Them – Sweet Hollow

Se accuserete l’album di avere un sound derivativo avrete scoperto l’acqua calda, lasciate perdere le solite menate da scienziati metallici e godetevi questi cinquanta minuti scarsi di heavy metal horrorifico e spettacolare

Prendete un manipolo di musicisti provenienti da varie scene metalliche, tutti con la passione per la musica del re diamante, formate un supergruppo e dategli il nome di un famoso classico della discografia del singer danese (Them), chiudeteli in uno studio per un po’ di mesi e quando le porte si apriranno, usciranno con un lavoro bellissimo incentrato sulle sonorità tipiche del King Diamond style, ma con l’aggiunta del loro assoluto talento.

Kevin Talley ( ex di una miriade di gruppi tra cui Six Feet Under, Suffocation, Chimaira e Dying Fetus), Richie Seibel ( Ivanhoe, Lanfear,), Troy Norr (Coldsteel), Markus Ullrich (A Cosmic Trail, Lanfear, Septagon), Mike LePond ( Symphony X ed altre mille band) e Markus Johansson, insieme uniti per glorificare la musica metal horror di King Diamond, dopo il promo ep uscito anch’esso quest’anno, tornano con un album nuovo di zecca, ed il risultato farà spellare le mani agli amanti di pietre miliari del metal come appunto Them, Abigail e compagnia orrorifica.
Sweet Hollow è ovviamente un concept (e non poteva essere altrimenti) incentrato sul viaggio di un uomo tra sfortunati eventi e circostanze misteriose, raccontato con tutti i crismi dello storico singer dei Mercyful Fate, con tanto di cantato in falsetto ed interpretazione imoeccabile di Troy Norr, cantante dei Coldsteel e mente dietro a questo progetto.
Ad impreziosire il sound che, chiariamolo, è devoto in tutto e per tutto allo stile di Diamond, ci sono le prove dei musicisti, veri maestri del proprio strumento, alle prese con uno stile che ha fatto storia.
Sweet Hollow non si accontenta però di copiare lo spartito del re diamante, ma nei vari brani sono ben presenti le caratteristiche insite nel background dei nostri, così che possiamo trovare ottime aperture melodiche di intricato prog metal, sfuriate ritmiche dal sapore estremo, teatrali atmosfere evil, incorniciate con solos di puro heavy metal americano che, insieme al suo omologo  europeo,  accompagnano il protagonista nel suo tragico ed avventuroso viaggio.
Detto di una prova spettacolare del singer (che fondò il gruppo nel 2008 proprio per coverizzare le opere dei king Diamond), Sweet Hollow piacerà non poco ai fans, l’ottimo songwriting dà modo all’album di brillare, impreziosito da una raccolta di brani che a tratti entusiamano e tra cui spiccano le varie Forever Burns, Ghost In The Graveyard e Dead Of Night.
Se accuserete l’album di possedere un sound derivativo avrete scoperto l’acqua calda, lasciate perdere le solite menate da scienziati metallici e godetevi questi cinquanta minuti scarsi di heavy metal horrorifico e spettacolare… punto.

TRACKLIST
1. Rebirth
2. Forever Burns
3. Down The Road To Misery
4. Ghost In The Graveyard
5. The Quiet Room
6. Dead Of Night
7. FestEvil
8. The Crimson Corpse
9. Blood From Blood
10. The Harrowing Path To Hollow

LINE-UP
Kevin Talley – Drums
Richie Seibel – Keyboards
Troy Norr – Vocals
Markus Ullrich – Guitars
Mike LePond – Bass
Markus Johansson – Guitars

THEM – Facebook

Hryre – From Mortality To Infinity

Gli Hryre sono la migliore band di black death inglese, provengono dal West Yorkshire e sono davvero bravi.

Gli Hryre sono la migliore band di black death inglese, provengono dal West Yorkshire e sono davvero bravi.

I ragazzi inglesi avevano esordito nel 2014 con un buon ep, ma qui esprimono tutta loro potenza, e la loro visione del black metal. Nel loro sound convergono elementi del black metal classico, come una buona dose di death metal, che costruisce l’ossatura del loro suono. Il disco è molto compatto e potente, con alcuni momenti davvero anni novanta che faranno al gioia di molti. Il loro obiettivo è esplicito, ovvero diventare la migliore band inglese di black metal e direi che sono sulla buona strada. Tutto il disco è studiato bene e risulta originale e peculiare. Il black metal può essere un pedissequo copiare o straordinaria innovazione, ma forse la cosa più difficile è trovare la propria via, cosa che invece gli Hryre sanno fare molto bene e ce lo mostrano in questo disco, in cui ogni nota è curata benissimo, con la ricerca del migliore suono possibile, e ne viene fuori un’opera potente, equilibrata e mai noiosa, con composizioni ben la di sopra della media. Il disco è di una rara intensità, ma ha anche momenti epici davvero notevoli, con tocchi di folk ed il tutto funziona molto bene. La migliore band black metal inglese e non solo.

TRACKLIST
1.Inauguration
2.Devastation of Empires
3.Plagues on Ancient Graves
4.Alive Beneath the Surface
5.Cast into Shade Part One (Farewell)
6.Cast into Shade Part Two (Black Sun)
7.Lamenting the Coming Dread
8.Regressed State of Malice
9.Return to the Earth

LINE-UP
Rick Millington – Vocals, Guitar & Bass
Nathan Patchett – Guitar & Bass
Gareth Hodgson – Drums
Michael Blenkarn – Keyboards (Featured Special Guest)

HRYRE – Facebook

Red Riot – Fight

Anche se di corta durata Fight dice già parecchio sull’impatto e sulla qualità della musica dei Red Riot

It’ s hard to live through blood and lies, but after all we fight, fight, fight!

Una dichiarazione di guerra, un urlo sguaiato all’insegna dello street sleazy metal, un ritorno alla carica e all’energia del metal irriverenete degli anni ottanta, ma con l’aggiunta di una neanche troppo velata carica thrash.
Il primo ep dei Red Riot mi piace affiancarlo al debutto dei mai troppo osannati L.A Guns di Tracy Guns, album che più di ogni altro posò le fondamenta per tutto il movimento street metal, lontano dai lustrini patinati di altre realtà con piglio radiofonico e tormentato da una carica punk che sinceramente non troverete neppure negli album di maggior successo, neppure in quelli dove facevano bella mostra di sé pistole e rose.
La differenza sostanziale è che, oltre allo scorrere del tempo, la band campana, al posto delle adrenaliniche influenze punk, potenzia il proprio sound con esplosioni di thrash metal, così da far risultare i tre brani in scaletta delle esplosive e pericolosissime fialette di nitroglicerina sballottate per le strade del tempo.
Attivo da un paio d’anni, con qualche aggiustamento da annoverare nella line up, il gruppo a luglio di quest’anno ha avuto l’onore di partecipare al primo festival organizzato dalla Volcano Promotion, il Volcano Rock Fest dove hanno diviso il palco, tra gli altri, con i Teodasia, i metal progsters DGM e i fenomenali hard rockers Hangarvain, non male per un gruppo con tre soli brani registrati.
Si diceva che la proposta del gruppo si discosta dallo sleazy metal da classifica, per un approccio molto più aggressivo, sin dall’opener Fight, passando per Squealers e Who We Are, l’irriverenza tipica del genere è potenziata da ritmiche potenti e veloci, solos di estrazione heavy e vocals che richiamano non poco l’attitudine thrash, così come i chorus scanditi come inni da battaglia metallica on stage.
Menzionare i Motorhead per il ruvido rock’n’roll punkizzato e ribelle di Squealer è doveroso, così come le smanie alternative che accompagnano lo street groove di Who We Are, tenuto a bada dal gruppo con solos che si rifanno alla scuola thrash statunitense, in un ottimo e roboante brano che chiude questo ep.
Anche se di breve  durata, Fight dice già parecchio sull’impatto e la qualità della musica dei Red Riot, una band da tenere d’occhio in un futuro che promette fuochi d’artificio.

TRACKLIST
01. Fight
02. Squealers
03. Who We Are

LINE-UP
Alpha Red- Voce
Max Power- Chitarra
JJ Riot- Chitarra
Lex Riot- Basso
Be/eR- Batteria

RED RIOT – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=MabsrUnRh38

Stagewar – Killing Fast

L’attitudine non manca, i suoni sono piuttosto grezzi, non caotici e la tecnica sufficiente per sostenere questo time warp metallico dal sapore molto… Heavy ’n’ Roll!

Secondo full-length per la band tedesca, attiva dal 2003, all’insegna di un thrash metal infarcito di influenze che vanno dal primo Suicidal Tendencies, passando per i D.R.I. di “Crossover” e i primi Anthrax e Megadeth.

Cosa hanno da dire gli Stagewar nel 2016? Personalmente mi sfugge il valore “artistico” e il significato di band che ripercorrono il cammino già esplorato infinite volte dai capostipiti del genere proposto.
Killing Fast inanella una serie di brani perlopiù speed che hanno una durata media di 2 minuti e mezzo e nei quali sia le ritmiche che le parti soliste hanno un andamento qualitativo molto altalenante. Ad esempio il trittico Killing Fast, Trapped In Life e No Place To Go attacca degnamente con un thrashcore ficcante, dal suono grezzo e molto americano. Poi arrivano Isolated e Multiple Murder Death Killer e, se il déjà-vu non vi arreca particolare disturbo, potrete godere con il loro incedere molto più classicamente heavy. Leggermente fuori dagli schemi precedenti risulta The Song I Wrote For You, song imbastardita da un’attitudine che oso definire sleazy (!), specie nelle parti di chitarra solista. Le schegge metalcore di My Place My Rules e No Fucks Given divertono, poi il midtempo di Inside Your Head vi trasporterà in zona mosh. Chiude l’omonima Killing Fast con i suoi ben 4 minuti introdotti da un riff cupo alla The Thing That Should Not Be ma che accelera bruscamente con un riff prevedibilissimo. Chiedo: meglio una ricerca d’identità o le cover band? Non voglio essere troppo severo con questi volenterosi ragazzi, quindi è doveroso rimarcare che l’attitudine non manca assolutamente, i suoni sono piuttosto grezzi e non caotici e la tecnica sufficiente per sostenere questo time warp metallico dal sapore molto… Heavy ’n’ Roll!

TRACKLIST
1. Living Hell
2. Trapped in Life
3. No Place to Go
4. Isolated
5. Multiple Murder Death Killer
6. The Song I Wrote for You
7. My Place My Rules
8. No Fucks Given
9. Still Alive
10. Waste of Time
11. Inside Your Head
12. Crash Course
13. Killing Fast

LINE-UP
Dominik Dezius – Guitars, vocals
Kimon Roggenbuck – Guitars
Thomas Fischer – Bass
Josef Schweng – Drums

STAGEWAR – Facebook

Winterheart – Nothingness

Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.

Terzo album per gli ungheresi Winterheart, band che si cimenta con un black metal atmosferico ma dai tratti sovente molto vicini al depressive.

In effetti, il senso di disperazione che viene evocato con buona continuità dal gruppo di Budapest è accentuato da vocals che, in più di un caso, mostrano un chiaro stampo DSBM, talvolta spinte fino all’eccesso come in Kill Me.
Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.
Ciò consente di godere appieno delle diverse sfumature, in primis un buon lavoro chitarristico che non si limita al consueto tremolo offrendo, invece, più di uno spunto notevole di matrice solista od acustica.
Tra i brani spicca Cancer, grazie ad un andamento vario e vicino per attitudine ai lavori più datati dei Nocte Obducta, e la successiva Forgive Me, dall’incedere doloroso segnato da una slendida linea melodica, ma non sono da sottovalutare neppure le altre tracce, come Aldozat, cantata in madre lingua. 
Insomma, Nothingness è davvero un lavoro di pregio che svolge appieno il suo compito, ovvero quello di trascinare l’ascoltatore nel gorgo di nichilistico sconforto di cui i suoni dei Winterheart sono intrisi.

Tracklist:
1. Intro
2. Áldozat
3. Kill Me
4. Drifting Away
5. Cancer
6. Forgive Me
7. Meghalok
8. Emlékek

Line-up:
Gábor Szalai – Vocals, Bass
Zsolt Géczy – Guitars
Péter Nagy – Drums
Ádám Tóth – Vocals, Guitars

WINTERHEART – Facebook

The King Must Die – Murder All Doubt

Il quintetto capitanato dal super tatuato vocalist Doggi ha scritto un gran bel lavoro, duro, aggressivo ed ultra heavy, pane per i fans del thrash che non disdegnano ascolti classici e moderni.

La scuola statunitense, specialmente quella della Bay Area, negli ultimi trent’anni ha forgiato un esercito di gruppi che hanno portato in termini di qualità e successo grosse soddisfazioni a tutto l’ambiente metallico.

Nei generi estremi come il death metal e il thrash, poi, possiamo sicuramente considerare la scena californiana come la patria di queste sonorità, in seguito amalgamate con altre sonorità creando ibridi più o meno riusciti.
Dopo gli anni d’oro con l’esplosione del thrash e di seguito quello del death metal, anche la costa californiana ha patito a livello di popolarità il successo dei suoni alternativi, ma ancora oggi continuano a nascere realtà che si muovono su territori old school, alcune come nel caso dei The King Must Die riuscendo a far convivere scuola classica ed attitudine moderna con ottimi risultati.
Sulla scia di gruppi come per esempio i Machine Head, band come il quartetto in questione riescono nell’intento di creare un sound che, pur scolpito nel passato, risulta moderno ed in linea con le sonorità più attuali, e l’esito è una mazzata di metallica dalle ritmiche e dai mid tempo scolpiti negli anni novanta, dai solos classici e melodici uniti a , botte adrenaliniche pregne di groove micidiale e, appunto, tanta attitudine moderna.
Il quintetto capitanato dal super tatuato vocalist Doggie, al secondo lavoro autoprodotto dopo l’esordio uscito due anni fa (Sleep Can’t Hide the Fear), ha scritto un gran bel lavoro, duro, aggressivo ed ultra heavy, pane per i fans del thrash che non disdegnano ascolti classici e moderni.
Il sound esplode in un tsunami di metallo potentissimo, tra sfuriate ritmiche old school e cadenzate marce moderne e dall’abbondante uso di groove: il vocalist si scaglia sul microfono regalando una prova tutta grinta e violenza e le chitarre ci abbattono con riffoni ultrà heavy, ora con solos melodici e ben incastonati nel sound tempestoso di questo Murder All Doubt.
Insomma, le varie In Blood, The Only Way We Bleed e Reflection Spills per esempio, oltre a risultare dei brani trascinati, sono la perfetta via di mezzo tra Testament, Machine Head e Suicidal Tendencies.
Al sottoscritto sono piaciuti e tanto, se vi ho incuriosito non vi resta che cercare Murder All Doubt e regalarvi una sferzata di adrenalina metallica perfettamente calata nel nuovo millennio.

TRACKLIST
1. Well Being
2. In Blood
3. Murder All Doubt
4. A New Hell You Embark
5. Choose Them Wisely
6. Reflection Spills
7. Broken
8. The Only Way We Bleed
9. For This We Live
10. These Later Years

LINE-UP
Scott Paterson – Bass
Corky Crossler – Drums
Kent Varty – Guitars
Mike Sloat – Guitars
Doggie – Vocals

THE KING MUST DIE – Facebook

Insil3nzio – Insil3nzio

La marcia in più che si rinviene in questo lavoro, rispetto a molti altri tentativi analoghi, la fa proprio lo spessore stilistico derivante da una maturità che impedisce di scivolare nei luoghi comuni, sia a livello lirico che compositivo.

Si dirà: ma non è il tuo genere, uno impelagato di norma nel doom più oscuro e funereo come può occuparsi di una band che propone un crossover di stili che, spesso, si spingono fin nei territori del famigerato rap ?

Faccio mio il motto di un bel disturbatore musicale dei nostri tempi, il mascherato Red Sky: “la musica è una” e, aggiungo io, la suddivisione per generi è più una necessità di incasellare ed ordinare le cose che è comprensibile nella logica di un un supermercato, un po’ meno se si parla di arte musicale
Così è molto bello scapocciare su brani che non disdegnano riff metallici perfettamente intersecati con pulsioni elettroniche sulle quali, poi, si stagliano le due voci, una rappata dalla timbrica non dissimile a Caparezza ed una più tradizionale. Una formula, questa, che non è in assoluto una novità, ma che di rado viene proposta così ben focalizzata e, sostanzialmente, priva di forzature nella (non facile) convivenza tra le sue varie anime.
Gli autori di tutto ciò sono i fermani Insil3nzio, una band composta da musicisti esperti che stanno cercando di imporsi in maniera graduale, senza fare passi più lunghi della gamba e cercando di ottenere la giusta visibilità tramite la partecipazione a vari contest, il che ha già consentito loro non solo di fregiarsi di diversi premi (sempre e comunque ambiti) ma soprattutto di condividere il palco con band di grande nome come Lacuna Coil e Deep Purple, sfruttando così al meglio l’occasione di mettersi in mostra di fronte a platee vaste.
Una bella differenza, anche a livello strategico, rispetto a gruppi di giovincelli che, presi dall’entusiasmo, sfornano musica magari in maniera compulsiva disperdendo le proprie idee ed ottenendo un’attenzione inversamente proporzionale rispetto alla quantità di materiale immesso sul mercato.
Questo ep autoprodotto comprende cinque brani emblematici del potenziale del gruppo marchigiano, con un picco rappresentato dal singolo Minotauro, brano per il quale è stato girato anche un video al quale partecipa l’attore Giorgio Montanini: qui troviamo ben rappresentate tutte le anime degli Insil3nzio che, partendo da una forma di rap anomala, inseriscono nervosi passaggi che vanno dal nu metal, al noise fino all’elettronica, il tutto senza mai perdere di vista l’idea di forma canzone.
Una formula che viene mantenuta sempre con una certa brillantezza anche nelle restanti tracce, con menzione d’obbligo per la composita e dirompente Ruggine, brano che possiede il miglior testo, peraltro in un contesto complessivo corrosivo e mai banale.
La marcia in più che si rinviene in questo lavoro, rispetto a molti altri tentativi analoghi, la fa proprio lo spessore stilistico derivante da una maturità che impedisce di scivolare nei luoghi comuni, sia a livello lirico che compositivo.
Per gli Insil3nzio, quindi, potrebbe essere molto vicino il momento di compiere il passo dell’album su lunga distanza, per provare a fare il colpo grosso a livello commerciale, visto che il loro sound sembrerebbe capace di accontentare ed attrarre fasce di ascoltatori trasversali ai diversi generi; insomma, non è poca la curiosità nei confronti delle mosse future di questo interessante combo marchigiano.

Tracklist:
1.Ruggine
2.Lou Reed
3.Minotauro
4.Fiore Violanet
5.Imbanditi

Line-up:
Marco Bagalini – batteria
Samuele Spalletti – basso / synth
Luca Detto – chitarra
Mirko Montecchia – voce
Andrea Braconi – voce

INSIL3NZIO – Facebook

Epica – The Holographic Principle

Una perfezione raggiunta passo dopo passo, album dopo album in un crescendo artistico che ha portato il gruppo a questo capolavoro.

Ecco il classico album che, ammettiamolo, mette in difficoltà chiunque si approcci all’ascolto con mire di giudizio da scrivere su di una pagina cartacea o quella virtuale di una webzine.

Non mancheranno le (a mio modo di vedere) scontate track by track e pure qualche giudizio non troppo positivo, rimane, sempre per il sottoscritto ovviamente, il sentore di essere al cospetto del disco symphonic metal definitivo, quello che in altre ere musicali, meno soggette all’usa e getta ormai abituale anche nel metal, si sarebbe posato sul gradino più alto del genere come esempio fulgido e spettacolare e ci sarebbe rimasto per sempre.
The Holographic Principle è un monumentale lavoro di settanta minuti, con il quale gli Epica sono andati oltre le più rosee aspettative: d’altronde, che la band della splendida sirena Simone Simons e dell’ex After Forever Marc Jansen avesse qualcosa in più lo si era capito già dai primi lavori, mantenendo un’ottima qualità in tutti gli album precedenti e alzando l’asticella ad ogni prova, fino ad arrivare al punto più alto, non solo della loro musica ma, probabilmente di tutto un genere.
Prodotto come al solito da Joost van den Broek assieme a Mark Jansen e mixato da Jacob Hansen, la nuova opera del gruppo olandese suscita emozioni, travolgendo con una valanga di note magniloquenti: le sinfonie registrate live dall’orchestra conferiscono un suono caldo, corposo e potente senza mettere in secondo piano le chitarre, anzi, le sei corde sono molto più presenti che sui lavori precedenti, grintose metalliche e affiancate da una sezione ritmica terremotante, così da esplodere all’unisono con la sontuosa parte orchestrale, la splendida voce della singer e chorus che entrano direttamente nell’anima.
I testi, che alternano argomenti terreni con la visione fisica e filosofica di Jansen, possono rappresentare un dettaglio per chi dà importanza solo all’aspetto musicale, ma nel contesto dell’album tutto appare perfettamente in equilibrio, una perfezione raggiunta passo dopo passo, album dopo album in un crescendo artistico che ha portato il gruppo a questo capolavoro.
La tradizione olandese che nel genere ha i suoi natali nei primi anni novanta, quando la scena dei Paesi Bassi sfornò le prime avvisaglie di quello che sarebbe diventato uno dei generi più amati dai fans, ha influito non poco sulla crescita degli Epica e non è un caso se ora incoroniamo proprio un gruppo di quelle parti come campione del metal sinfonico.
Se volete dei titoli di riferimento, questa volta lascio che sia The Holographic Principle a mostrarvi i suoi tesori, sappiate che siamo nella perfezione assoluta.
Disco dell’anno e tanti saluti dall’olimpo dove risiedono i grandi.

TRACKLIST
1. Eidola
2. Edge Of The Blade
3. A Phantasmic Parade
4. Universal Death Squad
5. Divide And Conquer
6. Beyond The Matrix
7. Once Upon A Nightmare
8. The Cosmic Algorithm
9. Ascension – Dream State Armageddon
10. Dancing In A Hurricane
11. Tear Down Your Walls
12. The Holographic Principle – A Profund Understanding Of Reality

LINE-UP
Mark Jansen – Guitars, Vocals
Coen Janssen – Keyboards
Simone Simons – Vocals
Ariën van Weesenbeek – Drums, Vocals
Isaac Delahaye -Guitars, Vocals
Rob van der Loo -Bass

EPICA – Facebook

Créatures – Le Noir Village

L’operato dei Creatures va assaporato come una vera e propria rappresentazione teatrale, per coglierne più efficacemente l’essenza.

Dopo alcuni anni di gestazione prende corpo il progetto solista di Sparda, i Créatures: il musicista francese, per questa sua prima uscita ufficiale, mette in scena un lavoro ambizioso ed articolato.

Le Noir Village è un concept album che narra di nefasti avvenimenti verificatisi nel corso del XII secolo in uno sperduto paesino, teatro delle efferate gesta di entità mostruose e di piccole grandi tragedie che vanno a sconvolgere la comunità.
La colonna sonora di un simile lavoro non può che essere un metal dalle connotazioni orrorifiche, che attinge a livello attitudinale a nomi quali King Diamond e Death SS, ma reso in maniera piuttosto personale grazie ad una componente black che rende ancor più dinamico il sound.
I rischi di rilasciare un’opera pomposa e frammentaria erano molti, ma Sparda sfugge abilmente a questa trappola grazie ad un buon songwriting, sempre volto alla costante ricerca della forma canzone nonostante la connotazione quasi teatrale del lavoro, conferita dalla presenza di diversi ospiti ai quali, proprio come in una rappresentazione, sono state affidate le parti vocali corrispondenti ai diversi personaggi che, di volta in volta, si ergono a protagonisti del racconto.
Le Noir Village scorre via, quindi, convincente in tutte le sue parti, avvalendosi anche di testi decisamente belli, spesso toccanti e comunque mai banali, con il solo difetto della stesura in lingua madre, il che rende sicuramente più semplice a Sparda tessere in maniera efficace la trama ma complicandone la comprensione immediata a quegli ascoltatori privi di dimestichezza con il francese.
Poco male, comunque, un pò’ perché non è difficile trovare il modo di tradurli in maniera più o meno coerente, e soprattutto perché la buona interpretazione di ciascun cantante alle prese con i diversi carattere riesce a trasmettere compiutamente la gamma di sensazioni che il musicista transalpino ben esprime con il suo lavoro.
Se vogliamo cercare davvero il pelo nell’uovo, non si può fare ameno di notare quanto i prime tre brani siano decisamente miglior dei restanti, che restano comunque di buon livello, senza però raggiungere la drammaticità di L’Horreur des Lunes Pleines e Martyre d’un Tanneur.
Le Noir Village è un disco affascinante ma non semplicissimo da digerire, alla luce delle sue atmosfere che cambiano sovente assecondando l’entrata in scena dei vari personaggi, ed è proprio come una rappresentazione teatrale che, alla fine, l’operato dei Creatures va assaporato per coglierne più efficacemente l’essenza.

Tracklist:
1- L’Horreur des Lunes Pleines
2- Cadavre abandonné
3- Martyre d’un Tanneur
4- À l’orée du Mal, le Pacte interdit
5- Il était un Monstre assoiffé de Cœur
6- Sous le Visage avenant de la Mort

Line-up:
Sparda – concept, composition, writing, recording guitars, bass, piano, organ, ocarina, dung chen, singing bowls, gong, interpretations of Lothar, celestial choirs

Guests:
Ehrryk (Gotholocaust) – battery
Sha’Ilùm (Ê) – Zarb, daf, dap, udu, darbuka
Cam.L – cello
LeksyK – violin
Hyvermor (Hanternoz) – Grimoald interpretation, writing support, medieval expertise
Lazareth (Ordo Blasphemus) – interpretation of the angel, trumpets
Josie Frost (Black Knight Symfonia) – interpretation of Eleanor
Arnev (Aezh Morvarc’h) – interpretation of Roderic
Oz (Electric Age) – interpretation of the Vampire
Geraud de Verenhe (Borgia) – interpretation of the Priest
Lokaeda (Hanternoz) – interpretation of Alaric
Haement – interpretation of Demon, guitar solo on « À l’orée du Mal, le Pacte interdit »
Aliunde (Grylle) – interpretation of Theodora

CREATURES – Facebook

Life’s December – Fatigue

I Life’s December dimostrano di essere un gruppo non per tutti, sicuramente solo per chi ha lo stomaco per digerire tutto il male che la loro musica emana a dismisura.

E’ passato meno di un anno e ritorniamo a respirare l’aria soffocante, malata e violenta di cui era pregno Colder, primo lavoro dei Life’s December, giovane gruppo svizzero che continua anche in questo nuovo Fatigue, ad impressionare per la violenza intrinseca nella loro musica, schizoide, malatissima e destabilizzante.

Due lavori in meno di un anno, uniti da un’atmosfera di dolore, dramma e pazzia, un male di vivere estremizzato a colpi di metal moderno, deathcore, parti elettroniche e djent che uniscono le proprie forze per produrre sofferenza in musica.
Una musica, altamente estrema, potente e pesantissima, ma resa ancora più sconvolgente dal talento del gruppo per creare atmosfere gelide, asettiche ed inumane.
E’ ancora una volta il vocalist Rico Bamert che prende per mano il sound del gruppo e lo valorizza con una prova priva di senno, dolorosamente destabilizzante in un clima di autentico terrore mentale.
Un male di vivere che si può toccare, accompagnato da suoni di chitarra distorti e lancinanti, ritmiche marziali sorrette da un basso che strappa l’anima in un clima da elettroshock, perpetuato nei confronti delle vittime da questi cinque psichiatri pazzi.
O Dulce Nomen Obitus posta in chiusura è il capolavoro dell’album: ventidue minuti (nel genere un’eternità) di suoni moderni sofferti e raggelanti dove tra lo spartito si possono incontrare i resti di una mente malata, la tragica e lancinante sofferenza di una vita imbavagliata nella propria prigione mentale costruita su labili fondamenta di normalità.
Con un altro lavoro originale e terribilmente disturbante, i Life’s December dimostrano di essere un gruppo non per tutti, sicuramente solo per chi ha lo stomaco per digerire tutto il male che la loro musica emana a dismisura.

TRACKLIST
1. Shattered
2.SecondLife
3. DeadEnd
4.Omniscient 5.Worthlesser 6.JustAnotherError
7.II
8.Construct 9.Monopole
10.Fatigue
11. Sleepless
12. O Dulce Nomen Obitus

LINE-UP
Rico Bamert- Vocals
David Mühlethaler- Guitars
Valens Wullschleger- Guitars
Jérémie Gonzalez- Drums
Simon Mäder- Bass

LIFE’S DECEMBER – Facebook

While Sun Ends – Terminus

I While Sun Ends combinano vari elementi della musica estrema e progressiva con buona sagacia, pescando dal metal estremo tradizionale e da quello più moderno

E’ indubbio che il successo del progressive metal dalle contaminazioni death ed estreme abbia portato un po’ di freschezza al movimento e un più considerazione da parte di chi ha sempre visto il progressive come musica altamente nobile e da non provare ad avvicinare agli altri generi che compongono l’universo della musica rock.

L’ottima considerazione di gruppi come gli Opeth, probabilmente la band più conosciuta ed ammirata da parte dei sommi scribacchini di parte e dei fans alquanto altezzosi del progressive, ed un sempre maggior numero di gruppi dediti a queste sonorità, col tempo hanno creato una scena che, anche nel nostro paese, annovera realtà di ottima qualità e prospettive.
Terminus dei bergamaschi While Sun Ends ne è un esempio: licenziato dalla label tedesca Wooaaargh, l’album è il secondo sulla lunga distanza del gruppo, succede alla prima opera The Emptiness Beyond uscita cinque anni fa e ad un ep, Knowledge, targato 2013.
I While Sun Ends combinano vari elementi della musica estrema e progressiva con buona sagacia, pescando dal metal estremo tradizionale e da quello più moderno, amalgamandolo ad una vena dark prog e cercando di ritagliarsi un proprio spazio nel mondo della musica estrema più adulta.
E la maturità compositiva infatti è la prima virtù del gruppo, le atmosfere plumbee e darkeggianti, valorizzate dall’interpretazione della vocalist Stefania Torino, lasciano spazio a crescendo di tensione che sfociano in esplosione di metallo progressivo e drammatico, condotto dal growl in un continuo scambio di atmosfere che, se mantengono i colori oscuri del genere, lasciano che il sound rimbalzi tra soluzioni alternative e death metal tout court, ben assortiti da prestazioni ottime a livello tecnico, virtù essenziale per il genere suonato.
Ne esce un buon lavoro, apprezzabile nella sua natura intimista, melodico ed irruente, tormentato e aggressivo con almeno un paio di brani molto belli come Cycles e Seesaw.
Lamb Of God, Katatonia, gli immancabili Opeth e qualche richiamo al rock dark e progressivo dei Tool, sono le ispirazioni su cui si poggia il sound dei While Sun Ends, perciò se siete amanti delle band sopracitate Terminus è altamente consigliato.

TRACKLIST
1. Tritogenia
2. Cycles
3. Measure
4. Sides
5. Seesaw
6. View
7. Elevation
8. Synthesis

LINE-UP
Stefania Torino – Growl & Clean Vocals
Massimo Tedeschi – Guitar/Vox
Diego Marchesi – Guitar
Carlo Leone – Bass/Vox
Enrico Brugali – Drums

WHILE SUN ENDS – Facebook

Crystalmoors – The Mountain Will Forgive Us

I Crystalmoors hanno voluto offrire qualcosa in più rispetto ad un buonissimo e classico album, inserendo un secondo cd contenete le versioni folk di brani nuovi e vecchi

Non è così scontato imbattersi in band capaci di rendere in maniera così fluida e credibile la fusione tra la materia metal e quella folk: i cantabrici Crystalmoors ci riescono brillantemente con questo loro terzo full length intitolato The Mountain Will Forgive Us.

La band ha una genesi risalente ancora al secolo scorso ma il primo album su lunga distanza ha visto la luce nel 2008; a cinque anni dal precedente Circle of the Five Serpents, il gruppo di Santander presenta la propria personale interpretazione del pagan black metal che risulta avvincente ed accattivante, grazie alla dote non comune di costruire brani piuttosto aspri ma contenenti quelle linee melodiche che rimandano con decisione alla tradizione della musica popolare.
Non va dimenticato neppure che in questa occasione i Crystalmoors hanno voluto offrire qualcosa in più rispetto ad un buonissimo e classico album, inserendo un secondo cd contenete le versioni folk (ovvero scremate dalle loro componente metallica) di brani nuovi e vecchi; difficile quindi che gli appassionati al genere non possano apprezzare una simile scelta, in grado di accontentare tutti, al di là delle singole propensioni verso l’uno o l’altro genere.
La prima parte, intitolata The Sap That Feed Us, è fatta di nove brani di buona fattura, intensi e piuttosto diretti, tra i quali spicca l’anthemica Over The Same Land, tipica canzone capace di trascinare il pubblico in sede live, ma ottime sono anche Devotio Iberica e la più complessa When The Caves Spoke.
Il secondo cd, intitolato La Montaña, mostra il lato folk della band spagnola che, nonostante il ricorso a strumenti per lo più acustici, non rinuncia alle harsh vocals di Uruksoth Lavín, il che stende sul sound una patina ugualmente oscura, così come avviene nel cd, per così dire, più canonico. Nello specifico, come detto, vengono riproposte versioni di brani del passato, oltre ad una Over The Same Land sempre efficace anche nella sua nuova veste, tra le quali brilla di luce particolare la terna finale Greyland Lábaro, Crown of Wolves e Nabia Orebia.
Insomma, The Mountain Will Forgive Us si rivela un lavoro esaustivo e completo che, da un lato, rafforza lo status già soddisfacente raggiunto dai Crystalmoors con le precedenti opere, e dall’ altro ne fa emergere le doti di band capace di manipolare con disinvoltura la materia pagan folk black.

Tracklist:
CD 1: ‘The Mountain Will Forgive Us’
1. Memories
2. Devotio Ibérica
3. Over The Same Land
4. The Mountain
5. A Last Breath Of Peace
6. The Oldest One
7. The Eye Of The Tyrant
8. When The Caves Spoke
9. A Man Under Wolfskin

CD2: La Montaña
10. Over The Same Land (folk version)
11. The Mountain (folk version)
12. Defendiendo Amaia (folk version)
13. Since Old Times (folk version)
14. The Mountain Will Forgive Us (folk version)
15. Greyland Lábaro (folk version)
16. Crown of Wolves (folk version)
17. Nabia Orebia (folk version)

Line-up:
Uruksoth Lavín: vocals
Faramir: guitars, whistle, melodic vocals, bagpipes
Abathor: guitars, chorus
Thorgen: fretless bass, melodic vocals, chorus
Aernus: keyboards & samples, whistle, chorus
Gharador: drums & percussion

CRYSTLAMOORS – Facebook

Absorb – Vision Apart

Il sound rispecchia il classico mood di gruppi come Obituary e Death con l’aggiunta dei seminali e conterranei Morgoth, peccato per tutti gli anni persi, ma band da rivalutare.

Con un po’ di ritardo rispetto all’uscita di questo ottimo ep, vi presentiamo i tedeschi Absorb, death metal band attiva da molti anni nella scena estrema del loro paese.

Nato infatti sul finire degli anni ottanta, il combo di Erlangen ha mosso i primi passi all’inizio degli anni novanta, in pieni anni d’oro per il genere suonato.
Due demo ed uno split, poi un lungo silenzio fino al 2010, anno di uscita del primo full length Dealing with Pain, seguito sul finire dello scorso anno da Vision Apart, ep di quattro brani ora promosso dalla Globmetal Promotions.
Death metal old school e non potrebbe essere altrimenti visto l’anno di nascita, classico e pesantissimo, brutale e a tratti devastante, sempre in bilico (come la vecchia scuola insegna) tra furiose accelerazioni e rallentamenti, oscuri e profondi.
Ottimo il lavoro delle asce sia ritmicamente che nei solos, lancinanti urla di sofferenza, accompagnate da un growl cavernoso ed agguerrito.
Perfect Whore parte all’attacco e ci investe con le sue ritmiche varie e i riff che fanno sanguinare le chitarre, Undead risulta la traccia migliore: oscura, brutale e malvagia, culmina in una serie di frenate sul bordo dell’abisso, ma basta una piccola spinta e si comincia a cadere, ingoiati dalla bocca di un pozzo senza fine.
La band torna a spingere con World Stops Turning, dopo che aveva lasciato a Los Muertos De Hambre il compito di distruggere senza pietà, prima che Undead ci porti con lei negli inferi.
Un buon ep, il gruppo in tutti questi anni ha diviso il palco con una bella fetta dei nomi di pinta del genere e l’esperienza fatta si sente tutta, il sound rispecchia il classico mood di gruppi come Obituary e Death con l’aggiunta dei seminali e conterranei Morgoth, peccato per tutti gli anni persi, ma band da rivalutare.

TRACKLIST
1.Pefect Whore
2.Los Muertos de Hambre
3.Undead
4.World StopsTurning

LINE-UP
Jochen “Yogy” Steger – Drums
Pfisty – Guitars
Daniel – Bass
Volker Schmidt – Vocals

ABSORB – Facebook

Almah – E.V.O

E.V.O ha molte frecce da scoccare e come maliziosi cupidi gli Almah centrano i nostri cuori con una serie di tracce d’alta scuola.

Pare davvero di essere tornati ai tempi dei migliori Angra e non solo quelli dell’arrivo di Falaschi nel combo brasiliano, ma a quel gruppo che clamorosamente irruppe sulla scena metallica con i primi stupendi lavori.

Era nell’aria il disco della vita per il gruppo brasiliano, già il precedente Unfold, anche se lasciava entrare nella propria anima qualche soluzione moderna, risultava un grande album metal, con Falaschi convincente e ormai coinvolto al 100% dalla sua nuova avventura.
Sono passati tre anni e l’arrivo di questo nuovo lavoro pone la band brasiliana sul podio dei migliori act alle prese con il power metal dalle sfumature progressive e splendidamente melodico.
Chiusa la parentesi modernista aperta in alcuni frangenti sul lavoro precedente, gli Almah tornano a suonare quello che la loro tradizione dice di saper fare meglio, toccando picchi elevatissimi , difficilmente raggiunti da un po’ di anni a questa parte, anche se la qualità dei loro lavori non è mai scesa sotto un buon livello.
E.V.O torna a far risplendere quel tipo di power metal melodico che ha fatto scuola, colmo di soluzione melodiche, ariose aperture orchestrali e quel tocco latino, irresistibile per molti e che ha sempre differenziato la scena sudamericana da quella europea per l’eleganza ed il talento ritmico innate nei musicisti brasiliani.
Basterebbe Age Of Aquarius, opener del disco, un brano arioso, positivo, stupendamente melodico ed impreziosito da orchestrazioni da musical, per prendere il largo e fare il vuoto nelle opere del genere, ma E.V.O ha molte frecce da scoccare e come maliziosi cupidi gli Almah centrano i nostri cuori con una serie di tracce d’alta scuola.
Il giro di piano che trascina Indigo, malinconico e dalle sfumature dark, il power metal di classe di Higher, l’hard rock ruffiano e melodico di Infatuated, l’unica concessione a soluzione moderne nell’aggressiva Corporate War, l’arioso refrain della magnifica Speranza, il power prog colmo di soluzioni raffinate e dall’irresistibile ritornello di Final Warning, sono solo pochi dettagli di un’opera piena di sorprese nel suo comunque essere classicamente metallica.
Gli Almah questa volta hanno messo in campo tutte le loro armi per vincere questa battaglia e ci sono riusciti senza fare prigionieri, album di un’altra categoria, consigliarvelo è il minimo.

TRACKLIST
1.Age Of Aquarius
2.Speranza
3.The Brotherhood
4.Innocence
5.Higher
6.Infatueted
7.Pleased To Meet You
8.Final Warning
9.Indigo
10.Corporate War
11.Capital Punishment

LINE-UP
Edu Falaschi – Vocals
Marcelo Barbosa – Guitar
Diogo Mafra – Guitar
Rapahael Dafras – Bass
Pedro Tinello – Drums

ALMAH – Facebook

Radtskaffen – Worldwide Anarchy

Un primo lavoro abbondantemente sopra la sufficienza

Nati per volere del chitarrista e cantante Ben Radtleff un paio di anni fa, arrivano al debutto tramite questo ep autoprodotto i thrashers danesi Radtskaffen, promossi dalla GlobMetal Promotions.

Il trio oltre al leader, è composto da Bjørn Hjortgaard al basso e Christian Maj Albrektsen alle pelli, la sua musica getta le fondamenta su un thrash metal pregno di groove, potente e mai troppo veloce.
Mid tempi pesanti come macigni, sostenuti dal groove che riempie le ritmiche e riff dal taglio moderno che si abbattono sull’ascoltatore, fanno di questi sei brani una mazzata niente male.
Il gruppo a tratti accelera ma sono attimi che rendono ancora più devastante il sound mentre Radtleff sputa sentenze con il suo tono ruvido e senza compromessi.
Siamo nel bel mezzo tra la violenza dei Pantera, il piglio sgraziato e roll dei Motorhead e soluzione più vicine al metal americano degli ultimi anni e se farete il callo al vocione alcolico che del vocalist troverete di che sbattere il capoccione, soprattutto con Oblivion e Reaper, le tracce più movimentate dall’album.
Ottima la title track, brano motorheadiano fino al midollo, potenti e devastanti i brani rimanenti per un primo vagito dal sicuro impatto e distruzione totale promessa in sede live.
Per gli amanti del metal dal piglio thrash e dalle bordate ritmiche pregne di groove (come di rito in questi ultimi anni) un primo lavoro abbondantemente sopra la sufficienza.

TRACKLIST
1.Intro
2.Hippies
3.Death Crew
4.Deus Lo Vult
5.Oblivion
6.Reaper
7.Worldwide Anarchy

LINE-UP
Bjørn Hjortgaard – Bass
Christian Maj Albrektsen – Drums
Polle Radtleff – Guitars, Vocals

RADTSKAFFEN – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=XXmbo3JqwNY

The Reticent – On The Eve Of A Goodbye

On The Eve Of A Goodbye è un concept autobiografico, un’opera che elargisce emozioni in un caleidoscopio di note ora intimiste, ora metalliche

Tornano gli statunitensi The Reticent, creatura del musicista Christopher Hathcock con il quarto album della loro carriera, confermando quanto di buono il new progressive sta donando a noi, ingordi e mai sazi fruitori di emozioni in musica.

A dispetto dei sempre più obsoleti detrattori della musica contemporanea e che nel genere trova terreno fertile negli amanti dei suoni di estrazione settantiana, il progressive ha ampliato i suoi orizzonti, amoreggiando con sonorità moderne, metalliche ed estreme e, come in questo caso resuscitando per tornare protagonista degli sviluppi futuri della musica in questo nuovo millennio.
I The Reticent come detto arrivano sul finire di quest’anno al quarto lavoro, le opere passate avevano tracciato la strada che ha portato Hathcock a questo immenso lavoro, dopo Hymns For The Dejected del 2006, Amor Mortem Mei Erit del 2008 e Le Temps Detruit Tout, licenziato nel 2012, più la soddisfazione di una nomination ai Grammy.
On The Eve Of A Goodbye è un concept autobiografico, un’opera che elargisce emozioni in un caleidoscopio di note ora intimiste, ora metalliche, fino a raggiungere l’apice in quelle estreme, giocando a modo suo con la musica degli ultimi trent’anni.
Quasi nulle le influenze settantiane, il sound del gruppo si muove sinuoso tra il prog rock dalle tinte dark di Porcupine Tree e Riverside, il metal estremo ed oscuro degli Opeth e quella tragica e teatrale drammaticità tooliana che ha fatto scuola negli ultimi vent’anni.
Le voci, dolce ed intimista la clean , travolgente e drammatica quella estrema, dettano le atmosfere ai vari passaggi dell’album, trasformati in brani dall’alto tasso emotivo, in un sali e scendi di atmosfere adulte, a tratti pesanti, ma sempre mature.
E’ forte il senso di disagio espresso da questa ora abbondante di musica, che chiamare progressive è il modo più facile per uscire dall’impasse che opere del genere creano in noi, sempre pronti ad affibbiare etichette, anche quando l’impresa diventa ardua, travolti dalla tempesta emotiva provocata da brani come The Apology, The Decision o The .
Inutile disquisire su soluzione tecniche che a On The Eve Of A Goodbye stanno strette come al sottoscritto i jeans di qualche anno fa: sappiate per dovere di cronaca che l’album esce per la Heaven & Hell Records ed è stato prodotto da Jamie King (BTBAM, The Wretched, Scale The Summit), fatelo vostro.

TRACKLIST
01. 24 Hours Left
02. The Girl Broken
03. The Hypocrite
04. 19 Hours Left
05. The Comprehension
06. The Confrontation
07. The Apology
08. 10 Hours Left
09. The Mirror’s Reply
10. The Postscript
11. 2 Hours Left
12. The Decision
13. Funeral For A Firefly
14. The Day After
15. For Eve

LINE-UP
Chris Hathcock – All instruments and vocals, except the following:

Narration by Carl Hathcock, Juston Green, and Amanda Caines
Female vocals by Amanda Caines
French Horn by Dr. Nicholas Kenney
Trombone and Trumpet by Matthew Parunak
Tenor Saxophone by Andrew Lovett

THE RETICENT – Facebook

Rainveil – Verses

La drammatica teatralità di fondo, le sfumature dark e le sontuose orchestrazioni, danno all’album quel tocco di maturità che non lascia dubbi sul valore del gruppo

Un’altra ottima band, i lodigiani Rainveil, si affacciano sulla scena nazionale in ambito metallico dagli spunti classicamente heavy ed orchestrali.

Licenziato dalla ormai storica Underground Symphony, mixato e masterizzato da Simone Mularoni (altra garanzia di qualità) ai Domination Studios, Verses è un gran bel lavoro, magari di poca durata per la qualità delle composizioni ed il genere (poco più di mezz’ora) ma notevole per songwriting, suono e potenzialità della band.
Qui si trova un heavy metal, roccioso e melodico, strutturato su tappeti tastieristici raffinati, una serie di brani che di potenti mid tempo fanno la loro forza, ispirati da una leggera vena prog ed un’oscurità di fondo riscontrabile nell’heavy statunitense.
Senza scendere in disquisizioni tecniche che in tracce dove l’emozionalità è tangibile diventa superfluo, Verses abbonda di orchestrazioni, incastonate su trame heavy metal eleganti e la mente non può che portare ai Kamelot.
Inoltre. la drammatica teatralità di fondo e le sfumature dark danno all’album quel tocco di maturità che non lascia dubbi sul valore del gruppo, bravo nel cogliere il punto debole dell’ascoltatore medio nel genere e cioè il pretendere potenza metallica e melodie che conquistino al primo ascolto, e i Rainveil in questo sono maestri.
I brani sono uno più bello dell’altro, dall’opener Macabre Ecstasy, che segue il prologo ed esplode in un refrain irresistibile tra riff possenti, solos classici e tappeti tastieristici magniloquenti, la successiva Break Out, ruvida e melodica e la bellissima semiballad Fire Opal, un crescendo entusiasmante aperto con la voce femminile a confermare l’eleganza intrinseca nel sound dei lodigiani.
Un lavoro affascinante che si rivela un’autentica sorpresa in campo classico, da non perdere assolutamente per gli appassionati dai gusti raffinati.

TRACKLIST
1. Prologue – Into the Void
2. Macabre Ecstasy
3. Break Out
4. Drowned
5. Mirror
6. Fire Opal
7. Eleanore
8. Shades of Darkness
9. Epilogue: Is this the End?

LINE-UP
Matteo Ricci – Vocals
Luca Maddonini – Lead Guitar
Pietro Canette – Bass

RAINVEIL – Facebook

Atom – Spectra

Rispetto ad altri progetti di stampo simile, Atom mantiene ben salde le radici nel black metal, genere che viene sviscerato un po’ in tutte le sue sfumature

Per la one man band Atom, l’ep Spectra arriva due anni dopo Horizons, un buon full length del quale avevo avuto l’occasione di parlare su IYE.

Rispetto a quel lavoro le coordinate stilistiche non cambiamo ma, semmai, vedono una valorizzazione dei loro aspetti migliori: il black metal atmosferico proposto da Fabio, musicista cesenate che è dietro il monicker Atom, è piuttosti diretto non perché banale, ma in quanto raggiunge lo scopo senza indulgere in tentazioni avanguardistiche o sperimentali.
Sia nelle parti più aspre, con le consuete accelerazioni ritmiche, sia in quelle più riflessive, il filo conduttore melodico è sempre in primo piano, rendendo questa mezz’ora scarsa di musica un’altra buona dimostrazione di capacità compositive.
Rispetto ad altri progetti di stampo simile, Atom mantiene comunque ben salde le radici nel black metal, genere che viene sviscerato un po’ in tutte le sue sfumature, operazione che avviene in maniera efficace in Night Sleeper, dove in un lasso di temo relativamente breve scorrono pulsioni depressive, postblack, epic e vocals che spaziano da evocative parti corali a stentorei passaggi pulite per arrivare, poi, al consueto screaming.
Proprio questo, come nel precedente lavoro, continua ad essere un aspetto dolente, rivelandosi di qualità inferiore al contesto strumentale nel quale viene inserito: talvolta viene esasperato in stile DSBM (Spectra), in altri momenti diviene più canonico ma stranamente risulta un po’ troppo effettato e relegato sullo sfondo a livello di produzione (Dasein).
Come in Horizons si rivela molto efficace il lavoro chitarristico nelle sue diverse sembianze, il che impreziosisce un album che denota un ulteriore passo avanti per un progetto in possesso di tutti i crismi per ritagliarsi un minimo di spazio vitale in un settore congestionato come non mai e nel quale, nonostante molti la pensino diversamente, il livello medio si sta decisamente alzando.

Tracklist:
1. Spectra
2. Night Sleeper
3. Dasein

Line-up:
Fabio – Vocals, Guitars, Drum programming

ATOM – Facebook

Raw Ensemble – Suffer Well

I brani alternano e uniscono in un unico devastante sound le due maggiori correnti del thrash, quella europea e quella statunitense

Un buon lavoro di metallo possente, forgiato nel thrash metal vecchia scuola ma moderno per attitudine e produzione, ottimamente suonato e dal songwriting che se non arriva ai livelli dei mostri sacri del genere ci va sufficientemente vicino.

Il disco in questione è Suffer Well, primo lavoro sulla lunga distanza, dopo sette anni dalla nascita dei tedeschi Raw Ensemble, che se fino ad ora non sono stati molto prolifici (nella discografia del gruppo, oltre a questo nuovo lavoro si conta solo il demo Jesus Is Back… And He Is Fucking Angry del 2012) hanno fatto le cose per bene per il proprio debutto sulla lunga distanza.
Licenziato autonomamente, Suffer Well risulta una mazzata niente male, i brani alternano e uniscono in un unico devastante sound le due maggiori correnti del genere, quella europea e quella statunitense, consegnandoci un buon prodotto estremo, che non dimentica l’importanza delle melodie chitarristiche, senza perdere un’oncia in impatto.
Supportate da un vocione che non disdegna urla gutturali vicine al death metal (Denis Brecko Columna) e ritmiche velocissime, che frenano e scivolano varie su ritmi cadenzati (Mad al basso e Uffe alle pelli), le nove tracce che compongono il lavoro formano uno tsunami di metallo rabbioso, drammatico e perfettamente a suo agio nell’anno di grazia 2016.
La sei corde di Dennis elargisce potenza ritmica e melodici solos, su tracce che non mollano di un centimetro in un assalto sonoro senza soluzione di continuità.
Moderno ma con un’anima old school l’album vive dell’energia di brani come l’opener Enemy, la devastante Apocalypse e Weakness And Fear, chiusa dallo storico riff di Back In Black dei re dell’hard rock Ac/Dc.
In conclusione un buon lavoro di genere aggressivo e diretto, e per i Raw Ensemble una partenza con il piede giusto.

TRACKLIST
1. Enemy
2. Bad Religion
3. The 5th Dimension
4. Apocalypse
5. Beneath the Ashes
6. Bleeding Out
7. Weakness & Fear
8. Neither Nor
9. Outlaw Killers

LINE-UP
Mad – Bass
Uffe – Drums
Dennis – Guitars
Denis Brecko Columna – Vocals

RAW ENSEMBLE – Facebook