storm

Line-up:
Carlo Titti – Lead Guitar
Ale “Teuvo” – Voice
Luca Cammariere – Drums
Pietro Gori – Bass

BLIND MARMOTS – Facebook

Usurpress – The Regal Tribe

Una quarantina di minuti a prova di tedio con il suo frullato di death, thrash, black, doom e progressive che si rivela senz’altro appetitoso.

Terza prova su lunga distanza per gli svedesi Usurpress, band sulla scena dall’inizio del decennio con il suo sound che, poggiando su una base death, spazia con una certa disinvoltura lungo tutti i generi del metal estremo.

The Regal Tribe si pone come una prova di grande sostanza in cui gli ammiccamenti melodici sono solo sporadici e, di fatto, resi superflui da una prova di ottimo livello da parte della band di Uppsala.
Proprio questo rende l’operato degli Usurpress tutt’altro che un becero ricorso a tutti i luoghi comuni del metal estremo: i nostri optano per una forma musicale senz’altro poco immediata e con più di un passaggio ricercato (vedi gli strumentali The Halls of Extinction e On a Bed of Straw, tanto per citare due esempi), senza rendere il sound troppo frammentario.
Se un umore fondamentalmente più cupo pare pervadere l’intero album, probabilmente ciò è dovuto anche ai problemi di salute che hanno toccato da vicino membri della band nell’ultimo periodo, portando ad affrontare a livello lirico tematiche di un certo peso specifico e mai banali.
Così il quartetto svedese convince sia quando viaggia ad alta velocità, sia quando rallenta immergendosi con qualcosa più di un piede nel doom (The Mortal Tribes), riuscendo a comunicare efficacemente i contenuti tipici della scuola svedese senza esibirne in maniera didascalica gli standard.
Di sicuro la competenza riguardo al genere non può mancare all’interno di una band che annovera al basso Daniel Ekeroth, valente musicista ma soprattutto autore di diversi libri tra i quali Swedish Death Metal, opera fondamentale per capire l’importanza di tale movimento musicale.
Ma la di là di questa, che resta una mera curiosità, The Regal Tribe si rivela un buonissimo lavoro, grazie ad una quarantina di minuti a prova di tedio con il suo frullato di death, thrash, black, doom e progressive che si rivela senz’altro appetitoso.
Gli Usurpress alla fine sono la classica band che potrebbe reperire estimatori dal background piuttosto differente tra loro, un sinonimo chiaro di versatilità e dono della sintesi.

Tracklist:
1. Beneath the Starless Skies
2. The One They Call the Usurpress
3. Across the Dying Plains
4. The Mortal Tribes
5. The Halls of Extinction
6. Throwing the Gift Away
7. Behold the Forsaken
8. On a Bed of Straw
9. The Sin That Is Mine
10. In the Shadow of the New Gods

Line-up:
Stefan Pettersson – Vocals
Påhl Sundström – Guitars
Daniel Ekeroth – Bass
Calle Andersson – Drums

USURPRESS – Facebook

Yaşru – Börübay

La perfezione del folk che si muove da una base metal per diffondersi nell’aria con i suoi aromi mediorientali, leggiadri come piume e malinconici come solo il miglior doom di solito sa regalare.

La perfezione del folk che si muove da una base metal per diffondersi nell’aria con i suoi aromi mediorientali, leggiadri come piume e malinconici come solo il miglior doom di solito sa regalare.

Questo è Börübay, terzo album dei Yaşru, band turca che fa capo quasi al 100% ad un musicista immenso come Berk Öner, il quale, come nel precedente Öz, si fa accompagnare dal bassista Batur Akçura, avocando a sé tutta la restante componente strumentale e la parte vocale.
Se Öz mi aveva favorevolmente colpito, mostrando di cosa fosse capace il musicista di Istanbul, quest’album tocca vette di lirismo francamente difficili da eguagliare: in mezz’ora ci passa davanti tutto l’immaginario della tradizione turca, da quella che ammicca all’Europa fino agli umori degli sterminati territori anatolici.
Citare nella stessa frase folk e metal può creare degli equivoci che vanno subito dissipati: se questa è l’etichetta comunque più logica da assegnare all’opera degli Yaşru, qui non troviamo nulla che abbia a che vedere con le tendenze alcoolico caciarone (detto in senso buono, si intende) alla Korpiklaani o con la retorica epico guerresca che sta prendendo piede anche nel nostro paese; in Börübay l’emotività che ne pervade ogni nota rimanda almeno per attitudine alla tradizione celtica, specialmente quando Öner si cimenta con il flauto, ma non mancano neppure agganci con gli immensi Moonsorrow, specie in una traccia come Rüzgarìn Yìrlarì.
Lo strumentale 552 AD (Börü) introduce l’album con la sua bellezza stordente, mentre a seguire la title track alza i giri del motore, con Öner che ne asseconda il roccioso incipit con il suo growl per poi intraprendere un declivio verso sonorità e vocalità più evocative, conservando comunque un sentore doom (che è lo stile musicale dal quale il nostro di fatto proviene). Aalara è un gioiello che si va ad incastonare laddove gli autori del recente Jumalten Aika sarebbero approdati se fossero nati in quella che fu Bisanzio, mentre l’avvincente cantilena di Nazar Eyle (cover di una canzone di Baris Manço, uno dei musicisti turchi più importanti del secolo scorso) va a completarsi con l’emanazione più introspettiva del folk secondo gli Yaşru rappresentata dalla già citata opener e da Hafiz.
Chiude il brano autointitolato, forse il meno brillante dell’album ma solo per il suo andamento relativamente più allegro che ne attenua l’intensità emotiva rinvenibile nelle altre tracce.
Di prossima pubblicazione a cura della WormHoleDeath, che grazie all’orecchio fine di chi la dirige si è accaparrata i servigi degli Yaşru, fondamentalmente Börübay ha un solo difetto, quello di durare troppo poco, perché di musica di simile fattura non se ne ha mai abbastanza: poco male davvero, quando la qualità di un disco raggiunge tali livelli un solo minuto ne vale almeno dieci di opere ben più ridondanti.

 

Tracklist:
1. 552 AD (Börü)
2. Börübay
3. Atalara
4. Nazar Eyle
5. Rüzgarìn Yìrlarì
6. Hafiz
7. Yaşru

Line-up:
Berk Öner – Vocals, Guitars, Ethnic instruments
Batur Akçura – Bass

YASRU – Facebook

The Ghost I’ve Become – Hollow

Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Hollow è un breve ep che costituisce il passo d’esordio dei finlandesi The Ghost I’ve Become.

Trattandosi di un lavoro immerso mani e piedi nel gothic death doom melodico, la provenienza geografica dei suoi autori rimanda automaticamente agli imprescindibili Swallow The Sun e susseguente genia, ma sarebbe riduttivo limitarsi a questo semplice paragone, specialmente quando il livello compositivo esibito è elevatissimo come in questo caso.
E’ da rimarcare, infatti, come la band proveniente dal nord della Finlandia (Oulu, nella parte alta del Golfo di Botnia) in questi intensi venti minuti metta a frutto sicuramente la lezione degli influenti connazionali, prendendo però anche il giusto dalla scuola americana (Daylight Dies) ed esibendo un gusto melodico ed una sensibilità di tocco che rimanda ai grandi Hamferð.
Ne consegue che, grazie a tale mirabile sintesi stilistica, questo breve ep si preannuncia come la probabile epifania di un’altra stella nel panorama del doom estremo: il quintetto finnico mette in mostra una tecnica solidissima, al servizio di uno stile compositivo che non prevede passaggi interlocutori ma soltanto momenti ricchi di malinconico pathos.
Da notare la presenza in line-up di Waltteri Väyrynen, giovane batterista che da quest’anno fa parte in pianta stabile niente meno che dei Paradise Lost, il che depone a favore di capacità tecniche oltre la media, ma i suoi compagni non sono affatto da meno, a partire dal bravissimo Jomi Kyllönen, a suo agio sia con evocative clean vocals che con un roccioso growl.
Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Tracklist:
1.Forever Gone
2.Cold, My Sweet Delight
3.Behind the Curtain

Line-up:
Vocals – Jomi Kyllönen
Guitars – Lauri Moilanen
Guitars – Joonas Kanniainen
Bass – Aku Varanka
Drums – Waltteri Väyrynen

THE GHOST I’VE BECOME – Facebook

Rosàrio – And The Storm Surges

And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.

Dalla collaborazione di una manciata di etichette indipendenti esce il secondo lavoro dei Rosàrio, band padovana di stoner psichedelico dall’alto voltaggio.

Il gruppo, nato appena tre anni fa e, come detto, già alla seconda opera sulla lunga distanza è una delle migliori realtà nel panorama stoner metal nazionale, confermata da questo monumentale lavoro, non facile da assimilare ma molto suggestivo.
Dimenticatevi le semplici sonorità tanto in voga negli ultimi tempi, il quintetto nostrano ci invita ad un viaggio nella storia dell’evoluzione dell’uomo come individuo, a colpi di stoner metal violentato da sonorità che passano dal doom/sludge al rock psichedelico, colmo di chitarroni saturi ed atmosfere intimiste, in un susseguirsi di parti rallentate ed esplosioni di watt potentissime.
Ben interpretate da una voce calda e ruvida le tracce si danno il cambio, instancabili, mantenendo la tensione elettrica molto alta con picchi di travagliata drammaticità, come il percorso dell’individuo che da semplice coscienza di sé passa ad un paradigma di onnipotenza creativa (come descritto dalla stessa band).
Dicevamo, non semplice da assimilare ma molto affascinante, And The Storm Surges con il suo lento incedere si trasforma in un lungo e tormentoso viaggio verso la consapevolezza, con il gruppo che sottolinea questa metamorfosi con violenti cambi di umori musicali, in un continuo saliscendi tra monolitiche parti doom e rabbiose sfuriate alternative/stoner, ricoperte da un sottile strato psych che eleva di molto l’appeal malsano e fumoso di brani come Drabbuhkuf e le bellissime Canemacchina e Dawn Of Men.
Il viaggio si conclude con il piccolo capolavoro And Then… Jupiter, brano super stonato e che si rivela come una ipotetica jam tra Kyuss e Tool, straordinaria conclusione di un lavoro alquanto maturo.
And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.

TRACKLIST
Side A – Creak
1- To Peak And Pine
2- Drabbuhkuf
3- Vessel Of The Withering
Side B – Harvest
4- Livor
5- Radiance
Side C – Bedlam
6- I Am The Moras
7- Canemacchina
Side D – Sunya
8- Dawn Of Men
9- Monolith
10- And Then… Jupiter

LINE-UP
Nicola Pinotti- Guitar
Fabio Leggiero-Bass
Alessandro Magro-Vocals
Riccardo Zulato- Guitar
Alessandro Bonini-Drums

ROSARIO – Facebook

Kypck – Zero

Un lavoro che non fa altro che rafforzare la meritata fama raggiunta dai Kypck.

Quando nel 2008 uscì l’album d’esordio Cherno, i Kypck forse non vennero presi da tutti abbastanza sul serio per diversi motivi: intanto, perché dei finlandesi dovrebbero cantare in russo ed utilizzare l’alfabeto cirillico per il monicker ed i titoli dell’album e delle canzoni? Inoltre che ci fa uno come Sami Lopakka (ex-Sentenced) in una band che suona un doom greve come pochi ?

Quesiti fondati che il tempo ha dissipato fornendo ampie risposte: i suddetti Kypck sono una band che è stata capace nel tempo di creare un proprio marchio e, soprattutto, una forma di doom comunque personale e riconoscibile, non solo per la lingua utilizzata. Per quanto riguarda la partecipazione di Lopakka, a posteriori è apparso chiaro a tutti che su questo progetto il chitarrista aveva puntato seriamente fin da subito, e dal 2011 la presenza di ex-Sentenced in formazione si è raddoppiata con l’ingresso dell’altro Sami, Kukkohovi, ai tempi bassista e qui seconda chitarra, visto che l’ossessivo basso ad una corda viene maltrattato da J. T. Ylä-Rautio. A completare il quintetto vi sono il batterista A.K. Karihtala, anch’egli con un passato illustre nei disciolti Charon, e soprattutto il cantante Erkki Seppänen (Dreamtale), portatore sano del verbo sovietico con la sua padronanza della lingua.
Dopo quattro full length che hanno visto aumentare il seguito della band, in Russia ovviamente, ma non solo, l’autunno del 2016 è il momento dell’uscita di Зеро (Zero), un lavoro che non fa altro che rafforzare la meritata fama raggiunta dai nostri.
Partendo da un immaginario abbondantemente indirizzato dal monicker (la traslitterazione è Kursk, ovvero la città sede della più grande battaglia tra carri armati della seconda guerra mondiale, ma anche il nome del sommergibile atomico che nel 2000 si trasformò in un enorme bara sottomarina per oltre cento sventurati), il sound dei Kypck è quindi un doom che, se per certi versi appare vicino alla tradizione, dall’altra mantiene un’inquietudine di fondo che lo avvicina, solo emotivamente, al funeral. Un contributo decisivo al senso di oppressione provocato dal sound dei finnici lo offre l’esasperato ribassamento delle accordature simboleggiato dal basso monocorde di Ylä-Rautio, grazie al quale le numerose parvenze melodiche assumono un’aura alquanto sinistra .
Proprio il suo porsi in una sorta di terra di mezzo tra il doom di stampo classico e quello estremo è mio avviso la forza dei Kypck, assieme al fatto di far dimenticare fin dalla prima nota che la band non è russa, tale e tanta la sua immedesimazione nella parte.
Emblematica, per solennità e potenziale evocativo, è una canzone come Mne otmshchenie, forse la migliore del lotto assieme all’iniziale e leggerissimamente più orecchiabile Ya svoboden (non a caso scelta per accompagnarvi un video) e alla conclusiva Belaya smert, ma in fondo è il disco nel suo insieme a mostrare una compattezza sorprendente, risultando avvincente dalla prima all’ultima nota.
Non un lavoro facile, Zero, e forse non piacerà neppure a diversi adepti del doom in virtù proprio del suo oscillare tra sonorità sabbathiane esasperate all’ennesima potenza e pulsioni estreme di fatto inibite, quasi venissero lasciate implodere all’interno di un sound che resta costantemente minaccioso.
Un disco affascinante ma non per tutti, l‘unico dato certo è che i Kypck sono una band magnifica, altro non c’è da aggiungere.

Tracklist:
01. Ya svoboden [I Am Free]
02. 2017
03. Mne otmshchenie [Vengeance Is Mine]
04. Progulka po Neve [Stroll by the Banks of Neva]
05. Na nebe vizhu ya litso [I See a Face in the Sky]
06. Moya zhizn [My Life]
07. Poslednii tur [The Last Tour]
08. Rusofob [Russophobe]
09. Baikal
10. Belaya smert [White Death]

Line-up:
J. T. Ylä-Rautio – Bass
S. S. Lopakka – Guitars
E. Seppänen – Vocals
A.K. Karihtala – Drums
S. Kukkohovi – Guitars

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